Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Nel secolo XVIII in Europa – in Francia e in Inghilterra soprattutto – troviamo vari generi di “filosofia al femminile”: in primo luogo la filosofia fatta dalle donne in prima persona e il pensiero delle donne sulle donne, con le rivendicazioni dei diritti di Olympe de Gouges e Mary Wollstonecraft; in secondo luogo la filosofia che fanno gli uomini, alcuni, più illuminati, per le donne, iniziando a reclamare un’eguaglianza solo di diritto. C’è infine una figura ulteriore, quella della donna che filosofa in un quadro di finzione (romanzo, racconto), esempio celebre: Le relazioni pericolose (1782) di Choderlos De Laclos, e il personaggio di Madame de Merteuil. Sotto queste figure del femminile pensante lavora e scava la ragione dei Lumi, che impiegherà più di due secoli per il passaggio dai diritti ai fatti.
La filosofia delle donne e sulle donne nel Settecento
Quando Diderot e Voltaire, negli anni Quaranta del Settecento, frequentano il salotto di Madame Geoffrin (1699-1777), luogo di ritrovo dei philosophes enciclopedisti, insieme al Salon di Madame du Deffand (1697-1780), la tradizione delle femmes de lettres è ormai ben consolidata. È ancora fresca, nella memoria di uomini e donne del secolo XVIII, l’impressione delle Femmes savantes (1672) di Molière. La pièce teatrale, in italiano Le Saccenti, è qualcosa di più di una semplice presa in giro burlesca delle abitudini delle ricche signore della nobiltà di toga. Più confacente al contenuto dell’opera sarebbe il titolo “Le Addottrinate”, per far eco all’aggettivo savant (“dotto”) messo ironicamente al femminile. Molière, da un lato, mette in guardia le donne del suo tempo dal prendere le posture ridicole dei savants (sostantivo), cioè dei Dotti che fanno mostra del proprio sapere a fini di scalata sociale. Da un altro lato, il commediografo strizza l’occhio al senso comune anti-femminile, che vedeva con sempre maggior sospetto la pretesa del “sesso” (sexe) tout court – veniva indicato così il “secondo sesso” (De Beauvoir) – di conquistare un’autonomia morale e intellettuale concreta pur restando fedele agli schemi dei rapporti sociali stabiliti. Madeleine de Scudéry nell’Artamène ou le grand Cyrus (1650) fa diventare alla moda la ripugnanza delle femmes savantes verso il matrimonio, argomento al centro della pièce di Molière. Mademoiselle de Scudéry rimarrà nubile per tutta la sua lunga vita. Le Addottrinate creano académies, ossia sodalizi e convegni in grandi maisons dove ci si riunisce per il piacere della lettura comune e per la conversazione erudita. Tali contesti danno vita alle prime opere letterarie femminili della modernità. La socievolezza erudita, “la civiltà della conversazione”, in Età moderna, è opera loro, delle donne dotte.
Celebre è il quadro di Anicet Gabriel Lemonnier che dà conto, oltre un secolo dopo, dell’ambiente delle letture e delle discussioni erudite dei Salons settecenteschi.
La differenza di questi sodalizi, rispetto al Seicento, è il ruolo attivo e propositivo che le donne vi svolgono: non si limitano a “discutere saccentemente, conversare e far società”, ma leggono le proprie opere, espongono e pubblicano le proprie idee con il loro nome – La Principessa di Clèves (1678), di Madame de La Fayette invece esce anonimo – del tutto alla pari con gli uomini. Una filosofia di donna esemplare è quella di Gabrielle Émilie Le Tonnelier de Breteuil marchesa di Châtelet, “Madame Pompon-Newton”, come ama definirla il suo amante Voltaire per i fronzoli e i gioielli con cui s’agghinda e per la monumentale traduzione francese, in due volumi, dei Principia Mathematica di Newton (postuma, 1756). Madame du Châtelet è matematica e filosofa che sa competere del tutto alla pari con il compagno Voltaire. È autrice di diverse opere scientifiche e filosofiche di successo: Istituzioni di Fisica (1740); Analisi della filosofia di Leibniz (1740) che risalgono agli anni della relazione con il philosophe; Risposta alla lettera di Mairan sul problema delle forze vive (1741); Dissertazione sulla natura e la propagazione del fuoco (1744) e infine, postumo, il Discorso sulla felicità (1779), l’opera maggiore della Châtelet, accanto all’Analisi della filosofia di Leibniz e ai Dubbi sulle religioni rivelate (postumo, 1792).
Le tesi sulla felicità sono quelle della tradizione libertina, con aggiunte al femminile assai originali: solo le passioni rendono felici gli uomini e le donne. Per queste ultime, tuttavia, la passione per lo studio è la prima e più importante: “È certo, infatti, che l’amore per lo studio è più necessario alla felicità delle donne che a quella degli uomini, perché gli uomini hanno tutte quelle risorse che mancano affatto alle donne. Essi hanno ben altri mezzi per arrivare alla gloria […]. Le donne, invece, sono escluse da tutto questo per la loro condizione, e quando, per caso, se ne incontra qualcuna che è nata con uno spirito più sensibile, non le resta altro che lo studio per consolarsi di tutte queste esclusioni e di tutte quelle forme di dipendenza a cui è condannata per il solo fatto di essere nata donna” (Discorso sulla felicità, trad. it. di M. C. Leuzzi, Palermo, Sellerio, 1997, p. 50). È un’affermazione fondamentale, nella direzione cosciente della necessità dell’emancipazione femminile, che incontriamo, mezzo secolo dopo, in Olympe de Gouges e Mary Wollstonecraft (infra). Una filosofia morale declinata al femminile, cosciente della finitezza e delle manchevolezze della condizione umana in genere. Nelle Istituzioni di fisica e nell’Analisi di Leibniz, Châtelet difende il newtonianesimo e una concezione fenomenista della materia e del mondo: noi possiamo conoscere soltanto l’apparenza sensibile della realtà e calcolarne i fenomeni. Il resto è scepsi, ossia ricerca.
Altra figura di scrittrice e di filosofa morale è la marchesa Luise d’Épinay, animatrice dei uno dei Salon parigini più frequentati dai philosophes, autrice di un’opera di rilievo, Le conversazioni di Emilia (1781), in cui rivendica la specificità (la “differenza”) femminile, in termini di educazione, di sensibilità e di facoltà intellettuali. Madame d’Épinay esprime l’autonomia della personalità femminile, in polemica con l’ex-amico Jean-Jacques Rousseau, autore del più celebre Emilio o dell’educazione (1762). Le Conversazioni di Emilia sono la risposta al femminile. La giovane Emilia, nelle ripetute conversazioni con la madre, sviluppa gradualmente la piena coscienza delle proprie forze morali e intellettuali, da mettere a frutto autonomamente nell’esperienza del mondo.
Alle soglie della Rivoluzione francese, emerge la figura intellettuale e letteraria di Marie Gouzes (1748-1793), morta sulla ghigliottina, autrice di una fondamentale Dichiarazione dei diritti della donna e della cittadina (1791), pubblicata sotto lo pseudonimo letterario di “Olympe de Gouges”. La vita avventurosa di questa donna è stata riscoperta e valorizzata, dagli studi storici, solo in tempi recenti, in particolare in occasione del bicentenario della Rivoluzione (1989). Figlia di un macellaio e di una ex-domestica di Montauban, Marie viene sposata a forza (come era consuetudine) a un industriale, Louis-Yves Aubry, molto più anziano di lei, il quale muore subito dopo lasciandole un figlio. Marie si rifiuta di prendere il nome di “vedova Aubry” e assume invece lo pseudonimo di “Olympe”; vi aggiunge la particella nobiliare “de”, sostenendo di essere la figlia naturale del marchese Jean-Jacques Le Franc de Pompignan, poeta e libellista anti-volterriano di un certo calibro.
Un’aura di mistero e di originalità avvolge la persona di “Olimpia” quando giunge a Parigi negli anni ottanta e inizia una difficile carriera nel campo delle lettere e nel teatro. Con lei possiamo senz’altro parlare della prima fondazione di un pensiero femminista: “La de Gouges fu sempre impegnata in un processo di autocostruzione” (J. W. Scott, Le femministe francesi e i diritti dell ‘uomo’. Le Dichiarazioni di Olympe de Gouges, p. 102). I suoi scritti politici e filosofici, ispirati alle dottrine illuministe (in conflitto tra loro) di Rousseau e Voltaire, vertono su argomenti assai disparati: i diritti delle persone di colore e la liberazione degli schiavi, il divorzio – Olympe fu strenua sostenitrice della prima legge sul divorzio della storia moderna, emanata dall’Assemblea generale girondina il 20 settembre 1792 – la protezione e la salvaguardia dei diritti dei bambini “illegittimi”, la libertà sessuale delle donne, l’apertura di ospedali ostetrici, la pulizia delle strade ecc. Il carattere disparato della produzione politica e filosofica della de Gouges trova coerenza nell’impegno pratico profuso sempre alla prima persona, durante la Rivoluzione, contro ogni genere di tirannide, al fianco di personalità come il marchese di Condorcet, di cui era amica, e di altri esponenti della corrente girondina dell’Assemblea.
La difesa della nozione di “diritti”, declinati al concreto-femminile e non all’universale-maschile, è espressa all’articolo XI della Dichiarazione: “La libera comunicazione dei pensieri e delle opinioni è uno dei diritti più preziosi della donna, poiché questa libertà assicura la legittimità dei padri verso i figli. Ogni Cittadina può dunque dire liberamente, io sono la madre di un figlio che vi appartiene, senza che un pregiudizio barbaro la obblighi a dissimulare la verità; salvo rispondere dell’abuso di questa libertà nei casi determinati dalla Legge”. La radicalità e la coerenza di questa posizione politica e la denuncia della “tirannia” esercitata dal “Comitato di salute pubblica” giacobino – che respinge con disprezzo i numerosi appelli di Olympe, la quale asserisce (art. X): “La donna ha il diritto di salire al patibolo: deve dunque avere anche quello di salire alla Tribuna” – le costano il carcere, il processo e la condanna a morte, avvenuta il 3 novembre 1793, due settimane dopo l’esecuzione di Marie Antoinette (alla quale la Dichiarazione era indirizzata), all’età di soli 45 anni. Di recente, Maria Rosa Cutrufelli ha pubblicato in Italia un romanzo ispirato alla figura di Olympie: La donna che visse per un sogno (Milano, 2004).
Negli stessi anni in cui Olympe svolge la propria attività letteraria e politica, a Parigi risiede una giovane donna inglese dal carattere “romantico” (la definizione è sua), giunta lì nel dicembre del 1792 alla vigilia dell’esecuzione di Luigi XVI. È di una decina di anni più giovane di Olimpia: Mary Wollstonecraft. In fuga dal proprio paese a causa di una disavventura sentimentale finita male con il pittore (già sposato) Johann Heinrich Füssli, Mary si rende nota nell’ambiente letterario con un paio di opere sull’educazione – avendo svolto per un certo tempo il mestiere di istitutrice: Pensieri sull’educazione delle fanciulle (1787) e Storie originali tratte dalla vita reale (1788) – e con Una difesa dei Diritti dell’Uomo (1790), risposta alle Riflessioni sulla rivoluzione di Francia (1790) del filosofo conservatore Edmund Burke. Mary frequenta a Londra un circolo di intellettuali progressisti, riuniti attorno al cenacolo di Samuel Johnson, fra i quali troviamo, oltre Füssli, William Blake, altro grande pittore, Thomas Paine (1737-1809), autore anch’egli di un più celebre pamphlet antireazionario: I Diritti degli uomini (1791), e il filosofo anarchico William Godwin (1756-1836), suo futuro marito.
La Wollstonecraft abbandona il mestiere d’istitutrice e si lancia nella stessa avventura di Olympe de Gouges, quella della “letterata” che intende vivere, in autonomia, dei prodotti della propria penna. Non è un periodo facile, quello degli inizi degli anni Novanta a Londra, con la Rivoluzione al di là della Manica e una decisa diffidenza delle autorità verso i circoli intellettuali progressisti in odore di repubblicanesimo. Mary decide di trasferirsi a Parigi, sola, con in tasca un libello appena pubblicato che la renderà immortale: A Vindication of the Rights of Woman (1792). Non sappiamo se in quegli anni concitati la Wollstonecraft abbia modo d’incontrare o di sentir parlare di Olympe de Gouges. Certo è che i motivi di vicinanza intellettuale sono molteplici. In Una difesa dei Diritti della Donna, tuttavia, Mary più che insistere sul motivo dell’eguaglianza uomo-donna sul piano istituzionale (cariche pubbliche, diritto di voto ecc.), sottolinea la dicotomia ragione-sentimento, assegnando un primato sociale e politico alla prima, Reason che va esercitata ed educata, anzitutto nelle donne la cui “oppressione” ha origine in loro – diversamente che nella de Gouges – da un esagerato sviluppo del sentimento, delle sensazioni e delle passioni non regolate.
È questo il difetto di cultura, secondo la Wollstonecraft, che va sanato con leggi più razionali che garantiscano, anche nelle donne, “la perfezione della nostra natura umana e le potenzialità di felicità, le quali devono essere misurate sulla base del grado di ragione, virtù e conoscenza che contraddistinguono gli individui e ispirano le leggi che regolano la società” (I diritti delle donne, cap. 1, p. 12). Lo sfondo filosofico di tali riflessioni è da ricercare nella teoria scozzese del moral sense e nelle letture di Jean-Jacques Rousseau (pure criticato, infra), quella filosofia della sensibilità e della perfettibilità umane che si sviluppa sul finire del secolo, in Europa e in Inghilterra viene declinata in modo originalissimo dalla Wollstonecraft anche sul terreno della letteratura. I suoi romanzi hanno al centro protagoniste femminili che tentano di emanciparsi, grazie alla ragione – e la ragione non ha sesso –, dall’abbrutimento delle passioni (dei mariti) e del sentimento (Mary. Una storia; Maria, o gli errori di donna; Lettere scritte durante un breve soggiorno in Svezia, Norvegia e Danimarca). Il potere monarchico è irrazionale e illegittimo come il potere patriarcale e violento dei mariti. L’intenzione è d’insistere sulle origini irrazionali, sull’ingiustizia della tirannia che l’uomo esercita sulla donna, piuttosto che sul motivo della parità tra i sessi, tema sul quale, al contrario, la Wollstonecraft esprime opinioni piuttosto tradizionali riguardo il matrimonio e la famiglia, come “doveri particolari che la natura ha assegnato” alle donne.
Uomini che filosofano per le donne nel Settecento
“Non v’è alcuna parità tra i sessi quanto alle conseguenze derivanti dalla loro diversità. Il maschio è maschio solo in determinati momenti, la femmina è femmina per tutta la vita” (Emilio, trad. it. di P. Massimi, Milano, Mondadori, 1997, p. 500). Con queste parole, Rousseau definisce in modo lapidario ma efficace la “differenza” femminile, nel quinto libro dell’Emilio (1762), dedicato alla donna del protagonista, la quale, neanche a dirlo, si chiama “Sofia o la Donna”. Rousseau mette in rilievo la differenza piuttosto che l’eguaglianza: la donna appartiene alla natura in misura più essenziale rispetto all’uomo. È il motivo della sua forza e, insieme, della sua debolezza e della subordinazione all’uomo. “Nell’unione dei sessi ciascuno concorre egualmente allo scopo comune, ma non alla stessa maniera. Da ciò nasce la prima diversità determinabile nell’ambito dei rapporti morali dell’uno e dell’altro. L’uno deve essere attivo e forte, l’altro passivo e debole; è necessario che l’uno voglia e possa, è sufficiente che l’altro offra poca resistenza. Stabilito questo principio, ne consegue che la donna è fatta soprattutto per piacere all’uomo” (Ibidem, p. 496).
La serie dei paradossi e degli ossimori rousseauiani che caratterizzano la personalità femminile (il pudore si tramuta in dominio, la fragilità si rovescia in potere dei sentimenti, il “più forte” dipende dal “più debole” ecc.) sfocia in una dottrina della sensibilità femminile che sta alla base della società del gusto e delle arti. Sono le donne a decidere e a definire storicamente i confini del bello e del brutto, del piacevole e del gradevole, in ambito sociale. Il loro diritto, in tale contesto, è inversamente proporzionale alla mancanza di peso politico nelle decisioni che determinano i destini dello Stato. Il pensiero femminista delle origini s’è confrontato a lungo con le prese di posizione ambigue di Rousseau sulla donna, nella costruzione di una coerente teoria dell’emancipazione femminile (dopo la Wollstonecraft, John Stuart Mill, Harriet Taylor).
Diverso, ma non troppo lontano, è l’approccio di Denis Diderot, il quale scrive nel 1772 Sulle donne, lunga recensione per la Correspondance littéraire di Melchior Grimm del libro di Antoine-Léonard Thomas, Saggio sul carattere, i costumi e lo spirito delle donne nei diversi secoli(1772). Diderot marca l’accento sulle differenze organiche e fisiologiche tra uomini e donne, parla al plurale concreto: le donne sono esseri dotati di una sensibilità più intensa, qualitativamente diversa da quella maschile. Nelle donne Diderot rileva “l’infinita diversità di un essere estremo nella sua forza e nella sua debolezza (…). E soprattutto nella passione dell’amore, negli accessi della gelosia, nei trasporti della tenerezza materna, negli istanti della superstizione, nella maniera in cui le donne condividono le emozioni epidemiche e popolari, le donne stupiscono” (“Sur les femmes”, in Oeuvres, a cura di A. Billy, Paris, Gallimard, 1951, p. 949, trad. nostra). A questa disposizione naturale s’aggiungono tuttavia, colpevolmente, gli abusi e i difetti delle leggi che accrescono l’infelicità e la minorità della “condizione femminile”. Diderot usa quest’espressione lanciandosi nella critica più esplicita delle tare della civilizzazione, non solo occidentale – sono presi di mira anche i costumi “indiani” del Nuovo Mondo –, parlando alla prima persona plurale maschile: “Che cos’è allora una donna? Trascurata dal marito, abbandonata dai figli, nulla per la società, la devozione è la sua unica e ultima risorsa. In quasi tutti i paesi la crudeltà delle leggi civili ha cospirato contro le donne insieme alla crudeltà della natura. Esse sono state trattate come bambini imbecilli. Nessuna specie di vessazione, nei popoli civilizzati, che l’uomo non possa impunemente esercitare contro la donna […]. Nessuna specie di vessazione che il selvaggio non eserciti di fatto contro la propria donna” (Ibidem, p. 955). Diderot invoca un cambiamento radicale delle leggi grazie al quale le donne possano essere “risarcite dei loro mali e affrancate da ogni servitù” (Ibidem, p. 956), anche in nome dell’originalità del loro “carattere” che le rende atte, diversamente dagli uomini, a tutte le arti e, di più: “quando hanno del genio, credo che l’impronta ne sia, in esse, più originale che in noi” (Ibidem, p. 958).
Sul fronte delle teorizzazioni avanzate della filosofica settecentesca per le donne si schierano le riflessioni dell’abate Joseph-Antoine Toussaint Dinouart, autore di un libro che ebbe una certa risonanza, già solo per il titolo: Il trionfo del sesso. Opera nella quale si dimostra che le donne sono in tutto uguali agli uomini, vi si esaminano i vantaggi del loro commercio e quale deve essere l’amore reciproco dei due sessi (1749). Il volume è dedicato alla marchesa di Châtelet, “vasto e potente Genio, Minerva della Francia, immortale Emilia” (Voltaire). È un’opera di teologia in cui Dinouart intende dimostrare l’eguaglianza morale naturale tra uomo e donna, quanto a facoltà e poteri. “Il peccato non ha distrutto questa uguaglianza. La dipendenza della donna non è una conseguenza della sua creazione” (cap. II). Dinouart contesta il luogo comune che associa Eva al peccato originale e alla disobbedienza, affermando al contrario che “l’uomo è stato più criminale della donna nella sua disobbedienza. Anche la sua punizione è più grande nella sua durata, è senza ragione che la si accusa di essere la causa della caduta del genere umano” (cap. III). Se ne dovrà concludere che “la donna non è inferiore all’uomo, se non per la dipendenza civile alla quale la provvidenza l’ha assoggettata”, senza tuttavia trascurare il fatto che l’uomo ha poi abusato di tale dipendenza, legata ai fattori naturali, per forgiare leggi ingiuste (cap. VI: “ingiustizia delle leggi umane che danno all’uomo una superiorità maggiore di quella loro accordata da Dio”).
La superiorità dell’uomo, secondo Dinouart, è solo fisica, legata cioè alle disposizioni alla guerra, al commercio e alle arti meccaniche. Per tutto il resto la storia offre svariati “esempi che provano l’uguaglianza della donna: la sua capacità di governare e nel campo delle Scienze. La sua inclinazione alla virtù è maggiore di quella dell’uomo” (cap. VIII). Dinouart forse s’ispira a un’opera anonima, di mano femminile, dal titolo simile: Il trionfo del bel sesso sugli uomini (1719). Il suo libro, tuttavia, s’indirizza a un pubblico di lettori uomini e conclude sulla necessità che si dia un “commercio onesto” tra uomo e donna, volto al “bene comune” della società, senza abusi che opprimano il sesso femminile. Più tardi, Dinouart – autore anche di un’Arte di tacere (1771) –, sconfesserà se stesso e i propri peccati femministi di gioventù, traducendo un Compendio dell’embriologia sacra, ovvero trattato dei doveri dei preti, dei medici e altri, sulla salvezza eterna dei bambini che si trovano nel ventre della loro madre (1775), che descrive i metodi di controllo delle pratiche abortive e del corpo femminile in gravidanza.
Pierre Choderlos de Laclos, oltre a Le relazioni pericolose (infra), scrive anche un trattato Delle donne e della loro educazione (1783, postumo), concepito come un “Discorso sulla questione proposta dall’Accademia di Châlons-sur-Marne: quali potrebbero essere i mezzi più adatti a perfezionare l’educazione delle donne?”. Il Discours resta incompiuto, ma Laclos vi continua a lavorare e aggiungerà ulteriori riflessioni sul tema, rimaste allo stato di manoscritto. La tesi è la seguente: nella condizione femminile “il male è senza rimedio, i vizi si sono trasformati in costumi” (Seneca), occorre dunque “rompere le catene delle donne” e rinunciare a ogni perfezionamento nell’educazione finché una “felice rivoluzione” non l’avrà permessa (Œuvres complètes, a cura di L. Versini, Paris, Gallimard, 1979, p. 391, trad. it. nostra). Non stupisce che Laclos interrompa la redazione del Discours per dedicarsi alla composizione di un più ampio trattato sull’educazione femminile, in cui compie la medesima operazione compiuta da Rousseau – suo grande modello – nel Discorso sulle origini e i fondamenti della disuguaglianza tra gli uomini (1754), declinato al femminile.
Tutto è da cambiare in quest’ambito, la civilizzazione è sinonimo di corruzione dei costumi e dei sentimenti. Occorre tornare alla natura, ritrovare la “donna naturale” prima dell’istituzione del patto iniquo tra i sessi, che ha comportato la sottomissione all’uomo e, conseguentemente, l’abbrutimento. Laclos dedica i primi otto capitoli a ridisegnare il nuovo orizzonte politico della riconquista, da parte delle donne, dei propri diritti naturali. È la pars destruens del lavoro, che contrappone alla miseria presente la bellezza passata/futura della condizione femminile naturale: una personalità “diversa”, concepita in tutta la pienezza delle sue facoltà e delle sue forze proprie: libertà, soddisfacimento dei bisogni reali, ricerca del piacere, riproduzione, felicità nella riproduzione sessuale, autonomia, bellezza morale indipendente dal piacere maschile. La parte finale traccia le grandi linee (incompiute) della nuova educazione naturale al femminile, attraverso la cultura, nel mondo ormai civilizzato e rivoluzionato. In tale contesto, per sanare i mali del passato, Laclos offre una soluzione che appare incongrua o sproporzionata rispetto ai fini: un buon programma di letture. La lettura come “seconda educazione”, guidata da un valido precettore (come nell’Emilio), estende l’efficacia dell’educazione della natura. La socialità e i rapporti umani vengono tenuti fuori da tale contesto. È un ultimo, ulteriore omaggio al metodo rousseaiano (l’utopia) di un’educazione concepita fuori dal mondo cittadino, sentina di vizi, non appena è riformato il sentire al femminile come attitudine all’ascolto della bellezza reale del mondo.
Donne che filosofano nel romanzo del Settecento
Laclos elabora un’altra figura della filosofia al femminile nel romanzo Le relazioni pericolose (1782). Come Giulia o La nuova Eloisa (1762) di Rousseau, suo modello, Les liaisons dangereuses offrono all’autore lo spunto per mettere in bocca alla protagonista, la marchesa di Merteuil, molti propositi filosofici ed etici “rivoluzionari” su se stessa e sulla propria condizione. L’intreccio del romanzo è assai complesso, ma può riassumersi in una sfida. La sfida tra i due protagonisti, maschile (Valmont) e femminile (Merteuil) è incentrata intorno al potere morale di agire sul comportamento degli altri ai propri fini egoistici, quelli di conquista (maschile) e di controllo (femminile). Nella lettera 81, Madame de Merteuil descrive la propria filosofia di vita come un’etica della riflessione e della dissimulazione imposte: “Entrata in società, ancora ragazzina, votata per la mia condizione femminile al silenzio e all’inazione, ho saputo approfittare per osservare e riflettere. Mentre gli altri mi credevano stordita e distratta, ascoltavo poco, a dir la verità, i discorsi che tutti si facevano premura di farmi, ma coglievo con estrema attenzione quelli che gli altri cercavano di nascondermi. Questa utile curiosità, oltre a servire a istruirmi, mi insegnò anche a dissimulare […]. Studiai i nostri costumi nei romanzi, le nostre idee nei libri di filosofia, cercai perfino nei più severi moralisti quello che esigono da noi e mi resi conto così di quello che si può fare, di quello che si deve pensare e di quello che bisogna apparire” (Le relazioni pericolose, trad. it. di M.T. Nessi, pp. 167-170).
La donna che filosofa nel romanzo è la donna che si difende dall’oppressione o che attacca l’uomo suo interlocutore, amante, amico o marito, con la dissimulazione, per difendersi dai mali della violenta società maschile. In quest’impresa, la protagonista, sempre sola – o Madame de Merteuil, o Giulia d’Étanges, in Rousseau – traccia i confini di un mondo nuovo, utopico nel bene, in un caso (la comunità familiare di Clarens, in cui è la Madre Giulia a dominare), mondo reale, nel male, nel secondo caso, quello della comunità dissimulatrice della coppia nobile del bel mondo Merteuil-Valmont. Giulia espone a chiare lettere la morale virtuosa della felicità premio della virtù coniugale, nell’onesta vita di famiglia di Clarens (parte IV). Tuttavia, nel finale tragico, ella soccombe dinanzi agli imperativi dell’amore-passione (ama il suo antico compagno), lasciando orfana e infelice quella stessa comunità.
Al contrario, la marchesa vince e svela al visconte di Valmont i segreti del proprio agire per fini antisociali: “Nata per vendicare il mio sesso e dominare il vostro, dovevo aver saputo inventare dei metodi sconosciuti prima! Ah, tenete i vostri consigli e i vostri timori per quelle donne deliranti che si definiscono sentimentali, la cui immaginazione esaltata indurrebbe a credere che la natura ha messo i loro sensi nel cervello; donne prive di qualsiasi capacità di riflessione, che confondono sempre l’amante con l’amore, che nella loro folle illusione credono che colui con il quale hanno cercato il piacere ne sia il solo depositario…” (Ibidem, p. 166). Anche la marchesa, nel finale, sembra perdere la sfida, ma la conclusione narrativa è poco convincente, la “punizione” che subisce la cattiveria non è sufficientemente credibile. Analoga morale libertina è affermata nei romanzi del marchese Donatien-Alphonse-François de Sade, buon lettore delle Liaisons. La denuncia della società oppressiva nei confronti delle donne si rovescia in un’accettazione spregiudicata delle sue regole perverse, fino all’esaltazione provocatoria della “prosperità del vizio” (Histoire de Juliette, 1801) e delle “sventure della virtù” (Justine, 1791 e 1799), soprattutto di quelle donne che acquiescono scioccamente alla morale maschile dominante. Sotto il segno inquietante delle 120 Journées di Sade e del suo immoralismo si chiude il secolo filosofico, nella ricerca di un’emancipazione femminile problematica, non raggiunta e spesso, in negativo, nella finzione romanzesca, solo sognata.