La filosofia italiana e il concetto dell’uomo nel Rinascimento
A partire dal 1902 Giovanni Gentile, su proposta della casa editrice Vallardi, iniziò a scrivere una storia della filosofia italiana nell’ambito di una collana dedicata alla Storia dei generi letterari italiani. Con il titolo La filosofia il progetto proseguì, a fase alterne, fino al 1915, ma si interromperà prima ancora di fornire una ricostruzione d’insieme del Rinascimento.
I vari fascicoli di La filosofia verranno pubblicati nel 1962, con il titolo Storia della filosofia italiana (fino a Lorenzo Valla), come undicesimo volume delle Opere complete di Gentile. Saranno riediti nuovamente nel 1969 ad apertura del lavoro curato da Eugenio Garin, che riunisce in due imponenti tomi l’intera attività storiografica di Gentile sulla filosofia italiana. Si tratta di testi scritti quasi interamente tra la fine del secolo e il 1915, spesso intrecciati al lavoro di edizione e di recensione svolto su «La Critica». La raccolta gariniana non sostituisce l’opera che Gentile aveva in animo di compiere, ma consente comunque di cogliere il quadro d’insieme, che ne avrebbe presumibilmente orientato la direzione e gli accenti.
Con la pubblicazione vallardiana, Gentile si confrontava con la possibilità di tracciare il percorso organico di quella ricostruzione del pensiero italiano verso cui aveva già rivolto la sua attenzione negli anni precedenti, sul solco di Donato Jaja – e in ultima analisi di Bertrando Spaventa – e nella collaborazione con Benedetto Croce. Il suo proposito iniziale era di chiudere, con quest’opera, il proprio lavoro storiografico mettendo a frutto gli studi accumulati, in cui aveva fuso le nuove prospettive speculative che andava maturando e le acquisizioni storiche degli ultimi decenni dell’Ottocento. Il libro aveva dunque non solo l’ambizione di fare alta divulgazione, ma anche quella di offrire un filo unitario e teoreticamente saldo per l’interpretazione della tradizione italiana. Attraverso il disegno della storia della filosofia nazionale, inoltre, si proponeva di mostrare, in atto, la programmatica identità di filosofia e storia della filosofia.
Spaventa è uno degli interlocutori decisivi di questa fase, e lo aiuta a definire sia un gruppo di problemi sia un’opzione teoretica – l’hegelismo e lo sviluppo della storia della libertà dello spirito – entro cui affrontarli. Gentile si riallaccia alla trama spaventiana della ‘circolazione del pensiero italiano col pensiero europeo’ – di cui condivide, al fondo, il problema della formazione di una coscienza nazionale – proponendosi di verificarne le premesse e colmarne le lacune. Se Spaventa aveva principalmente guardato alla filosofia nazionale come specchio della filosofia moderna – dipingendo così una storia dei ‘precorrimenti’ italiani nel pensiero europeo –, Gentile conserva invece una maggiore fiducia nella possibilità di cogliere il percorso del pensiero all’interno della cornice nazionale. La storia della filosofia nazionale è allora possibile, metodologicamente, se è capace di assorbire elementi, apparentemente estrinseci, della storia della cultura, quando questa cultura abbia assunto una «fisionomia speciale» nella storia della singola nazione, e si sia fatta moto spirituale (G. Gentile, I problemi della Scolastica e il pensiero italiano, 3a ed. riveduta, 1963, p. 7); ma oltre che possibile, è anche necessaria, nel suo legame con la storia, se si vuole evitare di pensare la filosofia come una successione di idee astratte, incapace di nuova linfa speculativa, perché difettosa della coscienza di sé.
La maggiore propensione del filosofo siciliano all’analisi storica gli consente di integrare le vedute d’insieme di Spaventa con una ricostruzione più dettagliata dei testi e degli autori. In effetti, se Spaventa avanzava sospinto da robuste intuizioni speculative («belle infedeli», ne dice Eugenio Garin in Storia della filosofia italiana, 1° vol., 1966, p. 13), propenso talvolta a lasciar parlare il suo credo piuttosto che la pagina interrogata, Gentile – il quale pure condurrà aspre battaglie contro l’erudizione di Felice Tocco – non rinuncia alla raccolta critica dei fatti e alla fedeltà ai testi, che aveva appreso alla scuola di Alessandro D’Ancona e dello stesso Tocco, e che aveva inoltre apprezzato attraverso le pagine di Francesco Fiorentino.
Entrambi i fattori – rilettura del rapporto tra nazionalità e universalità e approfondimento filologico – concorrono a far sì che il tema della «circolazione» venga complicato e sottratto all’automatismo cui cedeva, talvolta, Spaventa. La complicazione ha anzi l’effetto di dissolvere gli snodi europei del «circolo», che compaiono come «precorrimenti» o termini di paragone, ma non ricevono quasi mai studi specifici né viene riservato spazio alle mutue influenze e prestiti, se non per generalizzazioni e lampi, certo talora fecondissimi. Cambia infine – ed è mutazione decisiva – il senso dato alle singole fasi storiche. Una speciale attenzione è dedicata al primo Umanesimo, che in Spaventa rimaneva invece in ombra; risulta pure smussato l’effetto esterno della Controriforma come fattore capace di bloccare lo sviluppo del pensiero, e di esiliarlo per secoli.
Compiute dunque le sue ricerche sulla prima metà dell’Ottocento (Rosmini e Gioberti, 1898), e in procinto di pubblicare quelle che coprono l’intervallo da Antonio Genovesi a Pasquale Galluppi (Dal Genovesi al Galluppi. Ricerche storiche, 1903), Gentile si volge a lavorare sul passaggio tra Medioevo e Rinascimento. La sua interpretazione verte sulla frattura tra i due momenti storici: un’opposizione che insiste sulla distinzione tra un pensiero modellato sulla trascendenza e l’affermazione di una filosofia che, invece, impara a prescinderne. È uno studio ad ampio raggio, attento agli strappi e alle persistenze, che mostra padronanza delle ricerche medievalistiche più recenti, sia italiane sia straniere, e che non rimane confinato nella stesura dei fascicoli editi da Vallardi, ma si riversa nelle contemporanee prese di posizione contro la neoscolastica e il modernismo che costeggiano le sue recensioni su «La Critica» (ora in G. Gentile, Il modernismo e i rapporti fra religione e filosofia, 3a ed. riveduta, 1962): battaglie decisive, senza le quali sfugge la vitalità delle pagine storiche, contro due modi diversi, ma entrambi errati – l’uno astorico, l’altro contraddittorio – di concepire il rapporto tra religione, filosofia e modernità, proprio perché non tengono adeguatamente conto di questa frattura.
Il primo libro, incentrato su La fine della Scolastica (1902) prende le mosse da Federico II di Svevia e la rinascita dell’averroismo, con la significativa sottolineatura del ruolo del sovrano e della sua corte, su cui aveva insistito già Jacob Burckhardt, come culla della poesia e della filosofia italiana. Gentile esplora il clima di fervidi studi e raffinato scetticismo – «che ben si confà agli inizi d’una nuova età filosofica» – dell’ambiente culturale palermitano (Storia della filosofia italiana (fino a Lorenzo Valla), 2a ed. riveduta, a cura di V.A. Bellezza, 1962, p. 4). L’averroismo, che aveva affermato l’eternità del mondo e negato l’immortalità dell’anima, fu la filosofia dei «ribelli» medievali, ma rimase impigliato, attraverso la sua dottrina più specifica, quella dell’intelletto separato, in un fondo di trascendenza platonica (pp. 23-24). Come l’intera cultura scolastica, esso è infatti ancorato alla separazione tra l’io e il mondo, e dunque alla negazione dell’autonomia dell’uomo e della natura.
Gentile individua due aspetti fondamentali necessari perché lieviti una storia dello spirito nazionale: per un verso, l’emergere di una riconoscibile «biblioteca italiana»; per l’altro, la necessaria separazione del dominio della ragione da quello della fede. Quest’ultima operazione, che verrà perfezionata nei secoli successivi, era stata già compiuta da Tommaso d’Aquino il quale, tenendo salda la fede nella verità rivelata e nella sua superiorità, aveva rivendicato fermamente l’attività della ragione, pur entro confini precisi. Alla ragione, infatti, non può essere riconosciuta una funzione positiva di creazione della verità, se si tiene fermo che la verità appartiene a un ordine trascendente e dunque non può dipendere dalla ragione umana; quest’ultima ha però un ruolo importante di confutazione dell’errore e di supporto alla teologia (pp. 47-49). Al giudizio, comunque positivo, sul tomismo, fa da pendant il rifiuto del misticismo di Francesco d’Assisi e del pensiero di Bonaventura da Bagnoregio, perché portatori di una visione che fonde disprezzo del mondo e scetticismo verso la ragione. È una presa di posizione che si cala polemicamente nel dibattito storiografico contemporaneo che invece aveva riscoperto in Francesco, nel suo afflato religioso e nella sua insofferenza verso gli schemi ontologici del pensiero medievale, l’inizio di un movimento spirituale la cui eredità avrebbe investito i secoli successivi.
Lo scarto decisivo viene invece, da Gentile, individuato in Dante Alighieri, sia perché intraprende il distacco dall’«universalità» medievale, negando valore all’invadenza ecclesiastica nel dominio delle scienze umane, sia per aver dato carattere nazionale allo spirito italiano: «Nel suo pensiero la latinità diventa italianità e, conscia del suo assoluto valore storico, si rivendica e si afferma di contro alla Chiesa» (p. 154). Come «ghibellino d’Italia» si affranca dalle pretese ecclesiastiche, lasciando così scorgere uno spirito nuovo, non ancora affermatosi eppure agente. In ogni caso pur «sdrucendo» il tomismo sul piano politico e sul versante dei rapporti tra ragione e rivelazione (p. 184), egli conserva, sulla scorta di Tommaso, una solida idea della trascendenza dell’assoluto, che si coniuga con l’impossibilità della ragione di cogliere autonomamente la verità nel mondo e nel tempo. La fictio dell’ascesa oltremondana è del resto la cornice di un pensiero che considera le «profonde cose» (Paradiso XXIV, 70) attingibili solo con la fede.
Il secondo libro ha come fuoco l’«Umanismo», come Gentile lo appella anche sulla scia del Fiorentino del Risorgimento filosofico del Quattrocento (1885), di cui in queste pagine segue da vicino la struttura (Scazzola 2002, pp. 159-60). La smagliatura politica nell’edificio del pensiero medievale, individuata attraverso l’analisi del De monarchia dantesco, si allarga fino a divenire crepa con il Defensor pacis di Marsilio da Padova: testo rivoluzionario, perché considera lo Stato una creazione della volontà umana, e non un organismo di diretta origine divina. Marsilio, che aveva potuto giovarsi della libertà di pensiero dell’averroismo padovano, applica la dottrina della doppia verità alla riflessione politica, rendendo autonome la fondazione statale e la scienza del governo, e vana ogni idea di dominio temporale della Chiesa (Storia della filosofia italiana, cit., p. 212).
Se lo spirito doveva affermarsi sulle rovine del sistema della filosofia di professione, non sorprende il ruolo che viene attribuito alla filosofia dei «non filosofi». La scossa risolutiva, su un crinale diverso, viene non a caso da Francesco Petrarca. Dante e Petrarca sono uno al di qua, uno al di là della frattura individuata; l’uno che ancora poteva accettare l’edificio scolastico, l’altro che ne è fuori, e la differenza di toni che si sente nelle loro pagine è la differenza di spirito tra due epoche (Il modernismo, cit., pp. 138-39). La polemica di Petrarca contro il mondo scolastico è la rivendicazione dell’antiaccademismo; la ricerca del soliloquio intimo e dell’edificazione interiore sono le epifanie dell’idea dell’uomo come misura del mondo, che apre la strada alla dimensione della soggettività. Da Petrarca inoltre viene mutuato l’Umanesimo come esercizio filologico non sterile, ma impegnato a definire i contorni del pensiero; non retoricamente pagano, bensì volto a superare il misticismo e a diffondere, con la sua scepsi, le basi per la libertà moderna. Un Umanesimo – ripercorso con passione attraverso l’analisi delle sue maggiori personalità – che viene così svincolato da una connotazione negativa. È pur vero che Gentile non si affranca completamente dal giudizio desanctisiano che vede nell’erudito umanista l’emergere dell’eterna figura del «letterato italiano», raffinato ma lontano dall’azione (Storia della filosofia italiana, cit., pp. 276-78), ma a questa immagine non affianca l’accusa, ben radicata nella storiografia, della decadenza, che è dovuta alle istituzioni del passato che permangono, e non al nuovo che si va affermando (p. 278).
L’Umanesimo è allora un movimento ricco di contraddizioni, in cui l’arma della filologia è sì tagliente, ma ancora astratta, cioè lontana dalla vita morale; in cui è aurorale la possibile soluzione del rapporto tra immanenza e trascendenza, avvolto ancora da mille ombre. Esso però «a poco per volta […] spianta dagli animi quel concetto del trascendente, che era stato il fulcro d’ogni filosofia medievale» (pp. 278-79) e si palesa nella sua decisiva importanza, per il suo apporto critico e per il primato del soggetto che vi emerge. Snodo cruciale di questa costruzione è Lorenzo Valla, l’autore in cui l’«umanismo» è «filologia che raggiunge le più alte vette della critica» e la semplice conoscenza si fa «indagatrice e giudicatrice» (pp. 354-55). L’Umanesimo radicale di Valla è iconoclasta verso l’aristotelismo, ribelle a tutto il sapere tradizionale, assertore della propria individualità come fondamento del pensiero, restauratore di un epicureismo di tipo nuovo, ottimista, vitale e sincretico (p. 364). Ripercorrendo il De voluptate, Gentile mostra la messa a fuoco di una natura benigna e razionale, calco dell’impronta dell’artefice e sinceramente cristiana, eppure non trascendente, perché anzi Valla «naturalizza lo stesso trascendente» (p. 380). È una concezione con esiti decisivi nella ricostruzione gentiliana: la possibile unità tra spirito e natura, che fonda l’unità ideale del mondo e consente di superare sia il dualismo delle filosofie della trascendenza sia il meccanicismo, è infatti possibile a patto di avere un giusto intendimento dei due poli del «soggetto» e della «natura», come comincia a emergere nell’Umanesimo. In questa dialettica si inserisce il rilievo cruciale che assumono i problemi dell’immortalità dell’anima e della dignitas hominis, su cui non a caso si chiude la trattazione su Valla, e con esso l’ultimo fascicolo pubblicato di La filosofia. Nell’«eccezione» (Storia della filosofia italiana, cit., p. 384) dell’uomo, ente naturale dotato di anima immortale, vi è la distinzione tra spirito e natura, che apre, nel suo fondamento ultimo, ai problemi filosofici su cui Gentile va contemporaneamente lavorando per il suo sistema: e sarà proprio una scossa teoretica che incrinerà il percorso unitario del lavoro storiografico. Quest’ultimo avanzerà solo attraverso singoli sguardi, che pure saranno contributi fondamentali, destinati a una lunga influenza.
Le analisi sulla dissoluzione della scolastica e sul rilievo della filologia erano però ancora preliminari allo snodo della genesi della «modernità» in relazione al pensiero nazionale – cioè al rapporto tra Umanesimo e Rinascimento, e dunque al percorso che dall’affermarsi del neoplatonismo quattrocentesco di Giovanni Pico della Mirandola e Marsilio Ficino conduce alle vicende di Giordano Bruno e Tommaso Campanella, passaggio obbligato della pubblicistica e della storiografia postunitaria. Tra il 1904 il 1915 Gentile si dedica con fervore al lavoro sul pieno Cinquecento, allestendo edizioni critiche, pubblicando interventi chiarificatori e ritratti di ampio respiro su singole figure (oltre a quello su Bruno nella storia della cultura, pronunciato a Palermo nel 1907, va ricordata la prolusione su Bernardino Telesio a Cosenza del 1911). Ma lo studio sul Rinascimento non giungerà mai alla forma di quel libro che il filosofo pensava di dedicare agli autori che gli avevano scaldato lo spirito «con ricchezza di concreti particolari, e sviluppo di concetti aderenti alla folta e varia moltitudine degli uomini, dei loro sistemi, delle loro passioni e lotte» (G. Gentile, Il pensiero italiano del Rinascimento, 4a ed. accresciuta e riordinata, 1968, p. X).
La Storia della filosofia italiana rimarrà così incompiuta, ma il progetto accompagnerà Gentile fino ai suoi ultimi giorni, anche per insistenze dell’editore. Nel 1940 decise di coinvolgere nell’impresa Eugenio Garin, mantenendo per sé il compito di terminare il solo Quattrocento, ma anche questo proposito non poté aver successo, fino poi al tragico epilogo del 1944. I contributi che il filosofo aveva dedicato al Rinascimento, pubblicati in sedi e anni diversi, verranno radunati in due sillogi: Giordano Bruno e il pensiero del Rinascimento (1920) e Studi sul Rinascimento (1923). La prima raccolta, arricchita e ampliata, viene ripubblicata nel 1940 con il titolo Il pensiero italiano del Rinascimento. Nello stendere la prefazione, Gentile esprimeva il rimpianto per il libro mai scritto e per la frammentarietà degli articoli, che pure possedevano un’indubbia organicità.
L’interruzione della Storia della filosofia italiana e la mancata composizione del libro sul Rinascimento germinano forse anche dalla consapevolezza della difficoltà di ridurre a unità la vitale complessità di un periodo scandagliato da Gentile nelle moltissime sue direzioni, seguito nei suoi processi spesso asistematici e non lineari (Vasoli 1993, p. 288; Sasso 1998, p. 126). Vi contribuisce anche l’intensificarsi dell’attività teoretica, che proprio in questi anni – tra il 1907 e il 1909 – viene a chiarire il circolo tra filosofia, storia della filosofia e storia, producendo i testi canonici del pensiero attualista, raccolti in La riforma della dialettica hegeliana (1913) e nella Teoria generale dello spirito come atto puro (1916). Nel rapportarsi ai saggi storici prodotti in questa fase, si nota in effetti, ben più che in filigrana, il marchio della speculazione filosofica che, in un difficile equilibrio, illumina i passaggi e gli accostamenti fra i testi. Il rapporto tra spirito e mondo esterno, e soprattutto il valore dell’attività creatrice dell’uomo si impongono, ancor più prepotentemente, come chiavi di volta dell’interpretazione storiografica.
L’attività teoretica e l’identificazione tra filosofia, storia della filosofia e storia non oscurano l’impianto filologico della formazione gentiliana. A impedire il rischio che la sua concezione dello spirito neutralizzi la complessità della storia – dissolta nella logica del sistema – e a temperare la poderosa tendenza sistematizzatrice provvedono spesso il gusto e il talento per l’accertamento dei fatti.
È il caso del saggio Il concetto dell’uomo nel Rinascimento, in cui convergono nella forma più efficace le linee caratteristiche del Gentile studioso: la perizia filologica, l’enciclopedica conoscenza e la robusta vena teoretica. Esso è un tassello decisivo nella sua costruzione dell’edificio rinascimentale e un vero e proprio punto di fuga delle visuali da lui adottate per l’intera interpretazione della filosofia italiana. Come aveva già scritto nella prolusione del 1907 alla cattedra di storia della filosofia di Palermo:
L’età moderna è appunto la conquista lenta, graduale del soggettivismo; la lenta graduale immedesimazione dell’essere e del pensiero, della verità e dell’uomo; è la fondazione, celebrata, nei secoli del regnum hominis, l’instaurazione dell’umanismo vero (Il concetto della storia della filosofia, in Id., La riforma della dialettica hegeliana, 19963, p. 114).
L’articolo, pubblicato nel «Giornale storico della letteratura italiana» nel 1916, inizia, concettualmente, laddove era terminata La storia della filosofia italiana, ma con un salto cronologico di oltre un secolo. Mutuando l’iniziale problema da Burckhardt, le linee filosofiche vengono impostate con grande chiarezza sin dalle prime righe:
Il problema filosofico concerne, da una parte, la posizione dell’uomo di fronte a Dio inteso come principio trascendente della realtà; e riceve nel Rinascimento una soluzione naturalistica, poiché si assegna alla vita umana un fine immanente. Ma, dall’altra, riguarda la posizione dell’uomo di fronte alla natura, con la quale egli era dalla filosofia antica mescolato e confuso; e riceve per questo rispetto una soluzione opposta alla prima; una soluzione che rivendica l’autonomia dell’uomo di fronte alla natura inferiore, ricollegandolo alla divinità trascendente […]. E si hanno due diversi e talvolta opposti indirizzi di filosofare; i quali concorrono nella speculazione di Tommaso Campanella, che ben si può considerare come il frutto più maturo del Rinascimento italiano (Il concetto dell’uomo nel Rinascimento, in Il pensiero italiano del Rinascimento, cit., p. 49).
La progressiva riduzione del dualismo tra immanenza e trascendenza, tra spirito e natura, è la chiave interpretativa che investe il giudizio sul rapporto tra primo Umanesimo e Rinascimento maturo, e con esso l’intero sviluppo del pensiero moderno, come testimoniato dagli innumerevoli precorrimenti di tesi di Immanuel Kant, Giambattista Vico, Baruch Spinoza e Herbert Spencer che fanno capolino tra le pagine. Per questo motivo il saggio si sviluppa attraverso un «percorso singolarmente sinuoso» (Vasoli 1993, pp. 302-03), che va da Campanella a Giannozzo Manetti, passando per Pico e Pietro Pomponazzi, Ficino e Bruno, Leon Battista Alberti e Galileo Galilei. La direzione finale è però limpida: l’andamento a spirale della ricostruzione gentiliana è funzionale a mostrare come in Campanella – «il frutto più maturo del Rinascimento» – agiscano, senza contraddizione, i semi dell’Umanesimo; vale a dire come si concili, senza negarlo, il naturalismo del tardo Cinquecento con la supremazia dello spirito propria del neoplatonismo fiorentino. Scavando nell’immagine della natura, al termine del percorso, si ritrova perciò un concetto più profondo di uomo, caratterizzato da un pensiero che è potenza creatrice del mondo stesso.
Il punto di partenza per quest’operazione è dato dalla ricognizione del tema della giustizia immanente alle azioni umane. La perizia filologica di Gentile si dispiega nel ritrovare, nelle diverse forme della produzione campanelliana, il filo di questa acquisizione teorica. La giustizia retributiva è, cioè, in sé sussistente anche laddove non vi siano un’anima immortale e un giudizio universale: per lo Stilese «seco ogni colpa è doglia», e dunque il premio è intrinseco alla virtù così come la punizione segue la colpa (Il concetto dell’uomo nel Rinascimento, cit., p. 51) La giustizia si adempie dunque già in questa vita perché, nel foro della coscienza, serenità e rimorso agiscono come forme della retribuzione. Quantunque non si neghi l’immortalità dell’anima, presentare la tesi secondo cui volontà e coscienza facciano giustizia in sé, ora e qui, ne indebolisce la fondazione, eliminando una delle prove a favore dell’aldilà. Il nesso tra immortalità dell’anima e giustizia trascendente trova una sua possibile radice cinquecentesca nella posizione assunta da Pomponazzi nel De immortalitate animae: una volta messa in questione la dimostrazione dell’immortalità, egli aveva infatti affrontato il nodo della giustizia retributiva, che pareva non poter più essere filosoficamente fondata senza una solida dottrina ultraterrena dell’anima. La soluzione è portare la giustizia sulla Terra: se pure le manifestazioni esteriori delle ricompense e delle punizioni a volte paiono non avere luogo, il vero premio e la vera pena sono intrinseci alle azioni, e possono non accompagnarsi a sanzioni esterne (p. 61).
Il valore immanente della giustizia (e della volontà umana) dischiude, agli occhi di Gentile, un afflato nuovo nel Rinascimento, in apparente contrasto con quelle posizioni umanistiche interamente proiettate verso la trascendenza. Il famoso incipit del primo libro della Theologia platonica di Ficino, secondo cui l’umana felicità può compiersi solo nell’aspirazione a un mondo trascendente, viene non a caso utilizzato come pietra di paragone dell’eversione filosofica di Pomponazzi e Campanella (p. 58). Gentile è però consapevole che la vasta ricognizione ficiniana sull’anima immortale consegna al Cinquecento un concetto di spirito già proiettato verso l’attività creatrice sul mondo e nella storia, che, compreso nelle sue conseguenze, produce una crisi nel modo stesso di intendere il naturalismo.
Secondo Gentile lo squarcio immanentista, che emerge dalla riflessione sulla giustizia, non conduce Campanella verso le aporie del naturalismo classico. Quest’ultimo procede infatti da una scissione tra ordine della natura e ordine del pensiero, il quale può solo contemplare le leggi inesorabili del mondo, che sono però fuori dall’uomo; una volta rifiutato il trascendente, questa filosofia non ha modo di dare conto dell’attività dello spirito, consegnandosi inevitabilmente al meccanicismo (p. 74). È una critica – varrà la pena notarlo – in cui non è difficile cogliere l’eco di dibattiti della stagione antipositivista.
Se però si assume che l’uomo abbia una sua valenza speciale, all’interno della natura, data dal possedere uno spirito, un pensiero, che non registra passivamente la verità esterna, ma ne è creatore, il mondo iuxta propria principia dovrà essere spiegato dando ragione della potenza creatrice dello spirito. La forma nuova del naturalismo di Campanella si svela anche sul piano della teoria della conoscenza: per lo Stilese, infatti, anche il più basso grado gnoseologico, la sensazione, non è passività, ma percezione della passività. Si è liberi allora dal rischio del sensismo, perché questo naturalismo assorbe in sé la stessa attività dello spirito (p. 52).
Lo stesso modo in cui viene argomentata la credenza nell’immortalità mostra la tendenza immanentistica del pensiero di Campanella. L’immortalità è infatti fondata sul riconoscimento della «possanza dell’uomo» (p. 68) e sull’osservazione della sua differenza rispetto al mondo naturale: su quella straordinaria condizione, quindi, che lo vede nascere nudo e poi imporsi alla natura, carpirne i segreti ed elevarsi al pensiero. In particolare, la capacità dell’uomo di pensare e conoscere, giungendo fino a prevedere i moti degli astri, ne suggerisce la radice divina. È un modulo retorico ben noto, che affonda le sue radici in un archetipo sia ciceroniano sia pliniano e che fu ampiamente diffuso tra Quattro e Cinquecento. Lo scopo dell’analisi di Gentile è in ogni caso quello di mostrare come le fonti classiche presenti nelle trattazioni umanistiche sul tema dell’uomo nelle sue diverse declinazioni – fondazione morale dell’aldilà, debolezza della creatura umana, homo faber – vengano mutate di segno, e come dai vecchi mattoni si costruisca un nuovo palazzo. La possibilità divina del conoscere umano, le sue scienze capaci anche di cogliere i segni del cielo, allora, se sono ancora per Dante la prova della grandezza meravigliosa di Dio, svelano a Campanella che l’uomo non è un essere tra gli altri; e se si eleva sulla natura, non è un mero effetto della natura; se si spiega nella natura, ne è distinto attraverso il pensiero (pp. 68-69).
È nel neoplatonismo fiorentino, e più specificamente nella novità antropologica proposta da Pico e Ficino, che va ricercata la concezione dello spirito che consente a Campanella questo passaggio. In particolare attraverso Pico e la sua celebre Oratio de hominis dignitate, il pensiero italiano forgia l’idea di un uomo che non ha una sua natura specifica, ma è «libero creatore di se medesimo» (p. 75); di uno spirito – comune all’uomo e a Dio – che non è contemplatore, ma è, appunto, creatore. Anche Ficino aveva valorizzato il tema della libertà e della creatività dell’uomo, descrivendolo come il solo capace di crearsi una storia, perché aperto alla mutazione e al progresso e sottratto all’immutabilità che caratterizza la natura inferiore (p. 77). L’uomo non si limita infatti a imitare la natura, ma la corregge e la migliora. Nell’elogio della divinità dell’uomo, secondo Gentile, Ficino enuncia il «concetto del conoscere come attività costruttiva del conosciuto» (p. 81) – ovvero lo stesso concetto alla base del vichiano verum et factum convertuntur, snodo ineludibile del pensiero moderno.
Da questo filone sgorgano sia l’antropologia colma di allusioni ermetizzanti presenti nella Circe di Giovan Battista Gelli – che ripropone il tema dell’uomo come magnum miraculum e la sua natura di Proteo – sia le più mature sintesi di Bruno e Cesare Cremonini (1550-1631). In particolare il Nolano – autore tra i prediletti di Gentile – è colui che, con maggior spessore filosofico, rivendica nello Spaccio de la bestia trionfante il valore dell’uomo nel costruirsi il proprio destino e la propria civiltà. È un valore che esalta la creatività e l’autonomia della volontà contro la tirannia della Fortuna, che pure permea l’opera di Niccolò Machiavelli, di Francesco Guicciardini – in forma più pessimista – e di Alberti.
Il naturalismo di Campanella si nutre dunque dello spirito di Pico e Ficino, che ha gettato i suoi semi in Gelli e Bruno, che a loro volta riecheggiano temi abbondantemente diffusi da Cristoforo Landino, Machiavelli e Alberti. Naturalismo e platonismo, impegno filologico e antiaccademismo recano ciascuno, nelle proprie specificità, la visione dell’uomo che fu propria del tempo e che è ben testimoniata dalle pagine del De dignitate et excellentia hominis di Manetti, all’epoca sostanzialmente sconosciuto e valorizzato da Gentile come primo esempio di un modello umanistico di costruzione antropologica. Nel trattato manettiano trova già in nuce quei concetti che ha messo in movimento nelle apparentemente diverse direzioni della filosofia rinascimentale: la scoperta fondamentale che il mondo è fatto per l’uomo, e non per Dio, che non ne ha bisogno; e che inoltre nell’uomo si riflette la divinità del creatore, in particolare nella sua potenza creatrice, virtù caratteristica dell’ingegno umano (Il concetto dell’uomo nel Rinascimento, cit., p. 110). La natura è, in ultima analisi, creata da Dio, ma trova il suo compimento nella mente umana, cui si deve la continua opera plasmatrice sul mondo. La realtà è sottoposta all’umana signoria, al suo controllo spirituale e materiale, dato dalla conoscenza, ma anche da poteri magici e soprannaturali. Una posizione che, secondo Gentile, precorre Francis Bacon; ma, quello rinascimentale, è un regnum hominis ancora spurio. Se per il filosofo inglese, infatti questo dominio è dato dal possesso della conoscenza scientifica, per Manetti e per Campanella
è ancora un regno per grazia di Dio, il quale conferisce all’uomo immediatamente così l’uso delle forze naturali come quello delle soprannaturali. Un regno, in cui si comincia a intravvedere l’iniziativa creatrice e autonoma dell’uomo (p. 112),
ma su cui non è interamente tramontata la garanzia della divinità.
La sua visione, è pur vero, era influenzata dalle istanze speculative dell’attualismo e dal problema genetico dell’autoctisi dello spirito. A un secolo esatto di distanza, non si può fare a meno di scrutare le falle e le forzature di quel disegno, che attribuiva, per es., una stessa immagine dell’uomo a due pensatori solo apparentemente simili come Pico e Bruno. Un disegno che era legato a un’interpretazione del Rinascimento che è da tempo tramontata. Ma neppure si può sottovalutare l’onda lunga che ebbero questi lavori gentiliani nella storiografia italiana, sia nella sua chiave interpretativa di fondo sia nelle singole interpretazioni: un impatto pari solo, sul versante storiografico, alle sue pagine bruniane, che ne sono, del resto, ineludibile complemento.
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