La finanza pubblica: dal prestito all'imposta
Il 12 aprile 1404, all'indomani dell'entrata di Francesco III Novello da Carrara a Verona, il senato veneziano decideva l'imposizione di un prestito forzoso sui contribuenti della città per sostenere il conflitto che, nel giro di alcuni anni, avrebbe condotto lo stendardo di San Marco sino alle rive dell'Oglio. Venezia, superati i drammatici anni della guerra di Chioggia, che l'aveva vista impegnata sino allo spasimo contro il tradizionale nemico genovese, da un ventennio stava vivendo un periodo di relativa pace. Le ferite della guerra si erano rimarginate, le galee avevano ripreso a solcare le acque, ed i Veneziani erano stati chiamati a contribuire alle finanze comunali solamente in poche occasioni e per quote non troppo gravose. Tra il 1382 e il 1403 furono decretati solo dieci prestiti obbligatori, per un prelievo medio annuo di poco più dell'1 per cento dell'imponibile. Negli ultimi anni del Trecento il governo riuscì a restituire ingenti capitali che aveva drenato tramite il sistema del debito pubblico durante i periodi di guerra. Quasi 1.700.000 ducati vennero affrancati tra il 1389 e il 1395; e le somme di denaro destinate al pagamento degli interessi sui titoli di Stato diminuirono gradualmente portandosi dai 246.690 ducati nel 1386 ai 195.500 nel 1398. Un ulteriore indizio della buona salute goduta dalla finanza pubblica veneziana si riscontra nelle quotazioni di mercato dei titoli del debito. Se nel 1381 il prezzo era crollato a 18 su cento del capitale nominale, nel 1386 si portava a 37, sino a raggiungere quota 66 nel luglio del 1403, nonostante il tasso d'interesse fosse stato ridotto, a seguito di un'imposta sulla rendita assicurata dai titoli, dal 5 al 4 per cento per i capitali "vergini" e al 3 per cento per le cedole che avevano cambiato proprietario (1).
Il limitato ricorso ai prestiti forzosi in questo lasso di tempo indica da un lato la generale resistenza del ceto dirigente veneziano a far leva sul prestito obbligatorio - che per certi versi si potrebbe configurare come un'imposizione diretta -, e dall'altro testimonia che la finanza del Comune Veneciarum si basava su altre - e più importanti - fonti d'entrata. È assai probabile che i circa 250.000 ducati che a metà Trecento costituivano il bilancio ordinario di Venezia rappresentassero in gran parte il frutto di imposte sui commerci e sui consumi. L'assenza di riferimenti significativi all'imposizione diretta nella documentazione trecentesca lascia intendere che le gabelle e i dazi fossero le prevalenti voci d'entrata. L'imposizione indiretta in effetti era il pilastro che sosteneva la finanza pubblica veneziana, così come di altre città della Penisola. Nella Firenze del secondo Trecento, per esempio, il prelievo indiretto svolgeva il ruolo fondamentale nella finanza ordinaria comunale; e così avveniva anche per Milano e per Genova (2). Erano città che si trovavano al centro delle grandi correnti internazionali della finanza e dei commerci, dove un pur lieve gravame sugli scambi e sui consumi permetteva ai governi di sostenere le normali necessità di bilancio. Ma erano ben pochi gli anni in cui le città-stato italiane potevano godere di una relativa calma politica e finanziaria. Alla vigilia della conquista della Terraferma, comunque, Venezia non era particolarmente oberata dalle esigenze finanziarie: il gettito dei dazi era sufficiente ad evitare il ricorso ai prestiti forzosi.
Probabilmente anche la buona salute dell'erario rappresentò un elemento a favore dei patrizi che auspicavano un'azione energica nei confronti della Terraferma. Il pericolo che si formasse ancora una volta una forte signoria nell'entroterra, minacciando così le vie commerciali che davano linfa a Venezia, aveva indotto il gruppo dirigente ad affrontare la guerra contro i Carraresi. Oramai occorreva assicurarsi il controllo delle terre e delle città alle spalle della laguna per permettere a Venezia di mantenere quell'impero marittimo e commerciale che stava alla base della potenza del Comune. Occorreva insomma creare un dominio nella Terraferma; un dominio che potesse competere con l'imperatore, con il duca di Milano, con Firenze, con il re di Napoli, e che sostenesse gli interessi veneziani sul mare e sulle coste del Mediterraneo. "In realtà [ha scritto Gaetano Cozzi] non si poneva nessuna alternativa preferenziale, tra il vecchio Dominio da mar e il nuovo Dominio di Terraferma. Il Dominio da mar restava il dominio per eccellenza, faceva parte dell'identità storica del Comune, ne rappresentava la fonte di ricchezza; il Dominio di Terraferma ne costituiva l'integrazione, consentendo lo sbocco e la tutela di quella potenza economica che Venezia continuava a gestire sul mare" (3). Quel 12 aprile 1401, in cui si decretava l'imposizione di un prestito obbligatorio si decideva altresì di arruolare un primo nucleo di cavalieri da impiegare in Terraferma. La pressante urgenza di denaro tornava a preoccupare la mente dei governanti e ad assillare i contribuenti di Venezia.
Da aprile in poi le imposizioni si susseguirono ad un ritmo mensile. Ancora una volta i prestiti obbligatori si rivelavano come lo strumento principale per sostenere, accanto ad altri provvedimenti, la finanza straordinaria in tempo di guerra. Alla fine del 1404 l'esercito contava circa 9.000 cavalieri e 10.000 fanti; una consistente forza militare, dunque, che necessitava di molto denaro. E infatti il senato aveva emanato in quell'anno dieci ordini per rastrellare fra i contribuenti una quota pari al 18,24 per cento dell'imponibile dichiarato (Tab. 1). L'anno seguente la pressione fiscale non diminuì, portando il livello impositivo al 37,34 dell'estimo durante i due anni di guerra. Il governo aveva fatto frontè alle spese belliche (valutate in oltre 2.000.000 di ducati) ricorrendo, come s'è detto, ai prestiti obbligatori, ad impositiones su coloro che possedevano imprestiti e che non figuravano nell'estimo, alla sospensione dei pagamenti degli interessi sui titoli, alla riduzione dei salari degli officiali, e infine al tentativo di risistemare il bilancio di Venezia (4).
Nonostante la domanda fiscale del governo avesse raggiunto vette significative, non sembra tuttavia che la città sia stata prostrata, come era accaduto nell'ultima guerra contro Genova. All'inizio del conflitto con i Carraresi annota un cronista la popolazione lagunare appoggiò di buon grado la decisione del governo, e il riscontro si ebbe nella "bona volontade" e nel "puoco spacio de tempo" con cui furono soddisfatti i primi prestiti obbligatori (5). Del resto non si hanno testimonianze che il carico tributario abbia messo in ginocchio i patrimoni delle famiglie, costringendole a vendere i titoli del debito per far fronte agli esattori. Le vie essenziali del commercio veneziano, quelle che conducevano ai porti levantini, non erano state minacciate dalla guerra, e dunque i mercanti avevano potuto condurre i loro affari con una relativa tranquillità, coinvolgendo in questo sentimento anche il resto della popolazione.
L'arrivo delle galere da Beirut aveva un effetto assai più rassicurante delle notizie, pur favorevoli, che giungevano dall'esercito impegnato nella conquista della Terraferma. D'altro canto, occorre tener presente che le strade che conducevano ai valichi alpini e alle piazze commerciali della Germania non erano praticabili a causa della guerra,
per cui qualche difficoltà si era pur presentata agli operatori economici. Difficoltà che, comunque, non sembrano aver inciso sul quadro economico generale di Venezia. Un indicatore in tal senso potrebbe essere fornito dal prezzo del pepe - una spezia che costituiva uno dei prodotti caratteristici dell'intermediazione veneziana fra Oriente e Occidente -, che nel 1404 oscillò fra i 46 e 48 ducati per cargo (circa 119 kg), mentre cinque anni prima si era situato fra 61 e 68 (7). Il basso costo del pepe rispetto a qualche anno precedente, ed anche al periodo successivo alla guerra, potrebbe suggerire che la principale fonte della ricchezza nella Venezia del primo Quattrocento non era stata intaccata dal conflitto nella Marca. Ad ulteriore prova di ciò si potrebbe aggiungere che il valore delle importazioni veneziane di pepe e di zenzero da Alessandria e da Beirut raggiunse nel 1404 la somma di oltre 208.000 dinari, contro i circa 191.000 nel 1396 (8). Tuttavia l'andamento del commercio delle spezie era sottoposto a svariati elementi connessi alla politica internazionale dei paesi produttori e intermediari, così che risulta discutibile assumerlo come indicatore economico affidabile. Sullo sfondo economico sostanzialmente positivo si poneva altresì il fatto che i contribuenti veneziani furono tassati in base all'estimo del 1398, che probabilmente rifletteva ancora gli strascichi della grave crisi della guerra di Chioggia. Sebbene nel 1403 fosse stato deciso un nuovo estimo, quest'ultimo fu portato a compimento nell'aprile del 1405; perciò una buona parte del carico tributario della guerra si basò su una rilevazione imprecisa dell'imponibile che con tutta probabilità era nel frattempo cresciuto. I nuovi ricchi ad esempio, censiti solo nel 1405, riuscirono a sottrarre i loro patrimoni alla domanda del fisco lungo la maggior parte del periodo di guerra in Terraferma, sebbene occorra tener presente che, una volta aggiornato l'estimo, costoro avrebbero dovuto versare le imposte dovute dalla data di acquisizione dei nuovi beni.
All'indomani della conquista delle città venete la situazione finanziaria veneziana si assestò su livelli piuttosto soddisfacenti per il governo, tanto che si poterono destinare varie entrate per diminuire il peso del debito statale. Il denaro venne trovato vendendo all'incanto beni e diritti giurisdizionali dei signori scaligeri e carraresi appena spodestati (9). Era una scelta, questa di alienare ampie proprietà, che evitava all'amministrazione veneziana il carico della gestione dei patrimoni ed inoltre assicurava introiti significativi. Se verso il territorio veronese i Veneziani non dimostrarono, almeno in un primo momento, un particolare interesse, le loro mire si concentrarono invece sulle opportunità offerte dalle vendite nel Padovano. Nel solo 1406 la Signoria riuscì a vendere beni e diritti per almeno 59.000 ducati, per lo più versati da cittadini veneziani (10). I più bei nomi dell'aristocrazia della Dominante investirono parecchio denaro nelle terre offerte all'incanto, usufruendo altresì delle facilitazioni di pagamento concesse dal governo. Alcuni anni dopo si stimò che i beni acquisiti dai Veneziani nel Padovano entro il 1446 assicurassero loro una rendita di circa 18.000 ducati all'anno (11); capitalizzando questa cifra al 5 per cento si ottiene un valore di 360.000 ducati, che corrisponderebbe ad una parte degli interessi veneziani nel Padovano. Una cifra che peraltro non appare certo cospicua per la città lagunare, considerando che nel 1406 tre galee dirette ad Alessandria trasportavano merci per 350.000 ducati (12). I bisogni della finanza pubblica aprirono comunque uno spiraglio alla penetrazione fondiaria veneziana nell'entroterra, e nello stesso tempo il denaro degli acquirenti affluì nelle casse statali per risollevare le sorti del debito. Occorre inoltre considerare che a fronte della diminuzione della spesa militare, dovuta alla smobilitazione dell'esercito, iniziò ad affluire a Venezia il gettito delle imposte riscosse nel nuovo Dominio. Il bilancio dello Stato, insomma, godeva di un momento particolarmente favorevole.
Il periodo propizio s'interruppe nell'estate del 1411 con la guerra in Friuli contro il re d'Ungheria e futuro imperatore Sigismondo. Nuovi prestiti vennero imposti ai Veneziani e il prezzo dei titoli scese a livelli preoccupanti, sino ad arrivare nel giugno 1412 a 38 (13). In poco meno di due anni di conflitto (luglio 1411-aprile 1413) i contribuenti furono chiamati a versare circa il 17 per cento del proprio imponibile per fronteggiare una spesa che toccava i 50.000 ducati mensili solamente per le necessità ordinarie (apparato amministrativo, guarnigioni, flotta...) dello Stato (14). L'accentuata pressione fiscale si collocò in un quadro di diffuse difficoltà commerciali e di carestia. La tregua giunse opportuna e il governo riprese il versamento regolare degli interessi sugli imprestiti, ridotto e ritardato a causa della guerra; le quotazioni dei titoli di Stato si risollevarono, dietro la spinta governativa diretta all'affrancazione di una parte del debito, ed i traffici ripresero. Il costo del servizio del debito pubblico, stimato in 224.000 ducati annui, venne ridotto acquistando imprestiti sul mercato grazie al finanziamento proveniente dall'aumento del dazio sulla messetteria, un'imposta che gravava sui contratti di compravendita stipulati a Rialto e nel fondaco dei Tedeschi, e dalla vendita di beni nel Padovano, Vicentino e Colognese (15).
Dopo uno scontro col Turco nel 1416, Venezia si trovò nuovamente in conflitto con Sigismondo fra il 1418 e il 1420. La guerra le permise di estendere il proprio dominio sino al Friuli e di riprendere Feltre e Belluno, il Cadore ed alcune zone dell'Istria e della Dalmazia. Anche questa volta i contribuenti di Venezia dovettero fare la loro parte: numerosi imprestiti vennero decretati per finanziare la spesa militare, che venne altresì sostenuta dalle città venete recentemente acquisite. Nonostante l'arrivo dei Veneziani in Terraferma non avesse significato una drammatica rottura nei precedenti assetti fiscali, il governo aveva mostrato immediatamente un ovvio interesse verso le capacità finanziarie del Dominio. Subito dopo la conquista il senato aveva eletto delle commissioni di patrizi per "proveder e ordenar la spexa e l'intrada" di Padova e di Verona (16). Ma, in verità, si ha l'impressione che i nuovi signori non avessero calcato la mano. Nel 1414, ad esempio, Francesco Foscari, Bertuccio Pisani e Lorenzo Bragadin erano stati inviati a Padova, Vicenza e Verona per ottenere un prestito di 25.000 ducati. La scelta del prestito - sebbene celasse formalmente la connotazione dell'imposta - oltre ad appartenere alla filosofia tributaria del ceto dirigente veneziano sottintendeva il carattere ancora instabile, fluido, dei rapporti fra la Dominante e le città suddite. La stessa dadia delle lance, l'unica imposta diretta di norma gravante sul Dominio di Terraferma nel XV secolo, era nata sotto forma di contribuzione volontaria per il mantenimento di reparti militari. Nel 1417, in prossimità della seconda guerra con Sigismondo, essa aveva assunto il tratto dell'imposizione pressoché regolare assestandosi nei decenni successivi (17). La guerra in Friuli dunque permise a Venezia d'introdurre, pur in maniera discontinua, una prima forma d'imposizione diretta in Terraferma - sulla scia peraltro di qualche precedente dell'età signorile -, che comunque si sarebbe affiancata alla congerie di prestiti, sussidi e "doni" che caratterizzeranno i rapporti fiscali fra il Dominio di terra e la capitale soprattutto nel primo Quattrocento e che si protrarranno sino ai primi anni del XVI secolo.
Terminata la guerra lo Stato veneziano aveva ampliato sensibilmente i propri confini; un'espansione che però aveva gravato pesantemente sulla finanza pubblica e sulle tasche dei contribuenti. E poiché "niuna cossa parse più necessaria a Venetiani [annota un cronista] che salvar le borse de suo cittadi[ni] e scansar le spese" (18), si ridussero gli effettivi dell'esercito e si riprese ad alleviare la finanza statale del fardello del debito. Nel 1423 il doge Tomaso Mocenigo poté affermare con giustificato orgoglio che nel decennio precedente il debito della camera degli imprestiti era stato ridotto da io a 6.000.000 di ducati. In effetti la pressione fiscale sui Veneziani diminuì notevolmente ed i titoli statali raggiunsero quotazioni tra le più alte del secolo, come si può rilevare dalla Tab. 2.
Il doge Mocenigo, nella famosa arringa che avrebbe pronunciato per convincere i patrizi veneziani ad adottare una politica estera più moderata, tracciò un quadro assai positivo della situazione finanziaria: oltre alla diminuzione di una consistente parte del debito, il tesoro poteva vantare - secondo l'anziano doge - un'entrata annua di oltre 1.600.000 ducati; cifra, questa, che probabilmente era più il frutto di un'esagerazione, atta a sostenere le tesi pacifiste di Mocenigo, che della reale disponibilità finanziaria della Repubblica. Un documento databile alla medesima epoca del discorso, ad ogni modo, indica in 1.100.000 ducati le entrate ordinarie dello Stato (19); un livello che sembra abbastanza plausibile e che collocherebbe il bilancio veneziano tra i più rilevanti nell'Europa dell'epoca (20).
Il periodo favorevole della finanza veneziana si protrasse per breve tempo: dal 1426 infatti la Signoria fu impegnata sino al 1454, con rari intervalli, nell'aspra lotta delle guerre lombarde. Le sorti politiche e militari della Repubblica seguirono alterne vicende, ma ciò che risulta significativo è che il sistema finanziario fu sottoposto ad una pesante e prolungata tensione. La lega siglata con Firenze in contrapposizione a Milano costrinse Venezia a mantenere nel 1426 circa 20.000 soldati; cinque anni dopo l'esercito contava 15-16.000 uomini; alla battaglia di Caravaggio (1448) 20.000 soldati combatterono sotto lo stendardo di San Marco; altrettanti vennero acquartierati nell'aprile del 1450 nei territori di Verona, Brescia e Bergamo (21). Erano uomini che dovevano essere pagati, e bene; occorreva dunque denaro in gran quantità (fu stimato che i costi della guerra tra il 1428 e il 1438 avessero raggiunto i 7.000.000 di ducati, e nei primi anni '50 superassero i 500.000 ducati annui) (22), che potesse soddisfare le esigenze della potente macchina bellica messa in atto dai Veneziani. L'andamento della pressione fiscale seguì da vicino le diverse fasi del conflitto; numerosi imprestiti furono decretati nei periodi di guerra, salvo poi allentare la tensione durante le fasi di tregua o di pace armata. Fra il 1426 e il 1428 venne effettuato un prelievo pari a due terzi dell'imponibile; nel periodo 1431-1441, contrassegnato da accaniti scontri e da stati di allerta, le riscossioni decretate tramite i prestiti costituirono una percentuale media annua di poco meno del 10 per cento. Un momento di pausa arrivò fra il 1442 e il 1445; ma dall'anno seguente uno stato quasi continuo di guerra costrinse ad ulteriori inasprimenti, sino a giungere alla pace di Lodi del 1454.
I prestiti obbligatori non si dimostrarono assolutamente adatti a fronteggiare le drammatiche necessità, tanto che nel gennaio del 1439, allorché la quotazione dei prestiti era piombata al 20 per cento, il senato decretò un pacchetto di provvedimenti fiscali straordinari. A gennaio s'istituì un'imposta su ogni "fuoco" (corrispondente ad una singola casa) - chiamata impropriamente boccatico - di Venezia e del Dogado; la contribuzione avrebbe dovuto gravare su tutti gli abitanti e le somme versate, a differenza dei prestiti obbligatori, non sarebbero state restituite e non avrebbero assicurato alcun interesse. Come per un'analoga imposizione del 1412, si
trattò di uno dei primi tentativi di tassazione diretta personale concepita per tutta la popolazione, inclusi gli stranieri, della città e del Dogado. Assieme al boccatico furono emanate altre norme che prevedevano il prelievo di un terzo degli affitti delle case, delle possessioni e degli interessi pagati sui titoli statali, nonché ulteriori aumenti daziari. Di fatto, dunque, i creditori dello Stato iscritti nell'estimo cittadino videro diminuire il saggio d'interesse percepito a meno del 3 per cento, mentre quelli non estimati subirono una diminuzione al 2 per cento. Il carico sui contribuenti registrati nell'estimo si fece così gravoso che pochi mesi dopo, il 22 agosto, il senato fu costretto a ritornare sulle proprie decisioni. Le diverse imposizioni (boccatico, trattenute sugli affitti e sugli interessi dei titoli statali) furono revocate per coloro che erano iscritti nell'estimo, vale a dire per i cittadini sottoposti ai prestiti forzosi; i "non facientes de imprestitis" invece avrebbero continuato a corrispondere la loro quota. Il boccatico, ad ogni modo, non ebbe buona fortuna: a fronte di un gettito iniziale di circa 5.000 ducati all'anno - si denunciò nel 1450 - oramai l'imposta procurava alle casse statali appena un centinaio di ducati al mese (24). Del resto, gli scarsi introiti del boccatico furono dovuti alle oggettive difficoltà da parte delle autorità ad identificare chiaramente i potenziali contribuenti, e soprattutto ad adeguare l'imposta alle modifiche che si stavano verificando negli assetti economici e sociali della città. Vi sono - riconobbe il senato nel 1444 - "multi impotentes qui positi fuerunt ad solvendum buchaticum, et multi divites qui non solvunt aliquid"; e ancora a distanza di pochi anni si ribadì come esistesse un gran numero di "forenses" e di "non facientes de imprestitis qui habuerunt et habent multas utilitates et lucra, et tamen nullam angariam sentunt" (25). La pressione fiscale di quegli anni costrinse probabilmente molti Veneziani a vendere i propri titoli del debito pubblico per far fronte alle richieste degli esattori; titoli, quotati a livelli assai bassi, che vennero acquistati da speculatori e investitori i cui nomi non sempre figuravano tra gli estimati, e che, in base al prezzo d'acquisto del titolo (circa 25 negli anni '40), riuscivano ad ottenere un tasso di rendimento effettivo dell'8 per cento. D'altro canto un ulteriore indizio delle difficoltà che attanagliavano i contribuenti risulta dai numerosi ritardi nel versamento delle imposte e dalla diminuzione del loro gettito.
La quotazione degli imprestiti raggiunta nel 1439 era un evidente sintomo delle difficoltà nelle quali si stava dibattendo il sistema di deficit spending; e perciò anche durante i difficili periodi il governo cercò di destinare una parte, pur minima, delle entrate tributarie all'acquisto di prestiti in modo da sostenerne il prezzo e di rassicurare i creditori. La politica di francazione, tuttavia, doveva basarsi su un ulteriore ampliamento delle fonti d'entrata. Nel 1434, ad esempio, venne deciso che gli officiali del comune dovessero versare il 10 per cento del salario e delle utilità percepiti; un'analoga trattenuta fu prevista per il personale retribuito nei Domini, elevata al 15 per cento nel caso il complesso del salario e delle utilità avesse superato i 400 ducati annui. Il ricavato di questa imposta straordinaria assieme a quello di altri provvedimenti fiscali venne destinato al recupero di una parte dei prestiti. La macchina della finanza statale nondimeno mostrò preoccupanti segni di cedimento; segni che si concretizzarono in un crescente ritardo nei pagamenti degli interessi del debito, i cosiddetti pro. La "paga" - vale a dire l'ammontare semestrale degli interessi - di settembre 1434 venne sborsata con un ritardo di ben ventisette mesi, e il divario fu destinato ad allargarsi mano a mano che aumentarono le necessità di cassa: i pro relativi a marzo del 1438 furono pagati cinquanta mesi dopo, e quelli di settembre del 1442 registrarono un ritardo di cinque anni e nove mesi (26).
Se i contribuenti della capitale furono sottoposti ad una pressante domanda da parte del fisco, anche per quelli dei Domini da terra e da mar le richieste tributarie del governo non mancarono. Nel 1431 venne decisa un'imposizione per un ammontare di 26.000 ducati sugli Ebrei dell'Istria, di Corfù, Negroponte e Creta; e ancora vennero gravati nel 1439. Nel medesimo anno toccò ai sudditi e ai feudatari cretesi versare una somma di 9.000 ducati per i tre anni successivi; obbligo rinnovato anche nel 1449 (27). Accanto alla dadia delle lance, la cui esazione si stava facendo vieppiù regolare, le province della Terraferma versarono notevoli somme a titolo di prestito: tra il 1433 e il 1452 il consiglio civico di Padova decretò almeno sette prestiti, un sussidio, e il mantenimento di cento balestrieri a cavallo; Vicenza concesse mutui e sussidi nel 1435, e fra il 1437 e il 1439; Verona fece altrettanto nel 1433 e nel 1438; e il Trevisano partecipò con sei prestiti per una somma fra i 2.500 e 10.000 ducati nel periodo fra il 1437 e il 1452 (28). Si è già accennato al particolare significato di queste richieste di prestito, che sottintendono una serie di relazioni ancora instabili fra la capitale e le comunità soggette, ma che d'altro canto apparivano come un sistema relativamente efficace per rastrellare denaro in fretta. Infatti i rettori si rivolgevano ai cittadini più facoltosi per raccogliere la somma necessaria. A Padova, per esempio, il prestito del 1433 fu riscosso tra i contribuenti al di sopra di una lira d'estimo con un tasso minimo di prelievo di 6 lire e 11 soldi (0,65 per cento) per ogni 1.000 lire di capitale stimato (29). Una percentuale, questa, assai inferiore a quella che gravò nel medesimo periodo sui cittadini veneziani.
Accanto al vero e proprio strumento fiscale Venezia impiegò nei confronti della Terraferma anche la leva monetaria per tentare di trarre profitti. Negli anni '40, infatti, iniziò in maniera rilevante ad emettere moneta spicciola sensibilmente sopravvalutata destinata ai circuiti monetari del Dominio. Questa serie di provvedimenti, adottati esplicitamente - come si afferma in una delibera del senato - "ut quanto minus fieri possit angarizetur facultates civium nostrum", si poneva nel quadro delle possibilità che lo Stato aveva di manipolare la moneta per limitare la pressione fiscale. Questo svilimento, tuttavia, andava a colpire in particolare i sudditi della Terraferma, i quali si vedevano inondati di spiccioli e nello stesso tempo, però, erano costretti a pagare i loro debiti verso lo Stato in buona moneta d'oro e d'argento. Occorre rilevare, comunque, che i profitti assicurati dalla coniazione di moneta divisionale furono assai limitati - qualche migliaio di ducati, se consideriamo che il bilancio veneziano si aggirava attorno al milione di ducati (30).
Prestiti sui Veneziani, trattenute sui salari e sui pro, inasprimenti daziari, toccatici, sussidi e offerte della Terraferma, manipolazioni monetarie: nonostante l'accavallarsi di misure e provvedimenti straordinari la situazione finanziaria di Venezia si fece drammatica. Nel dicembre del 1452 i senatori veneziani nel momento in cui decretavano sei imprestiti per i quattro mesi successivi offrirono anche la possibilità di versare liberamente presso l'officio del sale una somma a titolo di prestito con un pro dell'8 per cento sino ad un tetto complessivo di 200.000 ducati. Una cifra certo non indifferente, se teniamo presente che essa corrisponderebbe all'incirca al gettito di cinque imprestiti (31). Non abbiamo notizie sull'esito di questo prestito volontario lanciato fra i Veneziani; tuttavia è presumibile che i senatori sperassero in un buon esito. Del resto, sebbene la pesante mano del fisco si stesse abbattendo sui contribuenti per un periodo assai lungo, il quadro dell'economia veneziana presentava dei colori vivaci. I pochi dati sul prezzo del pepe di cui disponiamo indicano che fra il 1426 e il 1450 si verificò una tendenza al ribasso, che potrebbe significare che il settore del commercio delle spezie - l'asse portante dell'organizzazione economica veneziana in quel secolo - stava godendo di una buona salute; ma occorre ancora una volta avvertire che questo indicatore è poco affidabile (32). Si può considerare, comunque, che tra il 1443 e il 1456 i patrizi veneziani versarono 221.510 ducati per l'incanto delle galee statali destinate ai commerci in Levante; una media annua di 15.822 ducati che rappresenta il doppio rispetto al periodo 1400-1413 (33). Andrea Barbarigo, che potrebbe essere indicato come il mercante tipo nella Venezia quattrocentesca, nel 1442 ebbe tutto il suo capitale disponibile impegnato nei traffici marittimi (34), a riprova dell'importanza attribuita alla mercatura come settore d'investimenti proficui pur in tempo di guerra nella Penisola italiana. Se il governo veneziano fu in grado di esercitare una gravosa e diffusa pressione tributaria ciò fu dovuto anche al fatto che il tono generale dell'economia lagunare era brillante. Certo, la sequela di prestiti forzosi e d'imposte vere e proprie, destinando una quota considerevole di denaro alle casse dello Stato, ebbe l'effetto di comprimere la domanda interna di beni e servizi. Nei momenti difficili, inoltre, speculatori abili e scaltri seppero approfittare dell'andamento del mercato finanziario per rastrellare titoli di Stato a basso prezzo posti in vendita da privati bisognosi di liquidità, accentuando così i disagi delle fasce sociali più deboli sottoposte alla tassazione. Sarebbe assurdo, dunque, negare le difficoltà che Venezia visse negli anni delle guerre lombarde: tuttavia se guardiamo anche al di fuori degli spazi lagunari, se seguiamo le rotte delle galee di mercato, se ci aggiriamo tra i fondaci di Costantinopoli, di Alessandria, di Aigues-Mortes, vedremo mercanti veneziani contrattare febbrilmente merci e preziosi, riempire le stive delle galee da inviare in patria, accumulare ingenti profitti, e quindi reinvestirli nella mercatura. Di questa attività di ingenti proporzioni su scala mediterranea ed europea beneficiò anche il fisco che, comunque, non riuscì ad invertire la tendenza espansiva dell'economia veneziana.
La finanza pubblica, infatti, a differenza dell'attività economica era giunta agli inizi degli anni '50 allo stremo: per tentare di ridarle fiato il senato adottò altri severi provvedimenti tributari nel dicembre del 1453, l'anno della conquista turca di Costantinopoli (35). Oramai - afferma la parte votata dai senatori - non si tratta più della gloria e della dignità dello Stato, ma "de propria salute et libertate", giustificando così la gravità delle misure da adottarsi. Come primo atto tutte le entrate riscosse per l'anno 1454 dagli uffici veneziani vennero destinate alla guerra, salvo una quota impiegata per l'ammortamento del debito pubblico, per il salario del doge, per la restituzione di prestiti concessi da banchieri, e per altri salariati; furono inoltre sospese le retribuzioni di tutto il personale nei reggimenti da terra e da mar ad esclusione dei soldati, e nello stesso tempo le riscossioni delle camere fiscali nei Domini vennero mobilitate per l'esercito. Gli affittuari veneziani avrebbero dovuto pagare in via straordinaria una somma corrispondente a metà del canone corrisposto per case e botteghe, mentre i proprietari sarebbero stati tenuti a pagarne un terzo. Le rendite provenienti dai diritti e dalle possessioni veneziane in Terraferma avrebbero dovuto subire un dimezzamento a favore dell'erario, o nella misura di un quarto qualora i beni fossero stati estimati per i prestiti forzosi. Gli Ebrei furono sottoposti ad una contribuzione di 16.000 ducati. Le tariffe daziarie sulle merci in entrata, salvo alcuni prodotti, furono accresciute dell'1 e del 2 per cento. Questa, in sintesi, la manovra finanziaria che nelle intenzioni del governo avrebbe dovuto portare nelle casse della Signoria un ammontare fra 700.000 e 1.000.000 di ducati. Una cifra certo considerevole, dove la quota relativa al gettito dell'imposizione diretta era probabilmente assai significativa. Una quota che assume un maggior significato se consideriamo che il governo non s'impegnò al pagamento di interessi o alla restituzione dei denari versati. Ciò costituì un passo decisivo verso l'adozione di un sistema tributario che introducesse l'imposta diretta a perdere generalizzata a tutto il corpo dei contribuenti.
All'indomani della pace di Lodi, siglata nell'aprile del 1454, apparvero chiare ai governanti veneziani tutte le debolezze manifestate dal meccanismo dei prestiti forzosi. Finché il bilancio dello Stato non era stato sottoposto a gravi sollecitazioni le entrate assicurate dalle imposte indirette avevano permesso la gestione ordinaria, integrata in caso di necessità da limitati prelievi a titolo di mutuo. Il sistema, anzi, aveva favorito i contribuenti-prestatori, che ricevevano una rendita - tenue ma sicura - sul denaro versato alla camera degli imprestiti. La guerra di Chioggia e i successivi gravosi impegni in Terraferma e nel Levante crearono delle irreparabili tensioni tra le stringenti necessità della finanza pubblica e i limiti del sistema impositivo. I bisogni della Signoria non permisero di sostenere adeguatamente i prezzi dei prestiti sul mercato, allarmato dalle continue richieste di denaro e dalle crescenti difficoltà del governo di pagare regolarmente i pur ridotti pro ai creditori. Le scadenze semestrali di pagamento non vennero rispettate, accumulando così enormi arretrati che minavano l'immagine della finanza pubblica di fronte ai creditori.
Per tentare di ristabilire la fiducia dei cittadini e perché la camera degli imprestiti "respirare possit", il governo dispose nel luglio del 1455 che i proventi delle trattenute sui salari e di una parte di alcuni dazi nonché una contribuzione straordinaria di 5.000 ducati annui da parte degli Ebrei dei Domini per i cinque anni successivi venissero destinati alla francazione del debito pubblico (36). Oramai però - secondo Gino Luzzatto - i prestiti avevano "cessato di essere una cosa viva" (37): anche dopo la fine del lungo conflitto le loro quotazioni non erano cresciute, come ci si sarebbe potuto aspettare, anzi, nel 1458 il prezzo era calato a 24, ben al di sotto dei livelli registrati durante la guerra. Dopo la pace le imposizioni di nuovi prestiti, comunque, furono assai limitate: a seguito di necessità annonarie fu richiesto l'1,3 per cento dell'imponibile nell'ottobre del 1456, e la medesima percentuale esattamente un anno dopo (38). Si trattava, ad ogni modo, di prestiti che sarebbero stati rimborsati in breve tempo. Anni tranquilli per i contribuenti veneziani, dunque; una quiete che sarebbe durata sino all'estate del 1463, allorché i preparativi della flotta e l'arrivo di numerosi soldati in città allarmarono i contribuenti.
In quell'anno la Signoria approntò una spedizione militare diretta in Morea per combattere i Turchi. Fu l'inizio di una guerra che, fra alterne vicende, si sarebbe conclusa solamente nel 1479 con la perdita di Negroponte, di Argos e di Scutari. L'evidente inadeguatezza del vecchio sistema legato ai prestiti forzosi condusse il governo ad escogitare una soluzione alternativa. Si arrivò così all'istituzione della decima il 15 giugno 1463 (39). Dopo aver giustificato il provvedimento con la necessità della "conservatione status nostri" e con la volontà di raccoglier denaro "cum omni possibili equalitate", la parte del senato si apre con un'invocazione a Gesù Cristo, a sottolineare la solennità del momento e, soprattutto, a legittimare la misura fiscale diretta a sostenere la guerra contro i Turchi. L'idea di crociata rappresentò uno dei pilastri ideologici su cui si poggiò l'azione tributaria della Signoria; era lo Stato marciano, infatti, che si atteggiava a difensore degli avamposti della cristianità dalla crescente avanzata ottomana sulle coste del Mediterraneo orientale. E ciò, tra l'altro, permise a Venezia di tassare, dietro approvazione della Santa Sede, gli ecclesiastici dello Stato. Il denaro riscosso sarebbe stato speso "ad [...] honorem et gloriam" del Cristo. In questa dichiarazione si potrebbero scorgere alcuni elementi che, proprio al tramonto del Medioevo, operarono a concepire il fisco come "res quasi sacra" (40). Il governo veneziano riscuoteva le imposte nel nome divino, in nome di una lotta sacra contro il Turco; lo Stato, presentandosi come l'artefice della gloria divina, ne assumeva in sé la sacralità e nello stesso momento rendeva il versamento dell'imposta come un dovere morale.
Tornando ai dispositivi della legge del 1463, venne costituita una commissione di patrizi perché redigesse un catasto di tutte le rendite di case, possessioni e beni dei Veneziani sia nel Dogado che in Terraferma; inoltre un analogo catasto doveva essere redatto circa le diverse rendite degli ecclesiastici. I detentori delle cedole di prestiti al 4 per cento, poi, avrebbero subito il prelievo della decima sugli interessi; e così pure una tansa avrebbe colpito le botteghe. Anche le mercanzie e le attività marittime, allorché fosse stata decretata una decima, avrebbero dovuto essere gravate di una percentuale dell'1 per cento. Gli Ebrei della Terraferma invece avrebbero pagato una contribuzione annua di 3.000 ducati, mentre quelli del Dominio da mar ne avrebbero versati 2.000. È opinione generale che il nuovo catasto, redatto da una commissione che avrebbe indagato anche in Terraferma, abbia rappresentato un salto di qualità rispetto al precedente estimo personale, assai sommario ed impreciso. Un giudizio, questo, che forse non rende del tutto merito agli estimi precedenti. In effetti, una delle poche dichiarazioni fiscali quattrocentesche rimasteci - quella del nobile Guglielmo Querini del 1439 (41) - offre l'impressione di una certa accuratezza; accuratezza che beninteso avrebbe dovuto essere vagliata dalle autorità, ma che comunque specifica numerosi elementi che non si ritroveranno nelle dichiarazioni del secolo successivo. D'altro canto gli estimi veneziani godevano di una notevole fama anche in altre città, e costituirono un punto di riferimento nelle accese discussioni che animarono le assemblee fiorentine riguardo i sistemi di accertamento fiscale (42). È importante sottolineare, ad ogni modo, che il decreto del 1463 non faceva alcun riferimento al rimborso dell'imposta versata o alla corresponsione di un pro. La nuova decima, insomma, si configurò anche sul piano del diritto come una vera e propria tassa a perdere, la cui riscossione poteva dipendere "iuxta occurentiam". La tendenziale regolarità del tributo e l'estensione dell'imponibile, sia sulle persone che sui diversi beni e redditi, contribuirono così a rafforzare ulteriormente la legittimità dell'imposizione diretta anche nei confronti del Dominio da terra: infatti, ora sarebbe risultato più arduo per i rappresentanti delle città soggette opporsi alla dadia nel momento in cui a Venezia di fatto s'istituiva un'analoga e più pesante gravezza.
L'occasione per imporre la decima non si fece attendere. Il 28 giugno 1463, nell'immediata vigilia del conflitto con la Sublime Porta, il senato decretò la prima decima (43), assieme agli altri prelievi fiscali previsti qualche giorno prima, alla quale nel corso degli anni successivi se ne sarebbero aggiunte molte altre, come viene evidenziato dalla Tab. 3.
La riscossione della prima decima e della tansa sulle botteghe fece affluire nelle casse dei governatori delle entrate circa 120.000 ducati (44): una cifra certo considerevole, che corrispondeva al 10 per cento delle entrate (1.120.000 ducati complessivi) della Repubblica in quegli anni. Il conflitto col Turco in effetti costrinse la Signoria ad usare con una certa frequenza i tributi diretti, sulle proprietà, sui diversi redditi, sulle retribuzioni degli officiali e così via. Un anno di guerra secondo il cronista Domenico Malipiero costava attorno a 1.200.000 ducati (45); in sostanza tutte le entrate della Repubblica sarebbero state ingoiate dalla macchina militare. La regolarità delle decime - poco più di due all'anno fra il 1463 e il 1480 - non deve perciò sorprendere. Occorre tuttavia sfumare il significato eversivo che la sequenza regolare di decime potrebbe assumere.
Sarebbe errato ritenere che la decima avesse completamente soppiantato il precedente sistema basato sui prestiti forzosi. Le nuove imposte, infatti, si posero in bilico
tra la radicata concezione legata al prestito e quella connessa al tributo a perdere, che lentamente si stava facendo strada nelle scelte di politica fiscale del governo. Se nei primi anni della sua istituzione non si accenna nelle delibere alla decima come forma di mutuo, nel 1468 invece si dichiarò che i denari prelevati tramite le decime numero 11 e 12 (ogni decima venne identificata da un numero progressivo a partire dalla prima del 1463) sarebbero stati restituiti nel giro di due anni, e a tale scopo si destinò una parte dei proventi dell'officio del sale e delle trattenute sui salari degli officiali (47). Poco dopo, però, venuta a mancare la motivazione che aveva condotto all'imposizione, le due decime vennero revocate, e i circa 1.500 ducati già riscossi vennero restituiti ai contribuenti. Questo provvedimento, certo inusuale, può offrirci qualche spunto per tentare di cogliere la filosofia fiscale che stava alla base delle scelte del patriziato veneziano fra gli anni '6o e '70 del Quattrocento. Anzitutto occorre rilevare che, cessando la necessità del tributo, venne meno agli occhi dei governanti anche il motivo delle due decime. Ciò sarebbe il segno, a mio vedere, oltre che della volontà di non appesantire la pressione fiscale sui contribuenti, anche della concezione che legava ancora in maniera stretta l'imposta diretta - sottoforme diverse - alle stringenti esigenze della finanza straordinaria. Si trattava di una visuale che non riusciva a staccarsi dai limiti - politici e ideologici prima di tutto, e poi finanziari - che erano emersi drammaticamente nei decenni successivi alla guerra di Chioggia; limiti che nondimeno dovettero essere superati dalle sempre più pressanti esigenze della finanza statale. Così, negli anni '6o e '70 s'iniziò, pur lentamente e tra diverse contraddizioni, ad avviarsi verso un'imposizione diretta e generale sostenuta da un accertamento fiscale più razionale che in passato; tuttavia imposte a perdere e prestiti avrebbero vissuto fianco a fianco ancora per qualche decennio. Accanto alle decime a perdere, infatti, il senato ne deliberò altre che di fatto sostituirono i vecchi prestiti forzosi.
Così come per gli impegni bellici precedenti anche in questa occasione alle comunità soggette della Terraferma fu richiesto di versare il proprio contributo. Oltre alla dadia delle lance, oramai riscossa regolarmente, i contribuenti pagarono a titolo di prestito e di sussidio una somma considerevole. Nel 1470, ad esempio, Padova offrì 6.000 staia (oltre 1.200 quintali) di biscotto destinate alla flotta; due anni dopo la Signoria chiese un prestito di 12.000 ducati; e nel 1475 venne concesso un sussidio di 5 lire e 3 soldi su ogni lira d'estimo (0,51 per cento di prelievo sul capitale stimato). Verona, dal canto suo, contribuì con due sussidi nel 1473 e nel 1475 per un ammontare totale di 16.000 ducati; e analoghi contributi pervennero da Vicenza fra il 1472 e il 1474 e da Bergamo nel 1475. Tutta la Terraferma fu chiamata a versare un sussidio nel 1475 per 25.000 ducati (48). Offerte, prestiti e sussidi implicavano nella forma e nel loro profondo significato un determinato rapporto fra le comunità soggette - in primo luogo i consigli cittadini dei maggiori centri della Terraferma - e la capitale. L'offerta in natura o il sussidio in moneta sottintendeva sul piano teorico una libera scelta dei Corpi sudditi; essi sceglievano di offrire alla Dominante un aiuto secondo modalità proprie. Allorché Venezia accettava questo aiuto si obbligava implicitamente a ricambiare, in quanto il dono o il sussidio comportano uno scambio reciproco (49); la contropartita potrebbe essere vista nell'ampio spazio d'azione goduto dalle aristocrazie urbane nel Dominio. I consigli municipali in effetti esercitarono a lungo uno stretto controllo sulla vita cittadina e nei riguardi del contado: finanza locale, meccanismi impositivi, amministrazione della bassa giustizia, sistema annonario rappresentavano dei settori sui quali la tutela delle élites locali era pressante. Il patriziato veneziano, dal canto suo, cercò di limitare notevolmente i propri interventi evitando d'intromettersi - salvo in qualche occasione, come nel caso di Padova - nei complessi intrecci di potere nel Dominio. Così agendo, il governo si assicurò una sostanziale collaborazione da parte dei nobili sudditi anche per quanto riguardava l'imposizione fiscale e la concessione di prestiti e sussidi. Ciò naturalmente non significa che fossero assenti tensioni e scontri fra la capitale e le città suddite; tuttavia, preso nel suo insieme il sistema di equilibrio fra gruppo dirigente marciano ed élites locali assicurò una certa stabilità ed un conseguente flusso di denaro nelle casse statali.
La situazione della finanza pubblica, nonostante le decime, i provvedimenti straordinari, i sussidi e i prestiti del Dominio da terra, gli aiuti di altri Stati italiani, tuttavia era drammatica. Le difficoltà dell'erario riflettevano i problemi che assillavano i contribuenti, e anzitutto i mercanti, i cui commerci erano diminuiti a causa dell'insicurezza dei mari e dei pericoli della guerra. "[...] la Terra no ha i so traffichi [annotava Domenico Malipiero nel 1475] e no corre 'l danaro, no paga le so angarie"; oramai era voce comune che "le borse de particulari è vuote, e le facultà destrutte; no ghe è danari da pagar refusure [imposte], né da mantegnir l'armada" (50). Un sintomo delle difficoltà a riscuotere le imposte è dato dalle agevolazioni offerte a coloro che avessero versato la decima entro i termini prestabiliti: nel gennaio del 1471 Si previde un "don" (sconto) del 3 per cento a chi avesse pagato la decima entro il 5 febbraio; altri decreti successivi offrirono il 2 per cento, sino ad arrivare al 5 per cento nell'ottobre del 1474 e in alcune occasioni seguenti (51). Vantaggi, questi, che certo non risolsero la situazione, poiché il numero dei debitori crebbe a mano a mano che la guerra proseguiva. Si arrivò così all'indomani della pace, siglata nella primavera del 1479, quando le autorità furono costrette ad ammettere che "quamplurimi debitores pro infinita pecuniarum summa" erano registrati nei libri contabili degli uffici finanziari di Venezia. Finalmente, giunta la fine del conflitto, sembrò che i traffici potessero riprendere e che le pretese del fisco dovessero attenuarsi; la città insomma si preparava a riprendere a pieno ritmo le proprie attività. Ma questo momento tanto atteso durò poco: se il mare si era fatto più tranquillo da parte di terra si stavano avvicinando sinistri rumori, che avrebbero condotto ad una vera e propria tempesta.
Gli anni 1480 e 1481 videro Venezia mantenere un considerevole numero di cavalieri (fra i 6 e gli 8.000) e circa 3.000 fanti: un esercito consistente, tenendo conto che la Signoria non si trovava impegnata in alcun conflitto, ma che indica lo stato di tensione che regnava nella Penisola. Una tensione che sfociò nella guerra che Venezia dichiarò contro il duca di Ferrara nell'aprile del 1482. La decisione di scendere in campo aveva provocato delle divisioni all'interno del patriziato: molti "padri antiqui" temevano lo scontro e le pesanti conseguenze che ne sarebbero derivate. C'era chi, come Francesco Venier, avvertiva che la città era "stracca", e "stracche" erano anche le comunità soggette; che una nuova guerra avrebbe attirato le inimicizie delle altre potenze italiane, e che occorreva ben considerare se Venezia avesse "più bisogno de scudo che de spada". Al procuratore Venier si contrapponeva Francesco Michiel, fautore di una politica più aggressiva verso quel "ducheto": Venezia - proclamava il nobile senatore - avrebbe sostenuto "allegramente" qualsiasi gravezza, essendo "assuefatta a la spesa e a i incomodi della guerra". Occorreva sfruttare il momento favorevole: il mare "è averto" - incalzava Michiel - e a causa della guerra "no se allenterà i traffeghi" e i dazi "e tutte le altre utilità che porta la navigazion continuerà" (52).
Ad aprile si misero in moto la macchina militare e quella finanziaria. Per far fronte alla "grandissima spexa" prevista il governo tentò di raccoglier denaro "per tutte le vie possibili": oltre all'imposizione di decime e alla richiesta di prestiti a privati e a banchieri, furono prelevati dalla procuratia i 240.000 ducati che il condottiero Bartolomeo Colleoni alla sua morte aveva lasciato alla Signoria, permettendo così a Venezia di "intrar [...] gagiarda" nel conflitto (53). Si trattava tuttavia di espedienti oramai tradizionali, che avevano dimostrato in altre occasioni la loro inadeguatezza; occorreva inoltre risollevare le sorti del debito pubblico. Le quotazioni dei vecchi imprestiti nel 1481 erano oscillate fra il 9 e il 12 per cento (54), un livello che oramai testimoniava l'agonia in cui si dibattevano i titoli connessi al vecchio sistema. Nel 1482 l'ammontare del debito consolidato si aggirava sugli 8.269.000 ducati (55), una cifra enorme, che certo non invogliava i Veneziani ad accrescerla. Era necessario insomma ridestare la fiducia dei contribuenti nella capacità finanziaria dello Stato abbandonando definitivamente il regime precedente e offrendo al tempo stesso dei titoli freschi su cui i Veneziani potessero far affidamento.
Il "novo modo" di riscuotere i prestiti venne deciso il 21 aprile 1482 (56). Le due decime che si imponevano annualmente - affermava la parte del senato - non erano certo sufficienti a sostenere i costi della guerra, e inoltre accrescere il loro numero avrebbe messo in difficoltà i contribuenti meno facoltosi; era necessario dunque trovare denari a prestito e "tuorli da chi cum più facilità i pono pagar, et cum utel suo, azoché ultra el esser astretti siano più facili ad prestarli". Coloro che superavano gli otto ducati a titolo di decima o di tansa - continuava il decreto - avrebbero dovuto perciò versare nei tempi prestabiliti tre decime il cui capitale - da restituirsi al termine del conflitto - avrebbe fruttato il 5 per cento annuo da corrispondere in due rate semestrali. Né il capitale così come gli interessi sarebbero stati sottoposti a tassazione o a sequestro e inoltre era facoltà dei possessori di contrattarli liberamente sul mercato. La somma massima da raggiungere con il lancio del nuovo prestito sarebbe stata di 550.000 ducati, con un corrispondente interesse annuo di 27.500 ducati. Si espressero a favore 98 senatori contro 10 dissenzienti e 7 astenuti. Due giorni dopo il maggior consiglio approvò con una maggioranza di 992 nobili a fronte di 147 contrari e 72 astenuti. Dopo poco la nuova serie di prestiti prese il nome di Monte nuovo per differenziarla dal Monte vecchio, che raccoglieva la serie anteriore il cui debito venne consolidato.
Si potrebbe ritenere che rispetto ai precedenti imprestiti l'istituzione del Monte nuovo non avesse portato alcuna novità, tuttavia qualche elemento sostanziale venne introdotto. Anzitutto si ravvivò la fiducia dei prestatori assicurando l'intangibilità dei pro e la loro corresponsione mediante un fondo finanziario apposito; in secondo luogo l'area da cui prelevare i prestiti forzosi era rappresentata da una base imponibile assai più affidabile che nel passato; infine si disposero, almeno inizialmente, dei limiti alla lievitazione del debito del Monte nuovo garantendo la copertura dei pagamenti con diverse entrate. Così, ad esempio, il 27 luglio 1483 si mantennero alcune imposte straordinarie, decretate durante la guerra turca, per aumentare il livello del Monte nuovo a 950.000 ducati, con una relativa corresponsione di 47.500 ducati in pro (57).
La risposta dei contribuenti fu per le autorità abbastanza soddisfacente. Anche la popolazione contribuente partecipò del generale fervore che colpì la città alla notizia della guerra contro il vicino duca, e ciò si riflesse sul gettito delle decime. Marino Sanuto annotò come queste venissero pagate "prontamente", sia quelle a perdere quanto quelle destinate al Monte nuovo (58). Il gettito di 80-90.000 ducati stimato da Domenico Malipiero per ciascuna decima in effetti potrebbe far pensare ad una reazione positiva da parte dei Veneziani alle richieste della Signoria (59). Il nobile Francesco Mocenigo, ad esempio, soddisfece con una certa rapidità il suo obbligo fiscale: se egli pagò la prima decima al Monte nuovo 14 giorni oltre i termini previsti, la decima successiva - imposta il 27 maggio 1482 con scadenza 8 giugno - fu versata il 10 giugno, ed egli approfittò di essersi recato presso l'ufficio tributario per saldare anche la terza, istituita il 4 con scadenza la fine del medesimo mese (60). Nei mesi successivi i pagamenti di Mocenigo si susseguirono con una cadenza assillante: tra settembre e ottobre tre decime, che così portarono la somma versata al Monte nuovo nel 1482 a 242 ducati. L'anno successivo il patrizio veneziano sborsò ben 552 ducati suddivisi fra 14 decime. Egli pagò in media al Monte nuovo per i primi due anni di guerra 37,8 ducati per ciascuna decima; 46 ducati al mese nel 1483. A titolo di confronto, in quegli anni un calafato dell'Arsenale poteva guadagnare poco più di una quarantina di ducati all'anno; ed era considerato esiguo un salario annuo fra i 10 e 20 ducati (61).
Oltre alle decime a restituire naturalmente il governo impose anche quelle a perdere, oramai esatte due volte all'anno, nonché altri gravami straordinari. Gli urgenti bisogni dell'esercito, tuttavia, che richiedevano un flusso continuo di denaro per soddisfare le truppe, costrinsero la Signoria a chiedere ai banchieri locali dei prestiti in modo da inviare velocemente il denaro al fronte. Il problema era assai semplice: occorreva denaro "presto et pronto", ma i tempi di riscossione delle imposte non permettevano di fronteggiare velocemente le necessità. Ecco dunque l'intervento dei banchieri, che anticipavano le somme al governo, il quale s'impegnava a restituirle obbligando il gettito delle future entrate. Nel 1482 operavano a Venezia quattro banchi: Soranzo, Garzoni, Pisani e Lippomano. Tra metà maggio e novembre i banchieri fornirono alla Signoria oltre 106.000 ducati (62), che corrispondevano pressappoco ad un dodicesimo delle entrate statali e superavano, seppure non di molto, i proventi di una decima.
La guerra, che si sperava si risolvesse nel giro di breve tempo, si prolungò, oltretutto con esiti non sempre favorevoli alle truppe veneziane. Se ancora nel 1482 Domenico Malipiero poteva scrivere che l'abbondanza di denaro a Venezia attirava i soldati al servizio di altri principi, un anno dopo l'ebbrezza che aveva percorso la città si muterà in un cupo sentimento d'angoscia. Dal fronte giungevano inquietanti notizie, la carestia si stava diffondendo ed incideva sul prezzo dei grani aumentando l'allarme fra i patrizi e lo sconcerto tra la popolazione. "Adesso se considera [sintetizzò amaramente il cronista Domenico Malipiero] che la guerra de Ferrara ha causato tutti questi inconvenienti": 128.000 ducati sono stati versati (non è specificato a quale titolo) dai mercanti per assicurare gli interessi del Monte nuovo; le tariffe daziarie sono state aumentate di un terzo; le botteghe e i magazzini di Rialto sono stati impegnati; la Zecca ha pagato prezzi elevati per ricevere argento dai privati; "è stà tolto le cadenele d'oro che le donne portava al collo, e messe in comun"; sono stati ridotti drasticamente i salari degli officiali; oltre alle decime si sono imposte anche le tanse, che andavano a colpire in particolare le attività commerciali e artigianali della città; le entrate di Venezia e delle città soggette sono diminuite; si sono perdute molte galee; sono stati arruolati soldati "nudi e rotti, perché no se ha possuto far altro"; l'Arsenale, "che altre volte ha fatto tremar el mondo", è in difficoltà; sono stati spesi 1.200.000 ducati e sono morti "tanti homeni da ben"; "avemo fame e peste" e quindi - conclude Malipiero - "mendicheremo la pace, e ghe restituiremo el tolto" (63). Sentimenti, questi del nobile veneziano, che probabilmente erano condivisi dalla maggioranza dei Veneziani. In effetti il conflitto (i cui costi furono stimati in 2.000.000 di ducati) (64) aveva provocato una grave pressione fiscale sui contribuenti, che dovettero sostenere ben 37 decime, di cui 30 al Monte nuovo (65); certo uno sforzo considerevole, che inferse un duro colpo alla città collocata in uno sfondo di difficoltà economiche e che aspirava finalmente a "star quieta in mare e in terra".
La pace del 1484 dunque fu considerata da molti come l'avvenimento che potesse risollevare le condizioni di Venezia. Le voci che avevano preceduto la fine del conflitto furono sufficienti ad innalzare il livello delle quotazioni del Monte nuovo da 54 a 65 (66), infondendo nuova fiducia tra i prestatori. I provvedimenti attuati in seguito mirarono a riordinare la finanza pubblica e il debito del Monte nuovo. La crisi del 1487 con l'imperatore Massimiliano nel Trentino non costituì per l'erario e per i cittadini un momento particolarmente difficile: il governo infatti decretò solamente cinque decime. L'anno successivo si ripresero alcune disposizioni per affrancare la Signoria da una parte dei debiti nella camera degli imprestiti e nel 1491 Si diede inizio alla liquidazione dei titoli di debito nel Monte nuovo (67). Infatti, nonostante nel 1482, all'atto della nascita del Monte, si fosse dichiarato solennemente che il denaro raccolto sarebbe stato restituito a guerra finita, ciò non era ancora avvenuto. Le operazioni di affrancamento perciò presero avvio contribuendo ad offrire un'immagine rassicurante del governo e della salute economica della città. Nel febbraio del 1492, ad esempio, vennero destinati 60.000 ducati per l'acquisto sul mercato di titoli del Monte nuovo (68).
Verso l'ultimo decennio del XV secolo la Signoria poteva contare su un'entrata annua di poco più di 1.100.000 ducati, di cui circa un quinto proveniente dalle imposte dirette sui redditi immobiliari a Venezia e in Terraferma, sulle attività commerciali, sui pro dei vecchi imprestiti e sugli stipendi degli officiali, mentre la gran parte degli altri cespiti derivava dai dazi sul commercio, sulla produzione e sul consumo. La principale voce della spesa era rappresentata dalla flotta militare e dall'Arsenale nonché dall'esercito terrestre, mentre circa 200.000 ducati erano destinati al pagamento dei pro dei due Monti. In quegli anni, insomma, il bilancio statale pare godere di un certo equilibrio fra entrate e uscite, con una relativa incidenza del debito pubblico a fronte tuttavia di un'imposizione diretta, divenuta oramai ordinaria, abbastanza significativa rispetto al passato. Nei primi anni '90, comunque, il senso d'ottimismo che aleggiava in città appariva a tutti giustificato.
Con l'inizio delle guerre d'Italia, nel fatidico 1494, si aprì una fase assai turbolenta che vide impegnata la Repubblica di Venezia in un ruolo di protagonista. Alla fine di quell'anno, per fronteggiare l'esercito di Carlo VIII che aveva attraversato la Penisola con estrema facilità, la Signoria mobilitò l'esercito da schierare a fianco di quello degli altri Stati italiani. A novembre furono imposte due decime a perdere e due da prestare al Monte nuovo dalle quali si sperava di trarre circa 300.000 ducati da destinare alle genti d'arme che si stavano mobilitando (69). Questi provvedimenti allarmarono i Veneziani tanto che le quotazioni dei titoli del Monte nuovo registrarono un calo: mentre nel recente passato essi erano stati valutati attorno a 93 sino ad arrivare alla parità nel marzo del 1494, a testimonianza della "abundantia et moltitudine de danari" che regnava in città, nel febbraio del 1495 il mercato reagì alla stretta tributaria con una flessione del valore dei titoli a 80 su 100, come si rileva dalla Tab. 4, che evidenzia l'andamento dei prezzi sino al 1506.
In effetti il mercato finanziario realtino - considerato a buona ragione il barometro della situazione economico-politica di Venezia - reagì immediatamente ad una scelta, l'entrata in guerra contro il re di Francia, che appariva assai impegnativa. L'esercito necessitava nell'estate del 1495 fra i 55 e 70.000 ducati mensili (70); una cifra assai elevata, che corrispondeva pressappoco al gettito annuo del dazio sul vino, una delle principali voci del bilancio statale. Una volta che Carlo VIII riuscì a tornare in Francia gli impegni bellici della Signoria si concentrarono nel meridione, dove erano rimasti presidii francesi, e nell'appoggio a Pisa, ribellatasi a Firenze. La politica della Signoria si era dispiegata sulla Penisola con l'obiettivo di assicurare a Venezia il controllo delle vie commerciali; ma era una politica che costava. I Veneziani - scriverà il mercante Girolamo Priuli nel 1497 - hanno speso "uno pozo d'oro" consumatosi nella guerra (71). I segni che i contribuenti erano stanchi della continua domanda statale giunsero ben presto, segnali certo non clamorosi ma indicativi di una certa resistenza. Sino a maggio 1495 le quattro decime imposte in precedenza avevano fruttato 124.000 ducati a fronte di 52-54.000 ducati non versati dai contribuenti. Circa un terzo dei cespiti previsti, dunque, non venne riscosso, nonostante fosse prevista per i debitori una multa del 10 per cento della somma da corrispondere. Davanti alle difficoltà di rastrellare denaro per mezzo dei normali strumenti tributari il governo decise di ricorrere ad altri espedienti che potessero attirare i prestatori. Si promise perciò a chi avesse portato argenti in Zecca un utile del 12 per cento da scontare sulle somme dovute a titolo di decima e si impegnarono i magazzini a Rialto ad un tasso dell'8 per cento (72). Furono inoltre venduti titoli del Monte nuovo ad un prezzo di 75 su cento. Si verificò una vera e propria corsa all'investimento: in un solo giorno uno dei patrizi addetti ad accettare il denaro raccolse 52.000 ducati. Con una certa ironia Domenico Malipiero commentò nel giugno del 1495 come vi fosse una gran quantità di "danari morti" dopo che "i homeni se contenta de investir a 6 e mezzo per cento" (73). In realtà le prospettive sullo scorcio del Quattrocento non sembravano favorevoli agli operatori veneziani; la sostenuta pressione fiscale e le incertezze dovute alla guerra potevano spingere a trovare una collocazione più sicura per i propri gruzzoli versandoli in prestito nelle casse statali. La corsa al prestito, comunque, è altresì indicativa della fiducia che i Veneziani nutrivano nei confronti del governo e della sua solvibilità.
Il ricorso alle decime e alle offerte del Monte nuovo, la ricerca di prestiti tra i privati e l'alienazione di immobili a Rialto da una parte avevano reso manifeste le
difficoltà nelle quali si dibatteva la finanza pubblica, e dall'altra avevano esacerbato gli animi di chi vedeva che il carico fiscale non era equamente distribuito. I limitati proventi delle decime, attorno ai 30.000 ducati ciascuna, provavano che i contribuenti non riuscivano a soddisfare le continue richieste del fisco; i debitori d'imposta iscritti alle cazude - vale a dire all'ufficio che s'occupava dei debitori morosi - aumentavano, soprattutto tra gli strati sociali meno agiati, e rischiavano multe che appesantivano ulteriormente il debito. Queste decime - osserverà con occhio disincantato Domenico Malipiero - "fa per i richi; ma i poveri è desvantazai per la pena". Gli unici che possono sopportare tale carico di tasse - continua il nobile
veneziano - sono i ricchi, e questi appartengono al senato e al collegio, e controllano i traffici marittimi; sono gli stessi che hanno approfittato delle concessioni sui magazzini di Rialto e che hanno acquistato i titoli del Monte nuovo al 75 per cento; sono loro che impediscono l'aggiornamento del catasto "perché no se togia 'l danaro a chi l'ha" (75). Pesanti accuse, quelle di Domenico Malipiero, pesanti ancor più se si considera che provenivano da un appartenente al ceto nobiliare, verso cui si indirizzavano le sue critiche. Critiche che certo non apparivano infondate e che probabilmente erano condivise da quella parte di patrizi, che si amplierà sempre più nei decenni seguenti, che si dibattevano in difficoltà economiche e che vedevano allargarsi il divario con le famiglie più doviziose del ceto dirigente. Famiglie che coniugavano ricchezza e potere politico, clientele e prestigio.
Il prelievo fiscale comunque non impedì il regolare svolgimento dei traffici marittimi, dando la sensazione di un mercato ancora florido. Nonostante negli ultimi mesi siano state imposte venti decime - commenta ancora Malipiero nel 1496 - le galee per Alessandria sono salpate con un carico per 220.000 ducati, e quelle per Beirut ne trasportano per 120.000, senza contare le merci per la Siria, i 74.000 ducati versati per i magazzini a Rialto e gli investimenti nel Monte nuovo (76). La guerra, insomma, non sembrava drenare troppo denaro dalla città, sebbene l'impegno a fianco dei Pisani avesse richiesto sino al dicembre del 1496 circa 150.000 ducati. Il mercato tuttavia non sembrava partecipare di tanta fiducia: il prezzo dei titoli del Monte nuovo crollò a 66 in seguito alle incertezze sulla solvibilità del governo. Il Monte nuovo, infatti, aveva accumulato un debito di almeno 1.600.000 ducati con un conseguente interesse passivo di 80.000 ducati annui; si temeva che il Monte avrebbe subito la medesima sorte del precedente, i cui pro erano stati ridotti drasticamente (77). La spesa della macchina militare terrestre non dava tregua; nel novembre del 1498 l'esercito divorava 85.000 ducati, per lo più spesi "in terre aliene", senza cioè che gli effetti vantaggiosi di tale sforzo ricadessero in una certa misura sui territori della Repubblica. Si sentiva il bisogno di una tregua, di "metterse alla pase, e respirar da tanta spesa". Negli ultimi sedici anni - annota Malipiero nel 1499 - la città è rimasta "vacua de danari" per l'istituzione del Monte nuovo, per i numerosi fallimenti (che comunque comportarono un trasferimento di denaro dai banchieri ai loro creditori), per la tassazione: trentasette decime imposte per la guerra di Ferrara, cinque per gli scontri con gli Imperiali, diciotto per la discesa dei Francesi e infine dieci per sostenere Pisa. Un mondo di denaro, un "pozo d'oro" era stato profuso in guerra - incalza Girolamo Priuli - senza ottenere benefici; anzi, difficilmente Venezia avrebbe potuto sopportare ulteriori impegni (78).
Il secolo si concluderà invece con un'altra prova per la Signoria; una prova terribile, che la vedrà difendersi in Oriente dai rinnovati attacchi turchi, che si spingeranno sin addentro al Friuli, e in Italia riprendere una politica espansionista ai danni di Milano e del pontefice. Nel 1499 Venezia conquistò Cremona approfittando dell'attacco francese al Moro; e nel 1503, in conseguenza del disfacimento della signoria di Cesare Borgia, mise le mani su Rimini e Faenza. Se nel continente le sorti arridevano a San Marco, nei possedimenti in Levante la situazione si presentava assai critica. Nel 1499 l'armata veneziana subì un clamoroso rovescio allo Zonchio e nel medesimo periodo cavalieri turchi scorrazzarono nei territori orientali dello Stato da terra spingendosi addirittura sin sotto le mura di Vicenza. Nonostante i diversi caratteri del coinvolgimento veneziano - all'offensiva in Italia e in difesa in Oriente - esso necessitava allo stesso modo di ingenti quantitativi di denaro, per la flotta, per i presidii costieri, per le genti d'arme in Friuli, in Lombardia e in Romagna: nell'agosto del 1499, ad esempio, oltre 14.000 uomini si trovavano al soldo della Signoria sul fronte italiano e una forza di 20-25.000 uomini era imbarcata nella flotta (79). Si trattava di una massa enorme di uomini - si consideri che all'epoca Verona poteva contare su una popolazione di circa 40.000 unità - che doveva essere pagata, nutrita e armata.
Uno sforzo considerevole, dunque, quello di Venezia, che ovviamente ebbe notevoli ripercussioni sulla domanda fiscale. Il 1499 fu un anno particolarmente drammatico, poiché si dette avvio ad una serie di provvedimenti finanziari che toccarono vari settori dell'economia veneziana. Anzitutto l'imposta della tansa si strutturò in modo da colpire le attività commerciali prelevando fra le diverse fasce di contribuenti una quota da 1 a 50 ducati a fondo perduto e fra 50 e 300 ducati a titolo di prestito. A maggio si lanciò un prestito tra i cittadini più agiati obbligando una parte dei fondi dell'officio del sal e inoltre si chiesero 15.000 ducati in prestito agli Ebrei; le città della Terraferma invece furono chiamate a versare un sussidio di oltre 50.000 ducati che suscitò alcune resistenze (80). A fine giugno si ricorse alle solite decime imponendone due al Monte vecchio e due a quello nuovo. Fu assicurato uno sgravio del 10 per cento se le somme fossero state corrisposte entro i termini; uno sconto che, almeno per la sua entità, non era ancora usuale e che stava a evidenziare le difficoltà che il governo aveva nel riscuotere le imposte. Dopo qualche giorno si operò su altri settori tributari: si sospesero tutti i pagamenti delle camere fiscali non destinati alle guarnigioni e ai rettori, furono reiterati i decreti circa le trattenute sui salari degli officiali e vennero inasprite di un terzo le tariffe daziarie escludendo quelle riguardanti il vino, il grano, il formaggio nonché l'imposta dell' 1,5 per cento sulle mercanzie. Se gli aumenti daziari non colpirono i principali beni che costituivano la dieta della popolazione, manifestando così i timori del ceto dirigente veneziano per l'ordine pubblico interno, il decreto sui salari rivestì alcuni risvolti di carattere più strettamente politico. La drastica diminuzione dei redditi degli officiali da un lato li spingeva a seguire vie non proprio legali per recuperare i mancati cespiti; ne pagavano le conseguenze soprattutto quelle persone, più o meno indifese, che dovevano ricorrere agli offici pubblici, in particolare quelli finanziari. D'altro canto i redditi degli offici costituivano la principale fonte d'entrata di una parte del patriziato, della parte più povera, che oramai non era in grado d'investire capitali nella mercatura o nella terra, e che sperava in qualche carica per il proprio sostentamento. Se a luglio la parte del senato non fu contrastata nel maggior consiglio, dove le ragioni della nobiltà povera avevano modo d'esprimersi, dopo pochi mesi lo scontro fu certamente più violento. Allorché furono decisi ulteriori prelievi sulle utilità degli officiali i nobili poveri protestarono contro la decisione, che sembrava voler "ruinar li poveri" e dividere di fatto il patriziato in base al censo, ma ne uscirono sconfitti (81).
I malumori verso il patriziato più dovizioso non si spensero, anzi, a mano a mano che le richieste del fisco si facevano più pesanti, i mugugni montavano contro quei cittadini e quei nobili i cui forzieri erano ricolmi di denaro, che tenevano "morto in casa" piuttosto che impiegarlo nei traffici; contro coloro che, insomma, si camuffavano per sfuggire all'occhio del fisco ed evitare di pagare le decime come tutti (82). Le file dei debitori verso l'erario s'ingrossarono, le minacce e le solenni dichiarazioni contro i renitenti non sembravano sortire alcun effetto; ai contribuenti, spossati dalle decime e dalle tanse, non restava altro che sperare in un futuro assai prossimo che recasse la pace, specie nelle acque del Mediterraneo orientale, ma questo non si avverò. Anche il 1500 avrebbe visto una "grande furia" impositiva e un aggravarsi delle difficoltà.
La serie di decime e tanse cui furono sottoposti i contribuenti veneziani è illustrata nella Tab. 5.
L'anno che aprì il nuovo secolo portò ai Veneziani ben dieci decime e una tansa; ciò significava che in linea teorica il contribuente sottoposto alla decima avrebbe versato allo Stato l'intero reddito immobiliare stimato. Un prelievo di tale entità era concepibile solamente ammettendo che il dispositivo d'accertamento, vale a dire il catasto, in realtà non riflettesse l'intera capacità contributiva della popolazione. Attraverso le numerose decime vennero colpiti in particolare alcune forme di reddito (terre e case) mentre un uso più cauto delle tanse probabilmente cercò di limitare il carico sulle attività commerciali e sui capitali mobiliari in genere, già duramente provati dalla difficile congiuntura economica. È altresì interessante notare che negli anni di guerra (1500-1503) il governo fece un maggior uso dei prestiti forzosi rispetto alle decime ordinarie, mentre negli anni successivi queste ultime vennero decretate con regolarità, almeno sino alla crisi del 1508 con Massimiliano d'Asburgo.
Nella concezione dei governanti l'imposta sotto forma di prestito forse avrebbe riscosso un relativo successo in momenti difficili piuttosto che le decime perse, considerate ancora come un gravame la cui legittimità non era del tutto accettata.
Se a Venezia, nonostante tutto, le tasse venivano accolte tra mille mugugni e reticenze, in Terraferma la decisione veneziana d'imporre un campatico generale suscitò accese e decise resistenze da parte dei consigli municipali. Il 13 gennaio 1501 il senato, avendo considerato quanto "el cargo et graveza del denaro" fosse sopportato da Venezia, decise che i rettori nel Dominio da terra s'incaricassero di registrare tutte le possessioni di qualsiasi genere appartenenti ai sudditi, al fine di tassare ciascun campo arativo e prativo per la somma di 5 soldi, mentre sulle terre a pascolo e montuose sarebbe gravata un'imposta di 3 soldi. La tassa, riscossa in via straordinaria per la "sancta expedition" contro il Turco, avrebbe colpito indistintamente sia gli esenti che i privilegiati, ad eccezione dei proprietari friulani che avevano subìto le devastazioni dei cavalieri della Sublime Porta. Si aggiungeva poi che i detentori di mulini, macchinari, decime e feudi avrebbero versato il 4 per cento delle loro entrate (84). Sembrava che non ci dovessero essere eccessivi problemi, tanto più che nella medesima seduta era stato deciso di revocare l'aumento di un terzo delle tariffe daziarie in Terraferma decretato poco più di un mese prima (85). Si sperava così di raccogliere mezzo milione di ducati (86). Tuttavia una "grande mormoratione" nelle città soggette seguì agli ordini veneziani; immediatamente si riunirono i consigli municipali decidendo d'inviare ambasciatori nella capitale per protestare contro il campatico (87). Le rimostranze dei rappresentanti cittadini condussero solamente all'esclusione delle terre incolte e montane dall'aggravio (88). Le operazioni di riscossione iniziarono in tutto il Dominio ma si scontrarono con la ferma resistenza dei proprietari fondiari: dopo alcuni mesi Marino Sanuto era costretto ad ammettere che il campatico "si scodeva mal", soprattutto nel Padovano e nel Vicentino. Il governo nominò allora due provveditori esattori dell'imposta: Alvise Barbaro si sarebbe occupato dei territori d'oltre Mincio e Francesco da Lezze q. Lorenzo avrebbe riscosso nelle altre province. Malgrado l'autorità conferita ai due patrizi il risultato dei loro sforzi non fu certo soddisfacente: Francesco da Lezze si limitò a presentarsi in senato con un "gran libro di debitori" dal quale risultava che i Padovani dovevano 25.000 ducati e che al clero locale ne spettava circa un terzo. Gli ecclesiastici - accusava da Lezze - continuano ad acquisire terre e tuttavia i loro tributi si basano sul vecchio estimo (89). Il nodo della questione stava proprio qui: i proprietari cittadini - laici o ecclesiastici che fossero - temevano che l'indagine sui fondi da tassare avrebbe messo in luce quel fenomeno di crescente acquisizione di beni rurali che tuttavia non veniva evidenziato dagli estimi, la cui redazione aggiornata veniva ritardata dagli stessi consigli urbani. I proprietari sudditi erano altresì preoccupati che il campatico, solennemente imposto in via straordinaria, avrebbe seguito il medesimo destino della dadia delle lance, vale a dire che si sarebbe trasformato in una gravezza ordinaria. In fin dei conti un prelievo di 5 soldi per campo non pareva eccessivo; per far arare e seminare un campo nel basso Veronese, ad esempio, si pagavano 16 soldi. Volendo calcolare la quota sul prodotto agrario, si può considerare che nella bassa pianura veronese un campo poteva arrivare a produrre 464 litri di grano per campo (una decina di quintali per ettaro) all'anno, che peraltro rappresenterebbe un livello produttivo eccezionale per l'epoca; ora, monetizzando il raccolto al prezzo di mercato di Padova si conclude che il campatico incideva per l'1 per cento sul prodotto lordo di un campo veronese (mq 3.002) (90). Una percentuale, dunque, assai contenuta, che stava a dimostrare che probabilmente non era in gioco il peso tributario, quanto taluni assetti consolidati che rischiavano di essere messi in discussione nel quadro dell'accesa conflittualità fra città e contadi, fra proprietari cittadini e distrettuali.
L'accentuata pressione fiscale e le necessità finanziarie dettate dalla guerra innescarono fra i contribuenti veneziani una spirale di reazioni che non è semplice ricondurre sotto un unico segno. Il primo atto, quasi istintivo, è quello di sfuggire all'imposta o, in un secondo tempo, di non versare la propria quota: i fratelli Piero, Alvise e Gerolamo del q. Andrea Bragadin, ad esempio, furono costretti a rifiutare l'eredità paterna in quanto il padre aveva accumulato un debito di 12.000 ducati verso l'erario; nel febbraio del 1500 le autorità governative lamentarono 120.000 ducati di credito per decime non corrisposte al Monte nuovo. Se il gettito della decima calò sino ad appena 15.000 ducati nell'aprile del 1500 e a 12-14.000 nel mese successivo pare che la tansa, invece, si pagasse "assai ragionevolmente" (92). In soli tre giorni i Veneziani portarono ai governatori delle entrate 35.000 ducati a titolo di mezza tansa da restituire, "che fu veramente un grande rischottere [annota Priuli nell'aprile del 1503] in tempi di queste tribulatione et travagli", mentre la decima riusciva a malapena ad arrivare a 8.000 ducati (93). Certo, il governo aveva assicurato che i più solleciti a pagare sarebbero stati i primi ad essere rimborsati, e oramai le voci dell'imminente pace col Gran Turco circolavano in città, ristabilendo un clima di fiducia. Ma qui preme sottolineare come, allo sbocciare della primavera e all'approssimarsi della pace, a Venezia spuntasse con una certa rapidità il denaro che sino a poche settimane prima sembrava essere scomparso dalle tasche dei cittadini.
La congiuntura di fine Quattro e dei primi anni del Cinquecento tuttavia non deve essere sottovalutata. La pesante fiscalità s'introdusse in un quadro di diffuso disagio che si trasformò in una vera e propria crisi. Il fatto più eclatante che evidenziò i problemi della piazza realtina fu la serie di fallimenti bancari: tre dei quattro banchi di scritta operanti a Venezia - quelli intestati ai Lippomano, Garzoni e Pisani - furono costretti a sospendere l'attività fra il 1499 e il 1500. Tra le cause dei fallimenti vi fu senz'altro la pressione fiscale sui cittadini, che li costrinse a ritirare i propri depositi dai banchieri per pagare le decime e le tanse. All'origine della chiusura dei banchi, comunque, stavano i gravi problemi connessi ai traffici marittimi; la guerra turca aveva diminuito notevolmente il volume degli affari in seguito alle difficoltà che i mercanti veneziani incontravano negli scali levantini e ai rischi della navigazione. Problemi, questi, che si riflettevano anche sulle entrate daziarie: la dogana - si lamentarono i gestori del dazio sull'entrata "no fa fazende né mercantia alguna né da mar né da terra" (94). I tassi assicurativi praticati a Venezia per la rotta di Alessandria passarono dal 2,5 per cento negli anni precedenti il conflitto al 5 per cento e oltre nel periodo bellico (95). I prezzi del pepe s'impennarono da 56-57 ducati per cargo nel 1498 a 69-80 l'anno successivo, per poi toccare un massimo di 100 ducati fra il 1500 e il 1504, anche in rapporto alla nuova rotta aperta dai Portoghesi (96). Nondimeno sarebbe errato ritenere che la piazza realtina fosse completamente immobile; qualche mercante intraprendente anche in tempo di guerra non mancava, e se i consueti canali di comunicazione erano interrotti si cercavano altre vie, seppure più costose. A dimostrazione che i traffici continuavano, si effettuarono esportazioni di rame da Venezia verso Alessandria anche nel 1501, sebbene il loro valore rappresentasse solo il 40 per cento dell'ammontare spedito nel 1496 (97). A peggiorare le cose ci si misero anche i capricci del clima, che provocarono una grave carestia proprio in quegli anni. Tra il 1497, che registrò alti prezzi del grano, e il 1504 - altrettanto penurioso - si verificarono notevoli sbalzi del prezzo dei cereali a Venezia, la cui banda oscillò fra 3 lire e mezzo lo staio nei mesi d'abbondanza (assai rari) e le 8 lire nei periodi di cattivo raccolto (98). Gli alti prezzi delle derrate, la pesante tassazione e le difficoltà commerciali contribuirono bensì a indebolire il tessuto economico-sociale di Venezia all'alba del Cinquecento, ma immediatamente dopo la stipulazione della pace la città dette prova di saper recuperare in fretta.
Non appena si diffusero le notizie di un prossimo accordo le quotazioni del Monte nuovo si elevarono già nel dicembre del 1502 per poi superare addirittura la parità pochi anni dopo, mentre i titoli del Monte vecchio s'inabissavano al 4 per cento. A ristabilire la fiducia dei Veneziani concorse senz'altro la decisione del consiglio dei dieci di dare inizio alle operazioni di affrancamento del Monte nuovo all'indomani della pace. Secondo i dati forniti da Girolamo Priuli, nel maggio del 1503 i capitali affluiti nel Monte nuovo avevano raggiunto un ammontare di circa 2.800.000 ducati; "cossa quasi incredibile", commenterà il banchiere veneziano (99), tenendo conto dei limiti all'indebitamento che erano stati posti dalla legge costitutiva del 1482. Dapprima vennero riscattati i prestiti venduti ad un prezzo fra 48 e 50 e in seguito il governo emise buoni a 93, riscuotendo un notevole successo sul mercato, il cui ricavato fu impiegato per riscattare quelli venduti a 60. Gli anni 1505 e 1506 costituirono il periodo più fulgido del Monte nuovo; le operazioni di liquidazione del debito e la moderata pressione fiscale innalzarono le quotazioni tanto che - commenta Priuli - "non se trovava vindictori a niuno pretio". La finanza pubblica e i contribuenti veneziani, dunque, godettero di alcuni anni sereni; serenità che tuttavia si mutò in angoscia allorché, nel maggio del 1509, giunsero da Agnadello le notizie della disfatta dell'esercito veneziano contrapposto a quello della lega di Cambrai.
La sconfitta militare, che condusse alla repentina perdita di quasi tutto lo Stato da terra, gettò nello sconcerto i Veneziani, che dovettero raccogliere tutte le loro risorse, materiali e spirituali, per fronteggiare la gravissima crisi. Che momenti difficili stessero arrivando se ne accorsero subito i contribuenti veneziani i quali, ancor prima della rotta di Agnadello, nei primi quattro mesi del 1509 furono richiesti di due decime e una tansa perse e di quattro decime a restituire. A marzo correva voce che il fabbisogno finanziario superasse di 150.000 ducati mensili il livello della spesa ordinaria (100). A giugno la situazione si fece critica: le quotazioni dei titoli del Monte nuovo, che aveva raggiunto un debito di circa 3.000.000 di ducati, crollarono a 40 e il mercato si dimostrò assai restio a concedere fiducia alla camera degli imprestiti. Girolamo Priuli, che nell'euforia di qualche anno prima aveva acquistato buoni a 102 e mezzo per una somma di circa 4.000 ducati, ebbe modo di svolgere qualche amara considerazione: "questi Monti vechij et novi sonno fondati in aere et sonno libri, zoè carta et ingiostro". In precedenza Priuli aveva lodato gli investimenti nei Monti, che assicuravano un pur minimo rendimento, piuttosto che l'acquisto di terre "per non avere faticha de andare in Terraferma" distogliendo le attenzioni dalla mercatura, la vera "consuetudine antiquissima in la citade veneta". Ora il mercante doveva ricredersi, pagando le disfunzioni del meccanismo creditizio pubblico di tasca propria, assieme a quelle "povere comessarie, vedove, pupile, monasterij, ospictalli, mansonarij, mestieri, richi, mediocri, poveri, nobelli, citadini et populari, quali tutti haveanno posto il suo povero chavedal a questa Camera per sustentatione dela sua propria vita" (101). La crisi finale era sopraggiunta perché, in definitiva, le entrate che assicuravano il pagamento degli interessi del Monte erano venute meno. Con la perdita del Dominio da terra infatti il bilancio veneziano non poté contare su circa 400.000 ducati provenienti dalle camere fiscali del Dominio, e in particolare sui profitti della vendita del sale, che rappresentavano una delle rendite più regolari e sicure (102). Questo collegamento fra il debito pubblico di Venezia e le entrate tributarie della Terraferma induce a qualche considerazione, ancorché possa apparire prematura non esistendo sufficienti studi sul mercato finanziario e sulla struttura fiscale veneziana fra Quattro e Cinquecento. Anzitutto è interessante sottolineare che di fatto erano i contribuenti del Dominio a sostenere gli oneri di una buona parte dei 150.000 ducati annui necessari al Monte nuovo per pagare gli interessi dei prestatori-contribuenti veneziani. La crisi vissuta dal Monte nuovo a causa dell'interruzione dei flussi dal Dominio, in secondo luogo, evidenziò la rigidità del sistema finanziario statale, che non riuscì a fronteggiare la situazione nel breve periodo diffondendo così la sfiducia tra i cittadini della capitale.
All'indomani della disfatta, in effetti, vennero adottati diversi espedienti per raccoglier denaro da inviare a ciò che rimaneva dell'esercito tra Padova e Treviso. I Veneziani furono invitati a portare contanti e argento alla Zecca a titolo di prestito, con la possibilità di scontare i loro debiti per imposte tramite gli interessi che avrebbero vantato presso l'istituto; si bloccarono le merci di quei mercanti che non fossero in regola col fisco; e vennero operate consistenti trattenute e sospensioni dei salari degli officiali (103). Si agì anche nel settore dell'imposizione diretta decretando decime e tanse, ma con scarsi risultati poiché - secondo Priuli - cessando le rendite delle possessioni della Terraferma i Veneziani non avevano disponibilità per pagare. L'azienda agraria dei Barbarigo a Carpi, per esempio, mentre nel 1508 assicurò nei magazzini della famiglia 180 minali di grano, l'anno successivo la quota si ridusse ad appena 80, e in seguito il flusso s'interruppe per riprendere solo nel 1519 (104). Altri fattori concorrevano ad aggravare la situazione: i tassi d'assicurazione erano cresciuti a dismisura; se quelli per la rotta di Siria erano raddoppiati - dal 2,5 al 5 per cento - le mercanzie dirette in Fiandra non riuscivano a trovare assicuratori al 15 per cento, quando nei mesi precedenti era usuale un tasso del 4 per cento (105). I cambi monetari inoltre crebbero in conseguenza, fra l'altro, della difficoltà di trovar denaro. La "strettezza" di denaro in città dipendeva dal particolare momento, caratterizzato dalla chiusura dei traffici e dei flussi finanziari dal mare e soprattutto dalla Terraferma, ma c'era chi temeva di ostentare le proprie facoltà paventando l'interessamento del fisco piuttosto che la venuta dei nemici.
Il governo faceva sempre più fatica a riscuotere una somma sufficiente dai vari tributi diretti (denominati anche "angarie "): nell'agosto del 1509, ad esempio, erano stati riscossi appena 25.000 ducati dall'imposizione di metà dell'ammontare della tansa (la cosiddetta "mezza tansa"), il cui gettito avrebbe dovuto corrispondere a 55-60.000 ducati; analogamente, dei previsti 70.000 ducati che l'imposta straordinaria sugli affitti delle case avrebbe fatto incamerare se ne ottennero circa 38.000 (106).
Una situazione difficile, dunque, che si tentò di fronteggiare rinnovando la fiducia nel credito pubblico con l'istituzione di una nuova serie di titoli che, affiancandosi alle precedenti serie, si sarebbe costituita nel Monte novissimo. A settembre furono imposte una decima e mezza tansa i cui pro (l'usuale 5 per cento) non gravarono sulla camera degli imprestiti, già duramente provata e certo vista con diffidenza dai Veneziani, bensì sull'officio del sal. I fondi per il versamento degli interessi (6.000 ducati) sarebbero stati tratti da un aumento del prelievo sulle mercanzie e sulle importazioni d'olio (107).
Quale fu la reazione dei contribuenti-prestatori di Venezia? Purtroppo non disponiamo di dati validi a livello generale, ma possiamo proporre qualche ipotesi in base alla contabilità fiscale tenuta dal nobile Nicolò Donà q. Luca, che registrò i pagamenti effettuati in conto decime e tanse dall'istituzione del Monte novissimo sino a tutto il 1512. I suoi pagamenti sono sintetizzati nella Tab. 6.
Poiché non conosciamo la reale entità del patrimonio di Nicolò non siamo in grado di svolgere delle considerazioni sull'effettivo prelievo fiscale operato sulle sue ricchezze, nondimeno le rilevanti cifre corrisposte a titolo di tansa ci fanno ritenere che egli potesse contare su discreti redditi derivanti da attività commerciali in genere piuttosto che da beni immobili. Occorre inoltre rilevare che Donà si comportò come un contribuente abbastanza sollecito: la prima decima e la mezza tansa decretate in occasione dell'apertura del Monte novissimo furono soddisfatte nel giro di una settimana; ed un identico intervallo trascorse fra l'imposizione delle decime numero 3 e 4 e la mezza tansa numero 3 (9 febbraio 1510) e la registrazione del versamento nella contabilità del nobile veneziano (16 febbraio). Si deve concludere che il nuovo Monte infuse una rinnovata fiducia nelle istituzioni finanziarie veneziane? Sarebbe certo azzardato rispondere affermativamente solo in base al comportamento che Nicolò Donà lascia emergere dalle sue registrazioni.
Martino Merlini ad esempio, un mercante che visse quei drammatici momenti in città, in una lettera inviata al fratello espose con chiarezza i suoi intendimenti: "Queste tanse e dezime ne secha; l'è sta meso a Monte novissimo 6 dexime, che n'ò pagà niuna; le laserò andar zoxo ale Chazude, et pagerò segondo le anderà da 40 in 50 per zento, che con una dezima ne pagerò do"; "a ogni modo vada le chosse se voja [continua Merlini con una vena di pessimismo], o paxe o guera, questi diexe anni no se pagerà Monte novisimo e forsi mai, sì che, per questo, tegno che quanto se darà tanto sarà persi" (109). Nonostante queste affermazioni che dimostrano una notevole lucidità, Martino Merlini non poteva essere considerato un cattivo contribuente; nei giorni precedenti Agnadello aveva partecipato dell'euforia generale dichiarandosi ben disposto a sopportare il fardello della guerra e i conseguenti carichi "per deschazar sta mala spina di Italia" (110). A distanza di poco tempo la situazione era completamente cambiata, e il mercante si arrovellava per trovare mille scappatoie per sfuggire al fisco. Non è peraltro da escludere che il mutato sentimento verso l'erario derivasse anche dalle difficoltà finanziarie in cui Merlini poteva versare in conseguenza della diminuzione degli scambi e dell'accresciuta imposizione fiscale sulle mercanzie. Quanto a Nicolò Donà invece, se è da identificare in quel Nicolò che sposò Bianca Vendramin - figlia del doge Andrea Vendramin, che ebbe particolare cura nella scelta dei propri generi (111) - si può affermare che fosse un patrizio piuttosto in vista. Ciò potrebbe spiegare, fra l'altro, il suo zelo di contribuente; egli apparteneva al ceto dirigente che s'identificava nello Stato, e in quei difficili mesi la preservazione della Repubblica, sia con il ferro che con l'oro, assumeva anche il significato di difesa della classe di governo.
Che si trattasse di spirito patriottico, di tutela d'interessi particolari o di coercizione, è indubbio che i Veneziani sopportarono degli enormi carichi fiscali tra il 1509 e il 1517, quando lo stendardo di San Marco tornò a sventolare su tutta la Terraferma. La Tab. 7 evidenzia la sostenuta pressione fiscale sui contribuenti della laguna.
La riconquista, che costò una somma enorme, rappresentò un peso ancor più grave poiché per lungo tempo furono impegnate quasi unicamente le risorse della capitale. Tra il 1509 e il 1510 i costi mensili dell'esercito si aggirarono attorno ai 60.000 ducati, raggiungendo poi il tetto di 84.000 ducati nel giugno del 1512 (102). Qualche anno dopo una stima grossolana azzardò in circa 5.000.000 di ducati d'oro il costo della guerra sostenuta da Venezia fra il 1509 e il 1516 (113). Se consideriamo che le entrate ordinarie (pressappoco 1.200.000 ducati) della Signoria probabilmente
si dimezzarono dopo la perdita del Dominio da terra, è facile immaginare il grandioso sforzo compiuto dalla finanza statale. Sforzo che non venne sostenuto unicamente dalle imposizioni - dirette ordinarie e straordinarie -, dalle gabelle, dalla vendita di beni patrimoniali e di debitori d'imposta, dai prestiti liberi o forzosi, ma anche dall'attuazione di altri espedienti che assunsero una particolare importanza, oltre che sul piano finanziario, anche su quello politico.
Il 10 marzo 1510 il maggior consiglio permise che i detentori di uffici intermedi a vita - ad esclusione di quelli nella cancelleria e nelle procuratie - potessero trasmetterli, una volta defunti, ai propri parenti più prossimi dietro versamento di 100 ducati ogni 10 di reddito derivante dalla carica; per gli uffici a termine invece il tasso fu di 80 ogni 10 ducati. Un mese dopo i beneficiari del provvedimento divennero creditori del Monte novissimo per la quota versata (115). Questa vendita, limitata ai cittadini originari, rafforzò le loro prerogative di ceto e probabilmente contribuì a rinsaldare il ruolo di alcune famiglie nell'ambito della struttura burocratica veneziana.
Un anno dopo il governo si occupò delle ben più importanti cariche detenute dai patrizi. I nobili che avessero prestato una determinata somma allo Stato avrebbero potuto essere nominati nell'ufficio desiderato tra quelli disponibili. La proposta suscitò tali rimostranze da parte dei patrizi più indigenti, che vedevano in ciò un ulteriore elemento che avrebbe favorito quel settore più dovizioso del patriziato, che non venne neppure votata. Altri provvedimenti analoghi vennero comunque adottati qualche anno dopo; nel 1515 alcuni patrizi che avevano versato denaro in prestito vennero eletti nelle cariche vacanti. Il sistema diede discreti frutti dal punto di vista finanziario, poiché la Signoria riuscì a raccogliere tra l'agosto del 1515 e il gennaio del 1517 ben 474.870 ducati (116); una somma sufficiente a mantenere l'esercito per una decina di mesi.
I tempi fra l'imposizione delle tasse e dei prestiti e l'effettiva disponibilità di denaro tuttavia non permettevano al governo di soddisfare velocemente le truppe al proprio soldo. Il ruolo dei banchieri veneziani come anticipatori del denaro necessario al governo emerse altresì durante la crisi cambraica. Tra il 10 luglio e il 5 settembre 1510 i Banchi Pisani e Vendramin-Cappello anticiparono almeno 30.000 ducati "per la satisfaction di sguizari" e "per far zente d'arme et fanti"; dei 13.500 ducati inviati al provveditore in campo Cappello nel marzo del 1511, 8.000 furono prestati dal Banco Cappello-Vendramin e 5.500 da quello gestito da Girolamo Priuli (1l7). A differenza di altre città, come ad esempio Firenze, il legame tra la finanza statale e il debito pubblico fluttuante - rappresentato in gran parte dai servizi dei banchi locali - non sembra abbia costituito una tara del sistema finanziario veneziano. Mentre in altri centri un gruppo ristretto di prestatori legato al gruppo dirigente riuscì a trarre notevoli profitti dalla gestione del debito fluttuante, nella città lagunare i costi dei servizi bancari non sembrerebbero essere stati eccessivi e, soprattutto, i banchieri non avrebbero condizionato le strategie finanziarie del governo (118). Occorre sottolineare, ad ogni modo, che nei decenni passati e specie tra gli anni '50 e '60 del Quattrocento - i banchieri avevano coperto con i loro prestiti, che sembrerebbero peraltro assai ridotti, il disavanzo corrente dello Stato, allorché il governo non aveva messo mano alla leva dell'imposizione diretta in tempo di pace (119).
Con la riconquista della Terraferma anche le tensioni sulla finanza statale e sui contribuenti si allentarono. Subito dopo la fine delle ostilità il senato ridusse i ranghi dell'esercito e emanò norme per riordinare il sistema di pagamento delle truppe in Terraferma, assegnando - come era in precedenza alle principali camere fiscali la responsabilità diretta dei pagamenti. Gli obblighi gravanti sui contadini di alloggiare i cavalieri vennero inoltre tramutati in un regolare versamento in denaro (120).
Venezia, ritornata come dominante, attuò inizialmente verso la Terraferma una politica fiscale abbastanza cauta, in considerazione delle devastazioni subite ad opera degli eserciti nonché, probabilmente, per le manifestazioni d'insofferenza verso il fisco veneziano che erano emerse all'indomani della rotta di Agnadello: a Padova erano stati bruciati i registri delle imposte, e a Treviso era stato addirittura il rettore veneziano a farlo, guadagnandosi l'approvazione di Marino Sanuto (121).
Nella capitale la pressione fiscale venne ricondotta ad un livello più sopportabile e si pose attenzione al problema del debito pubblico. Verso il 1520 il Monte vecchio lamentava un debito per 8.254.279 ducati di capitali, che avrebbe richiesto un esborso annuo di 173.709 ducati in pro; la loro corresponsione però nel 1521 riguardava gli interessi relativi al 1478. Il valore del Monte nuovo si aggirava attorno ai 3.000.000 di ducati e il pagamento dei pro era stato interrotto nel 1510. Si decise di rimborsare i capitali e gli interessi arretrati offrendo ai creditori i beni sequestrati ai nobili di Terraferma ribellatisi durante la guerra e ricevendo in cambio i buoni del Monte nuovo valutati ad un prezzo superiore a quello di mercato. Così fu recuperato circa 1.000.000 di ducati; il rimanente - 2.500.000 ducati fra capitale e interessi - venne rimborsato nel giro di poco più di un trentennio, nonostante fosse stato previsto di completare l'operazione in diciassette anni. Il Monte novissimo era costituito da 400.000 ducati, poiché una parte dei prestiti a breve termine contratti in precedenza venne trasferita e riconvertita in esso; la sua liquidazione si protrasse per alcuni decenni (122).
La ripresa delle ostilità nel 1521 nel quadro del duello tra la Francia e gli Asburgo, segnò un decennio di guerre, interrotto da qualche tregua, che si sarebbe concluso nell'inverno del 1529-1530. Una lotta, questa, che vide Venezia impegnarsi fra i due contendenti ora da una parte ora dall'altra, e che comunque la costrinse a mantenere un forte esercito nell'Italia settentrionale. Nel marzo del 1526 il nobile Antonio Priuli lamentò che la Signoria spendeva nel conflitto circa 80.000 ducati al mese; e nel maggio del 1530, all'indomani della pace, il provveditore generale in campo Polo Nani riferì al senato che durante i 18 mesi trascorsi presso l'esercito egli aveva speso 508.000 ducati (123). La Signoria fece ricorso ai tradizionali strumenti finanziari : decime, tanse, prestiti liberi e obbligatori... Occorre notare tuttavia che si manifestò una tendenza a ridurre il ricorso alle vere e proprie imposte dirette - fra il 1525 e il 1529 furono decretate solo due tanse a perdere (124) - e piuttosto a diversificare le varie fonti d'entrata. Così furono rinnovati i provvedimenti per la vendita delle cariche nel novembre del 1521; e l'anno seguente s'iniziò a conferire il titolo di procuratore di San Marco a quei patrizi che avessero prestato denaro alla Signoria. Il provvedimento, già attuato nel 1516 con la nomina di sei procuratori ed un introito di 75.000 ducati, fra il 1522 e il 1529 permise la nomina di 42 nobili e rimpinguò le casse statali per un ammontare di 379.000 ducati (125). In quegli anni, inoltre, si riprese la possibilità che i proprietari veneziani in Terraferma si affrancassero dalla dadia delle lance corrispondendo 100 ducati ogni 8 d'imposta (126). La Signoria alienò la dadia non solo in favore dei Veneziani sottoposti alla gravezza ma offrì la possibilità di acquisire il diritto di riscossione anche sulle proprietà dei contribuenti del Dominio da terra. Questo significò un indubbio rafforzamento della presenza dei proprietari veneziani in Terraferma che da un lato si liberarono di una parte del loro carico fiscale e dall'altro acquisirono dei diritti sui sudditi di Terraferma, poiché quest'ultimi, dovendo versare la loro quota di dadia ai primi, si ponevano nella condizione di debitori. Nel febbraio del 1529, ad ogni modo, la facoltà d'affrancarsi fu estesa anche ai sudditi del Dominio ad un tasso del 6 per cento, al fine di raccogliere 100.000 ducati alienando una quota di dadia corrispondente a 6.000 ducati (127). Il governo, poi, riaprì ancora le porte della Zecca a chi avesse voluto portare metalli preziosi o denaro contante offrendo un "don" del 16 per cento. Questo sistema di prestiti in Zecca risultò particolarmente allettante per i Veneziani. Il profitto assicurato a coloro che avessero depositato oro e argento in Zecca venne portato al 25 per cento nel dicembre del 1528, sebbene non si debba intendere su base annua. I decreti infatti non specificavano i termini della durata del prestito. È interessante notare che nel luglio del medesimo anno la possibilità di depositare in Zecca era stata estesa anche alla Terraferma (128).
Per quanto riguarda le comunità soggette, Venezia richiese fra il 1524 e il 1529 quattro contribuzioni a titolo di prestito per un totale di 249.400 ducati. Conviene sottolineare che il prestito del 1529 venne lanciato offrendo ai sudditi del Dominio un interesse del 5 per cento che sarebbe stato corrisposto dal Monte del sussidio, istituito nel 1526 sul modello delle precedenti serie allo scopo di rivitalizzare il credito pubblico. Nel medesimo anno il governo impose alla Terraferma un sussidio di 100.000 ducati che doveva essere pagato da tutte le province in rapporto alla propria capacità contributiva (129). Questa imposta, sorta direttamente dal sistema dei prestiti forzosi nel Dominio da terra, in breve tempo fu trasformata in un sussidio ordinario che produsse un'accesa conflittualità tra i proprietari cittadini e i rappresentanti dei contadi. Una conflittualità che s'inserì nelle più vaste vicende dei rapporti tra città, distretti e capitale e che caratterizzerà nei decenni a seguire le dinamiche politiche, economiche e sociali all'interno dello Stato veneziano.
Quanto al debito pubblico veneziano, a metà degli anni '20 le quotazioni dei Monti segnavano dei livelli piuttosto bassi: i titoli del Monte vecchio erano venduti a 3 su cento, quelli del nuovo a 10 mentre le obbligazioni del Monte novissimo si situavano a 25 (130). E i gravosi impegni militari della Signoria non infondevano fiducia al mercato. Nel 1526 pertanto si decise di aprire una nuova serie di titoli assegnando 10.000 ducati per il pagamento degli interessi di una tansa a restituire: i contribuenti sarebbero stati iscritti nei registri del Monte del sussidio e avrebbero percepito l'usuale pro del 5 per cento annuo (131). Sino al 1530 furono decretate nove tanse i cui interessi sarebbero stati pagati dal Monte del sussidio; un onere che non rappresentò un carico eccessivo, specie se raffrontato con gli anni precedenti. Si ha l'impressione, insomma, che i diversi espedienti attuati per raccogliere denaro senza aggravare la condizione dei contribuenti abbiano effettivamente risposto alle attese dei governanti, con buona pace dei sudditi.
Siglata la pace di Bologna, il governo riprese la politica di ammortamento del debito pubblico emanando disposizioni per liquidare gli ultimi due Monti (132). Probabilmente la riscossione regolare delle tanse negli anni successivi alla pace aveva lo scopo di fornire il denaro necessario all'operazione, che doveva essere sostenuta anche da altre fonti di gettito, in particolare dagli introiti del dazio del sale e della vendita di beni comunali. Le restituzioni dei capitali del Monte novissimo e del Monte del sussidio si effettuarono regolarmente, offrendo così l'impressione che la Repubblica fosse in grado di superare agevolmente le difficoltà finanziarie causate dal conflitto appena trascorso. Le quotazioni del Monte del sussidio, ad esempio, raggiunsero il 60 per cento del valore nominale nell'ottobre del 1532 (133). Il Monte del sussidio, comunque, costituirà l'ultimo istituto legato al sistema fiscale basato sui prestiti forzosi. Le guerre degli anni '20 registrarono un sempre più ampio ricorso da parte veneziana al debito a breve e medio termine per far fronte alle esigenze straordinarie della finanza pubblica.
A differenza dei decenni precedenti, allorché la Signoria aveva fatto ricorso ai servizi finanziari dei banchieri locali, ora si offrivano vantaggiose opportunità ai privati di prestare a breve termine denaro al governo. Il tasso d'interesse offerto a coloro che avessero depositato metalli preziosi in Zecca oscillò fra il 5 e il 9 per cento nei primi anni '30 del XVI secolo. Assieme all'attraente saggio di profitto e alla prospettiva della restituzione del capitale nel giro di pochi mesi, questa forma di prestito si caratterizzava anche per le rapide formalità per la riscossione della somma prestata e per l'assenza di vincoli che limitassero la circolazione dei titoli di credito: coloro che "porterano [il denaro], senza nominar altramente de chi sono [assicurava un decreto del consiglio dei dieci], siali fatto uno boletin sottoscritto dal proveditor di la Zecha, et con quello, presentandolo, habbi li soi danari al tempo statuido" (134). Tali prestiti riscossero un indubbio successo: basti pensare che un prestito di 50.000 ducati al pro del 6 per cento fu soddisfatto dai Veneziani appena un giorno dopo l'emissione; e nel medesimo giorno il cassiere in Zecca Nicolò Venier era già in grado di impiegarne una parte per le spese occorrenti. E un'analoga emissione per 100.000 ducati decretata il 30 dicembre 1532 trovò pieno accoglimento sulla piazza nel giro di una ventina di giorni (135).
Nel 1538 così, nel pieno della campagna contro i Turchi, il governo emetterà una serie di titoli (i depositi in Zecca) da collocare sul mercato senza alcun obbligo di sottoscrizione. Venezia, dunque, abbandonava il meccanismo dei prestiti obbligatori - se non per riprenderlo in alcune limitate occasioni - puntando invece sulle potenzialità del mercato, sulle capacità del governo di tutelare gli interessi dei prestatori, nonché su una riscossione regolare delle imposte dirette. I depositi in Zecca, in effetti, rappresentarono un nuovo potente strumento finanziario che concluse una parabola iniziata con i vecchi prestiti forzosi.
Nel secolo della costituzione e del consolidamento dello Stato territoriale veneto si verificarono alcuni mutamenti di carattere strutturale nel sistema finanziario e fiscale di Venezia. La lenta affermazione delle decime e delle tanse come imposte dirette ordinarie segnò il passaggio ad una diversa concezione del dovere fiscale e del ruolo dell'erario pubblico; una concezione che allargava l'area dei contribuenti e che, nello stesso tempo, assegnava maggiori responsabilità ai governanti nella gestione del reddito fiscale. Un ampliamento della sfera fiscale dello Stato e della domanda tributaria, infatti, creava un circuito di diritti e doveri fra governo e sudditi. Un altro elemento da considerare riguarda l'andamento del gettito delle "angarie" (decima e tansa): se nel 1509 una decima avrebbe dovuto rendere allo Stato 30.000 ducati e una tansa 120.000, quarant'anni dopo la prima avrebbe dato un gettito di 6o.000 ducati e la seconda di circa 39.000 (136). Se agli inizi del XVI secolo l'imponibile da redditi immobiliari poteva essere ancora limitato, il mutato rapporto tra le due imposte di qualche decennio dopo starebbe ad indicare la crescita delle ricchezze immobiliari dei Veneziani. Il tenue carico gravante sui terreni agli inizi del Cinquecento potrebbe aver indotto i Veneziani a rivolgersi verso gli acquisti fondiari in Terraferma anche in virtù della mano leggera del fisco (137). Che questa politica fosse una chiara e deliberata scelta del patriziato veneziano resta da dimostrare; tanto più che la corsa verso gli investimenti nel Dominio era facilitata anche dagli ampi intervalli che correvano tra l'aggiornamento degli estimi della capitale e dalle opportunità di evadere le imposte. D'altro canto, il minor peso, anche in termini assoluti, della tansa a metà Cinquecento suggerirebbe che il gruppo dirigente veneziano volle attenuare il carico fiscale sui settori secondario e terziario a scapito della rendita fondiaria, che proprio in quegli anni stava assumendo una notevole importanza nella struttura dei redditi veneziani.
Queste ultime osservazioni ci conducono al problema del rapporto fra la tassazione e l'andamento dell'economia nella Venezia tardo-rinascimentale. Nelle pagine precedenti abbiamo passato in rassegna vicende e momenti di grande tensione, di grave crisi: la successione di conflitti, di richieste fiscali, di espedienti finanziari tesi a raggranellare denaro in ogni angolo della città, potrebbe far ritenere che la città abbia subito una continua serie di salassi che avrebbe dissanguato la popolazione e le sue basi economiche. Certo, le guerre lombarde e quelle d'Italia richiesero un rilevante sforzo ai Veneziani; e in talune congiunture il fisco senza dubbio contribuì ad abbassare il reddito della città. Quando il mercante Martino Merlini si sfoga durante la crisi di Agnadello affermando che a Venezia "non se fa chossa de sto prexente mondo; mi me vedo in gran fugo, et me dubito che, se ste maledete guere dura chusì un altro ano, semo desfati e ruinadi del mondo, tra ch'el manzemo, e poi el ne vien manzà de tanse e dezime a pagar" (138), gli si può prestar fede. Ma altri indizi ci fanno supporre che, nel lungo periodo, la città abbia potuto sopportare con un disagio relativo la mano del fisco. Nell'aprile del 1497, allorché il consiglio dei dieci collocò in vendita titoli del Monte nuovo al 75 per cento gli acquirenti si affollarono in "grandissima pressa" davanti all'ufficio statale: "la qual cossa [annota Marino Sanuto] era signal che, ben sia sta assa' guerra, in la terra si ritrovava assaissimi danari" (139). Nel settembre del 1509, vale a dire al culmine della crisi politica e militare di Venezia, l'appaltatore del dazio sul vino offrì una cifra considerevole contando sulle capacità di ripresa della città (140). Del resto, all'indomani delle guerre d'Italia le finanze veneziane si ristabilirono abbastanza in fretta, segno che erano sostenute da un'organizzazione economica piuttosto salda; e se il governo seguì sempre più decisamente la via del mercato libero per finanziare il deficit di bilancio significa che poteva contare su una piazza ben fornita di capitali, che peraltro non si erano diretti verso altre piazze. Gli interessi versati dallo Stato inoltre costituirono una delle voci più importanti nei portafogli dei Veneziani; un flusso di denaro fra i 150-230.000 ducati annui che dagli inizi del Quattro sino all'alba del Cinquecento rese la tassazione assai più sostenibile ai contribuenti della capitale. Occorre comunque sottolineare che dopo la pace di Bologna i depositi in Zecca offrirono un tasso d'interesse superiore di qualche punto rispetto alle tradizionali cedole dei Monti. Ciò si potrebbe interpretare, fra l'altro, come un sintomo della contrazione dello stock monetario a Venezia, il quale aveva percorso tanto le rotte del commercio internazionale quanto, tramite le imposizioni tributarie, le strade degli accampamenti militari, delle galee e dei fornitori della macchina bellica. Non disponendo di dati, tuttavia, è necessario fermarci alle soglie di tale ipotesi.
Alcuni elementi invece testimonierebbero che a Venezia le guerre del primo Cinquecento non riuscirono a deprimere alcuni settori della domanda e della produzione, ancorché all'indomani della pace si registrassero indubbi e immediati segni d'espansione. I dati offerti da Marino Sanuto circa le cifre d'appalto del dazio del vino e la serie (disponibile solo dal 1516) relativa alla produzione di panni alti a Venezia ci possono fornire alcuni spunti di riflessione (Tab. 8).
Occorre anzitutto avvertire che il dazio gravava su un bene - il vino - la cui domanda è poco elastica, e che pertanto l'andamento del gettito potrebbe risultare poco significativo della congiuntura economica, tanto più che occorrerebbe tener presente le fluttuazioni della popolazione e l'influenza esercitata dal contrabbando, fattori che purtroppo non siamo in grado di conoscere. Tuttavia da questa serie emergono alcuni elementi interessanti. Se teniamo conto che nelle valutazioni di Girolamo Priuli un appalto - in seguito non ratificato dal collegio - di 58.900 ducati era di "molto picolo pretio", e che un affitto di 70.000 ducati era "benn pagatto" (141), possiamo affermare che durante il trentennio considerato le casse dello Stato raccolsero delle cifre soddisfacenti (mediamente poco più di 71.000 ducati annui). Ma oltre al balzo in avanti degli appalti e della produzione di pannilana dopo la pace del 1530, quel che preme sottolineare è che nei decenni precedenti, nonostante le gravi crisi, gli appaltatori assunsero la gestione del dazio versando discrete somme di denaro; ciò significa che essi contavano di trarre vantaggiosi margini di guadagno e che le loro aspettative si basavano su un'analisi positiva del mercato veneziano. Un'analisi che probabilmente s'incentrava sulla capacità di consumo della popolazione, sulla situazione dei traffici, sul quadro politico internazionale nonché sulle prospettive di crescita a breve termine.
Alla favorevole situazione contribuirono altresì alcune forme di pagamento che indubbiamente agevolarono i creditori-contribuenti veneziani. Seppur diversamente da Firenze, che applicò la politica di monetizzazione del debito pubblico soprattutto a partire dagli anni '70 del XV secolo (142), Venezia agli inizi del Cinquecento permise in misura sempre maggiore che gli obblighi tributari potessero essere soddisfatti mediante i crediti del debito consolidato. Nei primi mesi del 1528, ad esempio, il senato deliberò che i contribuenti potessero scontare da alcune tanse appena decretate l'importo corrispondente ai loro crediti del debito consolidato; e nel 1529 alcuni appaltatori di dazi poterono far fronte ai propri debiti verso la Signoria mediante cedole del Monte vecchio (143). Questo meccanismo di compensazione agevolò i contribuenti che erano in grado di presentare i titoli di credito; coloro che non avevano alienato le proprie cedole per fronteggiare la pressione tributaria.
Durante i 132 anni intercorsi fra il 1404 e il 1535 Venezia fu impegnata in conflitti, sia in mare che in Terraferma, per 81 anni; vale a dire che in media ogni decennio era caratterizzato da sei anni di guerra. Questo pressoché perenne stato d'incertezza, di timori, di scontri, di tensioni finanziarie e di sforzi militari ebbe ovviamente notevoli ripercussioni sul sistema economico della Repubblica. In mancanza di una significativa quantità d'informazioni sui vari settori dell'economia veneziana (produzione, scambi, stock monetario, popolazione...) occorre limitarsi a porre il problema
degli effetti generali provocati dalla politica estera veneziana. Bisogna anzitutto considerare che sino a tutta la prima metà del Quattrocento le guerre intraprese dalla Signoria ebbero un carattere di espansione dei territori soggetti. Ciò significa la costituzione di un enorme spazio economico che sostiene ed esalta il ruolo centrale di Venezia. In seguito, dapprima in Levante di fronte all'avanzata dei Turchi, e poi in Terraferma agli inizi del Cinquecento, la principale preoccupazione del patriziato veneziano è quella di consolidare e di difendere le posizioni conseguite. Il mutato carattere degli impegni militari di Venezia, prima espansivo e in seguito difensivo, probabilmente influì sulle opportunità di sfruttare e sviluppare le risorse connesse alla guerra e alla conquista. È assai difficile, ad ogni modo, giudicare in quale misura i prolungati conflitti abbiano recato utili o danni alla Signoria e al sistema economico veneziano. Analogamente, risulta problematico tentare di cogliere l'effettivo impatto della guerra sulle diverse categorie economiche e sociali della città. Sarebbe errato, tuttavia, lasciarsi impressionare oltremodo dalla serie di conflitti che videro Venezia come protagonista: le varie "crisi" che colpirono Venezia lungo il Quattro e primo Cinquecento non costituirono certo una "crisi" generale; in breve tempo la città seppe ricostruire strutture e risorse che erano sembrate svanire durante ogni guerra. La guerra, piuttosto, seppe stimolare, attraverso la spesa pubblica, settori economici che in parte erano caratteristici della città.
I bilanci veneziani, come quelli degli altri Stati dell'epoca, evidenziano che una consistente quota della spesa era destinata al settore militare. Verso la fine del Quattrocento la Repubblica impegnava almeno 500.000 ducati per i costi ordinari della difesa terrestre e marittima, vale a dire poco meno della metà delle sue entrate. I fondi delle camere del Dominio da terra assegnati al mantenimento delle truppe permanenti in Terraferma passarono fra il 1490 e il 1508 da 170.000 a 210.000 ducati annui, e altri 25.000 vennero inviati ad alcune guarnigioni in Levante (145). Mentre gran parte del denaro versato ai fanti e ai cavalieri veniva speso nelle aree dove prestavano servizio i soldati, è probabile che una percentuale del soldo pagato ai prestigiosi condottieri prendesse la via delle terre e dei castelli da cui provenivano i vari comandanti. Pur non avendo dati certi a disposizione, è lecito ritenere che la politica di mecenatismo dei Montefeltro o dei Gonzaga sia stata sostenuta anche con i ducati veneziani erogati a titolo di condotta militare (146). Per quanto riguarda la flotta, invece, è presumibile che una discreta quota del denaro destinato alle costruzioni navali e alla manutenzione ordinaria si diffondesse nell'ambito interno dello Stato, e in particolare a Venezia. I cantieri della capitale, e in primo luogo l'Arsenale, furono chiamati a sostenere le grandi campagne navali nelle acque del Mediterraneo orientale, e questa forte domanda stimolò il settore cantieristico. Se teniamo presente che un battello poteva durare in media sino ad una decina d'anni, ne consegue che un conflitto come quello condotto tra il 1463 e il 1479 contro la Sublime Porta produsse un notevole ricambio delle galee. Inoltre le richieste di canapa, legname, metallo, salnitro, armi e viveri sostennero alcuni comparti produttivi sia nei Dominii che oltreconfine, specie per quanto riguarda l'approvvigionamento di ferro e rame. D'altro canto il servizio come rematore nell'Armata potrebbe aver diminuito la consistenza della forza-lavoro a Venezia. Il capitano generale da mar Antonio Grimani, impegnato ad affrontare il Turco nel 1499, ebbe ai suoi ordini sui 20-25.000 uomini tra soldati e marinai (147); è probabile che la gran parte di quest'ultimi provenisse dalla Dalmazia e dalle isole greche, tuttavia è altrettanto verosimile che una quota di uomini fosse stata fornita da Venezia stessa. Nel settembre del medesimo anno, infatti, Girolamo Priuli notava come l'appalto del dazio del vino avesse fatto registrare una diminuzione della cifra d'incanto proprio perché in città "manchava assaissime persone che heranno andate in armata et che non se consumava quella quantitade de vino che herra solito de consumarsi" (148). Ammettendo dunque un salasso nella popolazione attiva si può ritenere che la città abbia attratto manodopera dall'entroterra per mantenere i livelli produttivi.
Un ulteriore elemento che poteva dirigere flussi di denaro all'estero è costituito dagli aiuti finanziari che il patriziato lagunare stanziò nel quadro della politica estera della Signoria. Durante la guerra a sostegno di Pisa contro Firenze si affermò nel 1498 che la Repubblica inviava 20.000 ducati mensili "in terre aliene" e che sino ad agosto erano stati spesi 350.000 ducati (149).
La spesa statale di Venezia, comunque, svolse un ruolo di ridistribuzione soprattutto all'interno dei confini della Repubblica. Officiali, creditori privati, fornitori e appaltatori possono essere ritenuti i principali beneficiari dell'attività finanziaria dello Stato. Si tratta di un complesso di flussi di denaro che è assai difficile chiarire in tutta la sua articolazione, oltre che nei risvolti economici e politici; ciò che balza all'attenzione tuttavia è l'importanza del debito pubblico. Diverse decine di migliaia di ducati venivano versate ogni anno dalla camera degli imprestiti a favore dei sottoscrittori dei titoli di Stato. Se in genere questi titoli erano facilmente commerciabili e potevano attirare anche i piccoli risparmiatori, in particolari congiunture - guerre, accentuata pressione fiscale e così via - essi divenivano l'oggetto di speculazioni da parte di coloro che erano in grado di meglio sostenere le difficoltà del momento. La pesante tassazione, le difficoltà a versare con regolarità i pro sulle cedole del debito statale e il conseguente abbassamento del valore di mercato dei titoli provocavano da un lato la vendita delle cedole appartenenti ai piccoli contribuenti alla ricerca di denaro liquido per pagare le imposte, e dall'altro favorivano i grossi speculatori dotati di liquidità che acquistavano i titoli a basso prezzo confidando in un successivo rialzo. Purtroppo la mancanza di dati significativi sulla distribuzione sociale dei detentori dei titoli non ci permette di approfondire una questione che riveste un'importanza decisiva per giudicare gli effetti della politica finanziaria della Repubblica nel Rinascimento.
Fiscalità significa anche sviluppo dello Stato, dei suoi apparati, della sua forza e della sua ingerenza nella vita economica e sociale oltre che, ovviamente, politica. E lecito chiedersi se sotto questo aspetto le dinamiche fiscali e finanziarie conosciute da Venezia abbiano influenzato il costituirsi del Comune Veneciarum in Stato regionale. Certamente i crescenti bisogni della guerra e le conseguenti emergenze finanziarie spinsero il governo a dotarsi di una serie di strumenti amministrativi che controllassero e gestissero il problema delle risorse tributarie. Sin dal XIII secolo operava in città personale specializzato nelle varie mansioni di riscossione dei dazi e di controllo dell'attività finanziaria dello Stato (i vari officiali alle dogane e i camerlenghi di comun); ma fu senz'altro con l'espansione territoriale quattrocentesca che vi fu un graduale sviluppo di uffici e magistrature finanziarie. I governatori delle entrate, ad esempio, furono istituiti nel 1433 con ampie competenze sulle imposte, sia dirette che indirette; i provveditori sopra camere assunsero da metà Quattrocento la responsabilità sulle camere fiscali del Dominio in precedenza attribuita alle rason nuove; i dieci savi alle decime in Rialto sorsero per occuparsi del problema dell'accertamento dell'imponibile per la decima, e divennero una magistratura ordinaria nel 1477. Si svilupparono insomma nell'ambito dell'amministrazione finanziaria competenze e specializzazioni che contribuirono alla costituzione della macchina statale veneziana. Ciò non significa tuttavia che si fosse realizzato quel processo di accentramento che è considerato l'elemento fondamentale dello Stato. Molte prerogative vennero demandate agli organi locali, camere fiscali, consigli cittadini..., e mancò una gestione centralizzata dei flussi finanziari. Una delle caratteristiche del sistema finanziario veneziano, infatti, consistette nella autonomia gestionale delle diverse casse attribuite ai singoli uffici. Una molteplicità che in effetti rispecchiava uno dei principi costituzionali della Repubblica, e che aveva nella sovrapposizione giurisdizionale fra le varie magistrature la sua massima espressione. La difficoltà di redigere un bilancio generale dello Stato, perciò, dipese anzitutto da questo sistema a struttura cellulare a cui non venne dato un organo centrale di coordinamento. Da un canto questa diversificazione rese difficile ai sudditi individuare l'unità del potere statale impersonata dal fisco ma sparsa tra diverse istituzioni, e dall'altro impedì perfino ai governanti di avere un quadro particolare della finanza pubblica nel momento in cui occorreva adottare delle decisioni in materia fiscale. Nell'aprile del 1528, ad esempio, nel consiglio dei dieci fu proposto di obbligare 200.000 ducati del gettito di alcuni dazi quando una parte degli stessi erano già impegnati per il pagamento degli interessi della camera degli imprestiti (150). In senato si accesero furiose discussioni circa i bisogni di cassa dalle quali emerge che almeno una parte dei patrizi ignorava le reali necessità di bilancio: a Tommaso Mocenigo, che nel febbraio del 1532 lamentava che l'Arsenale e la flotta necessitavano di 70.000 ducati, si contrappose Gerolamo Pesaro negando tale cifra (151). C'era chi, insomma, prendeva la parola per evidenziare le difficoltà della finanza e chi poteva allo stesso titolo - cioè in assenza di dati contabili - assicurare dello stato di salute del bilancio. È chiaro che in una tale situazione era difficile che tra i senatori potesse emergere una chiara e coerente politica finanziaria. Del resto pretendere che il delicato settore finanziario dipendesse da un'unica magistratura significherebbe non tener conto della filosofia costituzionale veneziana, dei suoi pregi così come dei suoi limiti.
1. Sulla finanza veneziana nel tardo Medioevo cf: Gino Luzzatto, Il debito pubblico della Repubblica di Venezia dagli ultimi decenni del XII secolo alla fine del XV, Milano-Varese 1963, pp. 197-198 per le affrancazioni; Id., Il debito pubblico nel sistema finanziario veneziano dei secoli XIII-XV, in Id., Studi di storia economica veneziana, Padova 1954, pp. 211-224; Frederic C. Lane, Sull'ammontare del "Monte Vecchio" di Venezia, in appendice a G. Luzzatto, Il debito pubblico della Repubblica, pp. 275-292; Reinhold C. Mueller, Effetti della guerra di Chioggia (1378-1381) sulla vita economica e sociale di Venezia, "Ateneo Veneto", n. ser., 19, 1981, pp. 162-174; Michael Knapton, Guerra e finanza (1381-1508), in Gaetano Cozzi-Michael Knapton, Storia della Repubblica di Venezia, I, Dalla guerra di Chioggia alla riconquista della Terraferma, Torino 1986, pp. 301-345 (pp. 275-348). Desidero ringraziare Michael Knapton, Alberto Tenenti e Ugo Tucci per i loro suggerimenti, e soprattutto Reinhold C. Mueller, che con grande generosità mi ha anticipato alcuni risultati delle sue importati ricerche sul mercato finanziario veneziano nel tardo Medioevo, e che mi ha permesso di evitare alcuni errori grazie alla sua conoscenza diretta delle fonti contabili.
2. Charles M. De La Roncière, Indirect Taxes or "Gabelles" at Florence in the Fourteenth Century: the Evolution of Tariffs and Problems of Collection, in Florentine Studies. Politics and Society in Renaissance Florence, a cura di Nicolai Rubinstein, London 1968, pp. 143-144 (pp. 140-192); Lauro Martines, Potere e fantasia. Le città stato nel Rinascimento, Roma-Bari 1981, p. 237; Heinrich Sieveking, Studio sulle finanze genovesi nel Medioevo e in particolare sulla Casa di S. Giorgio, "Atti della Società Ligure di Storia Patria", 35, 1905, p. 150 (pp. 1-257).
3. Gaetano Cozzi, Politica, società, istituzioni, in Id. - Michael Knapton, Storia della Repubblica di Venezia, I, Dalla guerra di Chioggia alla riconquista della Terraferma, Torino 1986, p. 30 (pp. 3-271).
4. Michael E. Mallett - John R. Hale, The Military Organization of a Renaissance State. Venice c. 1400 to 1617, Cambridge 1984, pp. 21-24; G. Luzzatto, Il debito pubblico della Repubblica, pp. 204-208.
5. Cronaca Dolfina, in A.S.V., Secreta, Materie miste notabili, 179, cc. 533, 438v.
6. La Tab. è stata redatta in base a G. Luzzatto, Il debito pubblico della Repubblica, pp. 266-267, 271-272. Tuttavia occorre tener presente che Luzzatto non considera, almeno apparentemente, il mutamento nella tenuta della contabilità avvenuto nel luglio del 1404. Da quella data 1.000 lire a grossi d'estimo vennero considerate di fatto equivalenti a 1.000 ducati. L'appendice di Luzzatto riguardo l'andamento dei prestiti però lascia ritenere che non vi sia stata alcuna modifica, gonfiando così le percentuali di prelievo. D'altro canto, lo stesso autore (ibid., p. 232) fornisce nel testo percentuali esatte per gli anni 1439-1454. Per una approfondita discussione del problema, comunque, si rimanda al prossimo libro di Reinhold C. Mueller sul mercato finanziario a Venezia nei secoli XIV e XV.
7. Frederic C. Lane, I prezzi del pepe prima di Vasco Da Gama, in Id., I mercanti di Venezia, Torino 1982, p. 188 (pp. 187-194). Per la conversione del cargo in kg cf. Id., Navires et constructeurs à Venise pendant la Renaissance, Paris 1965, p. 237.
8. Eliyahu Ashtor, Storia economica e sociale del Vicino Oriente nel Medioevo, Torino 1982, p. 341. Cf. anche Id., The Volume of Medieval Spice Trade, "Journal of European Economic History", 9, 1980, pp. 756,
758 (pp. 753-763).
9. Gian Maria Varanini, Il distretto veronese nel Quattrocento. Vicariati del comune di Verona e vicariati privati, Verona 1980, pp. 55 ss.; Giulio Sancassani, I beni della "fattoria scaligera" e la loro liquidazione ad opera della Repubblica veneta, 1406-1417, "Nova Historia", 12, 1960, pp. 100-157; Vittorio Lazzarini, Beni carraresi e proprietari veneziani, in AA.VV., Studi in onore di Gino Luzzatto, I, Milano 1949, pp. 274-288.
10. Questa cifra, che ovviamente deve essere intesa come soglia minima, si basa sulle notizie fornite ibid., pp. 279-288.
11. Pietro Saviolo, Compendio delle origini et relazione delli estimi della città di Padova, Padova 1667, p. 5 della prima parte.
12. Cronaca Dolfina, cc. 573v-574.
13. Oltre alla Tab. 1, cf. ibid., c. 719v.
14. Samuele Romanin, Storia documentata di Venezia, IV, Venezia 1855, p. 61; G. Luzzatto, Il debito pubblico della Repubblica, pp. 209-210.
15. Cronaca Dolfina, cc. 761-762v.
16. Ibid., cc. 573, 606.
17. Venezia, Biblioteca Nazionale Marciana, ms. it. cl. VII. 1169 (= 8967), c. 18r-v; P. Saviolo, Compendio delle origini, pp. 4-5, 48.
18. Cronaca Dolfina, c. 1058r.
19. Cf. Bilanci generali della Repubblica di Venezia, I, 1, a cura di Fabio Besta, Venezia 1912, p. 95 per l'arringa di Mocenigo e p. 99 per il dato sul bilancio. Gino Luzzatto, Sull'attendibilità di alcune statistiche economiche medievali, in Id., Studi di storia economica veneziana, Padova 1954, pp. 278-279 (pp. 271-284), è propenso ad attribuire maggior fiducia a Mocenigo, ritenendo che il totale corrisponda alle entrate lorde dello Stato.
20. Oltre a Bilanci generali, pp. 98-99, cf. anche i dati forniti da Harry Miskimin, The Enforcement of the Gresham's Law, in Credito, banche e investimenti, secoli XIII-XX, a cura di Anna Vannini Marx, Firenze 1985, pp. 159 e 160 per l'Inghilterra e la Francia (pp. 147-161).
21. M.E. Mallett - J.R. Hale, The Military Organization of a Renaissance State, pp. 34, 36, 41.
22. Ibid., pp. 128-129.
23. G. Luzzatto, Il debito pubblico della Repubblica, pp. 267-270, 272; e A.S.V., Revisori e regolatori delle entrate pubbliche in Zecca, b. 1070, fasc. "Affrancazione Monti".
24. A.S.V., Governatori delle entrate, b. 3, c. 10 (7 dicembre 1450).
25. Ibid., cc. 1v (21 febbraio 1444), 10v (7 dicembre 1450).
26. Ivi, Procuratori di San Marco, Citra, b. 52, fasc. 2.
27. Régestes des délibérations du Sénat de Venise concernant la Romanie, a cura di Freddy Thiriet, III, Paris-La Haye 1961, pp. 18, 70-71, 151.
28. P. Saviolo, Compendio delle origini, pp. 49-50; James S. Grubb, Firstborn of Venice. Vicenza in the Early Renaissance State, Baltimore-London 1988, pp. 118-119; Gian Maria Varanini, Il bilancio della Camera fiscale di Verona nel 1479-80, in Id., Comuni cittadini e Stato regionale. Ricerche sulla Terraferma veneta nel Quattrocento, Verona 1992, p. 259 (pp. 251-277); Giuseppe Del Torre, Il Trevigiano nei secoli XV e XVI. L'assetto amministrativo e il sistema fiscale, Venezia 1990, p. 68.
29. Il dato è tratto da P. Saviolo, Compendio delle origini, p. 49.
30. Per tutto questo cf. Reinhold C. Mueller, L'imperialismo monetario veneziano nel Quattrocento, "Società e Storia", 8, 1980, pp. 277-297.
31. Bilanci generali, pp. 114-115 per il decreto del senato; il prestito dell'1 per cento di dicembre 1425 ottenne 43.642 ducati (ibid., p. 103). E cf. invece G. Luzzatto, Il debito pubblico della Repubblica, p. 267.
32. F.C. Lane, I prezzi del pepe, pp. 188-189.
33. Cf. i dati forniti da Freddy Thiriet, Quelques observations sur le trafic des galées vénitiennes d'après les chiffres des incanti (XIVe-XVe siècles), in AA.VV., Studi in onore di Amintore Fanfani, III, Milano 1962, pp. 511, 516 (pp. 495-522).
34. Frederic C. Lane, Andrea Barbarigo, mercante di Venezia, 1418-49, in Id., I mercanti di Venezia, Torino 1982, p. 25 (pp. 3-121).
35. Bilanci generali, pp. 116-127.
36. Ibid., pp. 129-130.
37. G. Luzzatto, Il debito pubblico della Repubblica, p. 257.
38. A.S.V., Senato Terra, reg. 4, cc. 20 (12 ottobre 1456) e 55V (11 ottobre 1457).
39. Bilanci generali, pp. 135-139.
40. Cf. Ernst Kantorowicz, I due corpi del Re. L'idea di regalità nella teologia politica medievale, Torino 1989, pp. 149 ss.
41. G. Luzzatto, Il debito pubblico della Repubblica, pp. 225-227; Id., L'attività commerciale di un patrizio veneziano del Quattrocento, in Id., Studi di storia economica veneziana, Padova 1954, pp. 167-193.
42. Cf. David Herlihy - Christiane Klapisch - Zuber, I toscani e le loro famiglie. Uno studio sul catasto fiorentino del 1427, Bologna 1988, pp. 77-80; e le discussioni riportate da Elio Conti, L'imposta diretta a Firenze nel Quattrocento (1427-1494), Roma 1984, pp. 119-127, 132.
43. I prestiti della Repubblica di Venezia (Sec. XIII-XV), a cura di Gino Luzzatto, Padova 1929, pp. 320-321; Domenico Malipiero, Annali veneti dall'anno 1457 al 1500, a cura di Francesco Longo - Agostino Sagredo, "Archivio Storico Italiano", 7, 1843, pt. I, p. 13.
44. D. Malipiero, Annali veneti, p. 13.
45. Ibid., p. 66.
46. A.S.V., Governatori delle entrate, b. 3, passim e c. 274v; ivi, Procuratori di San Marco, Citra, b. 51; G. Luzzatto, Il debito pubblico della Repubblica, p. 272; A.S.V., Revisori e regolatori delle entrate pubbliche in Zecca, b. 1070, fasc. "Affrancazioni Monti".
47. A.S.V., Governatori delle entrate, b. 3, c. 94v (12 marzo 1468); D. Malipiero, Annali veneti, p. 235.
48. P. Saviolo, Compendio delle origini, pp. 50-51; G. M. Varanini, Il bilancio della Camera fiscale, p. 261; J.S. Grubb, Firstborn of Venice, pp. 118-119; Ivana Pederzani, Venezia e lo "Stado de Terraferma". Il governo delle comunità nel territorio bergamasco (secc. XV-XVIII), Milano 1992, p. 110 e n.; D. Malipiero, Annali veneti, p. 107; Marin Sanudo, Le vite dei dogi (1474-1494), I, a cura di Angela Caracciolo Aricò, Padova 1989, p. 7.
49. Cf., per un contesto diverso, Alain Guéry, Le roi dépensier. Le don, la contrainte, et l'origine du système financier de la monarchie française d'Ancien Régime, "Annales E.S.C.", 39, 1984, pp. 1241-1269.
50. D. Malipiero, Annali veneti, pp. 108-109.
51. A.S.V., Governatori delle entrate, b. 5, cc. 114v, 121 (19 gennaio e 28 novembre 1471), 142v (1° agosto 1474), 143v (6 ottobre 1474), 158v (16 settembre 1477), 160v (16 febbraio 1478).
52. D. Malipiero, Annali veneti, p. 256; M. Sanudo, Le vite dei dogi, pp. 233-234. Circa il dibattito sulla guerra cf. ora Michael E. Mallett, Venice and the War of Ferrara, 1482-84, in War, Culture and Society in Renaissance Venice. Essays in Honour of John Hale, a cura di David S. Chambers - Cecil H. Clough - Michael E. Mallett, London-Rio Grande 1993, pp. 57-72.
53. D. Malipiero, Annali veneti, p. 253; M. Sanudo, Le vite dei dogi, pp. 239, 241-242.
54. Ibid., p. 186.
55. F.C. Lane, Sull'ammontare del "Monte Vecchio" di Venezia, p. 283.
56. Bilanci generali, pp. 154-156; D. Malipiero, Annali veneti, p. 257; M. Sanudo, Le vite dei dogi, pp. 241, 259-260.
57. G. Luzzatto, Il debito pubblico della Repubblica, pp. 261-265; I prestiti della Repubblica, pp. 331-332.
58. M. Sanudo, Le vite dei dogi, pp. 295, 329.
59. D. Malipiero, Annali veneti, p. 287.
60. A.S.V., Archivio Privato Donà in Archivio Privato Marcello Grimani Giustinian, 167, c. 166.
61. Ivi, Senato Terra, reg. 8, c. 160v (18 luglio 1482). Per la retribuzione del calafato, ho calcolato un salario medio giornaliero di 21 soldi per 250 giornate lavorative. Cf. anche Ester Zille, Salari e stipendi a Venezia tra Quattro e Cinquecento, "Archivio Veneto", ser. V, 138, 1992, p. 17 (pp. 5-29).
62. M. Sanudo, Le vite dei dogi, pp. 271-272, 281, 286, 300, 306, 311; Reinhold C. Mueller, "Quando i banchi no' ha' fede, la terra no' ha credito". Bank Loans to the Venetian State in the Fifteenth Century, in Banchi pubblici, banchi privati e monti di pietà nell'Europa preindustriale. Amministrazione, tecniche operative e ruoli economici, Atti del Convegno, Genova 1991, p. 285 (pp. 275-308).
63. D. Malipiero, Annali veneti, pp. 289-290.
64. Ibid., p. 296.
65. Ibid., p. 532; Pietro Dolfin, Annali veneti, a cura di Roberto Cessi - Paolo Sambin, Venezia 1943, pp. 5-6.
66. D. Malipiero, Annali veneti, p. 291.
67. A.S.V., Governatori delle entrate, b. 3, c. 199 (17 maggio 1488); Bilanci generali, pp. 166-167 (16 agosto 1491).
68. D. Malipiero, Annali veneti, p. 142.
69. Ibid., p. 323; Girolamo Priuli, I diarii, in R.I.S.2, XXIV, 3, 1912-1941, vol. I, a cura di Arturo Segre; voll. II e IV, a cura di Roberto Cessi: I, p. 10.
70. G. Priuli, I diarii, I, pp. 25, 32.
71. Ibid., p. 67.
72. D. Malipiero, Annali veneti, pp. 340, 344.
73. Ibid., p. 351.
74. G. Priuli, I diarii, I, pp. 16, 25, 30, 42, 52, 58, 60, 71, 141, 174, 223, 321; II, pp. 7, 27, 183, 197, 242, 243, 254, 273, 278, 329, 350, 365, 366, 368, 376, 380, 387, 398, 421; D. Malipiero, Annali veneti, p. 484; P. Dolfin, Annali veneti, pp. 198, 203; Marino Sanuto, I diarii, I-LVIII, a cura di Federico Stefani et al., Venezia 1879-1903: I, col. 575; IV, col. 580.
75. D. Malipiero, Annali veneti, pp. 376, 406-407.
76. Ibid., p. 629.
77. Ibid., p. 484.
78. Ibid., p. 532; G. Priuli, I diarii, I, pp. 67, 108.
79. M. Sanuto, I diarii, II, coll. 1176-1179; Frederic C. Lane, Le operazioni navali e l'organizzazione della flotta 1499-1502, in Id., Le navi di Venezia fra i secoli XIII e XVI, Torino 1983, p. 256 (pp. 251-283).
80. M. Sanuto, I diarii, III, coll. 283, 332; Id., De origine, situ et magistratibus urbis Venetae ovvero la città di Venetia (1493-1530), a cura di Angela Caracciolo Aricò, Milano 1980, p. 191.
81. G. Priuli, I diarii, I, pp. 120-121, 129, 136, 139; II, pp. 6, 78-80, 193; A.S.V., Senato Terra, reg. 13, cc. 72v-73, 79v, 81v, 82, 83v-84.
82. G. Priuli, I diarii, I, p. 138.
83. Ibid., I, pp. 274, 288; II, pp. 5, 49, 96-97, 124-125, 144, 185, 196-197, 236, 248, 258, 324, 366, 371, 389, 431-432; D. Malipiero, Annali veneti, p. 569; M. Sanuto, I diarii, XX, coll. 7-10.
84. Bilanci generali, pp. 175-177.
85. A.S.V., Senato Terra, reg. 13, c. 162 (I ° dicembre 1500); ivi, Senato Secreta, reg. 38, c. 99 (13 gennaio 1501).
86. P. Dolfin, Annali veneti, p. 226.
87. G. Priuli, I diarii, II, p. 96.
88. A.S.V., Senato Secreta, reg. 38, c. 113 (12 febbraio 1501).
89. Per la vicenda del campatico cf. M. Sanuto, I diarii, IV, coll. 189, 234-235, 641.
90. Per il costo dei lavori e la produzione di grano cf. l'appunto stilato da Nicolò Barbarigo riportato
da Piergiovanni Mometto, L'azienda agricola Barbarigo a Carpi. Gestione economica ed evoluzione sociale sulle terre di un villaggio della bassa pianura veronese (1443-1539), Venezia 1992, p. 209; per il prezzo del grano Gigi Corazzol, Fitti e livelli a grano. Un aspetto del credito rurale nel Veneto del '500, Milano 1979, p. 110.
91. D. Malipiero, Annali veneti, p. 712; G. Priuli, I diarii, I, p. 273.
92. Ibid., I, p. 290; P. Dolfin, Annali veneti, p. 47.
93. G. Priuli, I diarii, II, p. 260; M. Sanuto, I diarii, V, col. 12.
94. P. Dolfin, Annali veneti, p. 17.
95. Cf. Karin Nehlsen von Stryk, L'assicurazione marittima a Venezia nel XV secolo, Roma 1988, pp. 500 ss. dell'appendice (curiosamente non tradotta in italiano).
96. F. C. Lane, I prezzi del pepe, p. 189.
97. E. Ashtor, Storia economica e sociale del Vicino Oriente, p. 342.
98. Cf. i dati in G. Priuli, I diarii, I, pp. 65-67, 87, 158, 174; II, pp. 134, 139, 197, 242, 253, 257, 264, 275, 311, 329, 348-349, 353, 360.
99. Ibid., II, p. 272.
100. Giuseppe Dalla Santa, Commerci, vita privata e notizie politiche dei giorni della lega di Cambrai (da lettere del mercante veneziano Martino Merlini), "Atti del R. Istituto Veneto di scienze, lettere ed arti", 76, 1917, p. 1589 (pp. 1547-1605).
101. G. Priuli, I diarii, IV, pp. 15-17.
102. Ibid., pp. 52-53; per l'importanza del dazio del sale Jean-Claude Hocquet, Guerre et finance dans l'Etat de la Renaissance. La Chambre du sel et la dette publique à Venise, in Actes du 102e Congrès national des Sociétés Savantes, Paris 1979, pp. 123-125 (pp. 109-131).
103. G. Priuli, I diarii, IV, pp. 15, 81-82, 120, 133; A.S.V., Senato Terra, reg. 16, cc. 105v, 156.
104. P. Mometto, L'azienda agricola Barbarigo, p. 198.
105. G. Priuli, I diarii, IV, p. 77.
106. Ibid., pp. 195, 409.
107. Ibid., pp. 333-334, 347-348; Bilanci generali, pp. 186-189, non è chiaro riguardo l'esatto momento della nascita del Monte novissimo.
108. A.S.V., Archivio Privato Donà in Archivio Privato Marcello Grimani Giustinian, 169, fasc. " 1509 Monte Novissimo".
109. G. Dalla Santa, Commerci, vita privata e notizie politiche, p. 1557.
110. Ibid., p. 1588.
111. Cf. Andrea Da Mosto, I dogi di Venezia nella vita pubblica e privata, Firenze 1977, pp. 198, 200.
112. G. Priuli, I diarii, IV, pp. 244, 249, il cronista assicura l'attendibilità delle cifre in quanto "tute queste spexe sonno passate per le manno mie et visto cum diligentia tutti questi sopradicti contti"; Robert Finlay, La vita politica nella Venezia del Rinascimento, Milano 1982, p. 217.
113. Venezia, Museo Correr, ms. Gradenigo, 187, c. 232.
114. M. Sanuto, I diarii, XX, coll. 7-10.
115. Bilanci generali, pp. 192-194; A.S.V., Senato Terra, reg. 17, c. 22 (8 aprile 1510).
116. Cf. Gaetano Cozzi, Autorità e giustizia a Venezia nel Rinascimento, in Id., Repubblica di Venezia e Stati italiani. Politica e giustizia dal secolo XVI al secolo XVIII, Torino 1982, pp. 109-112 (pp. 81-145).
117. A.S.V., Consiglio dei Dieci, Misti, reg. 33, cc. 47r-v, 66v, 107, 124v (3 gennaio e 25 febbraio 1511); e ivi, reg. 34, passim, per l'obbligo di entrate daziarie destinate al rimborso di prestiti bancari; Felix Gilbert, The Pope, his Banker and Venice, Cambridge, Mass.-London 1980, pp. 34-35.
118. Cf. R.C. Mueller, "Quando i banchi no' ha' fede, la terra no' ha credito", pp. 304-305. L'invio di una somma di denaro per l'esercito nel Regno di Napoli tramite lettere di cambio comportò nel 1496 un interesse passivo del 4 per cento (M. Sanuto, I diarii, I, coll. 150-151). Sulle connessioni fra interessi privati e finanza pubblica a Firenze cf. L. F. Marks, The Financial Oligarchy in Florence under Lorenzo, in Italian Renaissance Studies, a cura di E.F. Jacob, London 196o, pp. 139-140 (pp. 123-147).
119. Cf. Francesco Ferrara, Gli antichi banchi di Venezia, "Nuova Antologia", 16, 1871, pp. 177-213, 435-446, ma ho consultato la ristampa edita a Palermo 1970, p. 43 (pp. 3-93).
120. A.S.V., Senato Terra, reg. 19, c. 138 (22 gennaio 1517); reg. 20, cc. 23r-v (27 giugno 1517), 152r-v, 154-155 (25 settembre 1517); Bilanci generali, pp. 194-196.
121. M. Sanuto, I diarii, VIII, coll. 373, 391.
122. F.C. Lane, Public Debt and Private Wealth, pp. 319-321; Bilanci generali, pp. 199-203; A.S.V., Procuratori di San Marco, Citra, b. 52.
123. M. Sanuto, I diarii, XLIII, col. 86; LIII, coll. 226-228.
124. A.S.V., Senato, Affrancazioni Zecca, f. 19, c. n.n. (1° marzo 1525 e 2 giugno 1526).
125. A.S.V., Archivio proprio Balbi, 6, c. n.n.
126. Cf. Giuseppe Del Torre, Venezia e la Terraferma dopo la guerra di Cambrai. Fiscalità e amministrazione, 1515-1530, Milano 1986, pp. 44-45.
127. Bilanci generali, pp. 212-213.
128. M. Sanuto, I diarii, XLVII, coll. 308-310; XLVIII, coll. 247-249; XLIX, coll. 308-310.
129. G. Del Torre, Venezia e la Terraferma, pp. 77-83. 130. F.C. Lane, Storia di Venezia, Torino 1978, p. 373.
131. Bilanci generali, pp. 208-210.
132. Ibid., pp. 213-216.
133. M. Sanuto, I diarii, LVII, col. 147. Per le operazioni d'affrancazione ibid., LII, coll. 579, 595-598; LIII, coll. 37-38, 51, 99, 417, 531-532; LIV, coll. 116, 155, 172, 182, 222, 238, 247, 530; LV, col. 71.
134. Ibid., LIII, col. 338 (9 luglio 1530).
135. Ibid., LVII, coll. 272 (27 novembre 1532) e 378-379, 415, 447, 458.
136. Per il 1509 cf. supra; per il 1543, Venezia, Museo Correr, Donà delle Rose, 160, c. 64.
137. Cf. M. Sanuto, I diarii, XLVII, coll. 29-34 (5 marzo 1528), circa gli effetti della lieve imposizione della decima.
138. G. Dalla Santa, Commerci, vita privata e notizie politiche, p. 1556.
139. M. Sanuto, I diarii, I, col. 575.
140. G. Priuli, I diarii, IV, p. 266; cf. oltre, Tab. 8.
141. G. Priuli, I diarii, II, pp. 51, 226. Cf. anche le analoghe considerazioni di M. Sanuto, I diarii, III, coll. 733-734.
142. Anthony Molho, L'amministrazione del debito pubblico a Firenze nel quindicesimo secolo, in AA.VV., I ceti dirigenti nella Toscana del Quattrocento, Firenze 1987, pp. 199-201 (pp. 191-207); Giovanni Ciappelli, Il cittadino fiorentino e il fisco alla fine del trecento e nel corso del quattrocento, "Società e Storia", 11, 1989, p. 870 (pp. 823-872).
143. M. Sanuto, I diarii, XLVI, coll. 586-587; XLVII, coll. 20-21; LII, col. 302. Per alcuni casi precedenti, che vedono come protagonisti creditori dell'officio del sal, cf. Jean-Claude Hocquet, Il sale e la fortuna di Venezia, Roma 1990, pp. 355 ss.
144. M. Sanuto, I diarii, III, coll. 733-734, 864; IV, coI. 351; VI, col. 74; VII, col. 626; IX, col. 122; XI, col. 258; XII, col. 455; XV, col. 5; XVII, col. 15; XIX, col. 25; XXI, coll. 26, 131; XXII, col. 517; XXIV, col. 625; XXV, col. 613; XXVII, col. 593; XIX, col. 134; XXXIV, col. 382; XXXVI, col. 549; XLVIII, col. 412; LI, col. 397; LIII, col. 509; LVI, col. 781; LVIII, col. 597; nonché G. Priuli, I diarii, II, pp. 51, 226, 354; IV, p. 266. Si veda inoltre Ugo Tucci, Commercio e consumo del vino a Venezia in età moderna, in AA.VV., Il vino nell'economia e nella società italiana medioevale e moderna, Firenze 1989, pp. 185-202. Ho preferito basarmi sui dati di Sanuto piuttosto che su quelli dei Bilanci generali in quanto il cronista riporta le somme d'appalto mentre la documentazione statale dovrebbe riferirsi al denaro effettivamente riscosso. Occorre rilevare che comunque, salvo qualche eccezione, i dati coincidono. Per la produzione laniera cf. Domenico Sella, Commerci e industrie a Venezia nel secolo XVII, Venezia-Roma 1961, pp. 117-118.
145. F.C. Lane, Storia di Venezia, p. 28o; M. Knapton, Guerra e finanza, pp. 301-303; M.E. Mallett - J.R. Hale, The Military Organization of a Renaissance State, p. 131; A.S.V., Senato Terra, rcg. 16, cc. 61v-63v (23 dicembre 1508).
146. Cf. in generale Michael E. Mallett, Signori e mercenari. La guerra nell'Italia del Rinascimento, Bologna 1983, pp. 224-227.
147. F.C. Lane, Le operazioni navali e l'organizzazione della flotta, p. 256.
148. G. Priuli, I diarii, I, p. 197.
149. D. Malipiero, Annali veneti, pp. 509, 511.
150. M. Sanuto, I diarii, L, coll. 227-228.
151. Ibid., LV, coll. 431-432.