La filosofia dell’arte
Nella prefazione alla prima edizione della Filosofia dell’arte, datata settembre 1930, Giovanni Gentile licenziava il suo lavoro con una duplice premessa. Intanto, lo presentava al lettore come «risultato di più che vent’anni di studi e di meditazioni» poiché, aggiungeva, «il problema estetico è stato sempre innanzi al mio pensiero in tutti i miei lavori filosofici». In secondo luogo, poco più avanti, l’autore ammetteva che, dall’approfondirsi della riflessione sull’arte, l’intera sua filosofia era uscita nel complesso «alquanto mutata d’aspetto» (La filosofia dell’arte, 2000, p. vii). La prima affermazione trova in effetti riscontro nell’intero corso della produzione di Gentile, che pure era basata – per quanto concerne l’arte – su interessi alquanto selettivi, dovuti a una formazione in prevalenza letteraria; e tuttavia, come si vedrà, non mancano buone ragioni per accostare il pensiero attualistico anche alle grandi questioni generali poste dall’estetica del Novecento. La seconda osservazione offre un’indicazione preziosa per contestualizzare la Filosofia dell’arte nella continuità della produzione gentiliana senza sottovalutarne gli indubbi elementi innovativi. Se infatti, da una parte, quest’opera costituisce una ripresa e un approfondimento la cui coerenza potrebbe sfuggire solo alla rigidità di un attualismo scolastico, dall’altra sarebbe ingiusto dubitare della sua originalità, quasi fosse solo il completamento sistematico di un pensiero già del tutto sviluppato e concluso.
Già l’esordio scientifico di Gentile va ascritto a una tematica artistica (D’Angelo 20072, p. 70), o quantomeno critico-letteraria: si tratta di un saggio di storia della letteratura (scritto sotto la guida di Alessandro D’Ancona) sulle Commedie di Anton Francesco Grazzini detto il Lasca, pubblicato sugli «Annali della R. Scuola Normale Superiore di Pisa» nel 1896, e inviato subito in lettura a Benedetto Croce. L’episodio va ricordato non solo per il suo contenuto, di interesse in senso lato estetico (al novembre dello stesso anno risale anche l’uscita dell’articolo sull’Arte sociale pubblicato da Gentile sulla rivista «Helios»), ma perché costituisce di fatto l’inizio dell’intenso scambio epistolare che il giovane Gentile intraprende con Croce a proposito della relazione fra arte e storia, e della natura ‘estetica’ della storiografia: dibattito che si sarebbe esteso, negli anni successivi, a tematiche filosofiche di ampio respiro quali la relazione tra forma e contenuto, natura e spirito, teoria e prassi (sulla scorta degli interessi per la dottrina marxiana), e che comunque ben presto avrebbe visto l’allontanamento di Gentile dal metodo storico professato da D’Ancona, per indirizzarsi verso la teoria (cioè verso l’insegnamento di Donato Jaja). Sullo sfondo della questione non solo, ovviamente, la secolare vicenda della ricezione del cap. 9 della Poetica di Aristotele (1451 a 1-b 6), ma soprattutto il comune interesse per l’eredità di Francesco De Sanctis e in generale per quella del pensiero storico italiano (Giambattista Vico). Nel Gentile trentenne si fa ormai strada, in maniera sempre più consapevole, la critica alla distinzione delle attività dello spirito che invece veniva esplicitamente teorizzata da Croce, sulla base di una diversa lettura della tradizione hegeliana. Ciò trapela con chiarezza almeno a partire dallo scritto gentiliano La teoria dell’errore come momento dialettico e il rapporto tra arte e filosofia (redatto nel 1907, ma pubblicato solo nel 1921). Il cuore del confronto con Croce, qui, riguarda già la diversa interpretazione del tema della cosiddetta morte dell’arte: ove Gentile sottolinea la necessità di tener ben separato «il piano degli accadimenti empirici da quello delle condizioni trascendentali». Se l’arte «muore», secondo l’interpretazione che entrambi i filosofi danno del dettato hegeliano, ciò per Gentile accade tuttavia «sul piano trascendentale», non già storicamente: «se è vero che l’arte muore nella filosofia, essa non deve morire di fatto, cioè una volta sola, e restare morta: ma deve morire eternamente, per non esser morta mai» (Frammenti di estetica e di teoria della storia I, a cura di H.A. Cavallera, 1992, p. 93). Nel superare l’arte, peraltro, la filosofia secondo Gentile non la distrugge, bensì la potenzia «per adeguarla a sé», e trasformare in una coerenza concettuale effettiva un bisogno che essa si limita ad avvertire. Vale la pena di citare per esteso il passo in cui Gentile argomenta qui a sostegno dell’unità dialettica di arte e filosofia all’interno del movimento dello spirito, perché esso prefigura chiaramente il ruolo poi attribuito all’arte dalla prospettiva attualistica:
a me sembra che l’opposto dell’arte (= a) non sia la filosofia (= b) che comprende in sé l’arte, ma la filosofia meno l’arte (x = b - a), quella filosofia astratta, di cui il Croce stesso nei Lineamenti di una logica ha additato la necessaria morte nella storia […]. E così il vero opposto della filosofia astratta (x) – fusa con l’arte nella filosofia concreta (b) – non è l’arte concreta, ma l’arte astratta, il vero a, in quanto è = b - x: l’arte pura, forma astratta, forma priva di contenuto, che in essa necessariamente si risolve, e che è spirito concreto, e però anche filosofia. | Sicché non c’è filosofia senza arte; ma non c’è neppure arte senza filosofia (Frammenti di estetica e di teoria della storia I, cit., pp. 90-91).
Il tema della relazione fra arte e filosofia ritorna significativamente anche in altri scritti del 1907: nel saggio su Il circolo della filosofia e della storia della filosofia ciò avviene nei termini di un accenno all’immedesimarsi di forma e contenuto nel processo dialettico dell’opera d’arte (cfr., per es., La riforma della dialettica hegeliana, 1954, p. 144); mentre nella prolusione palermitana Il concetto della storia della filosofia si ribadisce – in riferimento a Dante Alighieri e Alessandro Manzoni – la necessità di un’adeguata collocazione storica per chi voglia autenticamente comprendere l’opera letteraria: «l’arte pura, l’arte scissa dallo spirito che vive in essa artisticamente, è un’astrazione» (p. 120).
Tutte queste istanze trovano una prima sistematizzazione compiuta nel capitolo “Le forme assolute dello spirito” che conclude il volume Il modernismo e i rapporti tra religione e filosofia (1909). Qui Gentile spiega il nesso fra arte, religione e filosofia nei termini di un rapporto dialettico fra tre diversi momenti dello spirito:
L’arte è la coscienza del soggetto, la religione la coscienza dell’oggetto, la filosofia la coscienza della sintesi del soggetto e dell’oggetto. Donde il corollario, che l’arte è in sé contraddittoria e ha bisogno d’essere integrata nella religione: questa per sé è contraddittoria e ha bisogno d’essere integrata nell’arte: integrazione, che vien ad essere integrazione simultanea dell’una e dell’altra, nella filosofia. Sicché la filosofia è la forma finale, in cui si risolvono le altre: e rappresenta la verità, l’attualità piena dello spirito (Il modernismo e i rapporti tra religione e filosofia, 1962, p. 265).
Non che l’intuire dell’artista sia essenzialmente diverso da quello del filosofo – pena il surrettizio reintrodursi della distinzione entro un quadro di cui invece Gentile intendeva sottolineare l’unità; piuttosto, quello che l’artista fa è cogliere con un «intuire diverso […] un mondo diverso» (p. 265). Ma importa osservare come, agli occhi del filosofo, sia ormai chiaro che l’arte – così come peraltro la religione – «non si vive di fatto se non come filosofia» (p. 273).
Con questo, siamo ormai nel cuore dell’attualismo. La prima parte del Sommario di pedagogia come scienza filosofica (1912) ne costituisce una presentazione generale, rilevante anche nella prospettiva che qui interessa: all’
analisi della distinzione tradizionale dei momenti successivi della sensazione, della percezione, del concetto, della volontà, volta a dissolvere le differenze e a mostrare l’identità dei vari momenti […] nell’unicità dell’atto spirituale (D’Angelo 20072, p. 78),
analisi dunque, almeno nei suoi temi iniziali, di contenuto letteralmente estetico – l’opera accompagna alcune considerazioni, propriamente di filosofia dell’arte, sui limiti imposti alla soggettività dell’artista. Questi si muove in un «mondo di forme obiettive» che sono
dotate di una propria natura, e quindi governate da una legge che l’autore non può mutare ad arbitrio, e che è superiore alla sua mera soggettività: un mondo che ha in sé la sua verità, il suo valore immortale; un puro oggetto insomma, avanti al quale l’artista piegherà le ginocchia, come il credente innanzi a Dio (Sommario di pedagogia come scienza filosofica, 1° vol., Pedagogia generale, 1954, p. 251).
Comincia qui a palesarsi, allora, il problema di una precisazione dello specifico statuto dell’arte, tale da giustificare la resistenza che questa oppone a farsi risolvere senza residui nell’inesauribile fluire del processo dialettico e dell’autoctisi dello spirito. Il tema viene sviluppato nella Teoria generale dello spirito come atto puro (1916), ove il motivo dell’«immortalità» dell’arte è paradossalmente rinvenuto proprio nella capacità che lo spirito ha di sottrarla al molteplice, nella misura in cui nega lo statuto individuale e specifico delle singole opere. Così, scrive Gentile, quando leggiamo, per es., Ludovico Ariosto dobbiamo guardarci dal confondere il poeta come persona reale, oggetto della critica storica e condizionata dall’epoca in cui visse e dallo spazio in cui operò, con «l’uomo eterno» che «mira alla bellezza eterna» quale oggetto proprio dell’arte (Teoria generale dello spirito come atto puro, 1959, p. 194). Dunque, proprio perché la materia storica – come si legge nel cap. 14 della Teoria, intitolato “L’arte, la religione e la storia” – non determina il valore dell’arte di per sé, ma solo «in ragione della vita che essa prende nell’animo del poeta», dall’impostazione gentiliana seguono alcuni corollari, tra cui, in particolare, la necessità: a) di concordare con Croce sul fatto che «l’arte è, sempre, essenzialmente lirica» (ovvero, per dirla con De Sanctis, è «forma»); b) di ribadire che, su queste stesse premesse, «una storia dell’arte in quanto arte non è concepibile», essendo ogni singola opera d’arte un’«individualità chiusa» e «atomistica», collocata com’è accanto a tutte le altre; c) di riconoscere infine il compito della storia dell’estetica nella ricostruzione della vicenda di un problema «unico» nell’ambito del divenire spirituale: ragion per cui ogni contrapposizione fra un’analisi ostinata dell’autonomia del fatto artistico e un suo dissolvimento nell’eccesso di storicizzazione non può che mettere capo a un’antinomia («Dove insomma si guarda all’arte, non si vede la storia; e dove si guarda alla storia, non si vede l’arte», p. 216). Si tratta, dunque, di restituire il concetto dello spirito all’integrità del suo movimento, riconducendo
così la religione come l’arte nella storia universale dello svolgimento dialettico dello spirito; in cui arte e religione sono posizioni spirituali, concetti della realtà, e quindi, essenzialmente, storia della filosofia (p. 218).
Il ritornello con cui Gentile ribadisce a più riprese negli scritti di questo periodo il ruolo dell’arte come primo momento della dialettica dello spirito non è tuttavia sufficiente a esorcizzare le difficoltà che a questo punto si palesano ai suoi stessi occhi. Benissimo che l’antecedenza del momento artistico sia pensata come logica e non come cronologica: ma come relazionare poi questa concezione generale dell’arte alle forme storicamente consolidate di essa, consegnateci dalla tradizione? Che rapporto c’è, in altre parole, fra questa metafisica dell’arte (e più in generale della libertà del pensare) e la concreta esperienza, alla quale del resto pretenderebbe di orientarsi proprio un pensiero che si vuole filosofia dell’immanenza? È anche per l’urgere di questi interrogativi che con Arte e religione (testo redatto nel 1920, in occasione del IV Congresso italiano di filosofia a Roma) comincia a maturare una posizione più articolata e complessa. Certo, anche in questo scritto Gentile ribadisce che «l’arte è la forma soggettiva dell’attività spirituale». Tuttavia il filosofo – riprendendo e in certa misura integrando ‘esteticamente’ temi logico-speculativi maturati negli anni precedenti, quando era intento a elaborare il primo volume del Sistema di logica come teoria del conoscere (1917) – aggiunge ora una considerazione affatto nuova:
Ma che è il soggetto d’un giudizio senza il predicato? Senso, dice Vico, e diranno Kant e Rosmini; cioè sensazione: non un oggetto, ma la stessa soggettività del soggetto, la quale non ancora si riflette su se medesima (Introduzione alla filosofia, 1958, p. 139).
Il carattere di liricità che già Croce aveva riconosciuto come peculiare di ogni prodotto dell’arte risiederebbe ora per Gentile in questa originaria priorità del sentimento come momento estetico (pp. 142-44). Con questa affermazione, che trova riscontro storico in un richiamo non solo a René Descartes, ma soprattutto ad Alexander Gottlieb Baumgarten, Gentile riflette sul nesso fra esperienza, sentimento e nascita dell’estetica in senso moderno, che è insieme un battesimo storico e ideale. L’analisi del rapporto fra soggetto e predicato va qui intesa sullo sfondo di una dialettica di conio hegeliano, ora problematicamente accostata non tanto a Johann Gottlieb Fichte (sulla cui effettiva influenza nella genesi dell’attualismo, al di là dell’indubbia prossimità di alcuni aspetti, sono stati autorevolmente sollevati non pochi dubbi), quanto alle istanze della kantiana Kritik der Urteilskraft.
Pur essendo il tema dell’arte da sempre presente nell’estetica di Gentile, come s’è visto, a partire dagli anni Venti e per ragioni del tutto interne allo svolgimento del suo pensiero si era venuta inaugurando una seconda fase, di «svolgimento» dei principi dell’estetica attualistica (cfr. Negri 1994, pp. 140 e segg.), il cui portato più significativo sembra consistere anzitutto in un linguaggio rinnovato, in quanto non più (o almeno non principalmente) incentrato sull’egoità logico-trascendentale, ma orientato all’analisi del sentimento: ovvero di quell’originario avvertire la relazione fra soggetto e oggetto che è condizione estetica dello stesso pensare (D’Angelo 20072, p. 88), nonché dell’esperienza nel suo complesso. Quel sentire che è «principio di ogni conoscenza e di tutta la vita consapevole, […] sorgente della luce nel mondo dello spirito», e che
l’uomo invano si sforza di conoscere; poiché conosciuto, s’invola […]. Questa è la Musa ispiratrice, il dio che detta dentro, impadronendosi dell’animo del poeta: di cui infatti è il più intimo [sic] essere. Lì è la vera e schietta intuizione, l’essenza dell’arte […]. Dopo, c’è la mediazione (Introduzione alla filosofia, cit., p. 131).
Così si legge nella voce Arte, redatta da Gentile nel 1929 per l’Enciclopedia Italiana. Pochi anni dopo, nel saggio L’esperienza (1932-1933), egli avrebbe ribadito: il pensiero è «un sentire consapevole nella coscienza. La quale è sentir di sentire: un sentire che si fa oggetto di sé, e perciò si fa Io» (p. 95): il pensiero lo nega, ma proprio in questo modo il sentire manifesta la propria concretezza. Tutto ciò, da una parte, consente a Gentile di prendere le distanze dalle accuse di panlogismo che venivano rivolte all’idealismo attuale, in nome della concretezza che il sentimento attesta già nel processo di autogenesi dello spirito; dall’altra, gli permette di collocarsi a pieno titolo in quella tradizione filosofica che, a partire da Vico, giunge alla teorizzazione rosminiana del «sentimento fondamentale», attraverso un percorso lungo e articolato nella vicenda del moderno pensiero europeo:
con Vico si comincia a sentire la funzione e il valore dell’animo perturbato e commosso, da cui sgorga il canto e nel canto tutta una forma essenziale ed eterna dello spirito e della umana civiltà; […] coi filosofi tedeschi (Mendelssohn, Tetens, Sulzer) della seconda metà del Settecento si comincia ad avvertire l’irriducibilità del sentimento, […] Kant […] sente il bisogno di una terza Critica, perché intravvede la necessità di una forma spirituale mediatrice tra il concetto della vita quale si può ricavare dalla pura ragione teoretica e il concetto opposto della vita derivante dalla natura della ragion pratica (Il sentimento, in Introduzione alla filosofia, cit., pp. 39-41).
La citazione è tratta dal saggio Il sentimento (1927), al centro del quale vi è da una parte il «processo di superamento in cui il sentimento cede il posto al pensiero», secondo l’andamento tipico della procedura attualistica; dall’altra l’istanza per cui, lungi dall’ammettere che la concretezza dell’esperienza si volatilizza per così dire nella dimensione spirituale, Gentile può affermare che «il sentimento […] quando pare già morto, ucciso dal pensiero, è più vivo di prima; ed è quasi la vita segreta dello stesso pensiero che lo ha ucciso» (p. 44). Infine si rivendica (nel titolo del § 9) la “Dialetticità insuperabile del sentimento”:
Provati, dunque, a intuire; e ti trovi subito a pensare. Ma il pensiero come mediazione dell’immediato è esso stesso intuitivo: contiene cioè l’intuizione. È la subbiettività che si spiega e s’afferma e si fa valere nel pensiero (pp. 52-53).
Sottolineare il valore filosofico del sentimento significa ancora una volta, per Gentile, rifiutare le conseguenze della prospettiva crociana (con la sua dialettica dei distinti: intuizione/concetto, estetica/logica, arte/pensiero, teoria/prassi ecc.), per richiamarsi all’unica scaturigine della vita spirituale nella sua libertà. Il pensiero
non può stare senza l’arte, che è essenziale alla sintesi in cui esso si attua. Né arte può star da sé, di qua dal pensiero, come mera arte. […] La verità è che chi vuole un’arte incontaminata dal pensiero, vergine, purissima, invece dell’arte reale, corpo vivente e palpitante, abbraccia una vana ombra, una astratta idea inconsistente ed assurda, come chi mitologizzando suppone un puro pensiero esanime, apatico, vuotato d’ogni soggettività e d’ogni concreta individualità (Introduzione alla filosofia, cit., pp. 54-55).
Ecco perché, nella già citata prefazione alla prima edizione della Filosofia dell’arte, Gentile richiama proprio, fra i testi che avrebbero anticipato i contenuti di quel libro, la memoria sul Sentimento e la voce Arte redatta per l’Enciclopedia Italiana, ove si ribadisce che l’arte – storicamente emancipatasi dalla mera tecnica, e affrancatasi quale attività libera in un significato che solo la modernità del concetto riesce a cogliere – costituisce un momento ideale dello spirito, pur conservando saldamente il proprio posto nella realtà. Più ancora, Gentile giunge qui ad affermare che «il complesso delle arti fu l’equivalente di quel che oggi si dice civiltà o storia» (p. 121). Addirittura «non c’è realtà (spirituale) in cui non sia presente l’arte» (p. 131); per cui, ancora una volta,
la morte dell’arte non è morte empirica e di fatto: bensì morte ideale, e quindi vita eterna. Essa è presente e incancellabile nella pienezza della vita dello spirito, in cui la potenza del soggetto, o del sentimento che dir si voglia, viene espressa attraverso la mediazione del pensiero (p. 132).
Va ricordato poi che nello stesso 1929, con il saggio su Il concetto delle arti decorative, Gentile si spinge a prospettare anche uno sviluppo forse insospettabile della sua teoria, verso una rivalutazione estetica dell’artigianato e del prodotto industriale. Lo fa rivendicando – al di là di ogni coloritura ideologica e della retorica nazionalista indubbiamente presente nel testo – il superamento della condanna dell’oggetto quotidiano alla banalità estetica e la rivalutazione del prodotto artigianale di qualità: anche questo un modo per ribadire la coappartenenza di arte e vita (Frammenti di estetica e di teoria della storia I, cit., pp. 143-58; cfr. Negri 1994, p. 141).
Nel licenziare la seconda edizione della Filosofia dell’arte, il filosofo di Castelvetrano ribadì che in quel libro bisognava vedere un’opera «sì di Estetica, ma segnatamente di Filosofia» (La filosofia dell’arte, cit., p. viii). Essa era stata concepita in un corso di lezioni tenute all’Università di Roma nel 1927-28; venne pubblicata per la prima volta nel 1931, ristampata nel 1937, e uscì in una seconda edizione riveduta nel 1943 (al 1934 risale invece La filosofia dell’arte in compendio, pubblicata a uso degli studenti delle scuole). La precisazione dell’autore sembra voler sottolineare come non ne vada, con il suo studio, di un mero corollario al sistema ormai compiuto dell’idealismo attuale, bensì di una sua coerente ripresa e messa alla prova – un’operazione in cui il pensiero gentiliano, come si è anticipato, avrebbe subito qualche significativo mutamento d’aspetto. Certamente l’opera risulta oltremodo appesantita dalla costante e inesausta polemica contro Croce e contro quei «rispettabili critici della terza pagina» che della debolezza di impianto speculativo propria dell’estetica crociana sarebbero stati, secondo Gentile, i prodotti inevitabili, ancorché magari non riconosciuti. Eccessi polemici, questi, che a Croce apparivano semplicemente come una «manifestazione di stupidità rettorica» da un pulpito che – come recita la prevedibile e speculare replica crociana – di estetica, e soprattutto di arte, in concreto «non se ne intende e non sa nulla»; quando non addirittura «intenzione di arrivista senza coscienza, che del resto trova riscontro in tutte le altre parti che si arroga nel campo della cultura» (Croce a Luigi Russo, 31 genn. 1943, cit. in G. Turi, Giovanni Gentile. Una biografia, 20062, p. 442). Al di là tuttavia degli strascichi di questa polemica, è importante comprendere come l’impostazione data da Gentile alla propria Filosofia dell’arte si radichi in una più ampia problematizzazione filosofica dell’esperienza in generale, secondo cui – come si diceva – qualunque attività umana muove da quella che si potrebbe chiamare una dimensione estetica.
La Filosofia dell’arte termina con una breve “Conclusione” (pp. 301-21) che contiene uno schizzo di storia dell’estetica, da Platone all’attualismo. Proprio da qui conviene prendere le mosse per presentare, sia pure in modo sommario, il contenuto generale del lavoro e il senso stesso della rivendicata distanza da Croce. Gentile distingue dunque l’estetica empirica dall’estetica filosofica. La prima, da sola, è incapace di pervenire a una comprensione concettuale dell’arte; donde la necessità di «un’altra estetica» che sia in grado, speculativamente, di collocare l’arte stessa nella totalità dell’esperienza spirituale. Ma proprio l’impossibilità di scindere il momento artistico dal resto della vita e dell’attività dello spirito comporta una «dilatazione illimitata del ruolo dell’estetico», provocando tuttavia il paradosso di una filosofia dell’arte che propriamente non è tale, essendo piuttosto appunto un’estetica incentrata sul valore onnipervasivo del principio del sentire (D’Angelo 20072, p. 94). D’altronde proprio per questo – in parte contravvenendo alla sua stessa rivalutazione del sentimento – Gentile poteva scrivere che, in quella componente decisiva che è stato il pensiero kantiano nella gestazione e nella nascita dell’estetica moderna, «l’Estetica trascendentale vale assai più della Critica del giudizio» (La filosofia dell’arte, cit., p. 314).
L’insufficienza di principio di un approccio critico-empirico alla trattazione estetica è argomentata ampiamente nell’introduzione alla Filosofia dell’arte. Del resto, come è stato osservato, l’estetica filosofica sta all’estetica empirica nello stesso rapporto di negazione e superamento in cui la dialettica sta alla logica meramente formale (Negri 1994, p. 67). Pertanto, scrivere che il punto di appoggio del pensiero è l’esistente – come fa Gentile nella prima parte dell’opera – non significa affatto che l’estetica debba ridursi a esegesi teorica o storico-critica di singoli fenomeni artistici (opere, stili, prodotti ecc.); significa anzi affrontare il problema filosoficamente radicale di «ciò che vi è di più intimo [sic] all’uomo, […] da cui è meno dato di astrarre» (La filosofia dell’arte, cit., p. 6). E anche l’affermazione che «non c’è uomo destituito di ogni attitudine artistica» non va ridotta a generica e improbabile universalizzazione del talento creativo proprio dell’artista, ma va intesa quale modo per ribadire la centralità del sentimento come «vita che […] sgorga dentro […] onde tutto si anima e parla e s’innalza in un mondo superiore a quello delle cose materiali e finite» (p. 7). Così, come Georg Wilhelm Friedrich Hegel nell’introduzione delle sue lezioni di estetica attribuiva già al primo istinto infantile l’impulso a una «trasformazione pratica delle cose esterne», per cui, per es., «il fanciullo lancia delle pietre nel fiume ed ammira i cerchi che si disegnano nell’acqua come opera in cui acquista l’intuizione di ciò che è suo» (G.W.F. Hegel, Ästhetik, 1835-1838; trad. it. Estetica, a cura di N. Merker, 19973, p. 40), con toni non troppo distanti Gentile può scrivere in apertura della Filosofia dell’arte:
Si reggerà appena il fanciullino sulle tenere gambe, ed ecco che della nuova autonomia conquistata si gioverà per muoversi intorno a raccogliere pagliuzze e pezzetti di carta e steccolini e pietruzze per cominciare a provare la propria genialità costruttiva, e poi impadronirsi di lapis o carboni per disegnare le sue figure, che a grado a grado si vengono conformando a quella vaga idea che gli brilla da lungi nell’animo (p. 8).
Su questa base si può cogliere il senso più autentico del problema dell’arte, che va ricercato nell’attività di una vita immanente allo spirito e orientata al perfezionamento morale. Il termine problema va qui inteso in senso etimologico: «Problema è ogni ostacolo che il pensiero deve superare per procedere oltre in quello svolgimento in cui è la sua vita, anzi il suo stesso essere» (p. 13). Con parole che – al di là di ogni effettiva filiazione storica – ricordano ancora una volta la fichtiana dottrina della scienza, nel contesto della Filosofia dell’arte l’«ostacolo» corrisponde così alla questione di una filosofia della libertà, e dunque dell’affermazione dell’infinita attività dello spirito: superarne il «problema» significa lavorare per «la riduzione dell’oggetto al concetto», fino a pervenire all’«autoconcetto» (pp. 16-17). Ecco perché la ricerca dell’essenza dell’arte si traduce anzitutto in un’indagine sulla sua origine, più che sulla sua definizione empirica raccolta rapsodicamente; indagine che investe del pari il fatto naturale (in quanto la natura è il «passato dello spirito») e il fatto storico. Se si prescinde da ciò, ogni estetica empiristica è destinata a rivelare il suo fondamento dogmatico. Gentile ritiene così di ribaltare l’accusa di Croce, che aveva rimproverato all’attualismo una tendenza teologizzante, con due considerazioni: a) la sintesi di trascendenza e immanenza, nell’idealismo attuale, non può che ritrovarsi nell’immanenza stessa; b) solo un’impostazione di questo tipo può render conto di quella fantomatica intuizione, su cui si basa – ma in via postulatoria – l’estetica crociana. Ragion per cui, l’intera impresa di Croce si conferma una filosofia «delle quattro parole rimaste come una semplice cornice esterna» (pp. 37, 319). Gentile vuole invece liberare la propria trattazione dal pregiudizio di una vita dello spirito in cui si distinguano piani o caselle diverse: il pensiero è unità dialettica come quell’atto pensante la cui soppressione sarebbe autocontraddittoria, in quanto a sua volta inconcepibile se non nei termini di un ulteriore atto del pensare. «Quest’Io – scrive Gentile – inteso come va inteso, ha le spalle più poderose di Atlante» (p. 51). Comprenderne la precedenza ontologica e l’infinita attività significa a un tempo capire l’essenza della libertà, che non consiste in altro, appunto, se non in questo eterno negarsi e superarsi dello spirito. Alla sua unità sintetica è sotteso un movimento grazie al quale esso mette capo a tutte le sue realizzazioni, in un processo infinito di cui Gentile ribadisce ancora una volta i tre momenti costitutivi: «Primo, coscienza di sé. Secondo, coscienza di qualche cosa. Terzo, coscienza di sé che è coscienza di qualche cosa. Si può anche dire: soggetto, oggetto, unità di soggetto e oggetto» (p. 70).
Si tratta ora di vedere più da vicino in che modo l’arte possa trovare nel pensiero stesso che la dialettizza e la supera – e solo qui – la propria attualità; e in che modo il principio dell’arte sia, se mai davvero lo è, distinguibile appunto dal pensare: come parlare cioè propriamente di attualità dell’arte, se quest’ultima non può prescindere dal pensiero che la nega? E com’è possibile che l’arte, in questa condizione instabile, possa costituire una produzione effettiva di realtà?
La risposta a queste domande va cercata, secondo Gentile, ancora nel sentimento, inteso come forma germinale e incoativa dell’attività dello spirito:
Questa soggettività, immediata e pure dialettica […] in cui l’arte consiste, se si vuol chiamare con un nome del comune vocabolario, non può dirsi se non sentimento, non nella sua volgare accezione psicologica […] ma in un senso rigorosamente gnoseologico, filosofico (p. 144).
Integrando in qualche modo, ancora una volta, l’Io trascendentale della Critica della ragion pura con la funzione riservata dallo stesso Immanuel Kant al sentimento di «piacere e dispiacere» (Lust und Unlust) nella Kritik der Urteilskraft, Gentile può così scrivere:
Questo piacere che non è uno stato, ma il principio stesso vivente della vita dello spirito, e cioè di tutto; questo potente essere, che non è se non relativamente immediato e naturale ma assolutamente dialettico e dinamico, cioè autonomo e libero e attivo, questo è il sentimento, centro produttivo universale (p. 161).
E con un’affermazione che in parte richiama – sia pure in modo tacito, e con gli ovvi e dovuti distinguo – l’argomentazione elaborata da Aristotele circa il «primo percettore» (cfr., per es., De anima, 425 b e segg.), egli può aggiungere perfino che il sentimento è «condizione dello stesso pensiero trascendentale» (p. 161).
Ancor prima di intraprendere questa direzione, Gentile si sofferma però a esaminare quale sia l’atteggiamento filosoficamente corretto da assumersi al cospetto dell’arte considerata nella sua concreta esistenza effettiva, fatta di opere, vestigia storiche eccetera. Tutte queste cose ci sono pervenute infatti nel contesto di un tramandamento («la tradizione, la fama, i giudizi altrui») che, per quanto indispensabile per orientare l’indagine e il giudizio, non fornisce ancora, di per sé, un concetto sicuro capace di guidare all’autentica comprensione dell’opera e della sua bellezza. Allo stesso modo, spiega il filosofo con un esempio, sarebbe vano ricercare il senso unitario di una vita negli sparsi dettagli di una biografia; così come sarebbe inappropriato pensare che per intendere una lingua viva, colta nell’atto di esprimersi, sia sufficiente limitarsi alla conoscenza di regole astratte e del significato di singole parole contenute nel vocabolario. Una tale «analisi senza sintesi» sarebbe anzi la «morte dello spirito». Per contro, si pensi piuttosto a quanto avviene nel processo della lettura di un testo: mentre si legge, la distanza iniziale viene meno; «il passato si fa presente», per cui, per es., «la vita di una poesia o di qualsiasi prodotto artistico rivive in chi entra in rapporto con essa». Ed è questo l’unico modo per farne autentica esperienza; tant’è vero che, lungi dal sopprimere l’oggettività dell’interpretare – accessibile per definizione soltanto dall’interno dell’attività spirituale – questo processo di attualizzazione ne garantisce semmai la stessa possibilità, fondandola entro l’immanenza dello spirito (pp. 79, 85, 88-89).
A questo punto, riprendendo un’istanza già avanzata nella prolusione pisana (L’esperienza pura e la realtà storica, 1914), in cui la differenza fra storia e arte (questa volta in richiamo esplicito ad Aristotele) era considerata «analoga a quella tra l’esperienza della veglia e l’esperienza del sogno» (La riforma della dialettica hegeliana, cit., p. 257), Gentile avanza un ardito paragone (La filosofia dell’arte, cit., pp. 92-95). Posto che il sogno trae dalla veglia i propri contenuti per riplasmarli e trasfigurarli, realtà onirica e veglia sono distinguibili – come aveva osservato Descartes (Meditationes, I) – solo per la possibilità, che abbiamo quando siamo desti, di giudicare e ordinare cronologicamente gli eventi in un quadro unitario. Ebbene, qualcosa di simile accade anche nel caso dell’arte: «come il sogno non è sogno finché si dorma», cioè
senza una forma superiore di esperienza, che lo contenga e perciò lo giudichi superandolo, non è sogno; così d’arte non si può parlare se non si assume a contenuto di un giudizio che non è più arte. Questa tela che è l’arte non si può vedere se non fermata in una cornice; e l’arte è nella tela, non è nella cornice (pp. 103-04).
E ancora:
Essa, come il sogno, non è nel pensiero che l’afferma e può affermarla, nella riflessione che vi si esercita su, nella critica che mira ad apprenderla e rendersene conto, nella storia che si sforza d’individuarla, nella filosofia che la definisce. In queste o simili forme del pensiero l’arte non c’è più, come non sogna più chi vi sta raccontando il suo sogno. E allora? Quando c’è, non è arte; e quando si potrebbe dire: – Eccola lì, l’arte! – essa non c’è più (p. 104).
Dunque l’alternativa si profila in tutta la sua radicalità: «O arte o filosofia dell’arte; o sognare o vegliare». Affermazione, questa, che solo in apparenza sembrerebbe rievocare un frammento di Friedrich Schlegel reso celebre da Theodor W. Adorno («A ciò che si chiama filosofia dell’arte manca di solito una delle due; o la filosofia o l’arte», F. Schlegel, Frammenti critici e poetici, a cura di M. Cometa, 1998, p. 6; cfr. Th.W. Adorno, Ästhetische Theorie, 1970, trad. it. Teoria estetica, a cura di E. De Angelis, 1975, p. 2): poiché l’intenzione di Gentile è anzi affermare che solo ed esclusivamente nella filosofia l’arte può compiersi davvero, nella continuità dei momenti dello spirito.
Su questa base Gentile può allora anche suggerire che l’opposizione «classico»/«romantico» (ovvero: regola e riflessione vs. sentimento e spontaneità inconsapevole), più che individuare epoche e stili, costituisce una polarità di atteggiamenti all’opera in varia proporzione in qualunque produzione storica concreta (La filosofia dell’arte, cit., p. 107), i quali ripropongono in certo modo la medesima relazione che sussiste fra critica e arte: a quest’ultima mancando quella consapevolezza che solo la prima può darle, e che tuttavia proprio per questo rinuncia a essere arte essa stessa.
Bisognerà allora affermare che l’arte pura semplicemente non esiste? No: piuttosto che essa, in quanto pura arte, è inattuale, e dunque che l’arte è inafferrabile nella sua purezza; mentre sono decisamente fuorvianti, secondo Gentile, le concezioni che pensano di poter distinguere fra poesia e prosa in base alla differenza dell’oggetto trattato, oppure che irrigidiscono la distinzione tra immaginazione e intelletto, fantastico e logico. Anche nella voce Poesia redatta nel 1935 per l’Enciclopedia Italiana Gentile avrebbe nuovamente respinto ogni distinzione arbitraria fra poesia e prosa: lirico può infatti essere, nella prospettiva aperta dalla Filosofia dell’arte, ogni discorso (p. 117; cfr. Negri 1994, p. 147).
Tutte queste considerazioni non sono però ancora sufficienti per definire in una prospettiva dialettica – e dunque volta, per così dire, di principio al superamento dell’immediatezza intuitiva – la posizione dell’arte nella vita dello spirito. Gentile stesso afferma del resto che «la dialettica dell’arte non è la dialettica del pensiero»; intendendo dire con questo anzitutto che è proprio lo statuto apparentemente instabile dell’arte ciò che non le consente di permanere nella forma della sua inattualità – cosa che la destituirebbe di ogni consistenza – spingendola a negarsi come forma puramente soggettiva:
La dialetticità della forma artistica non importa una dialettica che si svolga e si compia nell’interno della stessa forma; ma una dialettica che non lascia sussistere tale forma nella sua inattualità ideale, ma la trae con la sua immanente energia ad uscire da sé, a negarsi […]. Questa interna inquietudine, questa vita intima alla stessa forma dell’arte […] è una dialettica che contiene l’arte e non vi è contenuta (La filosofia dell’arte, cit., pp. 133, 137-38).
La dialettica dell’arte non coincide dunque ancora con la dialettica del pensiero, la quale è volta alla realizzazione dell’autocoscienza; e tuttavia, già nella forma artistica, l’immediatezza non esclude affatto la mediazione – ovvero non è un’immediatezza astratta – bensì fa tutt’uno con la dialettica e la libertà dello spirito. Allo stesso modo, il sentimento prende senza dubbio le mosse da un’istanza egoistica di affermazione di sé e del proprio piacere anche a scapito dell’alterità; salvo poi – come Gentile mostra nelle pagine che dedica all’analisi dell’amore (la quale ricorda indirettamente qualche aspetto della dialettica del perdono esposta da Hegel al termine del cap. 6 della Phänomenologie des Geistes) – riconoscere davvero tale alterità contrapposta e amarla in virtù della propria unità profonda con essa. D’altronde, il fatto che «l’arte […] vive della stessa vita del tutto cui appartiene» si può constatare già nell’attività del poeta, il quale – come scrive Gentile – «ispirato che sia, si vigila, e ha sempre gli occhi aperti su quel che prova e sulle parole che la sua lingua si muove a pronunziare», e in qualche misura così «si nega come puro essere naturale» (pp. 140-41).
Quanto esposto spiega ulteriormente in che senso, per Gentile, un’estetica non abbia a che fare – secondo un’angusta prospettiva disciplinare o critica – con il fenomeno dell’arte inteso nella sua autonomia, qualunque cosa ciò possa significare, ma riguardi alla radice dell’attività spirituale tanto il conoscere quanto l’agire, e sia in generale insofferente nei confronti di ogni classificazione astratta dei prodotti dello spirito.
La verità è che l’uomo non fa altro che pensare; e tutta la sua vita è pensiero. Pensa, sia che questo pensiero prenda corpo in parole, in note musicali, in linee e figure e colori e pietre e marmi, sia che incida nel sistema della natura e dei rapporti tra gli uomini con le sue azioni. Ogni forma di pensiero è creazione di una nuova realtà, perché è creazione di una personalità […]. Se noi andiamo a cercare il pensiero nelle forme in cui esso si viene realizzando, uno Stato, una vittoria, un trattato di pace o di alleanza, un istituto, una parola, un poema, un sistema, un quadro, una statua, un edificio, noi vi troveremo sempre un uomo che pensa (La filosofia dell’arte, cit., pp. 186-87).
Così scrive Gentile con toni che ricordano da vicino qualche pagina del saggio heideggeriano, di pochi anni successivo (1936), su Der Ursprung des Kunstwerkes (cfr. M. Heidegger, Holzwege, 1950; trad. it. Sentieri interrotti, a cura di P. Chiodi, 1968, pp. 46-47), e che in parte almeno ritorneranno, per es., anche nel cap. 13 di Genesi e struttura della società. Saggio di filosofia pratica (opera scritta nel 1943, ma pubblicata postuma nel 1946). Il processo dell’arte esemplifica infatti, in qualche modo, l’intero processo formativo dell’essere sociale, lasciandolo sperimentare ex novo a ciascuno dei suoi membri (cfr. pp. 154-55). Attribuendo un senso tanto ampio e deflattivo alla nozione di arte, Gentile può allora non solo ribadire che ogni uomo è di per sé artista per il fatto stesso di avere un’anima, ma anche concludere che «l’arte è tutto lo spirito sotto l’aspetto dell’arte; e la storia dell’arte è tutta la storia di tutto lo spirito, considerato sotto l’aspetto dell’arte» (La filosofia dell’arte, cit., p. 189). Questo ancora una volta perché «la porta dello spirito» è costituita dal sentimento, come avevano intuito tanto Vico quanto Johann Gottfried von Herder, i quali seppero vedere rispettivamente nella fantasia e nell’arte la forma di vita spirituale dell’infanzia non solo di ogni individuo, ma dell’intera umanità: ovvero «il punto di partenza dello spirito» (p. 193).
Contestare la radice della distinzione fra teoria e pratica significa così, sulla base delle ultime considerazioni, anche ribadire il portato etico e il valore morale dell’arte, cosa che Gentile fa nella seconda parte della Filosofia dell’arte, e in particolare nel cap. 5: in primo luogo perché, su queste premesse, ogni azione è in qualche modo opera dell’arte (pur non essendo soltanto questo). «Per questa sua immanente eticità, l’arte è stata sempre la grande educatrice del genere umano», e fallimento estetico significa in qualche modo anche falsità morale, il che avviene proprio quando l’arte abdica alla dimensione della totalità spirituale. In questo quadro vanno collocate poi anche le considerazioni svolte da Gentile non solo, in generale, sulla capacità che l’arte possiede di «affratellare i cuori», ma anche sull’importanza che essa riveste nella nascita e nella definizione del carattere nazionale: allo stesso modo della lingua, l’arte è infatti una «forma storica dell’universalità del soggetto», e il suo contributo è imprescindibile nella «formazione della coscienza nazionale» (pp. 280-82).
Sempre nella seconda parte dell’opera del 1931 Gentile si sofferma poi su molti aspetti che svolgono la funzione di corollari alla sua concezione generale: sulla questione del rapporto fra arte e tecnica (ove quest’ultima è considerata, per una volta in parziale accordo con Croce, come «antecedente» della prima, in quanto l’artista per essere tale deve saperla padroneggiare con sicurezza, ancorché il possesso di essa non basti alla sua creatività); sul tema della molteplicità delle forme e delle tecniche artistiche (che sono di numero potenzialmente infinito, proprio come le opere d’arte); sul problema, ancora, dei generi letterari, per i quali vale una considerazione analoga. Del resto, come è stato notato, «dal momento in cui l’atto non è categorizzabile, esso non solo dissolve le categorie presupposte, ma consente un proliferare illimitato di categorie» (S. Natoli, Giovanni Gentile filosofo europeo, 1989, p. 110). Dire dunque, come fa Gentile, che la lirica rappresenta la «forma più primitiva e fondamentale del sentimento» non significa affatto dedurre o articolare su questa base un sistema di generi poetici, ma anzi affermare che, se pure tutta quanta l’arte è fondamentalmente lirica, non per questo essa – segnatamente, un’opera poetica – non può essere in varia misura anche epica, oppure drammatica. Il filosofo intende affermare con ciò che generi e regole non sono altro che formazioni storiche di valore condizionato:
Nulla, dunque, di peculiarmente illegittimo nella teoria dei generi letterari. È un teorizzamento di esperienze storiche, generatore di categorie alle quali non può rinunziare, neanche volendo, il pensiero che di tali esperienze non si può spogliare, e delle quali il pensiero farà buon uso sempre che a siffatte categorie conservi l’elasticità essenziale a concetti che nella storia si vengono via via modificando insieme con tutto il sistema di pensiero di cui fanno parte (La filosofia dell’arte, cit., p. 223).
Nei capitoli della seconda parte Gentile ritorna inoltre su una serie di categorie e di questioni classiche per la teoria estetica (fra cui il genio, il gusto, il bello naturale) collocandone la trattazione nel disegno generale della Filosofia dell’arte; ancorché, come è stato fatto osservare da molti studiosi, con risultati talora a dir poco oscillanti, non di rado ancora causati dall’esasperazione polemica: per es., dopo aver mosso a Croce il rimprovero di aver negato il bello naturale, Gentile è costretto dal proprio assunto attualistico a parlare di una natura sentita «dentro di sé» e diversa dalla «natura del naturalista», la cui definizione tuttavia risulta a questo punto assai problematica (cfr. D’Angelo 20072, p. 95).
Una certa originalità in questo contesto – anche per la sorprendente prossimità con certe istanze dell’ermeneutica novecentesca, in particolare la teoria gadameriana della valenza ontologica del Nachbild e dell’accrescimento che la copia garantisce all’originale (cfr. H.G. Gadamer, Wahrheit und Methode, 1960; trad. it. Verità e metodo, a cura di G. Vattimo, 19832, pp. 168-79) – va invece riconosciuta alle considerazioni gentiliane circa il significato del tradurre, le quali sembrano radicalizzare e in qualche misura prendere posizione su un’aporia presente già nel’estetica hegeliana (cfr. P. Szondi, Hegels Lehre von der Dichtung, 1974; trad. it. La poetica di Hegel, 2007, pp. 110-15). Proprio come Hegel, Gentile riconosce infatti che «tradurre» un’opera d’arte (e più in generale un’opera dello spirito) è in qualche modo materialmente impossibile, «perché le parole sono parole del sentimento», e voler passare da una lingua a un’altra equivarrebbe alla pretesa di «sostituire un sentimento a un altro sentimento». Più ancora: addirittura «ognuno di noi ha bisogno di tradurre a se stesso quel che scrisse ieri» (La filosofia dell’arte, cit., p. 241). Eppure, se l’intera attività comunicativa dello spirito consiste in qualche modo in un interpretare e in un tradurre, ecco il ribaltamento dialettico per cui Gentile può dire che nella traduzione l’opera, lungi dal perdere semplicemente di originalità, in certa misura ne guadagna: «anziché perdere se stessa, acquista se stessa» (p. 243). La poesia vive anzi essenzialmente di questa «seconda vita», la fruizione, che sola dà senso alla prima, la creazione (p. 88): un tema su cui Gentile sarebbe ritornato a più riprese, per es., ancora nel saggio L’arte come sentimento del 1939 (cfr. Pedagogia generale, cit., pp. 193-208), nel quale il tema della morte dell’arte è declinato non tanto sul piano della sua trascendentalità, quanto su quello della sospensione da cui la vita dell’arte attende di essere rianimata tutte le volte che il processo creativo degenera in scolastica e l’opera si riduce a mero oggetto di esame e studio critico (cfr. Iannelli 2015).
Inoltre, con un esplicito richiamo alla dottrina aristotelica della catarsi, Gentile si sofferma nel cap. 3 sulla funzione liberatrice dell’arte. Coerentemente con la negazione di un valore assoluto ai generi letterari, la catarsi non viene da lui riconosciuta quale peculiarità della sola poesia tragica, bensì come una funzione propria dell’arte e del sentimento in generale: essa garantisce, infatti, quella «riconquista della pura soggettività» che è la dialettica dell’opera d’arte nella vita dello spirito. La catarsi
è sì piacere; ma piacere che si nega nel pensiero onde si rappresenta; e cioè dolore; e non si riconquista e non si possiede veramente se non pel ritorno del soggetto a se stesso nella circolarità del suo ritmico processo (La filosofia dell’arte, cit., pp. 253-54).
In questa dinamica consiste allora il valore consolatorio dell’arte (e più in generale di tutta l’attività spirituale, religione compresa, giusta la radicalità che in essa spetta al principio estetico) rispetto alla durezza e ai conflitti della vita reale.
L’enfasi che Gentile conferisce al momento estetico sembra affondare le proprie radici nella lettura della filosofia hegeliana; salvo poi – se l’arte viene intesa come il «perpetuo prima» presente in quanto tale in ogni operare dell’uomo (Mazzantini 1995, p. 155) – trasformare la (presunta) «morte» di essa in
inattualità […] propria non dell’arte di oggi piuttosto che di ieri, bensì dell’arte di sempre in ogni momento della storia, […] perché la morte dell’arte consiste, in realtà, nel passaggio dialettico attraverso il quale l’atto dello spirito eternamente si fa (Mathieu 1992, p. 354).
Il tema dell’inattualità dell’arte va comunque collocato, sia detto ancora una volta, nel quadro della polemica con Croce e con la sua idea di una morte «storica» dell’arte; concezione inficiata, secondo Gentile, da un’irrimediabile astrattezza logica. È pur vero che non mancano, anche nella filosofia gentiliana dell’arte, apparenti oscillazioni tra una dimensione per così dire assoluta della dialettica dello spirito e la temporalità concreta della realtà storica; ma non si può negare alla sua argomentazione una lineare coerenza, quando essa afferma infine dell’arte che «l’oggetto in cui muore è vivo, a sua volta, in quanto il soggetto lo nega ed uccide, rendendogli la pariglia: lo uccide nella sua pura oggettività» (La filosofia dell’arte, cit., p. 298); e che pure in ciò l’inquietudine dello spirito trova riposo, «tornando a riattinger lena e vigore alle fresche sorgenti del sentimento e della giovinezza» (p. 300). Si è così potuto scorgere nella Filosofia dell’arte addirittura «lo sviluppo più coerente e più stretto che sia stato mai dato al tema hegeliano della morte dell’arte» (Formaggio 1983, p. 102).
L’intera questione tuttavia, più che nell’alveo dell’esegesi di Hegel, va riconosciuta come uno sviluppo interpretativo affatto autonomo e originale: l’estetica attualistica pare infatti inassimilabile in via di principio a quella hegeliana, nella misura in cui la riconciliazione fra Wirkungsästhetik e Realästhetik ostinatamente perseguita da Gentile con la sua teoria del sentimento sembra strettamente legata a quella riforma della dialettica che deve a Bertrando Spaventa una concezione dello spirito inteso anzitutto come «attualità mentale» (cfr. E. Garin, introduzione a G. Gentile, Opere filosofiche, a cura di E. Garin, 1991, p. 48). Del resto, come è stato osservato,
per Hegel il movimento dialettico passa […] da una determinazione oggettiva a un’altra […]. Per Gentile
dialettica è la necessità che il soggetto assoluto si faccia passando attraverso una qualche determinazione oggettiva e togliendo questa sua negazione. Il legame dialettico, quindi, lega la determinazione oggettiva al soggetto e non a un’altra determinazione oggettiva; e l’astrazione dell’oggetto è tolta, […] risolvendolo nel soggetto (Mathieu 1992, p. 354).
Tale impostazione generale, come si è visto, coinvolge in primo luogo il ruolo dell’estetica, e alla lunga avrebbe avuto le sue conseguenze anche sull’attività critico-letteraria dello stesso Gentile: non di rado se ne è lamentato l’andamento oscillante e comunque, quasi per paradosso, non sempre in grado di cogliere davvero dall’interno la reale poeticità dei suoi oggetti (cfr., per es., Stella 1995, pp. 194-95), anche quando – come nel caso dell’interesse di Gentile per l’opera di Giacomo Leopardi – la predilezione per una poesia si radica nel riconoscimento del suo valore dialetticamente esemplare e ultrafilosofico; nella sua capacità cioè di esibire l’«opporsi dello spirito a quella realtà che le è di fronte, naturale, materiale, necessaria, impervia a qualsiasi idealità» (A. Del Noce, Giovanni Gentile. Per una interpretazione filosofica della storia contemporanea, 1990, p. 133).
Al di là di queste considerazioni è comunque soprattutto nel rifiuto di un’estetica meramente ancillare alla critica militante – e insieme nell’ostinato desiderio di riconoscere valore di artisticità a prodotti e forme altrimenti negletti da qualunque poetica e critica d’arte di impianto dogmatico e normativo – che sembra consistere una delle eredità più vive e coerenti della filosofia di Gentile. E se la Filosofia dell’arte può rappresentare agli occhi di molti il momento meno sistematico del suo pensiero, proprio questa circostanza potrebbe oggi costituire, a pieno titolo, un ulteriore invito a non trascurarne una certa permanente attualità.
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