Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
L’immagine dell’Oriente nella filosofia tedesca dell’Ottocento è legata alle traduzioni dei testi sacri provenienti dall’Asia e alla nascita del romanticismo. Se ancora per Hegel “in Oriente non si può incontrare alcuna conoscenza filosofica”, per Schlegel e per il movimento romantico, invece, l’India rappresenta la culla delle civiltà. Ma sarà Schopenhauer, il Buddha dell’Occidente, a conferire ai testi sacri dell’India la dignità di pensiero filosofico, identificando la propria filosofia con le dottrine esoteriche delle Upanishad.
Il contesto storico-culturale
La fortuna della cultura orientale nella filosofia tedesca dell’Ottocento è strettamente legata a due fattori storici: in primo luogo all’immagine dell’Oriente giunta attraverso la colonizzazione europea in Asia; in secondo luogo alla nascita del romanticismo. Se per tutto il Settecento, infatti, l’immagine dell’Oriente coincide con quella esotica dei diaristi, dei missionari e degli esploratori sulla Via della Seta, nell’Ottocento si va sempre più costruendo il mito di un Oriente arcaico e originario, rappresentato soprattutto dalla cultura indiana, “culla della civiltà”, e così raccontato da colonizzatori e avventurieri sulla Via del Tè.
La costruzione dell’immagine di un Oriente arcaico è, inoltre, fortemente condizionata dal processo di formazione politica e culturale dello stato unitario tedesco. Nel periodo che va dalla campagna napoleonica in Egitto, con la quale sorge l’interesse per ciò che non è occidentale, sino alla costituzione dell’impero guglielmino, una vasta schiera di pensatori tedeschi, che da Johann Gottlieb Fichte giunge sino a Richard Wagner, sostiene la tesi di uno scontro di civiltà: i valori classici (Nietzsche dirà inattuali) e vitalistici della Kultur greco-tedesca contro la decadenza portata dalla Civilisation latino-francese.
Per tutto il romanticismo e l’idealismo, la costruzione dell’identità del popolo tedesco passa attraverso la ricerca delle sue radici, soprattutto con lo studio della lingua e della religiosità, come principali manifestazioni dello spirito germanico. In tale contesto, in cui la grecità si afferma come modello culturale predominante, le antiche dottrine orientali sono interpretate in due maniere distinte: da un lato come modello alternativo alla cultura greca caratterizzata dalla filosofia; dall’altro come origine del pensiero occidentale, finanche di quello greco. Nel primo caso, la sapienza orientale è spiegata come espressione culturale diversa dal pensiero filosofico; nel secondo caso, essa si configura come la fonte pura e originaria del pensiero occidentale, nella quale si realizza il modello dell’unione mistica di filosofia e religione, poesia e morale.Della prima interpretazione il massimo esponente è Georg Wilhelm Friedrich Hegel il quale, nelle Lezioni di filosofia della storia, così compendia le caratteristiche peculiari della cultura orientale: “Non esiste né coscienza, né morale: tutto è solo ordine naturale, che accanto al peggior male lascia coesistere la più sublime nobiltà. La conseguenza di ciò è che in Oriente non si può incontrare alcuna conoscenza filosofica”. La filosofia orientale non utilizza la dialettica degli opposti e pertanto, stando a Hegel, non pensa in maniera filosofica. Inoltre, il filosofo della Fenomenologia dello Spirito sostiene l’idea dell’alterità originaria fra Occidente e Oriente, affermando che la civiltà greca avrebbe una sua nascita autonoma rispetto a quella asiatica, e nega la tesi dell’origine orientale dei miti greci, sostenuta invece da Georg Friedrich Creuzer (1771-1858).
La seconda interpretazione, secondo la quale la cultura greca discenderebbe dall’antica saggezza orientale indiana, è sostenuta, invece, dai fratelli Schlegel e dal circolo protoromantico di Jena. Tale posizione porta all’approfondimento delle ricerche sull’origine linguistica e religiosa delle Sacre Scritture, allo studio filologico delle fonti orientali della Bibbia, alla verifica della compresenza degli stessi miti nelle dottrine religiose occidentali e orientali. Si tratta di ricerche che determinano non solo la nascita degli studi di religione e linguistica comparata ma anche, in senso più generale, un progressivo spostamento dell’interesse culturale dal Medio all’Estremo Oriente, dalla cultura araba e persiana al mondo indiano.
Una testimonianza di tale orientamento si può trovare in Wilhelm von Humboldt (1767-1835) il quale, influenzato dalle tesi schlegeliane, individua un nesso fra “le differenze linguistiche e la suddivisione dei popoli, da un lato, e la creazione delle energie spirituali dell’uomo, dall’altro”. Von Humboldt dedica studi puntuali alla Bhagavad-Gītā e, in qualità di ministro della cultura, fa istituire a Berlino una cattedra di indologia, affidata poi a Franz Bopp, allievo di Schlegel.
L’Oriente dei romantici
È Johann Gottfried Herder, figura ispiratrice del movimento protoromantico di Jena, a introdurre il pensiero orientale, in particolare quello indiano, nella filosofia tedesca dell’Ottocento. Significative risultano le lettere herderiane sul Śakuntalā, raccolte sotto il titolo Über ein morgenländisches Drama [1792, Su di un dramma orientale], in cui si discute dell’omonimo poema del poeta indiano Kalidasa (IV-V sec.). Nelle lettere Herder tratteggia un Oriente fantastico ed esotico, così come è raccontato dai primi viaggiatori inglesi e francesi. Il Śakuntalā è per Herder un “fiore d’Oriente ”, l’espressione dell’originalità della cultura indiana, di una terra lontana e utopisticamente trasfigurata.
Quando Herder scrive le sue lettere del Śakuntalā, in Europa sono già comparse la prima traduzione della Bhagavad-Gītā (1785) di Charles Wilkins e la prima versione inglese del Śakuntalā (1789) di William Jones, e la sua versione tedesca del 1791 di Johann Georg Forster, che è quella letta da Herder. Le lettere herderiane si concludono con l’auspicio che “il Śakuntalā non rimanga l’unico dramma indiano tradotto” e la speranza di Herder è presto esaudita. Infatti, da lì a poco, vengono pubblicati i fondamentali contributi di Henry Thomas Colebrook: On the Vedas [1805, Saggio sui Veda], la prima grammatica sanscrita (1805), e l’Essay on the philosophy of the Hindus [1819, Saggio sulla filosofia degli Indù ]. Nel campo degli studi sulla lingua e sulla cultura indiana, un ruolo di rilievo è svolto anche da Alexander Hamilton, che insegna a Parigi lingua persiana e sanscrito. Proprio di quest’ultimo, fra il 1802 e il 1806, Friedrich Schlegel è allievo a Parigi, dove impara la lingua sanscrita e conosce la cultura indiana, anche con l’aiuto di Hamilton e di Antoine Léonard de Chézy (1775-1832), il primo professore francese di sanscrito.
Nel 1808, Schlegel pubblica il celebre Über die Sprache und Weisheit der Indier, [Sulla lingua e sulla saggezza degli Indiani]. Lo scritto, che lo stesso Schlegel chiama il libro indiano, ha una vasta risonanza nella cultura europea e soprattutto in Germania, nel circolo protoromantico, per la sua tesi mistico-panteistica dell’Uno-Tutto. Schlegel espone qui la sua teoria dell’unità dei contenuti religiosi della Bibbia e dei sacri testi indiani. Si tratta di una lettura già mutata rispetto a quella di Herder. Schlegel, infatti, non descrive più un Oriente esotico, ma individua in esso il luogo d’origine della cultura occidentale. Attraverso il principio schlegeliano della “poesia universale progressiva ”, l’India è idealizzata come “culla di tutte le civiltà”, capace di ispirare una ‘nuova mitologia’.
In appendice al libro l’autore offre la traduzione antologica del Śakuntalā, della Bhagavad-Gītā (Canto del Beato), e di altri poemi della religione indú (Ramayana e Manusmirti). Infine, nel libro indiano, Schlegel sostiene che tutte le lingue discendono da un popolo originario, gli Arii o Ariani (da arya, “nobile”); tesi, questa, che è poi dimostrata con metodo filologico dall’allievo, Franz Bopp, il quale individua la comune radice delle lingue indoeuropee e avanza l’ipotesi di una prima lingua originaria: il sanscrito ario. Da qui prenderà vita, purtroppo, anche l’idea dell’origine divina del popolo primigenio, quello ariano, perché divina per Schlegel doveva essere la lingua originaria. Al tema delle origini si congiunge quindi quello della purezza della razza ariana, che in seguito alimenterà le moderne correnti xenofobe e razziste europee e fornirà materiale ideologico ai nascenti movimenti nazionalisti di tutta Europa.
Nel 1823, August Wilhelm Schlegel, fratello maggiore di Friedrich, dopo aver studiato a Parigi e a Londra lingue orientali, si trasferisce a Bonn (1818). Lì fonda la rivista “Indische Bibliothek” e provvede ad allestire una tipografia dotata di caratteri in sanscrito, con i quali pubblicare la sua edizione della Bhagavad-Gītā. Sempre a Bonn, August Wilhelm Schlegel diviene il primo professore tedesco di sanscrito e, tra il 1829 e il 1846, traduce brani antologici dalla Ramayana (Le gesta di Rama).
Le tesi schlegeliane sull’Uno-Tutto indiano interessano anche Friedrich Wilhelm Joseph Schelling (1775-1854) il quale, però, diversamente da Schlegel, considera la filosofia indiana solo una tappa del processo di autocoscienza dello spirito del mondo. E come Hegel, Schelling crede nella superiorità della cultura greca, costruttiva, su quella indiana, distruttiva. A differenza di Hegel, però, Schelling ammette la comune radice della filosofia orientale e di quella occidentale, basandosi sugli studi di Creuzer. Nella sua Divinità di Samotracia (1815), infatti, Schelling afferma che nell’antico culto orientale e misterico di Cabiri si può riconoscere il sistema archetipo di tutte le credenze umane. Inoltre, distingue con una certa perspicacia l’induismo, come religione originaria, dal buddhismo, come reazione filosofica al processo mitologico.
Il mondo orientale esercita il suo fascino anche sul classicismo grecizzante di Johann Wolfgang von Goethe il quale, pur affermando la pericolosità dell’“orientaleggiare”, nondimeno, nel Divano occidentale-orientale (1814-1827), trasfigura la propria esistenza nel mito e nella letteratura orientale. E giunge sino a trasformare la sua Weimar da Olimpo greco a Eden persiano, facendo piantare per tutto il piccolo ducato alberi di ginkgo biloba, l’archetipo goethiano della pianta originaria, la cui foglia è stata “affidata dall’Oriente al mio giardino”. L’interesse di Goethe per l’Oriente coincide con quello per la cultura semita, persiana e araba e, in maniera più ridotta, con quello per la cultura indiana, che egli conosce attraverso le lettere di Herder sulla Śakuntalā e la GitaGovinda nella traduzione tedesca (1802) del musicista Friedrich J. Hugo von Dalberg (1760-1812). Goethe non è attratto dall’esotismo misticheggiante, dall’alterità estraniante, ma è mosso sempre dall’obiettivo – romantico e classico al tempo stesso – di “riunificare tutte le cose separate da sempre” in una forma compiuta e in un modello utile per la vita.
Schopenhauer, “Buddha dell’Occidente”
Solo con Arthur Schopenhauer, però, alla religione indiana è conferita dignità di pensiero filosofico. Tralasciando l’annosa questione, ancora aperta, se il sistema filosofico schopenhaueriano sia stato condizionato o meno dalla filosofia indiana nella fase della sua genesi, è certo che Schopenhauer si interessa a ogni fonte disponibile del suo tempo sulla cultura indiana antica. Sin dagli anni della sua formazione, trascorsi a Weimar, è assiduo lettore del tedesco “Asiatisches Magazin” e delle inglesi “Asiatic Researches”, in cui le dottrine orientali trovano vasta eco. Mentre si forma alla filosofia di Kant e di Platone, legge anche numerosi scritti di indologia, fra i quali gli studi di Colebrook sul sanscrito e quelli di Isaac Jacob Schmidt sul Tibet e il buddhismo.
Sempre a Weimar, nel salotto culturale della madre Johanna, oltre all’olimpico Goethe, Schopenhauer può frequentare numerose personalità del circolo romantico, fra cui gli Schlegel e Friedrich Majer, indologo e allievo di Herder. Proprio quest’ultimo gli consiglia la lettura delle Oupnek’hat, sive Secretum tegendum (1801-1802) edite da Abraham Hyacinthe Anquetil-Duperron, che raccolgono 50 Upanishad antiche, tradotte in latino dalla versione persiana del 1657.
Per Schopenhauer, le dottrine esoteriche contenute nelle Upanishad sono “emanazione della più alta saggezza umana”, poiché contengono in forma allegorica le verità del suo sistema filosofico: il principio panteistico di Brahma e il mito del velo di Maja agli occhi di Schopenhauer rappresentano la trasfigurazione mitologica del Mondo come volontà e rappresentazione. “La ‘maya’ dei Veda [e] il fenomeno di Kant” – scrive Schopenhauer – “sono una sola e unica cosa”. Schopenhauer fa coincidere il dolore metafisico generato dall’affermazione della volontà con il cerchio delle rinascite descritto dal saṃsāra brahmanico. Anche l’etica schopenhaueriana concorda nei suoi esiti con la dottrina vedantica: come la prima mostra la liberazione dal dolore attraverso la conoscenza e la negazione della volontà (noluntas), così la seconda indica l’uscita dal saṃsāra attraverso l’illuminazione meditativa e il nirvana. Inoltre, per Schopenhauer, l’intuizione della volontà come unità metafisica, grazie alla quale è possibile il miracolo della compassione, è prospettata “nel Veda e nel Vedānta con la formula mistica permanente tat tvam asi (‘ciò sei tu’) che viene espressa riferendosi ad ogni essere vivente, sia uomo o animale”. Diversamente dal cattolico Schlegel, per Schopenhauer i monoteismi, in particolare il giudaismo, hanno corrotto l’antica saggezza vedica a causa del loro ottimismo e hanno posto erroneamente l’uomo al di sopra di ogni altro essere vivente. Le Upanishad contengono la vera dottrina metafisica del mondo, il pessimismo, che la filosofia schopenhaueriana intende spiegare con il primato della volontà metafisica e universale.
Schopenhauer fa spesso un uso strumentale delle dottrine religiose indiane, con le quali identifica la propria metafisica, e non sempre distingue con esattezza i principi del brahmanesimo da quelli del buddhismo. Tuttavia, una folta schiera di allievi e seguaci si ispira alla filosofia schopenhaueriana per dedicarsi allo studio della filosofia indiana e considera il Saggio di Francoforte come il primo Buddha di Occidente.
È il caso di uno dei maggiori storici della filosofia e indianisti dell’Ottocento tedesco, Paul Deussen (1845-1919) che in gioventù l’amico Friedrich Nietzsche indirizza allo studio delle opere di Schopenhauer. Negli Elemente der Metaphysik [1877, Elementi di metafisica] Deussen sostiene che nella filosofia schopenhaueriana si trovano conciliate le tradizioni del pensiero orientale e occidentale, e dedica alla filosofia e alla religione indiana numerosi studi, fra i quali Das System Vedānta [Il sistema Vedānta, 1883], una sezione della sua Allgemeine Geschichte der Philosophie [1894-1917, Storia generale della filosofia] e Vedānta und Platonismus im Lichte der Kantischen Philosophie [1917, Vedānta e platonismo alla luce della filosofia kantiana]. Infine, nel 1894 traduce in tedesco Sechzig Upanishad’s des Veda [Sessanta Upanishad del Veda], continuando il lavoro di traduzione dei Rigveda compiuto precedentemente da Hermann Grassmann, con la traduzione in rima (1876-77), e da Alfred Ludwig, con la traduzione in prosa (1876, 1881).
In questo modo, Deussen diviene non solo il principale testimone della filosofia di Schopenhauer, fondando nel 1911 a Kiel la Schopenhauer-Gesellschaft, ma anche l’iniziatore di una tradizione di studiosi di buddhismo e di cultura indiana di matrice schopenhaueriana, come Karl Eugen Neumann (1865-1915) e Helmuth von Glasenapp (1891-1963).