La figura del filosofo nell'immaginario narrativo
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
I contemporanei non ci restituiscono un’immagine coerente di Socrate. Se pensiamo ai letterati del suo tempo, possiamo constatare che emergono due figure di Socrate contrapposte: quella di Aristofane, decisamente negativa, che presenta un Socrate sofista, ateo, ladro e ingannatore; e quella di Senofonte, assolutamente positiva, che invece presenta la figura di un asceta dall’eccezionale dirittura morale e obbediente alle leggi di Atene.
La figura di Socrate, amatissima e sempre molto attuale, non è stata descritta in modo uniforme dai suoi contemporanei. Le fonti a nostra disposizione per ricostruire il personaggio storico ci presentano tre Socrati diversi: un sofista, nonché filosofo della natura, corruttore di giovani (Aristofane); il padre della filosofia aporetica e speculativa (Platone), rivolta però a questioni più specificamente etiche (Senofonte, Aristotele); infine una sorta di coerente e quasi “noioso” predicatore, da cui risulta quasi del tutto assente la vivacità filosofica che caratterizza il Socrate platonico (Senofonte). Stimolante è soprattutto riflettere sui due giudizi, diametralmente opposti, che di Socrate sono stati dati dai contemporanei: quello decisamente negativo di Aristofane, che anticipa le accuse che poi saranno effettivamente fatte a Socrate, e che provocheranno la sua condanna a morte da parte degli Ateniesi; e quello estremamente positivo di Platone e di Senofonte, suoi allievi, che presentano un Socrate caratterizzato da una straordinaria dirittura morale, pronto ad accettare una condanna profondamente ingiusta. Qui verranno considerate solo le raffigurazioni di Socrate presentate dai letterati Aristofane e Senofonte.
Nel 399 a.C. Socrate, allora settantenne (Platone, Apologia 17D) compare davanti al tribunale di Atene per rispondere alle accuse mossegli da tre personaggi ateniesi in vista: Anito, Licone e Meleto (l’accusatore principale).
Sappiamo che il processo termina con la condanna di Socrate a bere la cicuta; i capi d’accusa (Platone, Apologia, 24B-C; Senofonte, Memorabili, I 1, 1), sono i seguenti: (1) Socrate non riconosce gli dèi riconosciuti dalla città; (2) introduce nuove divinità; (3) corrompe i giovani. Tali accuse, di fatto, scaturiscono da un lungo periodo di maldicenze e accuse di cui Socrate è stato vittima. All’inizio dell’Apologia di Socrate di Platone, infatti, Socrate si lamenta di essere vittima da molto tempo di una folla di accusatori, tra i quali spicca proprio Aristofane: “‘Socrate delinque: strafà con le ricerche sul mondo sottoterra e in cielo; fa vincente l’argomento perdente; dà lezioni in giro sopra tutto questo’. Ecco, più o meno, l’accusa. Uno spettacolo che voi stessi avete visto, nella commedia di Aristofane, una specie di Socrate che va in giostra per aria, predica che lui in cielo ci passeggia, e blatera bla bla su tutto il resto, cose delle quali io non m’intendo, né tanto né poco” (Platone, Apologia, 19B-C, in Platone: Simposio, Apologia di Socrate, Critone, Fedone, a cura di Ezio Savino, 1987).
L’allusione è alle Nuvole, spettacolo di Aristofane presentato al concorso delle Grandi Dionisie nel 423 a.C., quasi 25 anni prima del processo. Sappiamo che Aristofane non era il solo: abbiamo notizia di almeno altri quattro autori di commedie (Aipsia, Teleclide, Callia ed Enolo) che hanno ridicolizzato l’intellettualismo di Socrate, chiacchierone, povero, affamato, e all’occorrenza perfino ladro. Già in altre commedie Aristofane allude canzonatoriamente a Socrate (Gli uccelli, vv. 1280-1284; 1553-1556; Le rane, vv. 1491-1499): ma le Nuvole è interamente dedicato a lui, anche se Socrate non ne è il protagonista. 25 anni di accuse e di messa in ridicolo di Socrate, dunque, che hanno finito per avere un esito tragico.
La trama delle Nuvole ha per protagonista Strepsiade, un contadino pieno di debiti a causa della passione del figlio Fidippide per i cavalli. Strepsiade decide così di recarsi al Pensatoio (il phrontisterion) delle anime sapienti, che tra l’altro insegnano a pagamento a vincere le cause ingiuste, sperando in questa maniera di diventare abile nel parlare, così da evitare di pagare i creditori. Qui trova Socrate che, sospeso per aria in una cesta, studia i fenomeni celesti. Socrate cerca di accontentare Strepsiade rendendolo un abile parlatore, ma a fronte della sua totale inefficacia, lo caccia e gli preferisce come allievo il figlio Fidippide. Il risultato è che Fidippide, diventato lui sì abile nel cavillare e nel parlare, aiuta il padre a cacciare i creditori, ma infine lo picchierà, dimostrando che è giusto picchiare il proprio padre e aggiungendo che picchierà anche la madre, dichiarando di essere pronto a dimostrare che è giusto picchiarla. La commedia si chiude con Strepsiade che, pentito ed esasperato, dà fuoco al Pensatoio.
La figura di Socrate tratteggiata da Aristofane è davvero poco lusinghiera. Per prima cosa, nelle Nuvole, troviamo anticipati i capi d’accusa che costeranno la vita a Socrate: il filosofo, infatti, denuncia come invenzioni gli dèi tradizionali (Zeus, vv. 365-382), sostituendo loro le divinità di Caos, Nuvole e Lingua (vv. 423-424). Inoltre, mettendo in scena una gara di argomenti tra il Discorso giusto e il Discorso ingiusto per convincere Fidippide a seguire uno dei due, gara vinta dal secondo (che è ovviamente quello praticato da Socrate), il Discorso ingiusto viene accusato di corrompere i giovani (vv. 926-928), cosa che si realizza con evidenza nel comportamento di Fidippide, una volta diventato allievo di Socrate.
Quello che però è sconcertante, è che Aristofane descrive un Socrate al contempo come physikos, studioso dei fenomeni celesti (con chiara allusione alle teorie dei presocratici) e come sofista. Con la prima caratterizzazione, Socrate si avvicina pericolosamente all’ateismo, in quanto spiega alcuni fenomeni, come la pioggia e il tuono, ricorrendo a una spiegazione fisicista (le nuvole) che fa a meno degli dèi tradizionali (Zeus, in questo caso). Con la seconda Socrate diviene un parlatore che usa il ragionamento e il discorso per ingannare, dimostrando il falso e l’ingiusto; tutte accuse, queste, che Socrate respinge con durezza nell’Apologia di Platone. Se poi aggiungiamo che Aristofane accusa Socrate di farsi pagare per l’insegnamento, di essere un pezzente e un ladro, il quadro è completo. Totalmente opposto a quello che ne dà Senofonte.
Speculare è infatti l’immagine di Socrate che emerge dagli scritti socratici di Senofonte (Memorabili, Simposio, Economico, Apologia). Emblematiche, a questo riguardo, sono le pagine del primo capitolo del primo libro dei Memorabili.
Senofonte, che scrive qualche decina d’anni dopo la morte di Socrate, parte dalle accuse mosse a Socrate nel processo per dimostrare come esse siano totalmente infondate. L’immagine di Socrate che ne emerge è quella di un cittadino modello, dedito alle leggi e al culto dello stato, per nulla interessato all’indagine naturalistica, bensì alle questioni umane, più specificamente etiche e anche quasi del tutto privo di quella vivacità filosofica che gli attribuisce Platone.
Per respingere l’accusa secondo cui Socrate non credeva agli dèi tradizionali e introduceva nuove divinità, Senofonte dichiara che era risaputo che Socrate “faceva spesso sacrifici in privato e presso gli altari comuni della città, né costituiva mistero il fatto che ricorresse alla divinazione” (Senofonte, Memorabili I 1, a cura di Anna Santoni, BUR, 2006).
È cosa ben nota che Socrate invocasse la presenza in lui di un demone che o gli impediva di fare qualcosa che era sul punto di fare (secondo la testimonianza di Platone in Apologia, 31C-D), oppure conduceva lui, o coloro che gli chiedevano consiglio, a fare ciò che si doveva fare (secondo la testimonianza di Senofonte, Memorabili I 1, 3-6). Ed è anche noto che su questo si appoggiavano i suoi accusatori per affermare che Socrate introducesse nuove divinità. Ora, Senofonte fa rientrare l’introduzione di questa forza demoniaca nella normale e tradizionalissima divinazione, cioè nella pratica di interrogare gli uccelli, gli oracoli, i presagi, i sacrifici, come strumenti degli dèi per dare delle indicazioni agli uomini su cosa fare in caso di eventi dall’esito incerto. Il che permette a Senofonte di concludere che per Socrate gli dèi esistono, scongiurando così anche la possibile accusa di ateismo.
Quanto all’accusa a Socrate di essere dedito all’indagine naturalistica dei fenomeni celesti, anch’essa pericolosamente sbilanciata verso l’ateismo (ricordiamo la condanna di Anassagora per ateismo per aver sostenuto che il Sole è una massa incandescente, più grande del Peloponneso (Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, II 8; 12), Senofonte semplicemente nega che Socrate si sia mai occupato di natura, trattando piuttosto di “questioni inerenti agli uomini: indagando su cosa fosse pio, che cosa empio, che cosa bello, che cosa turpe, che cosa giusto…” (Memorabili I 1, 16).
Gli interessi di Socrate, secondo Senofonte (giudizio ripetuto da Aristotele nel libro Alpha della sua Metafisica), andavano nella direzione di questioni etiche. Anzi, a detta di Senofonte, Socrate “indicava come matti coloro che si occupavano di tali questioni [naturali]… e fra quelli che si arrovellano sulla natura di tutte le cose, alcuni credono che uno solo è l’essere, altri che è di numero infinito, e alcuni che tutto è sempre in movimento e altri che niente è mai in movimento…” (Memorabili I 1, 11-14, trad. Santoni). Senofonte dipinge un Socrate quasi inorridito nei confronti dei physikoi, cui evidentemente allude il passo citato, sia per questioni religiose (un peccato di hybris nei confronti di cose che gli dèi non vogliono far conoscere), che per l’evidente disaccordo delle dottrine da loro professate.
Un altro aspetto fondamentale è l’insistenza di Senofonte sull’etica socratica. Socrate, a detta del nostro autore, “era il più continente degli uomini riguardo ai piaceri dell’amore e ai desideri del ventre, era il più capace di sopportare freddo, caldo e ogni genere di fatiche, e inoltre era educato a moderare i bisogni a tal punto che, pur possedendo tanto poco, aveva con tutta facilità di che essere contento” (Memorabili I 2, 1, trad. Santoni).
Come è stato giustamente notato (Louis-André Dorion, Socrate, Carocci, 2010, pp. 85-89), le tre qualità menzionate in questo passo, e cioè l’enkráteia (il controllo di sé nei confronti dei piaceri corporali), la kartería (la sopportazione dei dolori fisici) e l’autarkeía (l’autosufficienza), costituiscono il cuore dell’etica socratica negli scritti di Senofonte, e sono menzionate molto spesso. In particolare, Senofonte indugia sulla descrizione del ruolo della prima, che, secondo il Socrate senofonteo, è il fondamento della virtù (I 5, 4), nel senso che è la condizione necessaria per esercitarla. Proprio grazie ad essa, ci dice Senofonte, Socrate, lungi dall’essere un corruttore dei giovani, fu piuttosto utile a tutti coloro che lo frequentarono (Memorabili I 3, 1). L’enkráteia, infatti, è indispensabile a coloro che esercitano, a tutti i livelli, il potere (Memorabili, I 5, 1; II, 1, 1-7); ed è una condizione di libertà (I 5, 5), di giustizia (I 2, 1-8), di amicizia (II 6, 1), di ricchezza e prosperità, se per ricchezza si intende il rapporto di eccedenza degli averi in rapporto ai bisogni (IV 2, 37-39). Senza il dominio di sé nei confronti dei piaceri, risulta infatti impossibile esercitare queste funzioni, in quanto vengono a mancare il disinteresse e la lucidità necessari. L’enkráteia, poi, risulta essere anche la condizione per l’esercizio della dialettica, intesa come “il fatto che ci si riunisce in comune per discutere distinguendo le cose per generi” (IV 5, 12). Per quanto però l’enkráteia sia importante, essa non è fine a se stessa, ma concorre, con la kartería, alla realizzazione dell’autarkeía, perseguita invece per se stessa (Dorion, op. cit., pp. 89-92).
Ci si chiede se sia possibile cercare di conciliare le due interpretazioni della figura di Socrate qui presentate. In realtà, qualunque tentativo è puramente congetturale e tutto quello che si può fare è accettare che Socrate sia stato recepito dai contemporanei in maniera contraddittoria.