Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Con la scoperta dell’America, il pensiero europeo si trova a dover fare i conti con la conquista e la colonizzazione di mondi nuovi e a dover ridiscutere, da un punto di vista filosofico, giuridico e teologico, lo statuto dell’alterità. Questa discussione, che costituisce una cifra ineludibile della modernità, è ben incarnata nella controversia sugli Indios che vede nella scuola di Salamanca, soprattutto in Francisco de Vitoria, e in Bartolomé de Las Casas i suoi più incisivi rappresentanti.
L’alterità
Il filosofo Michel de Montaigne dedica una parte del capitolo VI, intitolato Delle carrozze, del Libro III dei suoi Saggi (editi in tre versioni: 1580, 1582, 1588) alla condanna del modo in cui il vecchio continente conquista e saccheggia le Americhe. Montaigne non si limita a descrivere la volontà di dominio e il desiderio del possesso di nuove ricchezze che muovono il processo di conquista degli Spagnoli, ma offre indicazioni acute sulle modalità di assimilazione e di sottomissione ai quali furono sottoposti gli indigeni. La questione principale risulta essere proprio quella della “differenza” tra culture, questione al centro dei dibattiti di natura filosofica, giuridica e teologica che si aprono in seguito alla scoperta dell’America (1492). Montaigne riconosce alle popolazioni sottomesse la stessa umanità che caratterizza ogni forma altra di civiltà e di cultura (spagnola ed europea comprese), dichiarando che, per natura, esse sono dotate delle stesse facoltà intellettuali e delle stesse doti spirituali degli spagnoli (se non addirittura superiori a questi ultimi). Un riconoscimento, quello di Montaigne, che nel corso del XVI secolo non risulta per nulla scontato.
La scoperta dell’America, infatti, pone l’Europa di fronte al problema dello statuto giuridico, filosofico e teologico dell’alterità; quel processo di scoperta, conquista e colonizzazione di nuovi territori che costituisce un momento imprescindibile dell’età moderna, squaderna di fronte al vecchio continente un mondo molto più esteso di quello sino ad allora immaginato, un mondo abitato da “nuove forme” di vita umana, caratterizzate da nuove credenze e pratiche sociali, da nuovi valori e stili di vita.
L’altro agli occhi di Cristoforo Colombo
Cristoforo Colombo (1451-1506), mosso dal desiderio di scoprire nuovi mondi e ricchezze e dalla volontà di evangelizzazione, nei quattro viaggi che compie verso le Americhe, durante i quali dall’isola di San Salvador si spinge fino a scoprire le isole Caiman, dopo aver costeggiato Honduras, Nicaragua e Costa Rica, instaura con gli Indios un rapporto estremamente riduttivo. Egli, infatti, come fa osservare Tzvetan Todorov in La conquista dell’America. Il problema dell’“altro” (1984), considera gli indiani o come “identici” agli Spagnoli e, dunque, in grado di adottarne le stesse usanze e gli stessi valori sociali, etici e religiosi (assimilazionismo), oppure li percepisce come “differenti” e, quindi, come inferiori. Non solo Colombo riduce il suo rapporto con i nativi all’interno della dialettica assimilazione-differenza (inferiorità), ma, come si evince dal Giornale di bordo, ne rinchiude il giudizio morale all’interno della coppia di opposti buono-cattivo, a seconda della loro volontà o meno di farsi sottomettere e convertire, o a seconda della loro volontà di essere più o meno generosi.
Sin a partire da Colombo, dunque, il pensiero europeo fa esperienza della differenza culturale a partire dall’idea della propria incontrovertibile superiorità in primo luogo etico-religiosa, ma anche intellettuale e giuridica. Tale discussione arriva a coinvolgere lo statuto antropologico stesso degli Indios, e, di conseguenza, il loro diritto a essere considerati “umani”.
Contro l’encomienda: frate Antonio de Montesinos
L’istanza di superiorità dei conquistatori, d’altro canto, è ben testimoniata dal Requerimiento, documento redatto dal giurista Palacios Rubios (1450-1524), il cui scopo è quello di regolarizzare giuridicamente le azioni di conquista delle terre da parte degli spagnoli. Il Requerimiento viene letto davanti agli Indios e, se questi ne accettano l’istanza argomentativa, non vengono ridotti in schiavitù.
La logica argomentativa iniziale del documento in questione si fonda su motivazioni religiose: Cristo ha conferito a san Pietro il suo potere e quest’ultimo lo ha trasmesso agli altri papi. Proprio uno degli ultimi papi ha poi concesso il continente americano agli Spagnoli e ai Portoghesi. Se è stato Dio a volere la conquista e la colonizzazione, allora, una volta istruiti gli Indios sulle volontà divine, l’impossessamento delle terre da parte dei conquistatori risulta legittimo. Nota Todorov, in proposito: “[...] gli indiani possono scegliere solo fra le due posizioni di inferiorità: o si sottomettono di loro volontà e diventano servi, oppure vengono sottomessi con la forza e ridotti in schiavitù” (Tzvetan Todorov, La conquista dell’America, 1984).
Sarebbe tuttavia errato credere che non si fossero già levate voci contro i maltrattamenti, i soprusi e le violenze che gli Indios subiscono a causa dei conquistatori. Significativo è il sermone prunciato dal frate domenicano Antonio de Montesinos (1475-1540) che, nell’isola della Española, il 21 dicembre 1511, solleva con forza la questione etica sulla legittimità dei brutali trattamenti a cui sono sottoposti gli Indios e, soprattutto, contro il loro essere ridotti a schiavi. Il sermone di Montesinos, che condanna senza mezzi termini le pratiche di assoggettamento degli Spagnoli, mette sul tappeto questioni che poi risulteranno centrali nelle dispute filosofiche, teologiche e giuridiche sugli Indios.
Montesinos, infatti, dal pulpito, chiede ai conquistatori con quale diritto tengano in schiavitù gli Indios, con quale autorità essi muovano loro guerra e su quali fondamenti li costringano a lavorare in condizioni proibitive, senza fornire loro cibo a sufficienza e cure contro le malattie.
L’obiettivo di Montesinos, in realtà, è l’aperta condanna sia della schiavitù, sia dell’ecomienda, la quale consiste nel consegnare agli encomenderos spagnoli territori popolati da colonizzare ed evangelizzare. Essa, però, si traduce nello sfruttamento radicale delle popolazioni locali che, di fatto, finiscono per essere ridotte in stato di schiavitù.
Vi è un altro importante documento papale, che decreta la proibizione e la condanna della schiavitù nel Nuovo Mondo: si tratta della Bolla Pontifica Veritas Ipsa redatta il 2 giugno 1537 dal papa Paolo III. Essa, infatti, condanna senza riserve la schiavitù, facendo leva sul principio di universalità del messaggio cristiano. Gli Indios, sostiene Paolo III, sono veri uomini, in grado di intendere la fede cristiana e di aderire a essa. Essi, inoltre, sono liberi di esercitare il loro dominio sui loro possedimenti.
Francisco de Vittoria: gli Indios e la guerra giusta
È l’università di Salamanca che, tuttavia, nel XVI secolo, grazie al contributo di giuristi, teologi e filosofi, si contraddistingue per l’apporto teorico offerto ai problemi sorti intorno al rapporto tra colonizzatori e colonizzati. L’esponente più noto della Scuola di Salamanca è Francisco de Vitoria (1483-1546), teologo e filosofo domenicano, che, dopo aver studiato a Parigi filosofia e teologia, nel 1526 inizia il suo insegnamento all’università di Salamanca, dove nel 1539 tiene due lezioni magistrali dal titolo De Indis e De Iure Belli.
Per quanto concerne la Relectio De Indis, de Vitoria sostiene che le questioni concernenti gli Indios non devono essere valutate dal punto di vista del diritto positivo, ma da quello del diritto naturale o divino. De Vitoria, chiamando in causa i testi di pensatori come Aristotele, Agostino e Tommaso d’Aquino, argomenta che, sebbene non cristiani, di debole intelligenza e “inetti”, gli Indios sono padroni dei loro beni pubblici e privati e che i cristiani non possono sottrarre né ai cittadini, né ai loro principi ciò che possiedono. A coloro che sostengono che gli Indios sono per natura poco atti a governare, de Vitoria risponde utilizzando Aristotele, il quale non insegna che persone siffatte siano schiave per natura, così come non insegna la liceità di ridurre in schiavitù o sottrarre beni a persone poco intelligenti. Di certo, sostiene de Vitoria, negli Indios vi è una disposizione naturale a essere governati piuttosto che a governare e, proprio a causa di questa disposizione, potrebbe sorgere il diritto alla loro sottomissione. Certo è che, prima dell’arrivo degli Spagnoli, gli Indios esercitano la piena signoria sulle loro terre e suoi loro beni.
De Vitoria passa poi in rassegna quei titoli illegittimi su cui, impropriamente, si è soliti fondare la giustificazione della conquista del Nuovo Mondo; in questo modo il teologo domenicano delegittima anche il valore di quanto contenuto e affermato nel Requierimiento, secondo il quale il potere universale dei papi passa legittimamente in quello dei re e ne giustifica le conquiste.
Il potere temporale del papa, infatti, si fonda su quello spirituale e, in terre di fede non cristiana, tale potere risulta inconsistente. D’altro canto, non è nemmeno vero che l’imperatore è signore del mondo intero. L’uomo, infatti, nella prospettiva del diritto naturale, è libero e, dunque, non nasce sotto l’egida di alcun signore. Altri “titoli” sui quali si vorrebbe giustificata la conquista delle terre degli Indios e confutati da de Vitoria come illegittimi sono: il fatto che le terre senza padrone appartengono a chi le occupa, il rifiuto della conversione al cristianesimo, i “peccati” degli Indios come il cannibalismo, la sodomia e l’incesto, la volontaria sottomissione degli Indios agli Spagnoli e, infine, il fatto che sia Dio a volere che gli Spagnoli dispongano degli Indios. De Vitoria confuta analiticamente l’illegittimità di questi assunti e ne smonta la loro ragion d’essere.
Tra i titoli legittimi che, invece, gustificano il possesso dei territori degli Indios, de Vitoria menziona quello della naturale socievolezza e comunicazione tra gli uomini, il quale include, a sua volta, il diritto a viaggiare e commerciare pacificamente, quello di difendersi in caso di attacco e il diritto di passare all’offesa con la guerra, nel caso in cui gli Indios risultassero ostili agli Spagnoli e cercassero di eliminarli. Altri titoli legittimi enumerati da de Vitoria sono la diffusione della religione cristiana e la possibilità che gli stessi Indios, considerati incapaci di istituire governi e amministrare, possano essere governati dagli Spagnoli. De Vitoria non rifiuta la possibilità che quest’ultimo titolo sia legittimo, ma solo a condizione che esso non valga come assoluta certezza e che tutto sia compiuto per il bene degli Indios e non soltanto per l’utilità degli Spagnoli.
Agli argomenti trattati nella Relectio de Indis si connettono quelli svolti nella Relectio de iure belli (1539) in cui de Vitoria affronta la questione della legittimità, delle cause e dei fini della guerra.
I cristiani, secondo de Vitoria, possono entrare in guerra solo se l’azione bellicosa è giustificata da un torto subito. La guerra come offesa, invece, è ammessa nel caso in cui i regnanti vedano violati i diritti naturali delle genti. Nessuna guerra, infatti, è legittimata dall’intento di procurare gloria o potenza ai principi. In questo senso, la guerra giusta ha come fine unico la difesa della comunità e il mantenimento del suo bene comune.
La risposta di de Vitoria alla conquista del Nuovo Mondo, allora, consiste nella costruzione di un’architettonica concettuale di natura teologico-filosofica e giuridica che salvaguardi il diritto degli Indios alla vita e alle loro terre, attraverso la costituzione di uno ius gentium universale.
Il protettore degli Indios: Bartolomé de Las Casas
Con maggior radicalità rispetto a de Vitoria, la controversia sugli Indios è affrontata dal domenicano Bartolomé de Las Casas (1484-1566), il quale si imbarca per il Nuovo Mondo nel 1502. Qui nel 1510 è ordinato sacerdote e nel 1544 diviene vescovo di Chiapas, in Messico. L’apice della discussione sugli Indios è raggiunto nella giunta di Valladolid del 1550, in cui Las Casas si contrappone alle posizioni di Juan Ginés de Sepúlveda (1490-1573), che sostiene sia la legittimità di intentare guerre contro gli Indios, sia l’obbligo di sottomissione che essi hanno nei confronti dei conquistatori. In realtà, le tesi di Sepúlveda sono affidate ad un testo dal titolo Democrate ovvero delle giuste cause della guerra (1544) alla pubblicazione del quale Las Casas si oppone fermamente. Sepúlveda, infatti, fonda la giustificazione della conquista del Nuovo Mondo e del diritto alla guerra da parte degli Spagnoli su alcuni presupposti. Gli Indios, infatti, egli sostiene, sono idolatri e peccatori, inoltre la loro natura barbara insieme alla loro mancanza di intelletto, fanno in modo che essi, per natura, siano destinati a sottomettersi agli Spagnoli. Gli Indios devono altresì essere assoggettati per essere persuasi alla fede; essi, poi, sono anche ingiusti perché praticano sacrifici umani. Tutti i presupposti sono confutati da Las Casas in maniera analitica e attraverso l’ausilio di citazioni tratte dal Testo Sacro, dalla patristica e dalla scolastica nella Apologia che lo stesso domenicano presenta a Valladolid. Alcune di queste argomentazioni sono significative perché, ricorrendo al concetto di ragione naturale, Las Casas giunge a porre sullo stesso piano la posizione degli Spagnoli e quella degli Indios. Così, sostiene Las Casas, ogni essere umano ha un’idea di Dio, di ciò che è perfetto e lo adora secondo le proprie capacità e modalità. Il problema del “sacrificio umano” va dunque inserito all’interno del sentimento religioso universalmente riconosciuto. Infatti, afferma Las Casas, nessuna modalità di adorazione di Dio è più intensa di quella che sa offrirgli la propria vita, il bene più prezioso in natura. Il sacrificio, allora, appartiene alle leggi di natura, mentre le sue forme sono regolate dalle leggi umane.
Se la difesa degli Indios da parte di Las Casas fino al 1550 si mantiene in una prospettiva assimilazionista, dopo il 1550, con la giunta di Valladolid e con l’Apologia (1550-1553), Las Casas abbandona tale prospettiva, giungendo a formulare l’idea di relatività delle culture. Egli, vale a dire, giunge a riconoscere, contemporaneamente, sia l’universalità del sentimento religioso, sia la relatività delle modalità di espressione di tale sentimento. È possibile affermare che, con Las Casas, in Europa si fa strada quell’idea filosofica di complessità dell’umano che ha, alla base, il concetto fondamentale di eguale dignità delle differenze e della relatività dei punti di vista, un’idea che, ai giorni nostri, in un tessuto sociale multiculturale, risulta di grande attualità. La radicalità alla quale Las Casas giunge, una radicalità sovversiva per il tempo in cui vive, lo porta a sostenere che “ognuno è barbaro dell’altro”.