Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
A partire dal suo primo libro, Aurora, e fino agli ultimi scritti, Jacob Böhme tenta di sviluppare e comunicare in sempre nuove forme il contenuto della sua filosofia mistica, al cui centro si trova il problema della relazione tra opposti, tra positivo e negativo. Questo aspetto è rilevante in primo luogo per quanto riguarda la concezione del Divino, considerato sia come divinità immobile, Senza-Fondo, sia come Dio creatore. Tanto nella natura quanto in Dio stesso, Böhme rinviene la presenza di una radice di negatività che è concepita non solo come opposizione ma anche come motore di vita e movimento. Dopo una fase iniziale, in cui la diffusione degli scritti fu ostacolata da accuse di eresia, la filosofia böhmiana è stata riscoperta tra 1700 e 1800: famosi lettori di Böhme sono stati Schelling, Hegel e Coleridge.
Vita e opere
Nato nel 1575 nei pressi di Görlitz, Jacob Böhme scrive il suo primo libro, Aurora, nel 1612, nell’arco di pochi mesi. Come l’autore spiega ripetutamente nella corrispondenza con amici e sostenitori, in Aurora è già presente in nuce tutto il contenuto della sua rivelazione, anche se è espresso in maniera ancora oscura e imprecisa, e nonostante la mancanza della parte finale, che non verrà mai scritta. Il testo comincia a circolare in copie manoscritte, fino ad attirare su di sé l’attenzione dell’autorità giudiziaria di Görlitz l’anno seguente. La copia originale viene confiscata e Böhme viene prima arrestato, poi rilasciato a patto che si astenga dall’occuparsi di questioni teologiche, proibizione cui egli si attiene fino al 1618: da questa data in poi si dedicherà alla scrittura senza soluzione di continuità fino alla morte.
Bisognerà aspettare però il 1715 per la prima edizione completa degli scritti stampata in Germania: il sospetto di eresia e la confisca di Aurora avevano imposto all’opera böhmiana una ricezione difficoltosa, attraverso i canali sotterranei delle copie manoscritte, e alla circolazione al di fuori della Germania, soprattutto in Olanda e in Inghilterra. Per la riscoperta della filosofia böhmiana nella terra d’origine del mistico ha svolto un ruolo importante il gruppo dei romantici jenensi (Ludwig Tieck e Friedrich Schlegel in particolare). La frequentazione dell’opera böhmiana è ben visibile negli scritti di Schelling (ad esempio in Sull’essenza della libertà umana), e di Hegel, secondo il quale Böhme è “il primo filosofo tedesco”. La traduzione in inglese dell’opera, avviata già pochi anni dopo la morte dell’autore, ha permesso un’ampia diffusione della filosofia böhmiana oltre Manica: lettori di Böhme sono stati, tra gli altri, William Blake e Coleridge.
Dal Dio Senza-Fondo al Dio creatore
Jacob Böhme
Della contemplazione divina
La ragione dice: Perché Dio ha creato un vita che soffre penosamente? Non potrebbe essere in una condizione migliore senza dolore e tormento, visto che lui è il fondamento e l’inizio di tutte le cose? Perché tollera la volontà contraria? Perché non distrugge il male, così che ci sia solo un bene in tutte le cose? Risposta: Nessuna cosa può rivelarsi a se stessa senza opposizione: infatti se non ha nulla che le si opponga, allora esce continuamente fuori di sé, e non ritorna di nuovo dentro sé: ma se non rientra di nuovo in se stessa, cioè in ciò da cui è uscita fuori originariamente, allora non conosce nulla della sua condizione originaria. [...] Allo stesso modo possiamo filosofare anche riguardo alla volontà di Dio e dire: se il Dio nascosto, che è solo un’essenza e una volontà unica, non avesse guidato fuori da sé con la sua volontà, e non si fosse condotto dalla scienza eterna nel temperamento, nella separabilità della volontà [...], e così che la stessa separabilità nella vita non si trovasse in una condizione di lotta, come potrebbe allora la volontà nascosta di Dio, che in se stessa è solo una, rivelarsi a se stessa? Come può esserci una conoscenza di sé in una volontà unica? Ma se c’è invece una divisibilità nella volontà unica, così che la divisibilità si introduce in centri e nella volontà propria, così che allora c’è una volontà propria in ciò che è stato separato, e quindi in una volontà unica si generano volontà senza fondo e innumerevoli, come i rami dall’albero; allora noi vediamo e comprendiamo che in tale divisibilità ciascuna volontà separata si introduce in una forma propria [...], eppure tutte stanno in un unico fondamento. Infatti una volontà unica non può rompersi in pezzi separati tra loro; ugualmente l’animo non si rompe in pezzi quando si divide in una volontà malvagia e una buona; [...] l’animo in sé rimane intero, e soffre, sopportando che in lui si generi e abiti un volere malvagio e buono. Così dice la ragione: A cosa è buono e utile il fatto che deve esserci un male presso il bene? Risposta: Il male o la volontà contraria è la causa del bene, cioè della volontà, così che essa spinga di nuovo verso la sua condizione originaria, cioè verso Dio, e che il bene, cioè la volontà buona, diventi desiderante: infatti una cosa che in se stessa è solo buona, e non ha alcun tormento, non desidera nulla, poiché non conosce nulla di meglio, in sé o davanti a sé, che potrebbe bramare. Allo stesso modo possiamo filosofare anche riguardo all’unica volontà buona di Dio e dire che egli non possa desiderare nulla in se stesso, poiché non ha nulla in sé o davanti a sé che potrebbe dargli qualcosa: e per questo motivo conduce se stesso fuori da sé in una separabilitá, in centri, così che si generi una contrarietà nell’efflusso, cioè in ciò che è fluito fuori, così che il bene diventi, nel male, capace di sensazione, agente e volente, vale a dire volersi separare dal male, ed entrare di nuovo nella volontà unica di Dio.
J. Böhme, Sämtliche Schriften, a cura di W. E. Peuckert, Stuttgart, Frommann, 1955-1961
Dal suo primo scritto fino a quelli degli ultimi anni, Böhme tenta di mettere a fuoco due modi diversi di intendere il Divino, concepito da un lato come eternamente immobile e immodificabile, e dall’altro come Dio creatore. Il termine che Böhme sceglie, a partire dal 1620 in avanti, per descrivere il Divino nella sua totale assenza di relazioni con le creature, è Ungrund, che letteralmente significa “Senza-Fondo”. Considerato da questa prospettiva, Dio è “in se stesso”, privo di qualsiasi impulso al movimento e assolutamente indifferenziato: “Infatti non si può dire di Dio che egli sia questo o quello, malvagio o buono, che egli abbia differenze in se stesso [...]. Non ha alcuna inclinazione verso nulla, poiché non c’è nulla di fronte a lui verso cui potrebbe inclinare, né male né bene: egli è in se stesso il Senza-Fondo, [...] come un Nulla eterno” (Dell’elezione della grazia, cap. 1, § 3). Il termine Senza-Fondo esprime quindi il tentativo di pensare il Divino come radicalmente indipendente, privo addirittura di un fondamento che lo sostenga. Ma come è possibile spiegare allora la creazione, a partire da questa concezione di Dio? In Dei tre principi dell’essenza divina, Böhme afferma che sebbene Dio non abbia inizio, e quindi di lui non si possa parlare “con lingue umane”, la sua trattazione si svolgerà invece come se così non fosse, in modo da poter dare una spiegazione della creazione. Inoltre, benché in Dio non ci siano differenze, tuttavia “se si ricerca da cosa vengano male o bene, bisogna sapere cosa sia la prima e più originaria fonte della collera, e poi anche dell’amore, perché entrambi derivano da un’origine, da una madre, e sono una sola cosa [...]” (cap. 1, § 4). In altre parole, il primo punto di vista (Dio come immobile Nulla) non viene sostituito dal secondo (Dio che si pone in relazione con le creature): si tratta piuttosto di articolare queste due prospettive per tentare di esprimere i due volti dell’essenza divina.
Una via per spiegare la rivelazione di Dio, e quindi la creazione, è la concezione dei tre principi: ciascuno di essi è definito “una nuova nascita, una nuova vita” (Dei tre principi, cap. 5, § 6), ovvero un nuovo modo di considerare il Divino nel movimento della sua rivelazione. Secondo il primo principio, la divinità può essere descritta come collera, tenebra, e viene spesso paragonata al fuoco. Nel secondo principio un lampo si eleva da questo fuoco e genera la luce; dal punto di vista del terzo principio il Divino si rivela con il mondo materiale.
Nello stile caleidoscopico e barocco che caratterizza gli scritti di Böhme, il problema del passaggio dal Senza-Fondo al Divino in movimento viene ripreso e riformulato con una varietà di immagini. Così come dal lampo che squarcia la tenebra del primo principio emerge la luce, Böhme descrive l’origine della creazione anche come un atto di contrazione che genera una volontà vera e propria all’interno della assoluta vacuità del Senza-Fondo, e questa volontà rende il Divino desideroso di generare un Figlio. Da questo punto di vista, Dio può essere considerato come Padre che rivela se stesso attraverso la generazione del Figlio, e non invece un Nulla immobile senza preferenze. In Mysterium magnum, Böhme ricorre inoltre all’immagine della separazione: “Ciò che è senza fondo divide ciò che si introduce nel fondamento, e separa il bene [...] e il male” (cap. 26, § 55). Böhme utilizza qui un gioco di parole: il verbo urteilen, il cui significato principale è quello di “giudicare”, viene utilizzato nel senso di separare, ovvero operare una partizione originaria (da Ur=“originario”, e teilen=“dividere”). La separazione originaria è quella tra bene e male, attraverso la quale si passa dalla prospettiva del Divino come immobilità a un Divino che si profila proprio nel momento in cui l’assenza di inclinazioni lascia il posto a uno scontro frontale tra i due opposti. Questa spaccatura tra bene e male, tra polo positivo e polo negativo, è uno degli elementi chiave della filosofia böhmiana, e permette di capire tanto l’emergere del Dio creatore dal Senza-Fondo, quanto il movimento interno della natura.
L’immagine della luce che si origina dal fuoco viene spesso impiegata negli scritti böhmiani per descrivere la duplicità del Divino: “E come noi ora concepiamo due essenze nell’accensione del fuoco, cioè una nel fuoco e l’altra nella luce, e quindi due principi: così dobbiamo comprendere anche per quanto riguarda Dio” (Dell’elezione della grazia, cap. 2, § 35). Il fuoco è violento e divora, mentre la luce è chiara e benevola: eppure non può esserci una reale separazione tra i due, perché il fuoco è necessario alla generazione della luce, che a sua volta si alimenta del primo. Böhme afferma che questa interna dinamica degli opposti è fondamentale affinché Dio possa rivelarsi, proprio come la fiamma è essenziale affinché si sprigioni la luce. Per questo motivo Böhme descrive il primo principio come la collera di Dio, ovvero il suo lato negativo, dal quale ha origine il secondo principio, cioè la luce del Figlio. In altre parole, il fondamento della concezione del Divino come Dio rivelato e creatore è proprio questa interna divisione. Böhme rintraccia quindi questa radice di negatività in Dio, e in ogni cosa che sia viva e in movimento: “Infatti il male produce pena e movimento, e il bene produce essenza e forza; eppure le due essenze sono solo un’unica essenza, come fuoco e luce sono solo un’essenza, anche tenebra e luce sono una cosa sola, si divide però in due potenti distinzioni, eppure non c’è una separazione completa; infatti uno abita dentro l’altro, eppure non comprende l’altro; uno nega l’altro perché non è l’altro” (Mysterium magnum, cap. 26, § 38). Questo significa che anche all’interno di Dio devono coabitare due essenze radicalmente contrarie, che tuttavia non possono mai essere concepite come assolutamente estranee l’una all’altra. Il principio generale che viene utilizzato per spiegare la rivelazione di Dio è valido anche per interpretare la vitalità della natura, dal momento che “nessuna cosa può rivelarsi a se stessa senza opposizione [...]. Inoltre se non ci fosse opposizione nella vita, allora non ci sarebbe nemmeno sensibilità, né volere, né agire, e nemmeno intelletto, né conoscenza in essa: infatti una cosa che ha solamente una volontà non ha alcuna divisibilità. Se non percepisce una volontà contraria, che la spinge al movimento, allora rimane immobile” (Della contemplazione divina, cap. 1, §§ 8-9).
Se questa interna frattura sembra essere necessaria a Böhme da un punto di vista logico, la divisione in un volere positivo e in uno negativo all’interno di Dio, e quindi l’identificazione del principio negativo con la figura di Lucifero, crea naturalmente una serie di problemi da un punto di vista teologico e morale, di cui Böhme è ben consapevole. Ci si potrebbe chiedere infatti se il lato negativo di Dio è necessario proprio come il lato negativo della natura, la cui vitalità è spesso descritta da Böhme come il lavorio interno di diverse qualità (ad esempio le qualità amara, dolce acida e aspra nel primo capitolo di Aurora) che operano le une con le altre e contro le altre. Il tentativo di concepire Lucifero non come opposto di Dio, ma come interno e costitutivo della sua essenza è già presente in un passo di Aurora, in cui si legge: “Ora tu dici: perché Dio ha lasciato entrare in sé lo spirito malvagio di Lucifero, che è uscito dal corpus di Lucifero; non avrebbe potuto opporvisi? Questo è il nocciolo: Tu devi sapere che tra Dio e Lucifero non c’è stata altra differenza se non quella [che c’è] tra i genitori e i loro figli, e [una relazione] ancora più stretta. Infatti come i genitori generano un figlio dal loro corpo a loro immagine, e lo tengono nella loro casa [...] altrettanto vicino è il corpus di Lucifero alla divinità” (cap. 14, § 87). Lucifero trova quindi spazio dentro Dio, un Dio che si rivela proprio grazie a questa radice di negatività al suo interno.
La lingua di Böhme
Il linguaggio di Böhme è intessuto di termini alchemici, eppure – come Böhme stesso sottolinea – non lo si deve affatto considerare un alchimista. Allo stesso modo, anche le parole con radice latina sono spesso dotate di un senso che non si ferma a quello dell’etimologia vera e propria, ma viene plasmato ex novo. Il risultato è una lingua complessa e sfaccettata, tanto che lo stesso Böhme deve spesso chiarire il senso delle parole da lui impiegate, consapevole del fatto che “non chiunque capirà la mia lingua” (Aurora, cap. 13, § 16). Due sono le ragioni principali che spiegano l’origine del linguaggio di Jacob Böhme. Innanzitutto, il fatto che la sua lingua non sia elegante e spesso manchi di chiarezza è dovuto alla natura della sua rivelazione, che assomiglia ad un “fuoco che brucia” e che incalza la mano, spingendola a scrivere veloce (Lettera 10, § 45). Alcune mancanze sono quindi da attribuire alla rapidità con cui Böhme è costretto a fermare su carta quello che lo Spirito gli mostra, e a cui egli non può in nessun modo opporsi. La seconda ragione è invece più strutturale: Böhme dichiara di scrivere secondo la sua vera lingua madre, che è la “lingua naturale” (Natur-Sprache). Böhme afferma di avere accesso alla lingua originaria dell’uomo, che permette di capire i veri significati delle parole, arrivando quindi all’essenza delle cose stesse e alla comprensione dei loro rapporti. La lingua naturale è infatti visibile a Böhme attraverso le lingue che si sono diffuse dopo Babele, come la lingua tedesca o latina; essa si manifesta attraverso i legami sonori che legano tra loro parole che non intrattengono alcuna relazione etimologica, oppure attraverso la divisione di un termine in diverse parti. Un esempio è stato già menzionato: il giudizio (Urteil) del Senza-Fondo è in realtà Ur-Teilung, partizione originaria. Nel primo capitolo di Aurora Böhme spiega invece che il movimento delle qualità che agiscono nella natura è inscritto nel loro stesso nome: il suono di Qualität rimanda infatti a quellen/quallen (“sgorgare”, “zampillare”), così come alla parola Qual, che significa “tormento”, rivelando la radice negativa che è presente alla base di ogni movimento.