Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Parlare di tradizione filosofica in lingua araba e in ambiente musulmano significa considerare l’incontro fruttuoso e talvolta lo scontro della filosofia di tradizione greca con la civiltà islamica e mettere a fuoco quel processo di traduzione, assimilazione, e definitiva trasformazione del pensiero filosofico di tradizione greca in lingua araba.
La filosofia araba dell’Islam medievale, che d’ora in poi chiamerò con il suo nome, falsafa, si produce dall’VIII al XIII secolo in uno scenario che geograficamente si espande dalla Spagna, all’Africa Settentrionale fino al corso del fiume Indo. In tale scenario la religione islamica ha coeso popolazioni diverse, portatrici di culture diverse, l’arabo coranico è divenuto la koiné e i grandi centri urbani quali Bagdad, Damasco, Il Cairo, Bukhara vedono fiorire un’intensa vita culturale dominata dalle esigenze del monoteismo islamico, ma aperta agli apporti scientifici prodotti dalle altre comunità religiose presenti (quelle cristiane giacobite e nestoriane o quella ebraica).
Uno studio accorto della falsafa deve necessariamente procedere in modo ambidestro: in primo luogo lo studio delle traduzioni arabe delle opere filosofiche greche e dei commenti arabi ad esse dedicate deve restituirci l’idea di continuità della tradizione filosofica platonica e aristotelica dalla Grecia classica al Medioevo latino attraverso il momento arabo-musulmano – si veda il saggio dedicato in questo volume alla doppia via delle traduzioni; in secondo luogo lo studio delle opere originali dei falasifa, prodotte dall’immissione della filosofia greca nella cultura islamica, deve guidarci ad individuare i caratteri peculiari della falsafa: in particolare il costante tentativo di conciliazione del pensiero greco pagano con la teologia islamica rigidamente monoteista e la lettura concordista che ne risulta di pensatori quali Platone e Aristotele.
A Bagdad, nei primi due secoli del califfato abbaside, tra l’800 e il 1000, vengono eseguite numerose traduzioni di testi filosofici dal greco e dal siriaco in arabo. La traduzione di testi filosofici greci non è solo il risultato della conquista musulmana delle province intellettualmente più avanzate dell’Impero romano d’Oriente e dell’Impero persiano – Antiochia, Edessa, Nisibe, Harrān, Qennešrīn, Rešainā, Gondešapūr –, ma anche della situazione politico-religiosa del mondo musulmano tra VIII e IX secolo. Il califfato abbaside infatti aderise alla teologia mutazilita, al-Ma’mun (786-833) la proclama dottrina di stato nell’827. La teologia mutazilita rappresenta il primo audace tentativo di discussione razionale delle questioni religiose inerenti all’Islam e per questo suscita lo scandalo dei musulmani ortodossi e conservatori, legati alla lettera del Corano e della Sunna. Con il sorgere di una vera e propria corrente di seguaci della falsafa, i falasifa considerano la filosofia greca lo scrigno della verità universale, una sorta di Scrittura secolarizzata, ed è soprattutto questo che li rende desiderosi di impadronirsi dei testi greci, in uno sforzo senza precedenti (D. Gutas, Pensiero greco e cultura araba, 2002).
Dapprima si distinguono alcune figure di intellettuali che Gerhard Endress nel suo decisivo studio Proclus Arabus (1973) ha accomunato per lo stile di traduzione letterale, l’area geografica, Bagdad, e il loro collegarsi alla filosofia di al-Kindi (750-870). A questo primo circolo di traduttori si deve la versione in lingua araba di una vasta gamma di trattati: la Metafisica di Aristotele, il De caelo, i Meteorologica ed alcuni suoi trattati zoologici, alcune questioni di Alessandro di Afrodisia (II-III secolo), la seconda parte del suo De Providentia, l’Introduzione all’Aritmetica di Nicomaco (I-II secolo), un compendio neoplatonico al De Anima, una selezione di proposizioni tratte dagli Elementi di teologia di Proclo (410 ca. - 485) rielaborata nel Libro di Aristotele sull’esposizione del Bene Puro – il Liber de Causis latino. Vengono inoltre tradotte le ultime tre Enneadi di Plotino (205-270), destinate a divenire la cosiddetta Teologia di Aristotele. Da queste opere i lettori arabi si formano una prima immagine della filosofia dei greci, potente e pervasiva, destinata a viaggiare lontano: da Bagdad a Toledo e da Toledo a Parigi.
In questo primo gruppo di lavoro non solo viene elaborata una terminologia coerente per la falsafa, ma si concepisce il primo progetto metafisico originale come si vede bene dalla principale opera di al-Kindi, la Filosofia Prima (al-Falsafa al-Ūlā). In essa al-Kindi propone un’ontologia compatibile con la fede di quanti aderiscono al tawhid della religione coranica, ossia di quanti, come lui, credono in un Dio che è Causa prima ed Intelletto primo e che ha voluto creare dal nulla l’universo fisico nel tempo. La pseudo-Teologia di Aristotele corona le dottrine di Metafisica Lambda. Con al-Kindi infatti la filosofia intesa alla maniera aristotelica come ricerca delle cause viene corretta quanto all’analisi della sua causa prima, il motore immobile, in senso platonico. Il motore immobile per essere armonico con il dio del Corano non può certo starsene immobile conoscenza di sé, estraneo al mondo del divenire, principio di un universo che in realtà esiste eternamente, ma deve essere creatore al modo del demiurgo del Timeo di Platone, pensare ad ogni ente particolare, svolgere un’azione benefica ed esercitare sul suo creato un’azione provvidente. Al-Kindi sostituisce alla concezione aristotelica di un primo motore che è puro intelletto, il modello cosmico di processione e di partecipazione di tutti gli esseri all’Uno che gli proviene dalla tradizione neoplatonica. In questa lettura la paternità degli elementi principali del neoplatonismo islamico è attribuita ad Aristotele: la trascendenza del principio primo, l’emanazione o processione delle cose da esso, il ruolo della ragione, strumento di Dio, nella creazione e la concezione dell’anima come orizzonte tra mondo sensibile ed intelligibile.
Anche per quanto riguarda l’indagine sull’uomo, al-Kindi propone una lettura concordista della tradizione platonica e peripatetica. Egli immette nella falsafa, per vie che la storia dei testi sta ancora chiarendo, la dottrina alessandrista delle “specie” dell’intelletto. Nella sua Epistola sull’intelletto (Risāla fī l-‘aql), tradotta in latino, sostiene che secondo Aristotele vi sono quattro gradi di intelletto: l’intelletto potenziale, l’intelletto in habitu, l’intelletto in atto e l’intelletto separato. La conoscenza nell’uomo, secondo al-Kindi, procede dalla percezione sensibile fino all’immagine che delle cose si produce nell’anima; l’intelletto umano può tuttavia conoscere anche le forme immateriali, inaccessibili ai sensi, poiché ne condivide la natura intelligibile. L’intelletto umano nel mentre conosce le forme intelligibili diviene una sola cosa con esse e così facendo si attualizza. Ma per ogni realtà che passa dalla potenza all’atto è necessario un principio già in atto: l’intelletto sempre in atto, o agente, e separato fonde in sé la dottrina del motore immobile come pensiero di pensiero (νόησις νοήσεως), l’assunto aristotelico del De Anima secondo cui qualora la cosa conosciuta sia priva di materia vi è identità tra principio conoscente, cosa conosciuta e atto di conoscere e i caratteri del νοΰς plotiniano causa degli intelligibili e degli intelletti secondi.
Nel secolo successivo all’elaborazione della filosofia kindiana, il filosofo Abū Nasr al-Farabi (870 ca. - 950 ca.) torna alla dottrina alessandrista dell’intelletto – resa ora disponibile dalla traduzione araba del trattato Sull’Intelletto di Alessandro di Afrodisia – con interesse nuovo e ci consegna una dottrina dell’intelletto il cui lascito è tanto nei suoi correligionari Avicenna e Averroè, che in Maimonide, Domenico Gundisalvi, Ruggero Bacone, Bonaventura, Alberto Magno e Tommaso.
Nella Bagdad del suo tempo, in piena decadenza del califfato abbaside, si è costituito un circolo di filosofi e traduttori, cristiani e musulmani, che si dedicano allo studio della filosofia di tradizione greca. Al-Farabi è uno dei maestri del circolo. Nella sua riflessione la filosofia aristotelica viene collocata in un nuovo sistema delle scienze capace di integrare tra loro l’eredità scientifico-filosofica greca e le scienze autoctone della civiltà islamica. Al-Farabi, inoltre, vuole ridefinire il ruolo stesso del filosofo nella società arabo-islamica attraverso il recupero della filosofia politica platonica, armonizzata con le scienze tradizionali destinate a regolare le azioni della comunità religiosa e politica.
La scienza della politica per al-Farabi è quella degli antichi ed in particolare della Repubblica e delle Leggi di Platone. L’obiettivo della scienza politica è il governo virtuoso, ossia l’arte di chi governa, stabilisce delle regole e conserva virtuosa la città: il suo fine infatti è la vera felicità, che è raggiunta grazie ad azioni buone, nobili e virtuose. Si tratta dunque di comprendere cosa bisogna intendere per piena felicità dell’uomo. Nell’Accesso alla felicità (Tahsil al-Sa‘āda) al-Farabi afferma che Platone e Aristotele concordavano nel ritenere che ciò che conduce alla perfezione dell’uomo, e quindi alla sua felicità, è la vera filosofia. Essa consiste in un certo tipo di conoscenza – la conoscenza dell’essenza e delle cause di ciascuno degli enti – e in un certo stile di vita, descritto come la vita virtuosa. In questa prospettiva è il filosofo l’uomo perfetto e felice per eccellenza, dato che egli è colui che possiede questo tipo di conoscenza e conduce questo tipo di vita. Il governo virtuoso è dunque quello il cui principio ispiratore è la realizzazione della piena felicità dell’uomo in quanto uomo, che consiste nella perfezione di quella facoltà dell’anima umana che è specifica dell’uomo, ossia la sua ragione. L’uomo deve essere portato a disciplinare i propri desideri e a svolgere la propria attività specifica, che è quella di conoscere le realtà naturali e divine. Tale disciplina e tale sapere tuttavia non possono essere conseguiti pienamente se non da pochissimi individui, naturalmente dotati, che vivono in favorevoli condizioni politiche.
Nell’Accesso alla felicità l’uomo tanto perfetto, al quale nessun altro comanda, viene chiamato “filosofo”, “governatore supremo”, “principe”, “legislatore” e “imam”. Il suo intelletto in potenza astraendo le forme dalle cose sensibili è divenuto progressivamente in atto rispetto ad ogni forma intelligibile. Ora intelletto acquisito, ossia intelletto in atto rispetto a tutti gli intelligibili, è egli stesso per essenza gli intelligibili in atto e si è assimilato al massimo grado possibile all’Intelletto agente.
Nel processo di astrazione l’intelletto umano si evolve fino a divenire “la cosa più vicina all’Intelletto agente” (al-Farabi, Epistola sull’intelletto, trad. it. F. Lucchetta, 1974). Le forme presenti nelle cose sensibili preesistono nell’Intelletto agente, prive di materia, poiché l’Intelletto agente è “ciò che le introduce come forme nelle materie e poi cerca di avvicinarle a poco a poco alla separazione fino a che si realizza l’intelletto acquisito” (Ibidem). Il fine stesso della creazione delle cose sensibili è così quello di porre in essere degli oggetti da cui abbia inizio l’attività cognitiva dell’uomo. Solo grazie ad essa l’uomo nella sua vera sostanza, che è appunto l’intelletto, raggiunge il proprio scopo, la propria felicità e perfezione.
Il suo intelletto non solo diviene pieno di forme, auto-conoscente, ma contempla le sostanze superiori, del tutto separato dalla materia. Oltre agli intelligibili esistenti in potenza nelle cose sensibili e a quelli esistenti in atto nell’intelletto vi sono infatti anche degli intelligibili separati per natura dalla materia e sussistenti di per sé, ossia delle intelligenze. Per conoscere queste intelligenze bisogna acquisirle senza che nessun cambiamento intervenga in esse grazie ad un’intuizione intellettuale diretta, di cui solo l’intelletto acquisito è capace. Queste intelligenze sono gerarchicamente ordinate a partire dal Principio Primo fino all’Intelletto agente, che fra esse è l’ultima, ma che gode dell’eterna visione di tutte le intelligenze a lui sovraordinate.
Ancora una volta siamo di fronte ad una lettura concordista della tradizione greca che fonde la dottrina aristotelica già menzionata secondo cui l’intelletto divino pensa se stesso e quella per cui nelle realtà immateriali non c’è distinzione fra gli oggetti conosciuti e la facoltà che li conosce. Ma la visione farabiana dell’intelletto sarebbe inspiegabile senza il tema della pseudo-Teologia di Aristotele, in realtà tema plotiniano, dell’identità di natura fra l’Intelletto e gli intelligibili, e quello procliano trasmesso dal Liber de Causis della reditio completa delle realtà incorporee.
Con Ibn Sina, il cui nome per i latini sarà Avicenna (980-1037), la falsafa nell’Oriente musulmano raggiunge la sua maturità tanto nella speculazione metafisica che in ambito noetico.
Nella sezione dedicata alla Scienza delle cose divine del Libro della guarigione, Avicenna distingue in tutte le cose esistenti l’essenza dall’esistenza, la cosa dall’esistente. Su un di piano logico, infatti, cosa ed esistente sono due concetti distinti: ad una certa cosa si attribuisce una certa essenza o una certa quiddità, ad un esistente invece un’esistenza attuale ed oggettiva. Prova ne è che se costruiamo una proposizione in cui l’essenza è il soggetto e l’esistenza il predicato, la proposizione risultante non è tautologica.
Avicenna applica questa distinzione a diversi ambiti d’indagine ed in primo luogo alla distinzione ontologica tra Dio e le sue creature. Mentre tutto ciò che viene ad essere è contingente, o meglio è soltanto possibile e diviene estrinsecamente necessario in virtù della causa che lo pone in essere, il Primo Principio, che è Dio, che in quanto Causa Prima pone in essere tutte le cose, ha la necessità come proprio carattere intrinseco. Ossia la necessità non si predica della Causa Prima, ma è la Causa prima stessa nella propria essenza. Dio è quel necesse esse, l’Esistente Necessario in cui esistenza ed essenza si identificano fino a coincidere. Anche la dottrina degli universali dipende in Avicenna dalla distinzione tra essenza ed esistenza: l’universale per Avicenna non è che un attributo dell’essenza dotato di una modalità di esistenza propria che è l’esistenza nell’intelletto. Infine la stessa dottrina delle quattro cause aristoteliche ed particolare il difficile rapporto tra causa efficiente e causa finale in relazione al primo principio viene reinterpretata da Avicenna alla luce della distinzione tra essenza ed esistenza: nonostante la causa finale sia l’ultima a prodursi nell’esistenza essa detiene un primato nell’essenza.
All’elaborazione di questa dottrina capitale nell’economia del pensiero avicenniano confluiscono ancora una volta fonti diverse di tradizione greca ed ormai anche araba: la dottrina metafisica aristotelica dell’universalità dell’essenza rispetto alla particolarità dell’esistenza e l’identificazione della causa prima con il grado puro dell’essere del neoplatonismo arabo con i suoi temi corollari quali quello dell’impredicabilità del primo principio, della sovraperfezione e della causalità per emanazione. Il necesse esse è infatti per Avicenna il grado supremo dell’essere che per sovrabbondanza di sé effonde bene, ossia l’essere per tutte le cose che sono. La molteplicità tuttavia non deriva direttamente da lui, ma dal suo primo effetto contingente, l’Intelletto Primo, separato e immateriale, che ha la molteplicità in sé in quanto ha in sé un contenuto intelligibile. Tuttavia poiché in questo intelletto immateriale principio conoscente e oggetto conosciuto coincidono, la molteplicità è la più unitaria possibile. Quest’Intelletto è il medio tra Dio e il mondo in quanto causa che muove i cieli come oggetto di desiderio.
Da questo intelletto derivano tutte le intelligenze fino alla decima intelligenza celeste, l’intelletto agente, che come dator formarum è causa dell’intellezione propria dell’uomo. Avicenna propone un’analisi articolata del processo di attualizzazione dell’intelletto umano. Dapprima tabula rasa l’intelletto materiale diviene intelletto in habitu in possesso degli intelligibili primi – ossia gli assiomi logico-matematici e i concetti come esistente, cosa, necessario e uno – dai quali muove per acquisire gli intelligibili secondi. Una volta acquisiti, diviene intelletto in atto: esso possiede gli intelligibili, ma non li pensa in atto. Solo se l’intelletto umano, in connessione con l’intelletto agente, pensa in atto gli intelligibili raggiunge il suo massimo grado di perfezione come intelletto acquisito. La dottrina avicenniana dell’intelletto si inserisce a pieno titolo nella tradizione di esegesi al De Anima aristotelico che da Alessandro di Afrodisia corre fino ad al-Farabi, attraverso Giovanni Filopono e al-Kindi.
Accanto all’atteggiamento di apertura dei falasifa nei confronti di un sapere di cui si conosceva bene l’origine straniera rispetto alle scienze coraniche, ci fu anche chi come al-Ghazali rifiutò la filosofia di tradizione greca e la falsafa che da essa aveva tratto ispirazione poiché le avvertì entrambe come un sapere contrario e alternativo alla Rivelazione.
al-Ghazali (1057-1111), considerato dalla tradizione arabo-islamica il principale avversario della falsafa, individua nel corso della sua vita quattro possibili categorie di persone in grado di attingere la verità: i teologi del kalām sunnita, le cui verità non sono certe di per sé, ma debbono essere convalidate sull’autorità della Scrittura o grazie al consenso della comunità dei fedeli; i batiniti dell’Islam ismāīlita, che tuttavia non sono in grado di definire i requisiti dell’imam perfetto e producono un’interpretazione allegorica della Scrittura imperfetta; i mistici di cui ammira l’adesione entusiasta a Dio e a cui si avvicinerà una volta disilluso dalla filosofia; i filosofi.
Dapprima infatti egli si rivolge fiducioso allo studio della falsafa. Essa tuttavia non è in grado di fornire conoscenze vere intorno alla divinità e alla fede, anzi i falasifa concedono troppo al pensiero antico, poiché esso in realtà distrugge i fondamenti del credo rivelato. I falasifa si dividono in tre categorie: i materialisti che negano l’idea di Dio e della creazione; i naturalisti o deisti che ammettono l’esistenza di un creatore sapiente, ma negano l’immortalità dell’anima; i teisti, gli unici con cui ha senso confrontarsi.
Nell’Incoerenza dei filosofi (Tahāfut al-falāsifa) prende in considerazione al-Farabi, Avicenna e la loro fonte privilegiata, l’Aristotele neoplatonizzato prodotto da al-Kindi alle origini della falsafa. Al-Ghazali individua alcune tesi di metafisica e di fisica contenute nelle loro opere contro cui è necessario argomentare e mettere in guardia il credente. Questi filosofi hanno infatti sostenuto l’eternità del mondo negandone la creazione così come il giorno del giudizio; la limitazione della conoscenza di Dio agli universali negando il fatto che Dio possa svolgere un’azione provvidente nei confronti delle realtà individuali; essi hanno inoltre negato la resurrezione dei corpi, hanno prodotto dottrine eretiche su Dio e i suoi attributi, hanno parlato della necessità di cause seconde come se la volontà di Dio non bastasse, hanno fatto dell’anima una realtà composta e non semplice.
Ibn Rušd (1126-1198), l’Averroè dei latini, risponde alle critiche di al-Ghazali nell’Incoerenza dell’Incoerenza (Tahāfut al-tahāfut), unica opera personale tradotta in latino con il titolo Destrutio destructionis. Il trattato di al-Ghazali aveva scatenato nell’Oriente musulmano una forte reazione anti-filosofica che Averroè teme possa prodursi anche in al-Andalus, la Spagna musulmana.
Per Averroè, dal momento che “il Vero non può contrastare con il Vero” (Averroè, Il trattato decisivo, 1994, pp 60-61) il ragionamento dimostrativo proprio della falsafa non può condurre a conclusioni diverse da quelle rivelate dal Corano. L’eventuale contrasto tra la lettera della parola coranica e una conclusione filosofica è soltanto apparente, anzi tale apparente contrasto è segnale del fatto che spetta al faylasuf elaborare su quel passo un’interpretazione allegorica. L’attribuzione ad Averroè di una dottrina della doppia verità formulata da Tommaso e in qualche modo canonizzata dalla condanna parigina del 1277 non coglie nel segno, per Averroè la verità filosofia non è alternativa a quella della religione, ma si serve di un linguaggio più raffinato e di un ragionamento più elevato per veicolare la stessa verità ai sapienti.
Se nell’Occidente latino gli scritti originali di Averroè, ad eccezione dell’Incoerenza dell’incoerenza, non vengono tradotti, numerosissime sono le versioni latine dei commenti averroisti alle opere di Aristotele. Averroè sembra essere almeno in parte consapevole del fatto che nell’ambito delle riflessioni filosofiche via via sorte nel mondo islamico, Aristotele non è più che una maschera dietro la quale si sono sovrapposte tutta una serie di dottrine greche, non solo aristoteliche, ma anche platoniche, intendendo con questo termine non solo il pensiero di Platone, ma l’intera tradizione medio-platonica e neo-platonica. Tale πρόσωπον aveva garantito nell’Islam l’unità delle scienze razionali sotto l’egida della filosofia, ma lo studio meticoloso del testo aristotelico mostrava quanto esso fosse distante dall’Aristotele storico.
Anche per questa ragione Averroè ripropone il commento per lemmi. In ogni commento il testo aristotelico in traduzione araba viene diviso in lemmi di lunghezza variabile, corredati ciascuno da una parafrasi-commento. I lemmi sono introdotti dalla formula “disse Aristotele”, e nel commento che li accompagna vengono esposte ordinatamente una dopo l’altra le frasi del testo ed affrontati, in brevi excursus, secondo un metodo chiaramente didattico, i problemi testuali e dottrinali che si presentano. Il commento per lemmi a testi aristotelici quali il De Anima o la Metafisica diviene inevitabilmente il luogo in cui Averroè elabora le proprie dottrine originali destinate ad essere discusse e ridiscusse dalla Scolastica latina, come ad esempio la dottrina dell’intelletto materiale unico e separato per tutti gli uomini.
Se per i pensatori della falsafa che hanno preceduto Averroè l’intelletto agente è l’ultima delle sostanze intellettuali separate, mentre ogni singolo uomo ha il proprio intelletto materiale che giunge alla propria perfezione grazie all’illuminazione che proviene dall’Intelletto agente, secondo l’Averroè del Commento Grande al De Anima l’intelletto materiale non appartiene al singolo uomo. Esso è la perfezione universale dell’uomo, ossia di tutti gli uomini insieme: è eterno, come lo è l’umanità in quanto specie. Ogni singolo uomo, quando pensa, attualizza l’intelletto che è proprio dell’intera specie umana: infatti le forme che il singolo individuo astrae dalla materia, o “forme immaginate”, sono principi che attualizzano la potenzialità di conoscere propria dell’intelletto materiale; l’attualizzazione di questa potenzialità dipende anche dall’Intelletto Agente, come la visione dipende sia dagli oggetti visibili che dalla luce.
La teoria dell’unità dell’intelletto materiale porta come conseguenza l’impossibilità della sopravvivenza individuale dopo la morte. Infatti al singolo individuo appartengono in senso proprio soltanto le forme immaginate individuali, che non sfuggono alla corruzione del corpo: l’immortalità è solo dell’intelletto universale ed è impersonale.
Le tesi di Averroè si diffondono grazie alla traduzione latina del suo Commento Grande al De Anima: in una lettera del 1270 indirizzata ad Alberto Magno il domenicano Egidio di Lessines menziona per prima, tra le 15 tesi sostenute dai maestri della facoltà delle arti dell’Università di Parigi – tra cui Sigieri di Brabante e Boezio di Dacia – quella secondo cui “l’intelletto di tutti gli uomini è numericamente uno e identico”; si incontra poi, come settima tesi, quella secondo cui “l’anima che è forma del singolo uomo muore con lui”. Contro le tesi dell’unicità dell’intelletto umano e dell’immortalità impersonale si pronuncia nello stesso anno l’arcivescovo di Parigi Étienne Tempier (?-1279), e lo farà in modo ancora più deciso nel 1277; nel 1271, Tommaso d’Aquino scrive il De Unitate intellectus contra Averroistas per denunciare quello che considera un gravissimo fraintendimento della dottrina di Aristotele.