La finanza pubblica
La storiografia riguardante la finanza pubblica veneziana nel medioevo poggia sulle fondamentali iniziative di pubblicazione e analisi delle principali fonti utili, condotte in tempi ormai lontani soprattutto da Besta, Cessi, Lane e Luzzatto (1). Dall'opera di scavo ad essi dovuta emergono con chiarezza anzitutto i limiti posti dalla documentazione reperibile per uno studio dedicato agli anni 1140-1300, che fatalmente si sbilancia verso il secondo '200. Pur con l'eccezione degli anni coperti dal Liber plegiorum (1223-1229), infatti, sopravvive assai poco della documentazione relativa alle decisioni espresse dai consigli di stato prima di metà '200, in materia finanziaria come in altre. Perdura sino a fine secolo il vuoto o quasi-vuoto per minor consiglio, quarantìa, senato e per gli occasionali consigli estemporanei, mentre s'infittiscono nella seconda metà del secolo le delibere conservate per il maggior consiglio, comunque disponibili in serie più o meno integrale solo a partire dal 1282. Quanto alle varie magistrature con rilevanti competenze finanziarie, il materiale archivistico conservato per i secoli XII-XIII si limita praticamente ai capitolari, generalmente sbilanciati cronologicamente anch'essi verso la parte terminale del periodo qui considerato.
Pure per gli ultimi decenni del '200, comunque, le conoscenze consentite dalle fonti riguardano piuttosto la struttura normativa e organizzativa del sistema finanziario che i suoi risvolti quantitativi: per esempio, le prime stime disponibili per l'entità complessiva del bilancio riguardano il 1342 (entrate di circa 670-680.000 lire a grossi, forse non molto diverse per ordine di grandezza da quelle di fine '200). Il primo elenco noto di contribuenti ai prestiti forzosi, comprendente i nominativi e la cifra complessiva di valutazione di ciascuno, risale al 1379, anche se si può computare attorno a 3,9 milioni di lire a grossi il totale dell'imponibile soggetto ai prestiti alla fine del '200 (2).
Un secondo aspetto ben evidenziato per i secoli XII-XIII dalle indagini sopra ricordate è l'ovvio e fondamentale rapporto di sovrapposizione e compenetrazione fra la vicenda della finanza pubblica e altri risvolti della vita dello stato, in primo luogo la complessiva evoluzione politico-istituzionale di quest'ultimo: cioè, l'emergere e il progressivo articolarsi del comune, compresi l'evolversi di magistrature con specifiche competenze finanziarie (numerose anche rispetto al quadro complessivo dei nuovi organi) e la lievitazione dei costi connessi a un'attività di governo progressivamente più diffusa. Sovrapposizione, inoltre, con l'impostazione della politica commerciale condotta dai governanti a sostegno dei mercanti e vascelli veneziani e dello stesso mercato realtino - politica in larga parte espressa tramite il regime daziario - come pure con la conduzione della politica estera. Questa, fu in ampia misura espressione della stessa politica commerciale e comunque si caratterizzò per un impiego variabile ma complessivamente notevole di mezzi di difesa, con evidenti e fondamentali ripercussioni in materia finanziaria.
Un ultimo aspetto evidenziato dalla tradizione storiografica è il carattere in larga parte empirico - poco progettuale, razionalizzato semmai a posteriori - dello sviluppo della finanza pubblica veneziana nel periodo considerato.
L'articolarsi delle competenze istituzionali in materia di imposizione e di riscossione e impiego delle entrate, nonché di controllo contabile; l'evoluzione delle forme impositive indirette e dirette e dei metodi di ricorso al credito, fra i mutui volontari e quei prestiti forzosi che divennero la forma privilegiata del prelievo straordinario, portando al consolidamento della componente principale del debito pubblico; la crescita progressiva (per quel che se ne può dedurre) dell'entità delle somme manovrate; l'evoluzione di capacità conoscitive e gestionali complessive - di previsione delle entrate, di controllo delle uscite - tali da consentire, se non la formazione di un bilancio preventivo di massima, delle assegnazioni più o meno estese e durature di capi d'entrata a voci di uscita soprattutto nel settore della gestione ordinaria, e tali, quindi, da confinare alla gestione straordinaria (comunque di gran lunga maggioritaria) l'incidenza di improvvisazione e i connessi rischi di confusione.
Caratteristiche come queste, assieme ai già ricordati aspetti di sovrapposizione tra sviluppo complessivo dello stato ed evoluzione della finanza, comunque accomunano le vicende della gestione finanziaria veneziana all'esperienza delle altre città italiane in età comunale (3).
Vanno tuttavia sottolineate alcune peculiarità della situazione veneziana: l'acquisizione di poteri finanziari da parte del comune avvenne mediante l'erosione e la trasformazione di prerogative ducali, per effetto di un passaggio politico-istituzionale per così dire interno al ceto di governo (esso stesso portato piuttosto ad assimilare che a scontrarsi con nuove famiglie in via di affermazione sociale).
Non si pose, poi, il problema di estendere l'esercizio di quei poteri finanziari a un contado, o di minare le immunità fiscali nobiliari ed ecclesiastiche che soprattutto nel contado tendevano ad annidarsi, anche se rapporti in materia finanziaria in qualche modo analoghi a quelli intercorrenti fra città e contado caratterizzavano le relazioni, pur diverse fra di loro, tra Venezia e una serie di soggetti (4): le comunità del Dogado, le città e isole fra Istria e Dalmazia legate al comune di Venezia da rapporti di fedeltà o soggezione, le colonie di mercanti veneziani presenti oltre mare, i possedimenti coloniali veri e propri acquisiti in occasione della IV Crociata.
Una ulteriore questione da sollevare brevemente in questi cenni preliminari è quella monetaria, oggetto di trattazione a parte in questo volume e qui richiamata allo scopo specifico di porre in rapporto fra di loro le varie unità monetarie in cui vengono espresse le somme periodicamente ricordate nel testo (5). Nel XII secolo Venezia, pur computando in ragione di lire, soldi e denari, coniò per conto proprio - sebbene con intervalli di inattività della Zecca - monete di taglio non maggiore dei denari, ricorrendo ove necessario a monete più grosse di coniazione altrui (principalmente veronese e bizantina). La situazione monetaria mutò in direzione dell'impiego più diffuso di monete proprie soprattutto con l'introduzione attorno al 1194 del grosso d'argento, che per tutto il XIII secolo fu la moneta dei grandi scambi e che diventò la base del nuovo multiplo della lira di grossi (composta di 240 grossi). Il grosso divenne legalmente equivalente a 26 denari di quella che, per distinguerla, venne chiamata la lira di piccoli, ma il rapporto fra grosso e piccolo poi slittò nei decenni successivi a metà '200, in relazione alla riduzione della quantità d'argento contenuta nella moneta divisionale: passò da circa 1: 26,1 nel 1254 a 1: 32 nel 1282, con effetti inflattivi che favorirono l'impiego verso fine '200 della lira a grossi, ossia una lira ancorata al grosso perché equivalente a 9 grossi e 5 piccoli.
Se per l'effettuazione di alcune operazioni di finanza pubblica divenne obbligatorio l'impiego del grosso, a scopo di computo si finì con l'accordare la preferenza a monete di conto ancorate al grosso - a lira a grossi o la lira di grossi - a causa della maggiore certezza (e anche entità reale) dell'ammontare espresso in quel modo. Così avvenne soprattutto per gli incassi dello stato e anche per voci privilegiate della sua spesa come i pagamenti connessi al debito pubblico e la retribuzione delle cariche; troviamo la lira a grossi introdotta, per esempio, in un aggiornamento del 1295 del prelievo daziario sull'olio e sulle carni, salate e non, consumate a Venezia (6). L'ultima importante novità del '200 fu la coniazione a partire dal 1285 del ducato aureo, inizialmente equivalente a 18 grossi (ma destinato a guadagnare nei confronti del grosso all'inizio del '300 per effetto di un forte slittamento del rapporto bimetallico).
Per buona parte del '200 si continuò, nonostante gli sviluppi appena accennati della monetazione veneziana, a far riferimento per le operazioni di finanza pubblica nei luoghi del Levante ad altre monete, soprattutto iperperi di vario tipo e bisanti; se l'equivalenza per Creta fu fissata a metà '200 a 1 iperpero = 12 grossi, occorre ricordare che queste monete sono spesso quotate nei documenti con rapporti di cambio (nei confronti della moneta veneziana) che incorporano anche gli interessi su mutui, accesi in una moneta e destinati a essere rimborsati in un'altra.
È forse bene rilevare, infine, che in un periodo in cui permaneva nei rapporti fra privati un elemento di ricorso al pagamento sotto forme diverse dalla moneta, altrettanto accadeva in alcune operazioni della gestione statale. Così era, per esempio, nei casi - più frequenti verso l'inizio del periodo considerato - in cui l'"avere" pubblico veniva dato o promesso a ragione di marche d'argento (ognuna equivalente a 238,5 grammi); e così anche ove si trattava di riscuotere beni a scopo di liquidazione dei crediti pubblici, compresa l'eventuale conversione in denaro di metalli preziosi, gioielli ecc. depositati dai mercanti in garanzia di pagamento dei dazi doganali.
Talvolta, inoltre, lo stesso prelievo daziario sulle merci oggetto di scambio avveniva in natura: norme del 1287 per i visdomini dei Lombardi ne parlano, ad esempio, per lo zafferano e le mercerie (e nelle difficoltà monetarie del terzo decennio del '300 gli uffici governativi dovettero accettare i pagamenti sotto forma di pegno in assenza di buona moneta argentea). Talvolta, poi, i governanti scelsero di realizzare utili compiendo trasferimenti di denaro mediante la compravendita di merci, per esempio trasferendo dal Levante a Venezia denaro pubblico sotto forma di generi commerciabili come il frumento cretese (7).
Sono anzitutto le limitazioni via via più specifiche inserite nelle promissioni ducali (conservate a partire dal 1192) ad attestare il tramonto della configurazione dominicale del regime finanziario veneziano. Con ciò va intesa la progressiva riduzione delle entrate e spettanze del doge ad alcuni residui diritti regalistici, ben distinti dalla massa crescente di introiti e diritti gestiti dal comune, e inoltre il divieto fatto al doge di percepire direttamente tributi o di disporre a suo arbitrio dei beni e diritti pubblici: processo effettivamente concluso quando il comune prese a versargli un salario annuo, come prevedeva la promissione del 1229. C'è comunque da osservare che sebbene la finanza fosse tra i settori prioritari nell'affermazione dei poteri del comune, il connesso ridimensionamento delle prerogative ducali ci si presenta come un processo relativamente graduale se, per esempio, la promissione del 1192 aveva lasciato ancora al doge molti profitti derivanti dall'amministrazione della giustizia assieme a una quota fissa di alcuni altri introiti, imponendogli anche l'obbligo di contributi significativi alla spesa pubblica, soprattutto ai costi delle flotte di guerra e della diplomazia (8).
La dinamica evidenziata dalle promissioni rinvia anzitutto all'assunzione di funzioni deliberative in ambito anche finanziario e fiscale da parte del placito, tendenti a limitare i poteri autonomi del doge. Tale tendenza fu confermata e portata al suo compimento dall'evoluzione del minor e del maggior consiglio, comparsi verso la fine del XII secolo, i quali conservarono lungo il '200 rilevanti poteri in materia finanziaria (prevalentemente esecutivi quelli del primo, e deliberativi - a livello anche di minuzie - quelli del secondo). Nel corso del secolo, comunque, la quarantìa, organo responsabile anche della politica monetaria, i cui capi erano entrati a far parte del minor consiglio, si assunse non poche competenze in merito (soggette soprattutto per decisioni in materia di imposizione e spesa a specifiche autorizzazioni o conferme da parte del maggior consiglio). Talvolta, inoltre, si delegarono ampi poteri finanziari a consigli straordinari come i trenta, responsabili della gestione della guerra genovese a fine secolo. Più o meno in quegli stessi anni, poi, è intuibile l'ingresso in campo finanziario del senato, la cui competenza al riguardo - conseguenza quasi logica della sua attività in materia di politica estera e commerciale, e da rapportarsi anche all'incidenza crescente delle sue sedute congiunte con la quarantìa - acquisì contorni più precisi in occasione della legge di regolazione finanziaria del 1314.
Quanto alle magistrature, esse si formarono soprattutto in epoca posteriore all'inizio del '200, in buona parte nel periodo assai povero di documentazione pubblica compreso fra il 1229 e metà '200: processo che riflette il carattere gradualmente più capillare e "burocratico" assunto da tutta l'azione di governo, ma che ebbe anche l'effetto di suddividere le competenze più vaste e generiche inizialmente spettanti a pochi organi, compresi gli stessi consiglieri ducali. È d'obbligo aggiungere, tuttavia, che a Venezia l'evoluzione delle magistrature evidenzia solo in misura limitata suddivisioni per affinità di funzioni. Questa caratteristica generale risulta particolarmente marcata in "un sistema finanziario risolutamente decentrato" (9), diventato tale per effetto di uno sviluppo empirico che tuttavia assunse una chiara ratio politica, cosicché l'autonomia finanziaria costituita da una propria gestione di cassa - disciplinata da regole raccolte in un capitolare rappresentava la norma piuttosto che l'eccezione fra le magistrature. Di queste, pertanto, si daranno indicazioni soltanto sommarie, limitate a quelle di importanza maggiore nell'ambito della gestione finanziaria. Esse avevano generalmente la sede nei pressi di Rialto - il cuore economico di Venezia - piuttosto che nell'ambito del Palazzo, a S. Marco; in molti casi i titolari duravano in carica un anno (ma talvolta col ricambio sfasato).
La magistratura finanziaria di più antica istituzione fu quella dei camerlenghi di comun, con funzioni anzitutto di custodia e versamento dell'"avere" pubblico ma anche di riscossione e controllo. La loro esistenza viene segnalata a partire dal 1173 (in segno anche del ridimensionamento complessivo del profilo principesco della carica ducale in seguito alla morte del doge Vitale II Michiel); la loro nomina - tre camerlenghi affiancati da sei scriptores - fu disciplinata da regole a noi note sin dal 1207 (10). A loro erano destinate di norma le somme accumulate e non spese dagli altri organi. Molto precoce è anche la documentazione del ruolo generico assolto nella percezione ed esborso degli introiti dai visdomini, magistratura forse sviluppatasi da curiales ducali dallo stesso titolo; le loro mansioni si definirono in seguito nell'ambito della riscossione degli introiti doganali.
Per l'affidamento di alcune funzioni di tesoro ai procuratori di S. Marco si è ipotizzato una specie di precedente addirittura dell'XI secolo, con una separazione di gestione fra una camera ducale e una camera di S. Marco che anticipa successive distinzioni fra diritti regalistici ducali e quelli "statali". L'ipotesi non è suffragata dalla documentazione posteriore che prospetta lo sviluppo empirico di funzioni di custodia di denaro pubblico di varia provenienza, elevate a primaria importanza nel 1262 dalla costituzione - di cui si dirà - di un deposito per le entrate destinate al debito pubblico e alle necessità belliche (11).
Le principali mansioni in materia doganale furono affidate ai visdomini, suddivisi entro metà '200 fra i visdomini responsabili di varie "tavole": quelli del mare, quelli dei Lombardi (per quasi tutti i collegamenti commerciali verso la terraferma), quelli della ternarìa (per i traffici di olio, varie derrate, pelli), e - a partire dal 1268, anno del suo passaggio sotto amministrazione diretta anziché delegata anche quelli del fondaco dei Tedeschi. Fra le altre magistrature responsabili in materia daziaria sono da ricordare: gli ufficiali alla messetteria (responsabili del prelievo daziario sulle transazioni commerciali, di cui si dirà); gli ufficiali specificamente incaricati, rispettivamente, dei dazi del vino e delle beccarie; i salineri di Chioggia (già nel 1187 è segnalata l'esistenza di camerlenghi addetti agli introiti del sale, e nel 1224 di visdomini addetti al dazio del sale); gli ufficiali del Levante, per il commercio marittimo col Levante, e quelli sopra Rialto, per quanto concerneva l'attività del mercato cittadino.
La gestione dei prestiti forzosi - riscossione, versamento degli interessi, restituzione dei capitali, trasferimento dei titoli - era cura degli ufficiali agli imprestiti, attestati nel 1252 come organo già esistente. Per quanto riguarda lo sfruttamento e la tutela dei beni demaniali, va ricordato l'iniziale ruolo di generica vigilanza nei confronti di proprietà e diritti comunali degli avogadori di comun, magistratura antica quanto quella dei camerlenghi e con responsabilità inizialmente più amministrative che giudiziarie. Sui beni pubblici nelle aree specifiche di Rialto e S. Marco emerse poi la competenza degli ufficiali di Rialto e dei procuratori di S. Marco, mentre per aspetti più generali di tutela dei diritti demaniali va ricordato soprattutto il ruolo assunto dai giudici del piovego negli ultimi decenni del '200.
Sul versante della spesa, un ruolo di primo piano ebbero magistrature con responsabilità in materia di difesa come i patroni all'Arsenale e i signori sopra l'armamento, accanto ad altri organi importanti tanto per le uscite, quanto per le entrate da loro gestite: i salineri da mar e gli ufficiali.,) frumento, entrambi destinati a diventare - soprattutto nel '300 - colonne portanti della finanza pubblica.
Nel controllo sulla corretta gestione da parte dei vari organi degli introiti e diritti del comune, sulle spese da essi effettuate, sulla consegna ai camerlenghi del saldo delle entrate, fu importante soprattutto nei primi tempi la funzione assolta dagli avogadori. A essi si affiancarono a metà '200, con mansioni di controllo contabile sull'operato delle magistrature responsabili di riscuotere e sborsare entrate pubbliche, gli ufficiali alle rason, suddivisi negli ultimi decenni del '200 fra quelli "di dentro" e "di fuori" (con riferimento all'ambito geografico di esercizio delle cariche sottoposte al loro controllo). È bene sottolineare, a questo riguardo, che col progredire del '200 si deliberarono norme sempre più minuziose per ogni aspetto del maneggio del denaro pubblico, tendenti anche a rendere più collegiale la responsabilità all'interno delle singole magistrature e a moltiplicare la documentazione prodotta: così per le modalità prescritte per le operazioni di cassa, la loro registrazione, la chiusura delle casse, il versamento del saldo a chi di dovere, la resa dei conti e via dicendo (12).
L'esazione di quanto dovuto da debitori contumaci o da chi comunque deteneva illegalmente denaro e altra proprietà del comune era affidata in via generale agli avogadori di comun e anche, per certi aspetti, ai signori di notte; pure da ricordare è il ruolo assunto dagli ufficiali al cattaver nel ricupero dei diritti fiscali. Quest'organo, creato nel penultimo decennio del '200, si configurò inizialmente come una delle varie commissioni (generalmente temporanee) nominate verso la fine del '200 per rivedere e raddrizzare l'assetto generale delle uscite ed entrate, ma sopravvisse assumendo funzioni ben più specifiche, tra l'altro assorbendo la magistratura - dalle competenze affini - dei giudici del contrabbando.
Rilevanti funzioni in materia finanziaria furono assolte da coloro che a vario titolo rappresentavano il comune di Venezia negli incarichi esterni a Venezia stessa, a partire dai rettori del Dogado (sostituiti nel corso del '200 ai preesistenti gastaldi) e dai funzionari collocati sulle vie commerciali dell'entroterra con mansioni di sorveglianza e controllo dei traffici e talvolta anche di riscossione dei dazi (per esempio il visdomino di Aquileia o il castellano di S. Alberto) (13). Per quanto concerne il Dogado in particolare, va rilevato - per il '200, almeno - che se vigevano norme daziarie comuni dettate da Venezia, le singole comunità avevano comunque una gestione finanziaria propria, in cui i rettori intervenivano in varia misura a fianco degli organi comunitari. Questa gestione era destinata anzitutto a coprire i costi di governo e dei lavori pubblici (comprese opere ai lidi di interesse non solo locale), allargandosi - con variazioni di caso in caso - a settori come i provvedimenti annonari e sanitari. Era fondata generalmente su risorse patrimoniali (consistenti nel caso di Chioggia), alcuni dazi locali di consumo (rivendita del vino e della carne, taverne ecc.) ed eventuali oneri diretti di propria imposizione, oltre ad occasionali concessioni straordinarie di introiti da parte veneziana. Mentre in epoca precedente almeno una parte degli abitanti del Dogado aveva contribuito alle prestazioni personali e in natura dovute al Palatium, e poi al decimo (onere diretto in uso a Venezia fino al secolo XII, di cui si dirà in seguito) (14), la più netta distinzione amministrativa evidente nel '200 fra Venezia e Dogado significò che gli abitanti di quest'ultimo non contribuirono ai prestiti forzosi che allora divennero usuali nel capoluogo, anche se permase l'obbligo verso Venezia di prestazioni militari e di alcuni lavori pubblici (15).
Sotto controllo meno diretto, anche in termini finanziari, erano le località adriatiche legate a Venezia da rapporti - invero un po' alterni - di fidelitas o, verso la fine del periodo qui considerato, di sudditanza più esplicita. Fin da tempi più antichi, comunque, il doge era totius Istrie dominator e anche dux Dalmatie, ma la sostanza corrispondente a questi titoli variava notevolmente con le oscillazioni dei rapporti effettivi di forza esistenti fra Venezia e le forze municipali e signorili locali, come pure i patriarchi d'Aquileia e i regnanti ungheresi, normanni e bizantini. La fidelitas aveva comunque un qualche riscontro anche in termini di tributi e di contributi finanziari e bellici laddove Venezia riusciva a imporre una condizione di subalternità mediante patti ed eventuali azioni coercitive. Pur con variazioni locali, questi obblighi tendevano a comportare, anzitutto, il versamento del salario ai conti o rettori nominati o approvati da parte veneziana. C'erano poi il pagamento a Venezia di tributi dal sapore ancora regalistico, come il contributo annuo di 150 iperperi e 3.000 pelli di coniglio preteso da Zara nel 1205, o l'obbligo di armare unità per le flotte da guerra veneziane (così nel 1268 le inadempienze dei comuni istriani a questo riguardo furono computate a più di 11.000 lire, e nella grande flotta inviata contro i Genovesi nel 1298 erano 5 le galee armate da Zara, e 10 quelle dei Chioggiotti), e non di rado, infine, la recezione di norme per disciplinare il prelievo daziario sui traffici diretti a Venezia e per regolare il mercato e/o la produzione del sale (16).
Per quanto riguarda le piazze commerciali del Levante, nei primi tempi della presenza in esse di mercanti veneziani fu scarso lo sviluppo di strumenti decentrati di governo da parte del doge e poi del nascente comune. Questo fatto si unì alla deferenza devota verso le istituzioni ecclesiastiche lagunari - i monasteri di più antica fondazione come S. Nicolò del Lido e S. Giorgio Maggiore, il patriarcato di Grado, la sede episcopale di Castello, l'opera della basilica di S. Marco - e anche al fatto che élite di governo ed élite ecclesiastica provenivano dalle stesse famiglie, e ciò suggerì ai governanti di Venezia di donare a questi enti numerose proprietà ed entrate nel Levante che essi provvidero a gestire: fu il caso, ad esempio, di molti diritti acquisiti dai Veneziani nelle città dell'Impero bizantino e in quelle in mano ai crociati (17).
Nel '200, comunque, crebbe in queste colonie - pur con fluttuazioni legate all'andamento dei rapporti con i governanti del luogo - un'attività più articolata di amministrazione condotta da autorità di nomina veneziana (baili o consoli, spesso affiancati da consiglieri e magari da camerlenghi), insieme a consigli locali. Tale attività aveva precisi risvolti finanziari, soggetti a un'azione relativamente assidua di controllo da parte di Venezia stessa: la gestione diretta di spese ed entrate locali del comune (salari, costi amministrativi, provvedimenti di difesa, lavori pubblici da una parte, e dall'altra entrate provenienti dallo sfruttamento di immobili, da sanzioni pecuniarie, da una varietà di diritti e tasse, da eventuali mutui accesi e rimborsati in loco); funzioni di controllo relative al rispetto del regime daziario di Venezia stessa, e la riscossione dai Veneziani presenti dei prestiti forzosi imposti in patria. Si provvedeva alla copertura di eventuali deficit locali di gestione ordinaria assegnando introiti di altre colonie, oppure - e così si coprirono anche molte spese straordinarie, soprattutto quelle finalizzate a esigenze di difesa locale, frequenti negli ultimi decenni del '200 mediante l'accensione di prestiti a carico del comune di Venezia, dietro approvazione della capitale. Quest'ultima prassi risaliva comunque ai decenni precedenti, come dimostra il mutuo di 3.000 iperperi per la difesa di Costantinopoli che il podestà e i consiglieri veneziani furono autorizzati a stipulare nel 1259 (18).
Proprio nella Costantinopoli degli anni dell'Impero latino, quando erano sicuramente molte migliaia i Veneziani presenti nella città, le risorse pubbliche gestite dalla colonia erano di un'entità tale da poter armare squadre navali fino a 25 galee (senza tener conto delle somme prestate nel 1237-1238 da vari Veneziani per la difesa del regime latino) (19). Anche in altri luoghi, comunque, c'era una gestione finanziaria di tutto rispetto: la dettagliata relazione ufficiale stesa nel 1243 dal bailo veneziano di Acri attesta l'entità considerevole delle proprietà allora spettanti al comune di Venezia, e la politica di irrobustimento del potere veneziano nella città (seguita fino alla caduta di Acri nel 1291) ebbe importanti risvolti finanziari nell'acquisizione di ulteriori beni ma anche, per esempio, nella percezione di tasse sui pellegrini di passaggio (20).
Quanto ai territori acquisiti dal comune per effetto della IV Crociata, fu eccezionale l'esperienza di Corfù, peraltro solo brevemente controllata, dove Venezia sostanzialmente rinunciò all'esercizio diretto dei poteri di governo, compresa la gestione di spese ed entrate, concedendo il tutto a dieci nobili veneziani in cambio di un censo annuo di 500 iperperi (21). Per i luoghi su cui si stabilì un controllo duraturo - Modone e Corone, Creta e (seppure in termini meno netti) Negroponte - furono piuttosto frequenti, dopo il periodo iniziale di assestamento, gli interventi duecenteschi del potere centrale in materia finanziaria. Essi riguardarono una gestione tendenzialmente più complessa e consistente di quella attestata per le colonie di Veneziani insediate in terra altrui, ma furono formulati in buona parte negli stessi termini già ricordati per quelle colonie. Pare comunque di cogliere, accanto ai risvolti più prettamente locali, un collegamento un po' più marcato con la gestione della capitale: oltre agli aspetti già accennati, quindi, si trovano - specialmente per Creta - assegnazioni di singole voci di entrata, talvolta in relazione a esigenze di spesa del bilancio centrale, e uscite notevoli a scopo di difesa non solo locale, comprese voci come la costruzione di arsenali e la preparazione di biscotto a disposizione della flotta (al reggimento di Creta ne furono ordinate 423.000 libbre nel 1283, per esempio). Sul versante delle entrate coloniali si trovano - come in Istria e Dalmazia - interventi per adeguare le norme doganali locali alle esigenze della piazza veneziana e modifiche al regime locale di produzione e distribuzione del sale (22).
Conviene sviluppare l'analisi della gestione finanziaria anteponendo l'esame delle uscite a quello delle entrate: le uscite, sebbene raramente computabili in precisi termini quantitativi, ebbero un ovvio effetto trainante sull'evoluzione delle entrate. Le spese sostenute dalla finanza pubblica veneziana nei secoli XII e XIII si possono raggruppare, semplificando un po', in due categorie principali: costi di governo e affini; costi di difesa. Nella seconda categoria andrebbero fatte confluire anche le occasionali sovvenzioni allo sforzo bellico altrui, come ad esempio le dodecim milia marcarum, fornite nel 1164 per vincere le esitazioni dei primi aderenti a ciò che sarebbe diventata la Lega lombarda (23), come pure le spese connesse a un debito pubblico generato quasi esclusivamente da spese militari.
Del costo del ricorso al credito (mutui volontari e prestiti forzosi, con i conseguenti oneri di interessi da versare e di capitali da restituire) si tratterà più diffusamente nel paragrafo dedicato al credito. È tuttavia opportuno anticipare che nei decenni tra fine '200 e primo '300, a Venezia come pure in altre città italiane, le spese subirono un'impennata complessiva coperta in primo luogo - nel caso veneziano - da un gonfiamento senza precedenti del debito pubblico, con conseguenti costi di interessi e di ammortamento che contribuirono anch'essi all'aumento delle uscite. Per la finanza pubblica veneziana in particolare si rovesciò allora ciò che si potrebbe definire il saldo positivo, durato qualcosa come due secoli, fra i costi sostenuti per la difesa e la ricaduta economica delle guerre combattute, nel senso che fino a circa il 1260 il costo dell'azione bellica era stato probabilmente più che coperto dall'incremento di introiti pubblici da essa procurato, per effetto anzitutto dell'espansione del volume dei traffici e quindi del prelievo daziario (24).
Questa dinamica complessiva delle uscite verso la fine del '200 fra l'altro mise a dura prova - senza però scardinarle del tutto - le distinzioni teoriche e le connesse attribuzioni di fondi deliberate nella sommaria regolazione generale approvata dal maggior consiglio nel 1262 (25). In virtù di questa normativa - che riprendeva precedenti delibere a noi non note, presumibilmente d'impostazione meno organica - si assegnava la somma piuttosto modesta di 3.000 lire mensili a copertura degli ordinari costi di governo, destinando il resto a un unico deposito. I fondi di questo dovevano coprire (nell'ordine) gli interessi dovuti sui prestiti forzosi già versati, le spese delle guerre in corso e nei - limiti del possibile - la restituzione del capitale dei prestiti. Nell'ultimo ventennio del '200 non furono per niente rari, infatti, i permessi votati dal maggior consiglio affinché il minor consiglio attingesse d'anticipo alle 3.000 lire destinate alle spese ordinarie del mese successivo (26), e in parecchie occasioni si autorizzò lo storno temporaneo delle entrate destinate al deposito presso i procuratori di S. Marco: così, per esempio, nel 1283 per convogliare direttamente alla guerra in Istria e Friuli gli introiti doganali delle tre "tavole"; nel 1284 per assegnare allo stesso scopo fondi già accantonati per pagare gli interessi sul debito consolidato (i salineri da mar dovevano reintegrare il deposito), o nel 1286 per consentire l'acquisto di oro per la Zecca (27).
È bene precisare che queste norme generali del 1262 e altre successive - in particolare quelle del 1314, che crearono un deposito specifico per i pagamenti relativi ai prestiti forzosi - affrontarono con successo tutt'al più parziale il problema generale della gestione delle principali voci di spesa e di introito (28): in che modo e in che misura, cioè, assegnare determinate entrate a singoli capi di spesa, stante l'imperfetta conoscenza del loro andamento corrente, per non parlare della difficoltà di prevedere le variazioni che avrebbero subito le une e, soprattutto, gli altri. Ciò è comprovato dall'insistenza della normativa duecentesca perché - prima del controllo finale operato dagli ufficiali alle rason - il minor consiglio ricevesse documentazione contabile delle somme versate alla camera di comun e ne producesse a sua volta per le spese da esso autorizzate. A monte del problema conoscitivo stava anche - come si vedrà subito - la tendenza strisciante a indebolire la funzione di tesoreria centrale svolta dalla camera di comun, nonostante che durante la seconda metà del secolo si siano ripetute le norme a sostegno di questa sua funzione, in particolare quelle che imponevano ai singoli organi percettori di introiti di versare il soldo ad essa ogni mese (29). Con gli ultimi decenni del '200, in particolare, in sintonia con la grande crescita della gestione finanziaria delle camere del frumento e del sale, s'infittirono le delibere governative che assegnarono a voci di spesa particolari entrate, anticipando o eliminando il loro passaggio per la camera di comun. Così i fondi della camera del sale vennero ripetutamente assegnati a necessità belliche (con l'eccezione di una parte riservata ai pagamenti dei mercanti importatori dei sali acquistati dal comune), e quelli della camera del frumento a vari impieghi, comprese alcune spese ordinarie (con l'effetto anche di raggirare il limite massimo posto nel 1262 a tali spese) (30).
La modestia della somma assegnata nel 1262 ai costi ordinari di governo (36.000 lire annue, aumentate solo nel 1349 a 72.000) da un lato esprimeva il desiderio di contenere tali costi ma dall'altro rinviava alla già ricordata consuetudine - ormai acquisita, e più diffusa a Venezia che altrove - per cui molti organi di governo, anche con mansioni non primariamente finanziarie, coprivano la totalità o comunque una parte dei loro costi (salari del personale, spese connesse all'esercizio delle proprie funzioni) mediante una propria gestione di cassa. Questa, sganciata in tutto o in parte da rapporti con la tesoreria centrale, veniva alimentata dalla riscossione di diritti fissi a carico degli "utenti" dell'ufficio in questione, da piccole percentuali prelevate sul denaro pubblico maneggiato (1 denaro per ogni lira fra i tre visdomini del mare, secondo norme del 1295, per esempio), magari da una parte delle pene pecuniarie da esso inflitte o riscosse. Per meglio assolvere a queste mansioni finanziarie accadeva spesso che i titolari delle magistrature - come ad esempio il tribunale penale dei cinque alla pace - fungessero a turno da camerlengo (31). Perciò la somma complessiva stanziata nel 1262 doveva semmai integrare quanto delle spettanze dei singoli organi non veniva coperto dai loro incassi, permettendo al poco denaro formalmente assegnato di coprire una gamma teoricamente vastissima di salari e costi. Questi spaziavano dalla retribuzione del doge (2.800 lire annue nel 1229, 4.000 nel 1289 (32)) alle spettanze di numerosi ufficiali impiegati a Venezia stessa, nel Dogado e nei consolati e colonie; c'erano inoltre i costi derivanti dalla presenza attorno alla laguna di numerosi punti di vigilanza e controllo sui prodotti in viaggio da o per Venezia, con una dotazione complessivamente consistente di uomini e imbarcazioni (33).
Da ciò deriva, fra l'altro, la difficoltà di computare con una qualche precisione l'incidenza complessiva dei costi ordinari di governo, per quanto non manchino indicazioni - nel Liber plegiorum, nelle delibere del maggior consiglio, nei capitolari dei singoli organi - sulla retribuzione dei titolari di molte cariche, come pure del loro personale subalterno (notai o scrivani, pueri ecc.) (34). Pur riconosciuta la loro tendenza a crescere col tempo - per lo sviluppo complessivo dell'attività di governo, ma in riferimento anche alla domanda di cariche retribuite (già all'inizio del '300 sene intravede l'uso come impieghi assistenziali) (35) - i costi di governo comunque subirono delle fluttuazioni. Lo indica la propensione - attestata dalle fonti per il secondo '200 - a fare economie piccole e tendenzialmente temporanee nelle congiunture difficili riducendo la retribuzione e/o l'organico delle magistrature, o accorpando magistrature, come nel 1294 e nel 1299 (36). Lo indica anche l'oscillazione, nella normativa del secondo '200, riguardante la retribuzione dei rettori, consoli, consiglieri e camerlenghi inviati nel Levante, fra un salario consistente accompagnato da limiti o divieti sulla loro attività commerciale (tendenza destinata a prevalere), e un salario più contenuto compensato da maggiore libertà di praticare la mercatura (37).
Un elemento variabile di spesa fu costituito dai costi della diplomazia, che conobbe un'evoluzione precoce a Venezia. Già nel '200 l'invio di ambasciatori ad altri governanti assunse un profilo finanziario relativamente consistente, anche se fu in generale considerato straordinario ai fini del bilancio (e perciò oggetto, volta per volta, di provvedimenti finanziari da parte dei consigli). Lo scopo primario fu di promuovere o tutelare gli interessi commerciali veneziani (e talvolta furono i mercanti interessati a una determinata piazza a finanziare la missione), ma era già imboccata la strada della raccolta sistematica di informazioni diplomatiche (38).
Per quanto riguarda i "servizi" e l'azione assistenziale, il caso veneziano conferma il loro scarso rilievo complessivo fra le spese dei comuni medievali: non si ha notizia di maestri di scuola al soldo pubblico prima del '400, anche se Venezia fu anticipata nella condotta d'insegnanti da altri centri del Dogado, a partire da Chioggia (a questo riguardo le città minori furono generalmente più sollecite di quelle grandi, in cui fu diffusa l'attività di maestri a titolo privato) (39). Per quanto riguarda la sanità, ricorrono con una certa frequenza fra le delibere del maggior consiglio a fine '200 provvedimenti per pagare medici pubblici (e nel 1324 ce n'erano 24) (40). Lasciando all'iniziativa privata di ispirazione religiosa azioni di soccorso caritatevole, il governo comunque mai generoso di doni diretti sotto forma di denaro - dava un suo contributo finanziario modesto e indiretto in questo senso, distribuendo ai religiosi dell'area lagunare elemosine periodiche di entità contenuta (3.000 lire annue e doni in occasione di alcune ricorrenze, a fine '200), e accordando loro alcuni privilegi daziari e occasionali "grazie" individuali (41).
Quanto ai lavori pubblici, furono ovviamente numerose in un periodo di sostenuta espansione demografica le opere di sistemazione ex novo e di manutenzione dell'emergente tessuto urbano. Nella stragrande maggioranza dei casi, tuttavia, la ripartizione degli oneri era così disciplinata da non gravare se non in minima misura sul comune. I costi connessi alle strade ricadevano sugli abitanti della contrada interessata, quelli per i ponti magari su più di una contrada, quelli per le rive sui proprietari (perciò coinvolgendo solo sporadicamente il comune). Quanto ai canali, gli oneri spettavano ai frontisti per 2/3 e per 1/3 al comune, che per un certo periodo a partire dal 1275 (in sintonìa con strettezze di bilancio) obbligò i frontisti anche ad anticipare la sua parte, provvedendo al rimborso sotto forma di titoli del debito pubblico.
A carico del comune vi fu anche un'incidenza variabile di spese - e magari l'apporto di obblighi personali a carattere non strettamente fiscale - in connessione con opere di sistemazione funzionale ed estetica di alcuni edifici e spazi pubblici di particolare importanza: principalmente la zona marciana fra Palazzo e piazza, l'ambito del mercato di Rialto, e l'arteria stradale fra questo e S. Marco. Al dogado di Sebastiano Ziani (1172-1178) risalgono, oltre all'allestimento di un ponte a Rialto, numerosi interventi sui palazzi e la piazza di S. Marco. Fra i successivi episodi di ampliamento, bonifica e sistemazione stradale nella zona di Rialto, spiccano iniziative come l'acquisto governativo di nuovi spazi nel 1222, l'interramento della vicina "piscina" di S. Matteo nel sesto decennio, e poi - fra ottavo e nono decennio - lavori di sistemazione delle Mercerie, di ampliamento del mercato realtino e di realizzazione di ciò che divenne il mercato di Rialto nuovo. Nella zona di S. Marco, importanti interventi furono compiuti poco dopo metà '200 dal doge Renier Zeno (la pavimentazione della piazza, la costruzione di logge, l'assegnazione di palazzi ai procuratori di S. Marco). A queste zone principali di intervento pubblico se ne possono comunque accostare altre, come per esempio il sito di quello che nel '300 sarebbe divenuto l'arsenale principale, a Castello, dove nel 1221 il comune spese 1.001 lire nell'acquisto di fabbricati e terreni (42).
Anche gli interventi compiuti nell'ambito lagunare furono occasione di spesa; a fine '200, sottoposti a coordinamento più sistematico, essi erano alla base di occasionali prestiti forzosi imposti "pro aptatione litoris". Per opere d'interesse generale a carico delle comunità del Dogado, inoltre, il comune di Venezia talvolta assegnava a esse introiti propri (43).
Necessità di spesa oltre che cespiti di entrate si possono ravvisare nell'intervento pubblico per rifornire Venezia di alcuni generi di consumo e/o rafforzarne il ruolo di mercato e fornitore a terzi di quei generi. Ciò vale in primo luogo per il sale, soprattutto a partire dagli ultimi decenni del ' 200: il comune stesso allora divenne grande acquirente (e poi rivenditore) dei sali importati da lontano, in base a una serie di norme per l'acquisto del sale mediterraneo che nel 1281 vennero codificate sotto il nome di ordo salis (e poi annualmente aggiornate, in riferimento a fluttuazioni nella disponibilità del prodotto). L'ordine di grandezza delle operazioni - intese anche a rafforzare il commercio marittimo veneziano nel suo complesso - si misurava in migliaia di moggia all'anno, mentre nei primi tempi il prezzo pagato agli importatori era attorno a 7-7,5 lire a grossi per ogni moggio (44).
Fra gli altri prodotti nel cui rifornimento intervenne direttamente lo stato, spiccano - anche per la misura dei costi connessi - le granaglie. I provvedimenti in materia erano concepiti in chiave annonaria, per soddisfare le necessità di consumo della popolazione lagunare, oltre che per provvedere alle necessità governative - soprattutto biscotto per i vascelli dello stato - e per realizzare profitti su eventuali vendite a terzi: si voleva evitare il rischio di penuria e, allo stesso tempo, procurare utili allo stato, il quale nel '200 assunse un ruolo diretto di acquirente via via più importante.
Ciò richiese alla finanza pubblica esborsi consistenti, connessi anzitutto alla costruzione e/o manutenzione a Venezia di grandi magazzini governativi e di fondaci per la vendita controllata al dettaglio, e poi, soprattutto, all'acquisto diretto di notevoli scorte. La maggior parte di queste furono importate via mare (per effetto anche del calo, lungo il '200, della disponibilità di eccedenze esportabili nell'entroterra italiano di Venezia): già nel 1227 e 1229 erano di parecchie migliaia di lire le somme destinate ad acquisti fra Durazzo e l'Italia centrale e meridionale, mentre nel 1303 gli acquisti governativi di grano cretese per Venezia superarono il valore di 13.000 iperperi. In epoca di carestia il governo inoltre offriva ai singoli mercanti incentivi per l'importazione: politica già attestata nel terzo decennio del '200, e poi spesso adottata negli ultimi decenni (anni difficili dal punto di vista annonario in molte città italiane). Si assicurò l'afflusso a Venezia di grandi quantitativi di cereali grazie talvolta alle garanzie date agli importatori di poterli vendere a un determinato prezzo o invece - prassi che più ci interessa - mediante la promessa agli importatori di una somma fissa di denaro pubblico per ogni staio (45).
Quanto al cerimoniale pubblico, pur con occasionali eccezioni vistose come l'accoglienza accordata al papa e all'imperatore Federico Barbarossa nel 1177, le spese connesse a un calendario annuale che già nel secondo '200 era piuttosto fitto di cerimonie sembrano rientrare generalmente nei compiti istituzionali del doge, in parte sorretto da antichi contributi dovuti dalle corporazioni di mestiere, e affiancato in tal senso dalla chiesa di S. Marco e dalle alte cariche ecclesiastiche in generale. Per alcuni aspetti, tuttavia, specialmente per la festa annuale delle Dodici Marie di fine gennaio (ripetutamente fatta oggetto di delibere del maggior consiglio nel secondo '200), si mobilitarono anche le risorse delle contrade (46).
Quanto alla politica monetaria, infine, in alcune congiunture, come quella di fine '200, essa poteva addirittura comportare costi maggiori dell'utile percepito mediante la monetazione, e in linea di massima non veniva impostata per realizzare importanti profitti per lo stato. Comportava spese di produzione, fra cui la retribuzione di una forza-lavoro di circa 100 unità a fine '200, e, soprattutto, richiedeva l'impiego di notevoli somme per l'acquisto dei metalli preziosi. Per quegli anni si è ipotizzato in qualcosa come 445.000 pezzi il livello massimo della produzione annua di grossi, che avrebbe richiesto circa 935 kg di argento puro (cui andrebbe aggiunta la grande quantità di argento comperata per la trasformazione in lingotti) (47).
Se è attestata sin dai primi tempi una certa incidenza di spese ordinarie di difesa, concentrate sulla protezione e controllo dell'ambito lagunare, sono generalmente solo ipotizzabili le precise implicazioni finanziarie delle azioni belliche connesse alla politica estera di Venezia (argomento affrontato altrove in questo volume). Tali azioni furono comunque sostenute in parecchi ambiti diversi, talvolta collegati strategicamente fra di loro: sul versante italiano (scena già nel 1143-1144 dello scontro con i Padovani relativo alla loro deviazione del Brenta verso il deflusso nei pressi del monastero di S. Ilario); nell'Adriatico, a partire dalle forze armate nel 1147-1148 (in alleanza con gli imperatori di Oriente e Occidente) per contrastare la spinta espansionistica dei Normanni di Sicilia, e poi - per esempio- le lunghe e alterne vicende dello sforzo per affermare la preminenza veneziana sulle cittadine istriane, su Zara e dintorni, su Ragusa; infine nell'ambito più vasto del Mediterraneo, in particolare fra i mari e le città costiere del Levante. Confrontando le vicende di una Repubblica marinara come Venezia con quelle dei comuni cittadini non affacciati sul mare, si coglie infatti una certa precocità nel passaggio verso l'acquisizione di forze armate permanenti di una qualche consistenza: dato che riflette l'importanza come fattore di competitività mercantile, soprattutto ma non solo per i traffici levantini, dell'incidenza dei costi di protezione (48).
a) Lo sforzo navale. I conflitti in cui s'impegnarono forze veneziane verso la fine del '200 si svolsero in parte in ambiti vicini alla laguna - così nel penultimo decennio, tra il Friuli e l'Istria - e in parte in una dimensione più vasta, mediterranea: così, soprattutto, la guerra veneto-genovese del 1294-1299. Anche un secolo prima si può ravvisare nelle azioni di guerra l'alternanza dei teatri d'operazione, ad esempio tra la fallita campagna lanciata contro l'Impero d'Oriente dal doge Vitale II Michiel dopo le aggressioni subite dai Veneziani nel 1171, e l'attività soprattutto di ambito adriatico del suo successore, Sebastiano Ziani (49). È comunque indubbio che la IV Crociata costituì un passaggio importante per l'evoluzione dell'impegno navale veneziano, anzitutto perché confermò la sua tendenza ad assumere una dimensione mediterranea via via meno occasionale.
Agli sforzi per combattere la minaccia perenne di attività piratesca all'interno dell'Adriatico, alle periodiche spedizioni per riaffermare l'adesione a Venezia di città e isole della sponda orientale come Zara, a puntate più occasionali verso il Levante (bizantino, latino o islamico che fosse), si aggiunsero infatti le implicazioni della costituzione dell'Impero latino d'Oriente, che per il sessantennio della sua esistenza dipese dal punto di vista navale dal sostegno veneziano. Ben più durature, inoltre, furono le implicazioni dell'acquisizione dei possedimenti coloniali di Creta, Negroponte, Modone e Corone, che furono altrettanti luoghi da difendere (e, soprattutto nel caso di Creta, da ridurre all'obbedienza, in un processo che continuò a ritmo alterno per tutto il secolo). E a ciò si aggiunse l'emergere, verso metà '200, dei Genovesi come principali avversari latini di Venezia un po' ovunque fra Adriatico e Levante, come testimoniano anche le vicende delle guerre veneto-genovesi del 1257-1270 e del 1294-1299.
Guerre geograficamente disperse e relativamente frequenti richiesero la capacità, già evidente negli ultimi decenni del XII secolo, di allestire grandi flotte. Per la spedizione in Oriente del 1172 si armarono un centinaio di galee ("de novo edificate et ad omnia parate in quattuor mensium spacio"), e i termini del trattato del 1187 con Bisanzio prevedevano l'eventualità della costruzione e fornitura da parte veneziana di una flotta dalle dimensioni di 40 fino a 100 galee: eventualità mai verificatasi, ma che comunque fa apparire meno eccezionale l'exploit pur notevole della preparazione dei numerosi vascelli - 72 galee e 140 navi da carico - destinati a trasportare e scortare i combattenti della IV Crociata (50). Analoghe imprese non furono affatto insolite nella seconda metà del '200: basta por mente alle 39 galee, 4 navi grosse e 10 "tarette" che nel 1258 sconfissero forze genovesi nei pressi di Acri, o alla novantina di vascelli veneziani impegnati nel 1298 alla battaglia di Curzola (cui seguì una mobilitazione massiccia anche l'anno successivo, nonostante le molte perdite subite in occasione della sconfitta riportata proprio in quell'anno) (51).
Se è vero che le guerre erano occasioni di mobilitazione eccezionale di risorse navali, va ricordata anche la consistenza considerevole progressivamente raggiunta dal naviglio di stato a impiego regolare anziché occasionale. Non si trattava soltanto di utilizzo militare: se è vero che in coincidenza con la fine del periodo qui considerato (a partire dall'ultimo decennio del '200) aumentò notevolmente il numero di vascelli comunali impiegati nei commerci, per effetto del passaggio verso l'utilizzo sistematico a tal scopo di galee del comune, anche in precedenza si hanno attestazioni sporadiche dell'impiego mercantile di navi del comune (ed era stato abbastanza frequente il loro utilizzo per trasportare ambasciatori e titolari di cariche fuori Venezia) (52). Per quanto riguarda l'attività di pattugliamento dei mari a tutela dei traffici e/o l'impiego di galee per scortare i mercantili nei loro spostamenti stagionali, si trattò nella prima metà del '200 di una prassi sporadica anziché regolare. È documentata anche la delega a privati di competenze di polizia navale mediante appalto: così nel 1226 (all'epoca della V Crociata), ad esempio, per una nave inviata nell'Adriatico per impedire il commercio di contrabbando con l'Egitto (53). L'attività di pattugliamento e/o di scorta (10, 15 o 20 galee per accompagnare le mude) divenne comunque prassi nella seconda metà del secolo anche fuori dai periodi di guerra, per rispondere pure all'accresciuta minaccia dei pirati annidati principalmente ad Almissa. A quest'epoca risale, infatti, l'inizio dell'attività regolare di una squadra del "golfo" (e una delibera del 1278 obbligò i patroni all'Arsenale a tenere sempre pronte per ogni evenienza 4 galee e altri due vascelli) (54).
C'è da aggiungere che alla custodia dei mari non partecipavano soltanto vascelli di volta in volta armati a Venezia. Per il primo '200 c'è qualche sporadica indicazione, e per il secondo '200 ripetute testimonianze della presenza fra Adriatico e Mediterraneo di naviglio fornito ai luoghi legati a Venezia a scopo di pattugliamento contro pirati e di difesa locale. Il naviglio veniva concesso dall'Arsenale a vario titolo - prestito, vendita, dono ecc. - alle autorità veneziane in loco e/o ai comuni: così per l'Istria e la Dalmazia e per le colonie di Veneziani insediati in Terrasanta, ad esempio, mentre Creta era in grado di armare per suo conto unità relativamente numerose (55).
Si constata l'evoluzione di attività regolari di pattugliamento anche nella laguna stessa, a opera dei custodes sparsi nei luoghi di controllo daziario, e poi - mediante posti stabili di vigilanza - all'esterno del Dogado, anzitutto sulle vie d'acqua dell'entroterra. Questa estensione del pattugliamento esprime un proposito di controllo che fu anticipato da azioni belliche - per esempio la flotta inviata contro Ferrara nel 1240 - e che venne comunque consolidato nei decenni centrali del '200, dando vita anche alle piccole flotte che nella seconda metà del secolo erano dislocate in permanenza nei tratti inferiori del Po e dell'Adige. Nel 1261, quindi, erano un'ottantina gli uomini, e 15 le imbarcazioni, in servizio presso i posti all'esterno del Dogado, mentre 60 uomini con 6 imbarcazioni operavano sul Po (56).
Le notizie, generalmente tratte dalle cronache, dell'esistenza di queste forze navali, regolari o occasionali, assieme alle delibere periodiche per la costruzione di galee e l'acquisto di legname (57), sono comunque difficilmente traducibili in voci precise di spesa, articolate fra i costi di costruire, mantenere, riparare e custodire il naviglio e la sua attrezzatura e dotazione di armi, e la retribuzione dei vari componenti degli equipaggi. Poco consola, dal punto di vista conoscitivo, il fatto che con rare eccezioni - come una rappresaglia per danni subiti da corsari genovesi nel 1206 (58) - governanti veneziani non autorizzarono l'" autofinanziamento" che la guerra di corsaconsentiva.
Sebbene i costi complessivi dello sforzo navale, comunque mutevoli, restino soltanto terreno d'ipotesi, si possono trarre dal Liber plegiorum indicazioni utili su alcuni costi unitari, relative al terzo decennio del '200. Per quanto concerne gli equipaggi, dunque, paghe dalle 100 lire mensili del comandante di una flottiglia di otto galee, alle 14 lire del capitano di una galea piccola, alle 3 lire di un timoniere o di un marinaio. A questi costi di singole voci si può accostare il totale di lire 1.878 occorrente per la retribuzione e le armi dei comandanti ed equipaggi di due galee (una grande e una piccola), in due mesi di pattugliamento dell'Adriatico durante il 1224. La stessa fonte ci informa dell'acquisto di legname nel 1223 per la costruzione di 14 galee, al costo di 170 lire ogni galea, e dell'acquisto nel 1224 di 1.000 remi da galea per un totale di 200 lire. Essa offre anche indicazioni almeno approssimative del costo complessivo di una galea attrezzata per l'uso, in quanto la malleveria su vascelli prestati in quegli anni ai rettori di Zara e Pola oscilla tra 550 e 700 lire: valori che evidenziano l'alta incidenza dei costi di operazione di unità navali (paghe ecc.), rispetto ai costi di costruzione, e spiegano il lento sviluppo dell'impiego regolare in mare di un consistente numero di vascelli (59).
Scarseggiano informazioni sui luoghi specifici nella città di Venezia e anche sulle modalità organizzative impiegate dal comune nella costruzione e manutenzione del materiale bellico. Sporadiche indicazioni attestano l'esistenza di quello che nel '200 fu probabilmente il principale arsenale comunale, situato a Terranova (sul luogo degli attuali Giardinetti Reali) e ancora in uso a fine secolo, sebbene destinato a far posto nel '300 a magazzini annonari. Le prime indicazioni sicure dell'impiego per il naviglio comunale dell'attuale sito nel sestiere di Castello (poi massicciamente ampliato nel primo '300) risalgono al terzo decennio del '200. È attestata altresì la prassi da parte del comune di far svolgere lavori in altri cantieri e, sebbene curasse direttamente la costruzione di vascelli a Terranova e altrove, si intuisce un suo affidamento comunque notevole sui servizi di costruttori privati (mentre è documentato, per esempio, il ricorso al noleggio per le imbarcazioni usate nel pattugliamento ordinario sul versante dell'entroterra). È peraltro significativo che nella legislazione duecentesca si trovino indizi del mescolamento nello stesso arsenale comunale di interessi e di materiali privati e pubblici (60).
Le fonti, oltre a testimoniare acquisti da parte dei patroni all'Arsenale di materiali da costruzione e scorte d'ogni tipo - legname (oggetto di un'apposita delibera del 1265 per creare un deposito permanente), tela da vele, canapa, stoppa, pece, "ferramenta et victualia" - comunque indicano la funzione privilegiata di magazzino di materiali bellici assunta dal sito di Castello (61). Verso fine secolo, inoltre, s'infittirono le delibere aventi per oggetto l'attività dell'Arsenale, in corrispondenza con l'acuirsi della rivalità navale con Genova, e questa tendenza si rispecchia nella nomina di ufficiali governativi incaricati di monopolizzare l'importazione e la vendita a Venezia della canapa e della pece, provvedendo quindi ad acquistarne grossi quantitativi nonché a rifornire di canapa gli artigiani addetti alla sua lavorazione: attività che fra l'altro consentiva di realizzare modesti utili per il comune, e che nella seconda guerra genovese venne potenziata dall'accensione di appositi crediti (62).
Le implicazioni finanziarie dell'intensificazione duecentesca dello sforzo navale dello stato riguardarono anche le armi in dotazione agli equipaggi. Infatti, sebbene in origine le armi per uso degli equipaggi fossero state di loro responsabilità, la documentazione del tardo '200 - quando i costi di tale responsabilità si profilavano ormai eccessivi per i singoli - attesta un significativo impegno finanziario e organizzativo del comune nella preparazione e custodia, affidata ai patroni all'Arsenale, di armi e armature destinate alle flotte di guerra. Così testimoniano delibere dell'agosto 1278 e del gennaio 1283, che oltre ad autorizzare la spesa, specificando analiticamente le singole voci (più centinaia o anche qualche migliaio di ognuno dei vari articoli), demandarono a camerlenghi a bordo delle galee la responsabilità di custodire e, all'occorrenza, di distribuire il materiale in dotazione ai galeotti, nonché di riscuotere da questi un canone mensile per l'uso. L'acquisto e il possesso da parte del comune di notevoli quantitativi di armi sono del resto documentati anche in altri contesti a quest'epoca, come dimostra - per esempio - l'invio a Creta nel 1294 di balestre e altre armi per il valore complessivo di 14.000 iperperi (63).
b) Luoghi fortificati, forze di presidio, truppe di terra. Solo con l'ultimo quarto del '200, e specificatamente nella guerra combattuta in Istria contro il patriarca d'Aquileia, Venezia iniziò a fare uso sistematico in guerra di truppe mercenarie: scelta dalle conseguenze finanziarie ovviamente gravose, anche se non si rinunciò all'impiego della milizia cittadina, che sarebbe riduttivo definire truppe di terra, considerato l'utilizzo anfibio che se ne fece, e che venne fra l'altro riorganizzata nel 1294-1295 (64).
Ebbero origine molto più lontana nel tempo i costi connessi alla presenza di luoghi fortificati e di forze di presidio permanenti: nelle vicinanze di Venezia stessa, e poi - con funzioni di difesa in senso stretto frammiste alla vigilanza sui traffici - in luoghi chiave di accesso alle vie di comunicazione con l'entroterra italiano, come il castello di Loreo (costruito alla fine dell'XI secolo), la torre delle Bebbe, Cavarzere, e poi anche - a partire da metà '200 - le poste di Goro e il forte di Marcamò (presso le foci del Po di Primaro) (65),
Venezia, come altre città italiane, ricevette dagli imperatori germanici solenni investiture di regalia et consuetudines comprendenti diritti e fonti d'entrata, fiscali e non, che di fatto i governanti sfruttarono con largo anticipo rispetto alle concessioni imperiali e che comunque, come si dirà meglio in seguito, conobbero una propria evoluzione tecnica (66). C'è da sottolineare piuttosto, in via preliminare, che durante il periodo qui considerato - a prescindere dalle varie congiunture di segno positivo e negativo, con i loro effetti sul rendimento e sulla stessa intensità dell'imposizione si verificò senz'altro un incremento permanente assai notevole degli introiti fiscali, per quanto sfuggente in senso documentario. Notevole per effetto anzitutto dello stimolo dato da crescenti spese, come s'è visto, ma anche dell'aumento delle risorse imponibili causato sia dall'espansione demografica di Venezia (da una popolazione di almeno 80.000 abitanti nel 1200, a quasi 120.000 un secolo dopo) (67), sia dalla sua progressiva affermazione economica, soprattutto nei traffici internazionali.
Per quanto riguarda la struttura complessiva assunta a Venezia in età comunale dal prelievo fiscale (e poi rimasta immutata nelle sue caratteristiche essenziali fino al tardo '300), essa - come anche la stessa configurazione delle spese - riflette la priorità economica accordata ai traffici da un'élite di governo che in essi riconosceva il primario bene comune sia della città, sia del proprio ceto. Anche se occorre ricordare che la distinzione fra "ordinario" e "straordinario" non è netta - ad essa un po' sfuggono fenomeni come le variazioni temporanee di tasso operate nelle imposizioni usuali, o il ricorso a espedienti estemporanei che talvolta si resero permanenti -l'imposizione ordinaria fu costituita dal prelievo daziario. Per i grandi traffici questa fu un'imposizione quasi sempre lieve in proporzione al valore delle merci (e in ultima analisi spesso addossata ai partners commerciali di Venezia, anche se prelevata in occasione del transito delle merci per la sua piazza), ma comunque rilevante per effetto della mole degli scambi. Acquisirono consistenza anche i dazi che colpirono i consumi e quindi gli abitanti di Venezia stessa. La priorità economica accordata ai traffici comportava inoltre condizioni daziarie sostanzialmente favorevoli all'afflusso dei prodotti manifatturieri altrui, cosicché a Venezia si colgono pochi segni del protezionismo daziario che nell'esperienza coeva di altre città serviva per promuoverne la produzione manifatturiera.
Il gettito dei dazi creava una robusta base di entrate ordinarie utili anche per le necessità di pagamento d'interessi e di restituzione di capitali connesse al prelievo straordinario. Questo, infatti, non rimase a lungo affidato alla semplice imposizione diretta, che con l'inizio del '200 sembra essere praticamente caduta in disuso, ma venne a dipendere da prestiti forzosi che poi si trasformarono in titoli negoziabili, quindi in capitale finanziario funzionale alle esigenze di una società mercantile (mentre l'imposizione diretta a fondo perduto tendeva, al contrario, a sottrarre ricchezza mobile al potenziale impiego mercantile).
A complemento di questo quadro va sottolineata la cura usata da Venezia per contenere il prelievo daziario di altri governanti sui movimenti di merci interessanti il porto e la piazza veneziana, nonché per ottenere da quei governanti condizioni fiscali di favore per le attività commerciali e per i beni dei propri cittadini, che si trattasse di dazi e pedaggi o di forme di imposizione più o meno diretta (68). Erano in questione somme di tutto rispetto: secondo una stima veneziana del 1288 - formulata nella fase tardoduecentesca di crescenti attriti in materia commerciale fra Venezia e le città dell'Italia padana Treviso allora prelevava una somma annua di circa 1.000 lire di grossi dai commerci veneziani (69). La politica veneziana si poneva quindi come scopo primario quello di conciliare la promozione simultanea degli scambi incentrati sul proprio porto e mercato e della propria facoltà di prelievo fiscale, ma anche quello di proteggere i consistenti possessi fondiari di proprietari veneziani posti all'esterno del Dogado (utili pure per il loro contributo al fabbisogno annonario di Venezia), come per esempio quelli nel Ferrarese (70). Sortì inoltre l'effetto di assimilare allo status di "Veneziani", con conseguenti privilegi fiscali in loco (ma anche obblighi di contributo al locale fisco veneziano), non pochi abitanti delle principali città legate a Venezia da rapporti commerciali (71).
Per quanto riguarda il profilo sociale del sistema di prelievo, la carenza di dati quantitativi invita a non recepire acriticamente una lettura fortemente calcata che ravvisa, soprattutto nel secondo '200, l'insopportabile aggravarsi dei dazi sui consumi di massa pur di tutelare i traffici, i quali erano invece solo lievemente tassati (72). È comunque indubbio che, almeno nel secondo '200, si colgono segni inequivocabili di tensioni sociali a sfondo fiscale, a riprova anche del fenomeno più generalmente attestato nei comuni duecenteschi, di contrapposizioni talvolta aspre attorno alla gestione della finanza pubblica e all'equità del sistema tributario. Soprattutto la piccola sollevazione del 1265 (dovuta a voci riguardanti l'introduzione di un prelievo sulla macinazione) va riferita alla difficile congiuntura bellica ed economico-finanziaria connessa alla caduta dell'Impero latino d'Oriente e alla guerra veneto-genovese del 1257-1270, e s'inquadra anche nella fase di affermazione di un più stretto controllo del ceto di governo sulle arti (e quindi sul popolo), mediante l'opera della giustizia vecchia (73). È intuibile, inoltre, che non fosse necessaria la pressione di una congiuntura avversa perché molti dei contribuenti minori ai prestiti forzosi fossero spinti a vendere i titoli in loro possesso per poter disporre di denaro contante: operazione condotta a uno sconto fra valore nominale e di mercato (modico o consistente che fosse), la quale comunque comportava una perdita di capitale analoga al pagamento di un'imposta a fondo perduto e li privava dei relativi versamenti d'interessi, a tutto vantaggio dei cittadini più abbienti in grado di acquistare i titoli (74).
Con l'ultimo periodo del '200, inoltre, iniziò all'interno dello stesso ceto di governo una fase praticamente secolare di tensioni, spesso più intuibili che esplicitamente documentate, attorno alla conduzione e ai costi della politica commerciale - quindi anche estera e militare - riguardante gli scambi col Levante. Tali tensioni investivano l'entità e la ripartizione fra i cespiti d'entrata (dazi sul consumo o sui grandi traffici, prestiti forzosi) degli oneri fiscali connessi alle guerre, come pure la gestione del debito pubblico. Il ripetuto gonfiamento del debito per finanziare guerre da cui la ricchezza collettiva non usciva maggiorata, e la preoccupazione di sostenere il valore di mercato dei titoli, significavano destinare notevoli introiti fiscali ai contribuenti abbienti a titolo di interessi e restituzioni di capitali, operando una ridistribuzione sociale della ricchezza a chiaro danno dei più (75).
Nella Venezia dei dogi-principi le entrate e spettanze dei governanti erano state a carattere anzitutto patrimoniale e regalistico (con una forte componente originaria in natura e sotto forma di prestazioni personali); è forse ovvio che in ambito lagunare "patrimoniale" significasse assai spesso diritti su acque e paludi, piuttosto che su terreni, con le saline di proprietà del Palazzo come elemento di particolare importanza. La componente patrimoniale indubbiamente perse molta importanza rispetto alle crescenti dimensioni del prelievo fiscale nel periodo qui considerato, anche se alcune proprietà comunque costituirono notevoli fonti di reddito.
Ciò vale principalmente per il complesso di magazzini, botteghe, volte, banchi e spazi pubblici siti nel cuore commerciale della città, a Rialto, che già nel 1164 rendevano allo stato l'equivalente di circa 25 kg di argento all'anno. Questo complesso era divenuto di proprietà pubblica in seguito a una donazione iniziale da parte della famiglia Orio nel 1097, e - come s'è già ricordato - ne venne ampliata la superficie ma anche l'importanza nel corso del '200; i diritti pubblici venivano solitamente sfruttati mediante cessioni di breve durata (76). Una vicenda cospicua dello sfruttamento di questi beni e diritti realtini è quella del fondaco dei Tedeschi, istituito negli anni 1222-1225 per ospitare merci e mercanti dell'area germanica ma anche per controllarne l'attività commerciale; venne inizialmente dato in appalto per somme consistenti - 1.360 e poi 1.100 lire annue nel primo decennio di attività e in seguito, nel 1268, sottoposto all'amministrazione diretta di appositi visdomini (77). Redditi di una certa consistenza si ottenevano anche dalla cessione in uso di portici e locali esterni del palazzo Ducale, il cui ricavato era destinato nel secondo '200 principalmente, a quanto pare, ai lavori occorrenti nello stesso Palazzo (78).
Per quanto riguarda la generalità dei diritti pubblici in ambito urbano e lagunare, estesissimi ma con un'incidenza perlopiù marginale o meramente potenziale sotto il profilo delle entrate statali, essi erano stati fatti oggetto in epoche precedenti di numerose concessioni in cambio di contropartite puramente formali: concessioni spesso consistenti e di notevole utilità per i beneficiari, soprattutto ove si trattava, per esempio, dell'allestimento e sfruttamento di saline, mulini e valli da pesca. Anche nel '200 vi furono concessioni importanti, come i siti urbani assegnati fra gli anni '30 e '40 per l'insediamento degli ordini mendicanti (79), ma durante la seconda metà del secolo si modificarono le procedure in fatto di concessioni per meglio tutelare l'interesse pubblico. Negli ultimi decenni, poi, di fronte a numerose situazioni di incertezza e di usurpazione, indagini accurate svolte dai giudici del piovego contribuirono a riaffermare i diritti pubblici e, insieme, a delimitare, definendoli, i diritti dei privati fra terreni, paludi e acque sia dello spazio urbano, sia del più vasto ambito lagunare (80).
Gli introiti derivanti dalla monetazione furono generalmente piuttosto modesti, dato l'interesse prioritario dell'élite di governo a gestirla in funzione dei propri interessi commerciali (81). Lo sfruttamento della monetazione come fonte importante di entrate fu quindi occasionale: la politica monetaria del doge Enrico Dandolo (a cavallo fra XII e XIII secolo) consentì utili significativi per effetto della parità legale assegnata al grosso, di nuova coniazione, nei confronti dei denari coniati dai suoi predecessori, di maggiore valore intrinseco relativo (82). Pare inoltre che sia da attribuire anzitutto alle necessità finanziarie dello stato in una fase difficile di spese belliche la già ricordata svalutazione della moneta divisionale, coniata con un valore intrinseco minore di prima nei decenni successivi a metà '200. Non essendovi a Venezia una robusta produzione manifatturiera destinata a competere per mercati di esportazione, è meno ipotizzabile per Venezia che per altre città italiane una forte spinta verso la svalutazione da parte di gruppi mercantili interessati a contenere il costo delle retribuzioni della manodopera (83).
Devono essere stati relativamente consistenti, per quanto non si posseggano dati quantitativi al riguardo, i proventi di condanne giudiziarie, multe e sanzioni, in particolare quelle inflitte per infrazione delle norme regolanti i commerci (84). Sono inoltre da ricordare entrate straordinarie occasionalmente massicce, come quelle connesse alla IV Crociata: anzitutto le 51.000 marche d'argento - su 85.000 promesse - versate dai crociati in cambio del trasporto e della protezione navale veneziana (metallo prezioso utile per il lancio del grosso, la nuova moneta pregiata coniata da Enrico Dandolo) (85). A ciò si aggiunse, poi, l'enorme bottino derivato dal sacco di Costantinopoli: si computa intorno al valore di mezzo milione di marche d'argento la parte ufficialmente presa dai Veneziani (86). A prescindere da questa occasione unica, fu talvolta notevole il bottino accumulato in tempo di guerra, soprattutto qualora si desse la priorità, come accadde verso la fine della guerra contro Genova del 1294-1299, agli attacchi contro i mercantili e le colonie dell'avversario (87).
Sul versante delle entrate vanno conteggiati anche gli incassi notevoli per la vendita del grano direttamente acquistato dalla camera del frumento, che verso fine '200 riforniva saltuariamente acquirenti stranieri e che alla stessa epoca provvide più volte a distribuirne quantità considerevoli mediante l'acquisto obbligato da parte dei cittadini di Venezia stessa: operazione finalizzata al ricambio delle scorte, che però sembra essersi scontrata con la renitenza di parecchi acquirenti e anche di qualche capocontrada (88). Una voce analoga, poi, è quella rappresentata dagli utili realizzati dal comune nella vendita dei sali acquistati da importatori: voce che assunse importanza negli ultimi decenni del '200, quando l'iniziativa governativa in tal senso affiancò questo reddito al notevole prelievo daziario da tempo usuale sul sale (di cui si dirà in seguito) (89).
Il prelievo daziario si sviluppò da tutta una serie di vecchie imposizioni, in buona parte ancora in vigore nel '200: telonei (tasse doganali), ripatici e diritti di ancoraggio connessi all'approdo o sosta di vascelli a Venezia, pagamenti per il sigillo ducale che autorizzava il passaggio di merci e mercanti, diritti di magazzinaggio, di mercato e di monopolio, nonché altri relativi a pesi e misure (90).
I più importanti in termini di gettito, e anche quelli che vennero maggiormente modificati nel corso del '200, erano i dazi doganali, eredi dei telonei. Nella prima metà del secolo essi si presentavano sotto tre forme principali: il quarantesimo, dazio consuetudinario già a lungo in uso a Venezia e altrove, esatto nella misura del 2,5% sulla maggioranza delle merci importate o esportate da Venezia sul versante terrestre; il quinto, riscosso al tasso del 20% su merci trafficate via mare (e poi applicato in una gamma più limitata di situazioni: a merci provenienti da mari più distanti dell'Adriatico, nonché sulle operazioni di mercanti di centri adriatici considerati rivali di Venezia com'erano, in determinate fasi, Ancona e Ragusa); e - ultimo a comparire - l'ottuagesimo, dazio a tariffa preferenziale esatto nella misura del1'1,25% (anziché del 2,5%) sui traffici dei mercanti veneziani, in un primo tempo forse non applicato alle loro importazioni via mare (91).
Se le percentuali di prelievo dei dazi di base prospettano una relativa uniformità di regime, non furono poche le eccezioni rappresentate fin dall'inizio da condizioni particolari di trattamento doganale specificate nei patti stipulati fra Venezia e numerose controparti commerciali, in cui il trattamento privilegiato da queste riservato ai mercanti veneziani veniva generalmente ricambiato, seppure non sempre in termini di parità, con condizioni di favore per i loro mercanti presenti a Venezia (92). D'altronde, non furono rari i dissidi commerciali fra Venezia e alcune di queste controparti, in cui l'inasprimento daziario o qualche altro sgarbo a danno dei traffici e mercanti veneziani veniva ricambiato con tariffe maggiorate e magari con altri provvedimenti punitivi, come accadde nei rapporti con Brescia attorno al 1265 o - con effetti molto più drastici e duraturi - in quelli con Treviso verso la fine del '200: situazioni, insomma, in cui l'incremento del tasso di prelievo era anzitutto sanzione o rappresaglia, come nei casi di tassazione moltiplicata previsti per chi evadeva i dazi (93).
A prescindere da queste situazioni particolari il quadro dei dazi venne comunque modificato e articolato nel corso del '200 (e le dimensioni di questo saggio non consentono di renderne pienamente conto). Gli stessi dazi ad valorem di base conobbero variazioni di incidenza talvolta sostanziali: con delibere della prima metà del 1271, per esempio, votate in un contesto di prelievo maggiorato (era stato elevato a 1,875% il tasso di 1,25% usuale per i mercanti veneziani, presumibilmente in occasione della guerra contro Genova appena terminata), si cercò di incentivare gli scambi concedendo agli operatori veneziani e a quasi tutti gli stranieri l'esenzione dal dazio sulle importazioni (1'1,875% per gli uni, il 2,5% per gli altri) qualora esportassero nel termine di tre mesi merci di uguale valore. Nel 1282 era tornato a 1,25% il tasso per i Veneziani, e permaneva - con un termine di quattro mesi - l'esenzione concessa a quelli che esportavano merci di pari valore (94).
Emersero, inoltre, nuovi e più specifici dazi, specialmente laddove la riscossione in base a stime approssimative del valore lasciava ampi margini di possibile errore o elusione. Si provvide quindi a definire articolate tariffe per determinate merci: per esempio, due liste sopravvissute, l'una databile prima del 1242, l'altra del 1265, specificano le somme dovute soprattutto su vari tipi di pannilana d'importazione, prodotti in centri italiani ed europei (da 18 denari per un certo tipo di panno bresciano fino ai 50 soldi, ossia più di trenta volte tanto, per ogni pezza di scarlatto di Fiandra). La formulazione di questa seconda tariffa avvenne in una fase di difficoltà per le finanze statali, in cui si collocano anche l'introduzione nel 1261 di un prelievo aggiuntivo dell' 1 % sulla maggior parte delle merci importate via mare, e poi vari provvedimenti del 1263 riguardanti i dazi su lino, vino, carbone, pece, sale: come a dire che l'elaborazione di una tassazione specifica tendeva a coincidere con l'inasprimento del prelievo (e anche - in qualche misura - a colpire la lavorazione a Venezia di materie prime d'importazione) (95). Per quanto riguarda invece i metalli preziosi, rimase leggero il prelievo daziario sulla loro importazione - circa o,15% del valore nella maggior parte dei casi costituendo una precondizione essenziale per la primaria importanza assunta in questo settore dalla piazza veneziana a partire dal primo '200 (96).
Fra le innovazioni duecentesche spicca - anche per l'entità del gettito - il dazio della messetteria, già in uso nel 1258: tassa ad valorem sulle transazioni commerciali collegata col ricorso, obbligatorio per i mercanti stranieri, agli uffici di un sensale o mediatore autorizzato. Pur con eccezioni previste dagli accordi commerciali vigenti con specifici gruppi di mercanti stranieri, il dazio fu inizialmente riscosso da ciascuno dei due contraenti al tasso di 0,25% del valore capitale, con i proventi divisi a metà fra sensale e comune. Il tasso venne raddoppiato nel 1258, con il 30% del ricavato dovuto al sensale e il resto al comune; ridiscese in seguito a 0,25%, per essere poi riportato allo 0,5% nel 1295 (tasso rimasto in vigore solo per alcuni anni, poiché nel 1312 si provvide a reintrodurlo) (97).
In qualche modo assimilabile ai dazi doganali è l'introito procurato dal rilascio di permessi speciali - sotto forma di grazie - per l'esportazione da Venezia di alcune merci, come il legno e soprattutto il vino. Questo cespite era già potenzialmente consistente nel 1268 se allora si prevedeva che delle concessioni potessero rendere 5.000 o più lire, ma venne comunque maggiormente sfruttato, a quanto pare, verso fine '200, spesso per coprire voci di spesa straordinarie o di nuova introduzione: ad esempio nel 1293 affinché "leo qui est super columpnam debeat aptari", o nel 1298 per finanziare barche addette alla raccolta settimanale delle immondizie nelle contrade (98).
Una fonte precoce e assai consistente di entrate fu rappresentata dal controllo e dal prelievo fiscale (nati come diritti regalistici) esercitati sulla distribuzione del sale all'interno del Dogado e sulla sua esportazione verso ampie zone dell'Italia settentrionale, dove imporre il sale di fornitura veneziana costituì uno scopo primario della politica commerciale duecentesca. Ciò valeva anzitutto per il sale di produzione lagunare, che fino al '200 relativamente avanzato copriva il fabbisogno dei vari mercati serviti dalle forniture veneziane. Data dal 1184 l'obbligo per i produttori chioggiotti di vendere il sale per l'esportazione solo a chi era munito di permesso veneziano; già allora il connesso diritto di sigillo ci si presenta come una tassa (e gli introiti del sale furono assegnati alla copertura di consistenti crediti accesi dal comune nel 1187 e 1224). Altrettanto valeva, poi, per il sale d'importazione, prima adriatico e poi mediterraneo, commerciato in via sistematica dagli ultimi decenni del '200 in seguito alle difficoltà emerse nella produzione locale, che erano in parte dovute, a quanto sembra, proprio all'attenzione prioritaria di Venezia nei confronti del prelievo fiscale piuttosto che alla promozione della produzione chioggiotta, resa meno competitiva dai dazi. Queste entrate del sale venivano protette e promosse, come ben si sa, da un'incisiva politica governativa - comprese azioni di guerra e conseguenti costi - per accaparrare, contenere o reprimere la produzione di centri rivali; ciò comportava, fra l'altro, il versamento a Cervia, verso la fine del '200, di qualche migliaio di lire ogni anno in sostituzione di entrate perdute per effetto dei limiti posti da Venezia alla sua produzione di sale (99).
Tale politica ebbe una sua precisa ed evidente logica finanziaria se si considera la portata del ricarico fiscale. A Venezia stessa a fine '200 i venditori al dettaglio dovevano versare ai salineri il dazio del quinto, computato sul prezzo pagato per l'acquisto all'ingrosso. Il prelievo sul sale di provenienza veneziana venduto a Treviso nel 1281 - fra il dazio del quinto (comunemente applicato al sale destinato ad acquirenti italiani) e una tassa specifica di 16 lire ogni 100 misure corrispondeva a circa il 250% del prezzo d'acquisto dal produttore. All'inizio del secolo successivo, secondo il manuale di mercatura del Pegolotti, ammontava al 282% il ricarico fiscale sul sale venduto a Verona, aggiungendosi al prezzo d'acquisto (7 lire ogni l00 misure) il dazio ad valorem del 25% dovuto al comune di Chioggia e quello preteso dagli ufficiali veneziani a Chioggia (100).
Per quanto riguarda più specificamente il prelievo sui consumi dei soli Veneziani, sono ovviamente da considerare altri prodotti oltre al sale. Nel 1271 il formaggio e le carni salate pagavano un dazio di 4 lire di piccoli ogni miliarium, e l'olio di 6 lire, e nel 1295 (in epoca di guerra contro Genova) questi tassi furono mutati, rispettivamente, in 4 e 8 lire a grossi. Nel 1285 il dazio connesso alla gestione (e rifornimento) del macello era appaltato per 6.535 lire a grossi, e nel 1307 a 9.455 lire a grossi (101).
Quanto al vino, poteva essere fonte di introito la mediazione obbligata della giustizia nuova nell'acquisto all'ingrosso dei vini destinati alla rivendita nelle osterie di Venezia: prassi attestata nel secondo '200, e analoga al controllo esercitato dalla stessa magistratura - a tutela della qualità ma anche a scopo di introito - su altri prodotti, come ad esempio i medicinali. Il prelievo fiscale sul vino a carico dei consumatori veneziani fu comunque operato primariamente mediante i dazi che colpivano l'importazione (praticata anche da lontano) e, in subordine, la produzione locale. Aumenti tariffari del settembre 1263 portarono il prelievo da 15 a 20 soldi all'anfora per il vino importato meno buono, di valore non superiore a 4 lire l'anfora (cioè al 25% del suo valore), e da 20 a 30 soldi il prelievo su quello di qualità superiore, mentre la tassa sul vino prodotto nel Dogado o introdotto dall'entroterra - di valore inferiore e superiore a 4 lire l'anfora - veniva fissata a 15 e 20 soldi rispettivamente. Un calcolo orientativo suggerisce che a fine '200 i quasi 120.000 abitanti di Venezia (escluso il Dogado), bevendo circa 400 litri all'anno pro capite, dovevano consumare qualcosa come 80.000 anfore annue: anche scontando un'evasione diffusa (magari 1/3 del totale), e computandolo a ragione di 20 soldi ogni anfora, il gettito lordo del dazio poteva superare lire 50.000 all'anno (102).
Per tutti i dazi, i documenti attestano l'evoluzione progressiva, durante il '200, di meccanismi di controllo più complessi per prevenire o reprimere l'evasione. Fu questa la funzione preminente di alcuni siti fortificati e delle varie palate distribuite attorno ai margini terrestri della laguna, già ricordate nella discussione delle uscite. Gli ufficiali incaricati di questi luoghi di passaggio obbligato per i traffici con l'entroterra, in varia misura affiancati in tal senso dai rettori del Dogado, ebbero mansioni di vigilanza contro il contrabbando e quindi di verifica (e talvolta di rilascio) dei documenti di accompagnamento delle merci, nonché, in certi casi, di riscossione dei dazi (103). Anche all'interno della città si cercò di stringere le maglie: per esempio, prescrivendo dettagliatamente le procedure di deposito presso magazzini statali di determinate merci d'importazione in attesa del pagamento del dazio, nonché i vincoli di registrazione dei movimenti e scambi; rafforzando i poteri delle magistrature di compiere indagini e anche di operare controlli sulle scritture contabili dei mercanti; istituendo, in via continuativa dal 1281, l'apposito tribunale dei giudici dei contrabbandi. Per prendere un esempio specifico, un provvedimento del 1292 imponeva a tutti i visdomini di autorizzare l'esportazione di merci fiscalmente di loro competenza solo in seguito a verifica delle dichiarazioni rese da compratore e venditore al sensale (104). In questa tendenza verso la sorveglianza più stretta dei traffici si colloca anche il passaggio sotto diretta gestione statale nel 1268 del fondaco dei Tedeschi, importante luogo di controllo sull'osservanza delle procedure doganali e delle regole per la stipulazione degli affari da parte dei mercanti germanici (105).
Anche ammessa una certa efficacia dei rimedi (fra l'altro spesso provocati da necessità congiunturali, come dimostra l'attività di una commissione temporanea fra 1299 e 1300 (106), rimaneva comunque un ampio margine per l'evasione dei dazi, del resto attestato dai provvedimenti insistenti. A Venezia stessa, tra l'altro, fu almeno in parte affidato all'onestà dei mercanti, sebbene sottoposti a giuramento e ai controlli effettuati dai visdomini competenti, il rispetto dell'esenzione, già ricordata, concessa nei confronti dei dazi d'importazione a quegli operatori che esportassero entro un certo termine merci di valore uguale a quello delle importazioni (107).
Per quanto riguarda le modalità di riscossione dei dazi, i documenti del tardo '200 indicano il ricorso gradualmente più diffuso alla concessione in appalto (con diritti di sapore monopolistico ove si trattasse di fornire o distribuire beni di consumo generale come il sale e la carne), in comune con quanto accadeva in altre città (108).
Passarono in desuetudine durante il periodo qui considerato due forme occasionali di prelievo diretto: in primo luogo il decimo, obbligo antico e gravoso (consistente nel versamento di un decimo del patrimonio) imposto ai contribuenti a rotazione con intervalli anche plurigenerazionali prima di colpire di nuovo la stessa famiglia, e ancora in uso sotto il doge Pietro Polani. È forse bene precisare che, a differenza anche dell'imposizione statale introdotta col nome di decima nel 1463 (essa stessa ben diversa dal decimo medioevale), le decime attestate nei secoli XII-XIII furono una tassa ecclesiastica sull'eredità. L'altro onere fu l'advetaticum, o avetatico, ricordato nella promissione ducale del 1229 come prelievo ormai affiancato o alternato al prestito forzoso, e che non va identificato né col prestito né col decimo. Si tratta di un prelievo straordinario (ma anche ripetuto) sicuramente in uso nel secolo XII per finanziare spese belliche, poi definito nel 1229 come tassa sostitutiva dell'obbligo di prestare servizio militare (forma impositiva, quest'ultima, destinata a durare nel tempo, ormai scissa dal nome avetatico) (109).
In qualche modo analogo, anche se del tutto eccezionale nella prassi impositiva del secondo '200, fu l'obbligo imposto nel 1294 a numerose famiglie nobili, nel contesto della guerra contro Genova e di prestiti forzosi già pressanti, di armare un totale di 68 galee per la flotta (chi 3 galee, come i Contarini o Dandolo, chi solo una frazione di galea) (110).
Rientra in qualche modo nella sfera degli oneri diretti il proseguimento in età comunale degli obblighi di servizio una volta dovuti al doge da parte di varie categorie di lavoratori, in particolare quelli addetti alle costruzioni navali. Veniva così garantita al doge stesso manodopera per lavori riguardanti le imbarcazioni destinate al suo uso, in particolare il Bucintoro, e l'Arsenale poteva disporre all'occorrenza - seppure a pagamento - delle prestazioni di tutti i vari artigiani del settore (111).
Interessa rilevare una caratteristica organizzativa dei vari oneri diretti, ossia l'affidamento fatto sulle contrade, unità di aggregazione di base del tessuto urbano.
Anche se varie funzioni amministrative vennero assegnate a circoscrizioni che raggruppavano più contrade (le trentacie e poi i sestieri), si constata l'importanza duratura delle contrade - una sessantina attorno al 1200 - come unità organizzative per la ripartizione e la gestione di vari oneri diretti imposti dallo stato. Si trattava degli obblighi di guardia notturna e - dopo una riforma del 1294 che sostituiva le contrade ai sestieri - anche del servizio nelle forze di guerra, e inoltre delle operazioni di accertamento connesse a contributi più propriamente fiscali quali i prestiti forzosi, come attestano il giuramento richiesto e varie istruzioni impartite ai capi contrada (112). Non mancarono collegamenti diretti fra i vari oneri: secondo norme dettagliate del 1295, le armi di cui dovevano disporre i cittadini per eventuale uso bellico venivano prescritte in rapporto alla loro fascia contributiva ai fini dei prestiti forzosi (e un analogo criterio era stato fissato nel 1280 per le balestre e quadrelli che dovevano possedere i marinai). Un collegamento pur vago con le aliquote impositive è suggerito inoltre da istruzioni impartite a fine '200 ai capicontrada per la distribuzione onerosa del frumento del comune, da assegnarsi "secundum prosperitatem cuiuslibet" (113).
Le contrade erano anche i luoghi di una fiscalità delegata talvolta consistente, connessa - come s'è visto - all'esecuzione di buona parte dei lavori pubblici all'interno della città, ma anche a spese di matrice religiosa e a obblighi come l'invio in armata degli uomini sorteggiati per il servizio, i quali venivano in parte retribuiti anche dagli altri iscritti negli stessi ruoli (114) .
a) I mutui volontari. A Venezia il ricorso dei governanti al credito è documentato in data abbastanza precoce; durante il XII secolo esso prese la forma di mutui volontari, di cui l'onere ma anche l'utile - mediante il temporaneo godimento di determinati introiti pubblici a scopo di rimborso - tendevano a toccare a "un'aristocrazia del denaro" che poté così servire le necessità collettive ma anche "trovare nella propria ricchezza la base per assicurarsi la potenza politica" (115). Così si presenta, per esempio, il mutuo di 1.150 marche di argento fornito nel 1164 da 12 prestatori, primi fra essi i futuri dogi Sebastiano Ziani e Orio Mastropiero, cui si attribuirono 11 annate delle entrate del mercato realtino. Rapporti privilegiati col potere si leggono sullo sfondo anche del cospicuo prestito, di 15.000 lire, fatto al comune nel 1215 dagli esecutori testamentari del mercante germanico Bernardus Teutonicus, grande importatore di argento e forse detentore delle maggiori risorse di capitale liquido a Venezia dopo lo stesso doge Pietro Ziani (116).
Dopo l'elevazione dei prestiti forzosi a forma usuale e unica dell'indebitamento a media o lunga scadenza, i mutui volontari conservarono la loro utilità a servizio del debito fluttuante. Solitamente finalizzati alla copertura di spese straordinarie, i mutui consentivano di anticipare i tempi troppo lunghi di riscossione di un prestito forzoso (e talvolta la stessa imposizione del prestito, se i contribuenti erano già logorati da una sequenza di richieste); vennero spesso impiegati per spese urgenti in luoghi lontani, e talvolta per soddisfare creditori da tempo in attesa di pagamento. Le fonti per il tardo '200, più complete di quelle riguardanti i decenni precedenti ma indubbiamente testimoni di un periodo di più diffuso ricorso al credito a breve termine, attestano l'accensione piuttosto frequente di mutui. Si trattò di somme talvolta consistenti, a interessi nettamente superiori al 5% annuo versato sui prestiti forzosi: lo indicano i rinvii nelle delibere di autorizzazione al valore percentuale dei profitti (attorno all'8-10%) realizzati dai banchieri di Rialto, e anche qualche episodio di richieste governative non evase da un mercato disposto a prestare solo a tassi maggiori (il 12% contro il 10% offerto, per un mutuo di 20.000 lire nel 1287) (117). Nel 1285, invece, un mutuo di 8.000 lire a grossi acceso con interessi dell'8% permise ai massari all'oro di acquistare il metallo prezioso necessario alla monetazione del ducato, di cui si era appena iniziata la coniazione; con un altro di 15.000 lire, stipulato nel 1290, si finanziarono acquisti statali di canapa. Non poche delle spese coperte erano comunque singolarmente di scarsa entità, come quelle connesse all'invio di ambasciatori.
Anche se solo nel '400 sarebbe diventata sistematica la richiesta governativa di credito rivolta alle banche, è attestato l'occasionale ricorso duecentesco ai servizi delle "tavole" dei banchieri, ma i principali fornitori di credito a breve termine nel secondo '200 furono prestatori privati. Verso la fine del secolo il mediatore istituzionale privilegiato del debito fluttuante divenne la camera del frumento, le cui risorse di liquidità, già in precedenza derivate talvolta da mutui, erano originariamente destinate all'acquisto di granaglie (o da depositare presso i procuratori di S. Marco se superiori a 5.000 lire, secondo una norma del 1276). La trasformazione del suo ruolo è evidenziata da delibere votate dal maggior consiglio nell'ultimo ventennio del '200, che autorizzarono gli ufficiali a negoziare e poi rimborsare mutui di varia entità, alla cui copertura furono destinati introiti anche diversi dal ricavato delle vendite di grano, come ad esempio quelli provenienti dalle importazioni di sale marittimo. Proprio negli anni di passaggio fra '200 e '300, infatti, la camera del frumento cominciò ad accettare depositi fruttiferi, e ciò permise al governo di attingere più o meno sistematicamente ai suoi fondi per i propri bisogni di credito, poi versando altre entrate a copertura di capitali e interessi, cosicché l'istituto assunse alcune delle caratteristiche di una banca di stato.
Verso la fine del '200 è attestato il ricorso occasionale del governo ai procuratori di S. Marco per fondi tratti dai patrimoni da loro amministrati: espediente per il quale esisteva qualche precedente (già nel 1198 il comune aveva preso a prestito 2.871 lire dai procuratori), ma destinato ad assumere molta rilevanza nella prassi del secolo successivo (118).
b) I prestiti forzosi. Già nel 1187 i documenti veneziani attestano due prestiti richiesti per finanziare la guerra contro Zara - che ebbero un carattere probabilmente più forzoso che volontario (119): furono raccolti fondi, per totali di 40.000 e poi 17.720 lire, da parecchie decine di cittadini (alcuni popolani compresi) con quote singole così differenziate e precise da far pensare a un uniforme rapporto percentuale con l'imponibile attribuito, e con la promessa che per altri due anni i prestatori non avrebbero ricevuto altre richieste. È comunque certo che nel 1207 i prestiti forzosi, pur convivendo col ricorso anche notevole ai mutui volontari, erano una prassi acquisita sotto forma in buona parte definitiva. Un impegno di rimborso dato in quell'anno infatti evidenzia connotati destinati a caratterizzare tutta la struttura successiva dei prestiti: una sequenza di prelievi espressi come percentuali dell'imponibile dei contribuenti (2%, 4%, 2%, 3%); catastici contenenti i nomi di questi, conservati dai procuratori di S. Marco o dai visdomini; e il futuro versamento semestrale delle somme a loro dovute dal ricavato di determinati introiti comunali. Non si fa ancora cenno, invece, a interessi, probabilmente introdotti successivamente quando i tempi della restituzione si fecero più lunghi e incerti.
La frequenza di imposizione dei prestiti e la varietà del loro impiego erano destinate a crescere lungo il secolo, per coprire necessità che assieme a emergenze belliche comprendevano, per esempio, acquisti di materie prime per l'Arsenale e di granaglie, o l'esecuzione di lavori pubblici straordinari. Dopo una serie di delibere riguardanti vari aspetti dei prestiti, votate durante il sesto decennio del '200, le norme de ligatione pecunie legiferate nel 1262 - già ricordate in precedenza - fissarono in forma stabile e sistematica i meccanismi di versamento degli interessi sui prestiti già pagati (5% annuo, in rate semestrali), nonché il relativo stanziamento prioritario delle somme occorrenti: quanto basta, insomma, perché almeno da quella data il debito a medio-lungo termine possa considerarsi consolidato e si possano usare termini come "titoli" e "Monte" per descriverlo, considerata anche la prassi sviluppatasi presso la camera degli imprestiti di trasferire l'intestazione dei titoli ceduti fra privati, nonché l'occasionale accettazione dei titoli da parte del comune in pagamento dei suoi crediti (120).
L'affermazione dei prestiti forzosi come strumento fiscale di impiego sempre più diffuso avvenne più o meno in coincidenza con altri due fenomeni: anzitutto, con mutamenti nelle forme e nei tassi del credito commerciale in uso a Venezia, così da rendere accettabile ai contribuenti il 5% annuo di interessi offerto sui prestiti (tasso che fu in realtà spesso maggiore, da quando s'introdusse la cessione dei titoli a prezzi di mercato inferiori al valore nominale); inoltre, con una più diffusa disponibilità fra i contribuenti di somme anche considerevoli di denaro contante, in segno di un mutato equilibrio nella composizione dei patrimoni delle famiglie abbienti (121).
Tra gli effetti di questo passaggio a permanenza dei prestiti, ripartiti fra contribuenti relativamente numerosi, ci fu anche quello di sottrarre la finanza comunale veneziana al peso fortemente condizionante di un gruppo elitario di grandi prestatori, come era stato nella seconda metà del XII secolo, quando ai creditori si consegnavano determinati introiti anziché gestire lo sdebitamento all'interno di un bilancio comunque sotto controllo diretto del comune. Questa affermazione del controllo del comune sui meccanismi creditizi fra l'altro distingue nettamente la vicenda secolare della pubblica finanza veneziana da quella genovese, destinata a passare sotto il controllo effettivo dei creditori riuniti nella Casa di San Giorgio (122). Un altro effetto del passaggio a permanenza dei prestiti forzosi fu che nei patrimoni dei contribuenti più abbienti i titoli dei prestiti, assieme anche alle rendite connesse, divennero presto una componente consistente, come già dimostrano le 6.500 lire a grossi di obbligazioni pari - a 13,3% del valore totale dei beni - lasciate nel testamento dal doge Renier Zeno, morto nel 1268 a pochi anni dal consolidamento del debito (123).
Per quanto riguarda la ripartizione dei prestiti, in base alle norme in vigore fra il 1280 e l'inizio del '400 (utilizzate nella redazione di un nuovo estimo nel 1291, sotto la cura di un'apposita commissione), l'imponibile complessivo attribuito ai singoli contribuenti era fondato principalmente sulle loro dichiarazioni, eventualmente corrette d'ufficio. La base di riferimento era la ricchezza capitale: i beni mobili per l'intero ammontare dichiarato o accertato, con l'eccezione dei titoli di prestito e delle suppellettili; e i beni immobili, per una somma ottenuta moltiplicando per dieci le entrate da esse derivate. Il valore non troppo alto di quest'ultimo coefficiente di capitalizzazione sembra esprimere la convinzione, peraltro ben fondata, che era la ricchezza mobile - componente patrimoniale che fra i Veneziani abbienti acquisì importanza relativa via via maggiore - a sfuggire più facilmente agli occhi del fisco: in effetti, è riconosciuto dagli storici che l'imponibile attribuito ai fini dei prestiti rappresentava solo una parte del patrimonio complessivo dei contribuenti.
Le maglie dell'obbligo contributivo comunque appaiono piuttosto strette: i soggetti potenziali erano tutte le persone fisiche o giuridiche, con l'eccezione dei religiosi e degli enti ecclesiastici per i beni posseduti prima del 1258 (e nelle strettezze finanziarie di fine '200 lo stato pretese il pagamento anche dei prestiti precorsi sui beni ecclesiastici di più recente acquisizione). Anche se non erano computate le retribuzioni e i salari (con la sola eccezione, a quanto sembra, del doge), le regole del 1280 - modificate sotto questo aspetto nel 1325 - lasciavano esenti solo i patrimoni inferiori a 50 lire di beni mobili: norma che fra l'altro comportava la riscossione di molte somme piccole, e non pochi passaggi sotto o sopra la soglia minima di imponibile da parte di singoli contribuenti di modesta fortuna (124).
"La storia dei prestiti si confonde colla storia delle guerre veneziane", ha scritto Luzzatto (125). L'attenta ricostruzione delle vicende dell'imposizione e poi della restituzione dei prestiti forzosi, possibile solo per la seconda metà del '200, perciò evidenzia una prima fase caratterizzata dalla redenzione complessivamente abbastanza sollecita dei titoli, anche se necessità belliche provocarono in alcuni anni un relativo addensamento di richieste (che venivano formulate in valori percentuali d'imponibile generalmente fra lo 0,5 e il 4%). I prestiti imposti negli anni 1255-1262, per un valore complessivo equivalente al 12,56% dell'imponibile, furono quindi restituiti nel 1269-1278; quelli imposti nel 1270-1279 - dopo sette anni senza richieste - corrisposero al 12,25% dell'imponibile, per la somma di circa 408.000 lire a grossi (una media annua di circa 41.000 lire a grossi), e vennero restituiti fra il 1281 e il 1303.
L'assenza di richieste fra il 1263 e il 1269 costituisce un dato sorprendente, la cui spiegazione può essere solo frutto d'ipotesi: che la prosecuzione della guerra in corso contro Genova abbia comportato costi non troppo gravosi, e/o che l'intensificazione del prelievo daziario operata in quegli anni (ricordata sopra) abbia soddisfatto le esigenze di maggiori entrate - ipotesi comunque certamente non proponibili per il rapporto fra costo dei conflitti e rendimento dei dazi negli ultimi decenni del secolo. Infatti, alla fase di lieve ricorso ai prestiti seguì invece, nell'ultimo ventennio del '200, una sequenza progressivamente più fitta di guerre e di conseguenti prestiti forzosi: questi passarono da un totale di 3,87% dell'imponibile negli anni 1280-1286 al 16,6% dell'imponibile (ossia un totale di circa 500.000 lire a grossi, in media 100.000 all'anno) nel 1287-1291; poi, dopo un biennio di respiro, l'imposizione complessiva nel 1294-1299 fu il 19,5% dell'imponibile (770.000 lire a grossi, circa 130.000 di media annua). Con fondi insufficienti per la redenzione dei titoli - solo nel 1304 si cominciò la restituzione dei prestiti imposti a partire dal 1280 - si gonfiò rapidamente l'ammontare totale del Monte: dalle 15.000 lire a grossi ipotizzate per il 1255, alle circa 400.000 del 1279 (con interessi annui di 20.400); e da circa 900.000 nel 1291 a valori attorno a 1,5 milioni nel 1299 e 2,8 milioni nel 1313 (più di 1.000.000 di ducati, con interessi annui di circa 54.000). Al gonfiamento del debito complessivo corrispose la caduta delle quotazioni dei titoli, che fra il 1285 e il 1316 oscillarono tra 60% (segnalato nel 1299) e 78% (126).
In questa fase di difficoltà nella gestione del debito pubblico e di tutta la finanza statale s'interrompe la nostra analisi. È comunque opportuno sottolineare che in moltissimi suoi aspetti la finanza pubblica veneziana di epoche successive avrebbe conservato caratteristiche strutturali emerse nel periodo qui considerato: la dispersione di competenze specifiche tra magistrature numerose e quindi anche l'assenza di una vera e propria tesoreria centrale; l'impostazione essenzialmente municipale, di separazione, data al suo rapporto con la gestione finanziaria dei territori soggetti alla Repubblica; l'importanza prioritaria assunta fra le voci di spesa dai costi di difesa, soprattutto quelli navali, e dal debito pubblico; la dipendenza dal gettito daziario, promosso assieme agli stessi traffici della piazza veneziana, come fonte degli introiti ordinari, assieme all'affidamento fatto sul debito pubblico come fonte di entrate straordinarie, ma anche la tutela del debito come forma essenziale di investimento dei capitali privati.
1. Bilanci generali della Repubblica di Venezia, a cura di Fabio Besta, Venezia 1912; La regolazione delle entrate e delle spese (sec. XIII e XIV), a cura di Roberto Cessi, Padova 1925; I prestiti della Repubblica di Venezia (sec. XIII-XV), a cura di Gino Luzzatto, Padova 1929; Problemi monetari veneziani (fino a tutto il secolo XIV), a cura di Roberto Cessi, Padova 1937; Deliberazioni del Maggior Consiglio di Venezia, I-III, a cura di Roberto Cessi, Bologna 1931-1950; Le deliberazioni del Consiglio dei Rogati (Senato). Serie Mixtorum, I, a cura di Roberto Cessi-Paolo Sambin, Venezia 1960. Cf. anche Gino Luzzatto, recensione a La regolazione delle entrate e delle spese (sec. XIII e XIV), a cura di Roberto Cessi - Pietro Bosmin, "Archivio Veneto-Tridentino", 6, 1924, pp. 273-279; Id., Il debito pubblico nel sistema finanziario veneziano dei secoli XIII-XV, in Id., Studi di storia economica veneziana, Padova 1954, pp. 211-224; Id., Storia economica di Venezia dall'XI al XVI secolo, Venezia 1961; Frederic C. Lane, The Funded Debt of the Venetian Republic, 1262-1482, in Id., Venice and History, Baltimore 1966, pp. 87-98 (= Sull'ammontare del 'Monte Vecchio' di Venezia, in Il debito pubblico della Repubblica di Venezia, a cura di Gino Luzzatto, Milano 1963, pp. 275-292); Id., Public Debt and Private Wealth: Particularly in Sixteenth-Century Venice, in Id., Profits from Power. Readings in Protection Rent and Violence-controlling Enterprises, Albany 1979.
2. La regolazione delle entrate, pp. 95-96, 109-110; F.C. Lane, The Funded Debt, p. 91.
3. Gino Luzzatto, Storia economica d'Italia. Il medioevo, Firenze 1963, cap. X; Antonio Ivan Pini, Dal comune città-stato al comune ente amministrativo, in Id. -Ovidio Capitani - Raoul Manselli - Giovanni Cherubini - Giorgio Chittolini, Comuni e Signorie : istituzioni, società e lotte per l'egemonia (Storia d'Italia, diretta da Giuseppe Galasso, IV), Torino 1981, pp. 544 ss. e 582-585 (bibl.) (pp. 451-587); Lauro Martines, Power and Imagination. City-states in Renaissance Italy, London 1980 (trad. it. Potere e fantasia. Le città stato nel Rinascimento, Bari 1981), pp. 240-252.
4. Sullo sviluppo duecentesco di un "contado mercantile" di Venezia e sul trattamento del Dogado a mo' di contado cf. Giorgio Cracco, Società e stato nel Medioevo veneziano (secoli XII-XIV), Firenze 1967, pp. 155-156, 159.
5. Per quanto segue, Louise Buenger Robbert, The Venetian Money Market, 1150-1229, "Studi Veneziani", 13, 1971, pp. 3-121; Ead., Monetary Flows Venice 1150 -1400, in Precious Metals in the Later Medieval and Early Modern Worlds, a cura di John F. Richards, Durham (N.C.) 1983 (pp. 53-77); Frederic C. Lane-Reinhold C. Mueller, Money and Banking in Medieval and Renaissance Venice, I, Coins and Moneys of Account, Baltimore 1985, partic. pp. 105-133, 268 ss., 280 ss., 296 ss.; e i primi documenti edili da R. Cessi in Problemi monetari.
6. Deliberazioni del Maggior Consiglio, III, p. 374.
7. Giorgio Zordan, I Visdomini di Venezia nel sec. XIII (Ricerche su un'antica magistratura finanziaria), Padova 1971, pp. 75-76, 254 ss.; Freddy Thiriet, Délibérations des assemblées vénitiennes concernant la Romanie, I, Paris-La Haye 1966, p. 42; anche Deliberazioni del Maggior Consiglio, II, p. 293; III, pp. 97, 246.
8. Oltre che sulle opere citate sopra nella n. 1 (in particolare Deliberazioni del Maggior Consiglio, II), i cenni di questo paragrafo dedicato alle istituzioni si basano su: Henry Simonsfeld, Der Fondaco dei Tedeschi in Venedig und die deutsch-venezianischen Handelsbeziehungen, Stuttgart 1887; Enrico Besta, Il Senato veneziano (Origine, costituzione, attribuzioni e riti), Venezia 1899; Melchiorre Roberti, Le magistrature giudiziarie veneziane e i loro capitolari fino al 1300, I, Padova 1906; II-III, Venezia 1909-1911; Achille Vago, L'amministrazione finanziaria nella Repubblica di Venezia, estr. da "Rivista Italiana di Sociologia", 11, 1907, pp. 3-42; Giuseppe Maranini, La costituzione di Venezia, I, Dalle origini alla serrata del Maggior Consiglio, Venezia 1927; Pietro Bosmin, Le origini del magistrato del Cattaver, in AA.VV., Ad Alessandro Luzio. Gli Archivi di Stato italiani, I, Firenze 1933, pp. 231-235; Andrea Da Mosto, L'Archivio di Stato di Venezia. Indice generale, storico, descrittivo ed analitico, I, Roma 1937; Roberto Cessi, Politica, economia, religione, in AA.VV., Storia di Venezia, II, Dalle origini del ducato alla IV Crociata, Venezia 1958, pp. 67-476; Id., Venezia ducale, II, 1, Commune Venetiarum, Venezia 1965; G. Zordan, I Visdomini; Roberto Cessi, Venezia nel Duecento: tra oriente e occidente, Venezia 1985; Le promissioni del Doge di Venezia dalle origini alla fine del Duecento, a cura di Gisella Graziato, Venezia 1986; Gerhard Rösch, Der venezianische Adel bis zur Schliessung des Grossen Rats. Zur Genese einer Führungsschicht, Sigmaringen 1989. Grazie alla cortesia di Franco Rossi e Ferruccio Zago ho letto nelle trascrizioni dell'uno e dell'altro i capitolari manoscritti dei patroni all'Arsenale e degli ufficiali del Levante (A.S.V., Patroni e Provveditori all'Arsenale, reg. 5; Ufficiali del Levante, reg. unico).
9. Roberto Cessi, La politica dei lavori pubblici della Repubblica di Venezia, estr. da L'azione dello Stato italiano per le opere pubbliche (1862-1924), Roma 1925, p. 7 (pp. 3-55).
10. Deliberazioni del Maggior Consiglio, I, p. 263.
11. R. Cessi, Venezia ducale, pp. 61-62; Reinhold C. Mueller, The Procurators of San Marco in the Thirteenth and Fourteenth Centuries: a Study of the Office as a Financial and Trust Institution, "Studi Veneziani", 13, 1971, pp. 123 55. (pp. 105-220).
12. Deliberazioni del Maggior Consiglio, II, pp. 229-237 A. Vago, L'amministrazione, pp. 9 ss.
13. Cf. per es. Gerhard Rösch, Venezia e l'Impero 962-1250.1 rapporti politici, commerciali e di traffico nel periodo imperiale germanico, Roma 1985, pp. 90-91, III, 168; G. Zordan, I Visdomini, pp. 187-188, 198-199, 205, 246 ss., 345-346, 490 ss.
14. R. Cessi, Venezia ducale, pp. 60, 129 ss.
15. Deliberazioni del Maggior Consiglio, II, pp. 315 ss.; Statuti della laguna veneta dei secoli XIV-XVI, a cura di Gherardo Ortalli - Monica Pasqualetto - Alessandra Rizzi, Roma 1989 (partic. pp. 43-44, 59, 65-67, 214) per notizie utili e anche per l'inquadramento generale del rapporto - un misto di controllo dall'alto e di spazi di autonomia - fra i centri lagunari e Venezia in materia di diritto, in qualche modo parallelo a quello sul versante finanziario-fiscale. Per Chioggia: Richard Goy, Chioggia and the Villages of the Venetian Lagoon, Cambridge 1985, pp. 21 ss.; Gianni Penza, Le riformanze del Maggior Consiglio di Chioggia dal 1275 al 1320, tesi di laurea, Università di Venezia, a.a. 1988-1989, passim; Sergio Perini, Chioggia al tramonto del medioevo, Sottomarina 1992, pp. 276, 281, 293, 298.
16. Giuseppe Praga, Storia di Dalmazia, Milano 1981, pp. 97 ss.; R. Cessi, Venezia ducale, p. 174; Id., La Repubblica di Venezia e il problema adriatico, Napoli 1953, partic. pp. 40 ss., 78-79; Id., Venezia nel Duecento, pp. 135-142; Deliberazioni del Maggior Consiglio, II, pp. 56, 328 ss.; Jean-Claude Hocquet, Le sel et la fortune de Venise, I-II, Lille 1978-1979: I, pp. 117, 168-169, 172-173, 178-179; G. Rösch, Venezia, pp. 163 ss., 247, 250, 253, Venetiarum historia vulgo Petro Iustiniano lustiniani filio adiudicata, a cura di Roberto Cessi - Fanny Bennato, Venezia 1964, p. 203.
17. Cf. R. Cessi, Venezia ducale, pp. 159, 213; Daniela Rando, Le istituzioni ecclesiastiche veneziane nei secoli VI-XII. Il dinamismo di una Chiesa di frontiera, Trento 1990, pp. 55-56, 104, 223-225, 233-234, 254-255, 266 (anche sulla sovrapposizione fra sottomissione politica ed ecclesiastica nella politica veneziana verso la Dalmazia). Nel 1169 il patriarca di Grado cedette in appalto vari introiti a Costantinopoli a Romano Mairano per 500 lire annue; Raimondo Morozzo della Rocca-Antonino Lombardo, Documenti del commercio veneziano nei secoli XI-XIII, I-II, Torino 1940: I, pp. 238-239. Per ulteriori donazioni di diritti a Costantinopoli sotto l'Impero latino, Donald M. Nicol, Byzantium and Venice. A Study in Diplomatic and Cultural Relations, Cambridge 1988, p. 155.
18. D.M. Nicol, Byzantium, p. 175; in generale, Bilanci generali, p. CCXI e Deliberazioni del Maggior Consiglio, II, pp. 128-129, 352 ss.
19. Frederic C. Lane, Venice, a Maritime Republic, Baltimore 1973 (trad. it. Storia di Venezia, Torino 1978), p. 43; R. Cessi, Venezia nel Duecento, pp. 62 ss., 98; D. M. Nicol, Byzantium, pp. 168-171; sulla gestione finanziaria della colonia veneziana: David Jacoby, Les Vénitiens naturalisés dans l'Empire byzantin: un aspect de l'expansion de Venise en Romanie du XIIIe au milieu du XVe siècle, in Id., Studies on the Crusader States and on Venetian Expansion, Northampton 1989, pp. 233-234 (pp. 217-235); dati interessanti anche su Rodosto in Silvano Borsari, Studi sulle colonie veneziane in Romania nel XIII secolo, Napoli 1966, partic. pp. 92-93.
20. R. Cessi, Venezia nel Duecento, pp. 144 ss.; Marco Pozza, Venezia e il Regno di Gerusalemme dagli Svevi agli Angioini, in AA.VV., I comuni italiani nel Regno crociato di Gerusalemme, Genova 1986, pp. 370-371 (pp. 353-399); Joshua Prawer, Crusader Institutions, Oxford 198o, pp. 229 ss.; David Jacoby, L'expansion occidentale dans le Levant: les Vénitiens à Acre dans la seconde moitié du treizième siècle, "The Journal of Medieval History", 3, 1977, pp. 228-234 (pp. 225-266).
21. D.M. Nicol, Byzantium, p. 156.
22. Deliberazioni del Maggior Consiglio, II, pp. 339 ss.; III, p. 23; i documenti riassunti in F. Thiriet, Délibérations des assemblées, nonché le considerazioni (rivolte principalmente al '300-'400) in Id., La Romanie vénitienne au Moyen Âge. Le développement et l'exploitation du domaine colonial vénitien (XIIe-X Ve siècles), Paris 1959, pp. 219-235; anche J.-C. Hoc-Quet, Le sel, I, pp. 293-294.
23. Samuele Romanin, Storia documentata di Venezia, I-X, Venezia 1972-1975: II, pp. 59-61 (con rinvio al Chronicon Altinate).
24. Philip Jones, La storia economica, in AA.VV., Storia d'Italia, II, 2, Dalla caduta dell'Impero romano al secolo XVIII, Torino 1974 pp. 1771-1772 (pp. 1469-1810); F.C. Lane, Public Debt, pp. 72-74.
25. La regolazione delle entrate, pp. VII ss.; G. Luzzatto, Storia economica di Venezia, p. 109.
26. I prestiti della Repubblica, pp. LIV-LV (anche per quanto segue).
27. G. Zordan, 1 Visdomini, pp. 65-66; F. C. Lane - R.C. Mueller, Money, p. 283; Jean-Claude Hocquet, Guerre et finance dans l'Etat de la Renaissance: la Chambre du Sel et la dette publique à Venise, in Actes du 102e Congrès national des Sociétés Savantes, Paris 1979, p. 111 (pp. 109-131).
28. Roberto Cessi, Storia della Repubblica di Venezia, Firenze i 1981, pp. 287 ss.
29. Cf, per es. A. Vago, L'amministrazione, pp. 14-16 e Antonio Stella, Il servizio di cassa nell'antica Repubblica veneta, Venezia 1889, partic. pp. 73, 96 ss., 183, 365-366.
30. J.-C. Hocquet, Le sel, II, pp. 390-393; La regolazione delle entrate, p. XXX n. 1, doc. 12; per deviazioni di percorso degli introiti doganali cf. G. Zordan, I Visdomini, pp. 65 ss.; in generale, I prestiti della Repubblica, pp. LIV-LV.
31. Deliberazioni del Maggior Consiglio, II, pp. 231-232, 259-261; III, p, 381.
32. Le promissioni del Doge, pp. 17- 18, 147
33. G. Luzzatto, Storia economica di Venezia, pp. 109-110; Deliberazioni del Maggior Consiglio, II, pp. 262 ss.
34. Cf. per es. le informazioni tratte dal Liber plegiorum in G. Rösch, Venezia, pp. 287-290.
35. Donalo E. Queller, Il patriziato veneziano. La realtà contro il mito, Roma 1987, pp. 79-81.
36. La regolazione delle entrate, pp. XV ss., XXIV ss.; G. Zordan, I Visdomini, pp. 26-27- 51-54.
37. Per es. Deliberazioni del Maggior Consiglio, II, pp. 343, 349, 351, 356, 359, 360.
38. P. Jones, La storia economica, p. 1806; Bilanci generali, p. CCX; Donalo E. Queller, Early Venetian Legislation on Ambassadors, Genève 1967, passim.
39. Gherardo Ortalli, Scuole, maestri e istruzione di base nel tardo medioevo. Il caso veneziano, Vicenza 1993; Peter Denley, Governments and Schools in Late Medieval Italy, in AA.VV., City and Countryside in Late Medieval and Renaissance Italy: Essays Presented to Philip ,Jones, London 1990, pp. 99-100 (pp. 93-107).
40. Deliberazioni del Maggior Consiglio, II, pp. 149, 155, 157; III, pp. 123, 219, 256, 335-336, 343, 395, 398, 411, 433; Giampaolo Lotter, L'organizzazione sanitaria a Venezia, in AA.VV., Venezia e la peste 1348-1797, Venezia 1978, p. 100 (pp.99-102).
41. Gherardo Ortalli, Il procedimento per gratiam e gli ambienti ecclesiastici nella Venezia del primo Trecento. Tra amministrazione, politica e carità (saggio in corso di stampa, gentilmente reso disponibile per la lettura).
42. R. Cessi, La politica, pp. 17 ss.; Roberto Cessi -Annibale Alberti, Rialto. L'isola, il ponte, il mercato, Bologna 1934, partic. pp. 29 ss.; Michele Agazzi, Platea Sancti Marci. I luoghi marciani dall'XI al XIII secolo e la formazione della piazza, Venezia 1991; R.C. Mueller, The Procurators, p. 113; Giorgio Bellavitis -Giandomenico Romanelli, Venezia, Bari 1985, pp. 39 ss.; Elisabeth Crouzet - Pavan, "Sopra le acque salse". Espaces, pouvoir et société à Venise à la fin du Moyen Âge, Roma 1992, pp. 170-185, 220-222; notizie di interventi nel palazzo Ducale durante il secondo '200 in Giambattista Lorenzi, Monumenti per servire alla storia del Palazzo Ducale di Venezia, I, Venezia 1868, pp. 1-6; per l'Arsenale, Bilanci generali, docc. 11- 13.
43. Elisabeth Crouzet-Pavan, La città e la sua laguna: su qualche cantiere veneziano della fine del Medioevo, in AA.VV., Ars et ratio: dalla torre di Babele al ponte di Rialto, Palermo 1990., pp. 34-36; Ead., "Sopra le acque salse", pp. 338 ss.; G. Rösch, Venezia, p. 81 n. 53; La regolazione delle entrate, pp. XXX n. 1, XXXII n. 3, doc. 12.
44. J.-C. Hocquet, Le sel, I, pp. 174-175; II, pp. 199 ss., 249 ss., 293 351
45. Bartolomeo Cecchetti, La vita dei veneziani nel 1300. La città, la laguna, il vitto, I-II, Venezia 1885: II, pp. 6 ss.; Bilanci generali, docc. 14, 16; G. Luzzatto, Storia economica di Venezia, pp. 52-54; G. Rösch, Venezia, pp. 240-243; più in generale, Hans Peyer, Zur Getreidepolitik oberitalienischer Städte im 13. Jahrhundert, Wien 1950, partic. pp. 97 ss.
46. Gina Fasoli, Liturgia e cerimoniale ducale, in AA.VV., Venezia e il Levante fino al secolo XV, I/1, Firenze 1973, pp. 261-295; Edward Muir, Il rituale civico a Venezia nel Rinascimento, Roma 1984, partic. pp. 90, 164 e relative note.
47. F.C. Lane-R.C. Mueller, Money, I, partic. cap. 10, pp. 201, 205.
48. F.C. Lane, Venice, p. 71.
49. Ibid., p. 35.
50. Ennio Concima, L'Arsenale della Repubblica di Venezia. Tecniche e istituzioni dal medioevo all'età moderna, Milano 1984, pp. 9- 12; la citazione da Historia ducum Veneticorum, a cura di Henry Simonsfeld, in M.G.H., Scriptores, XIV, 1883, p.79.
51. F. C. Lane, Venice, pp. 75 ss., 83 ss.
52. Ibid., p. 122; Id., Merchant Galleys 1300-34: Private
and Communal Operation, in Id., Venice and History,
Baltimore 1966, partic. pp. 199-200 (pp. 193-226).
53. R. Cessi, La Repubblica, pp. 64-65.
54. F.C. Lane, Venice, pp. 76 ss.; R. Cessi, Storia della Repubblica, p. 261; E. Concima, L'Arsenale, p. 14.
55. R. Cessi, La Repubblica, pp. 80-81, 93; F.C. Lane, Venice, p. 70; G. Rösch, Venezia, p. 201 n. 44 notizie su unità armate dai possedimenti greci e dalle colonie di Levante (e anche dai rettori in Dalmazia) nella prima guerra contro Genova in Martin da Canal, Les estoires de Venise. Cronaca veneziana in lingua francese dalle origini al 1275, a cura di Albertó Limentani, Firenze 1972, per es. pp. 160-162, 182- 184, 208-210, 240-242.
56. Deliberazioni del Maggior Consiglio, 11, pp. 1 14-116; R. Cessi, La Repubblica, pp. 74-77; Id., Venezia nel Duecento, p. 255; I patti con Brescia 1252-1339 a cura di Luca Sandini, Venezia 1991, pp. 15 ss.
57. G. Luzzatto, Storia economica di Venezia, pp. 41-42.
58. Historia ducum, p. 95.
59. Louise Buenger Robbert, A Venetian Naval Expedition of 1224, in AA.VV., Economy, Society and Government in Medieval Italy. Essays in Memory of Robert L. Reynolds, Kent (Ohio) 1969, pp. 141-152; G. Rösch, Venezia, pp. 287-290; Deliberazioni del Maggior Consiglio, I, pp. 24-25; 41, 49-50, 59, 82, 147-148; anche Bilanci generali, doc. 21.
60. Deliberazioni del Maggior Consiglio, III, p. 411; E. Concina, L'Arsenale, pp. 9, 13; Giorgio Bellavitis, L'Arsenale di Venezia. Storia di una grande struttura urbana, Venezia 1983, pp. 21ss., 41 ss.
61. Deliberazioni del Maggior Consiglio, II, pp. 244-245 E. Concina, L'Arsenale, pp. 13-14.
62. Deliberazioni del Maggior Consiglio, II, pp. 242-245 F.C. Lane, Venice, p. 162; E. Concina, L'Arsenale, p. 25; Reinhold G. Mueller, La Camera del frumento: un "banco pubblico" veneziano e i gruzzoli dei signori di terraferma, in AA.VV., Istituzioni, società e potere nella Marca trevigiana e veronese (secoli XIII-XIV . Sulle tracce di G.B. Verci, Roma 1988, pp. 322-323 (pp. 321-360); G. Luzzatto, Storia economica di Venezia, p. 42.
63. Frederic C. Lane, The Crossbow in the Nautical Revolution of the Middle Ages, in AA.VV., Economy, Society and Government in Medieval Italy. Essays in Memory of Robert L. Revnolds, Kent (Ohio) 1969, pp. 163, 167 (pp. 161-171); Deliberazioni del MaggiorConsiglio, II, pp. 243-244 III, pp. 17, 354-355.
64. Gino Belloni - Marco Pozza, Sei testi veneti antichi, Roma 1987, pp. 77-79; notizie dell'impiego della milizia cittadina (compresi sostituti pagati) nel secondo '200 in M. Da Canal, Les estoires, pp. 308-312.
65. F.C. Lane, Venice, p. 62; R. Cessi, Venezia ducale, pp. 163-164; I patti con Brescia, p. 16; G. Rösch, Venezia, p. 110; S. Perini, Chioggia, p. 19.
66. Sui rapporti con gli imperatori germanici cf. G. Rösch, Venezia, cap. I.
67. F.C. Lane, Venice, p. 18.
68. Cf. per es. G. Rösch, Venezia, partic. pp. 104-111; I patti con Brescia; I trattati con Aleppo 120-1254, a cura di Marco Pozza, Venezia 1990.
69. Jean-Claude Hocquet, Il sale e l'espansione veneziana nel Trevigiano (secoli XIII-XIV), in AA.VV., Istituzioni, società e potere nella Marca trevigiana e veronese (secoli XIII-XIV .Sulle tracce di G.B. Verci, Roma 1988, p. 276 (pp. 271-290); per Ferrara, Trevor Dean, Venetian Economic Hegemony: the Case of Ferrara, 1220-1500, "Studi Veneziani ", n. ser., 12, 1986, passim (pp. 45-98).
70. T. Dean, Venetian Economic Hegemony; Vittorio Lazzarini, Proprietà e feudi, offizi, garzoni, carcerati in àntiche leggi veneziane, Roma 1960, p. 39; Marco Pozza, I proprietari fondiari in terraferma, in questo stesso volume.
71. Cf. per es. D. Jacoby, Les Vénitiens; T. Dean, Venetian Economic Hegemony, p. 94.
72. G. Cracco, Società e stato, pp. 199 ss., 214 ss., 225 e (più in generale sul taglio classista della finanza pubblica) 318 ss.; di parere contrario riguardo ai dazi G. Luzzatto, Storia economica di Venezia, pp. 73-74.
73. Bilanci generali, P. 458 N. 1; F.C. Lane, Venice, pp. 106-107; G. Cracco, Società e stato, p. 229; Richard Mackenney, Tradesmen and Traders. The World of the Guilds in Venice and Europe, c. 1250 - c. 1650, London 1987, p. 26.
74. G. Luzzatto, Storia economica di Venezia, pp. 112-113.
75. F.C. Lane, Public Debt, pp. 72-74.
76. Cf. soprattutto R. Cessi - A. Alberti, Rialto; G. Luzzatto, Storia economica d'Italia, pp. 264-265.
77. Karl-Ernst Lupprian, Il Fondaco dei Tedeschi e la sua funzione di controllo del commercio veneziano a Venezia, Venezia 1978, partic. pp. 7 ss.; G. Luzzatto, Storia economica di Venezia, p. 113.
78. G. Lorenzi, Monumenti, pp. 1 ss.
79. G. Bellavitis - G. Romanelli, Venezia, p. 47.
80. E. Crouzet-Pavan, La città, pp. 34-35; più diffusamente Ead., "Sopra le acque salse", pp. 67 ss., 141 ss.
81. F. C. Lane - R. C. Mueller, Money, I, cap. 11.
82. L. Buenger Robbert, The Venetian Money Market,
pp. 38 ss., 72; F.G. Lane - R.G. Mueller, Money,
I, pp. 91, 112 ss.
83. G. Luzzatto, Storia economica di Venezia, pp. 121 - 122; F. C. Lane - R. C. Mueller, Money, I, pp. 125-126, 181-184, 201-202.
84. Cf, per es. le garanzie date per il pagamento delle sanzioni comminate a chi aveva sfidato restrizioni sul commercio con Padova nel terzo decennio del '200, Deliberazioni del Maggior Consiglio, I, pp. 3 ss. Va tuttavia ricordato che il ricavato veniva spesso ripartito fra il comma, l'accusatore e gli ufficiali competenti.
85. F. C. Lane, Venice, pp. 36-37 93.
86. Christopher G. Ferrard, The Amount of Constantinople Booty in 1204, "Studi Veneziani ", 13, 197 1, p. 98 (pp. 95- 104)
87. F.C. Lane, Venice, pp. 83 ss.
88. G. Luzzatto, Storia economica di Venezia, pp. 52-54 G. Cracco, Società e stato, p. 315.
89. J.-C. Hocquet, Le sel, I, pp. 174-175.
90. Bilanci generali, pp. LIII-CXXXIV (indicazioni utili anche per tutta la discussione dei dazi che segue); G. Luzzatto, Storia economica di Venezia, pp. 32, 113 ss.; G. Rösch, Venezia, pp. 104 ss.
91 . G. Luzzatto, Storia economica di Venezia, p. 113; G. Rösch, Venezia, pp. 106-107 e n. 151 .
92. Bilanci generali, pp. LIX ss.; G. Zordan, I Visdomini, pp. 123 ss.; G. Rösch, Venezia, pp. 104 ss., 171.
93. I patti con Brescia, p. 24; J.-C. Hocquet, Il sale, pp. 274 ss.; anche G. Rösch, Venezia, p. 184; G. Zordan, I Visdomini, pp. 13- 14.
94. G. Zordan, I Visdomini, pp. 144-145 158 ss.
95. Melchiorre Roberti, Studi e documenti di storia veneziana, I, La "Bacio Lombardi seu Francisci ", "Nuovo Archivio Veneto ", n. ser., 16, 1908, pp. 5-61; Bilanci generali, pp. LXVII (sull'emergere di un dazio specifico anche sulla lana lavorata a Venezia), 46-50; G. Luzzatto, Storia economica di Venezia, p. 70; G. Zordan, I Visdomini, pp. 227 ss.
96. F.C. Lane - R.C. Mueller, Money, I, partic. pp. 186 ss.
97. G. Luzzatto, Storia economica di Venezia, p. 115; F.C. Lane - R.C. Mueller, Money, I, pp. 187-189; Deliberazioni del Maggior Consiglio, III, pp. 371, 374-375; K.-E. Lupprian, Il Fondaco, p. 18.
98. Carlo Guido Mor, Il procedimento per " gratiam" nel diritto amministrativo veneziano del sec. XIII, in Cassiere della Bolla Ducale, Grazie Nonus liber (1299-1305), a cura di Elena Favaro, Venezia 1962, pp. XVIII-XX (pp. V-XXVIII); Antonio Stella, Il dazio sul Dino e sull'una nella Dominante. Studio, Torino 1891, pp. 24-25; G. Zordan, I Visdomini, pp. 88-93; La regolazione delle entrate, doc. 12; Deliberazioni del Maggior Consiglio, III, pp. 339 442-443.
99. J.-C. Hocquet, Guerre et finance, p. 110; Id., Le sel, I, partic. pp. 77, 166-176, 314-315; Id., Monopole et concurrence à la fin du Moyen Age. Venise et les salines de Cernia (XIIe-XVIe siècles), "Studi Veneziani", 15, 1973 pp. 75-80 (pp. 21-133).
100. Deliberazioni del Maggior Consiglio, III, p. 445 J.-C. Hocquet, Il sale, p. 277; Id., Le sel, I, p. 173.
101. Bilanci generali, docc. 55, 60; G. Zordan, I Visdomini, pp. 213-214, 217.
102. Deliberazioni del Maggior Consiglio, II, p. 270; III, pp. 375 380 423 429 G. Luzzatto, Storia economica di Venezia, pp. 114-115; Gian Maria Varanini, Aspetti della produzione e del commercio del vino nel Veneto alla fine del Medioevo, in AA.VV., Il vino nell'economia e nella società italiana medioevale e moderna, Firenze 1989, p. 84 n. 77, pp. 86-87 (pp. 61-89); si confronti Con Ugo Tucci, Commercio e consumo del vino a Venezia in età moderna, ibid., pp. 187, 198 (pp. 185-202).
103. Cf. qui sopra il testo corrispondente a n. 13.
104. G. Zordan, I Visdomini, pp. 31g, 328 ss., 485.
105. K.-E. Lupprian, Il Fondaco, p. 9.
106. La regolazione delle entrate, pp. XIX-XX.
107. G. Zordan, I Visdomini, pp. 158- 165.
108. Bilanci generali, pp. LXIX, LXXXV; Deliberazioni del Maggior Consiglio, II, p. 72; III, pp. 79, 89, 168, 295, 306, 346 (nell'agosto 1293 si prospetta l'eventualità di aflìdare il dazio della messetteria senza ricorrere all'asta, o anche di riscuoterlo direttamente), 364 373 432 436-439 (capitoli del dazio delle beccherie del 1298), 452-453 (nel 1299 si decide di riscuotere direttamente il dazio delle beccherie); L. Martines, Porwer, p. 108.
109. Bilanci generali, pp. CXLIII ss., 15 n. 2, docc. 1 (N) e 3; R. Cessi, Venezia ducale, pp. 60-61, 129-130, 156-157; I prestiti della Repubblica, pp. XVII-XVIII; G. Luzzatto, Storia economica di Venenia, pp. 31 ss., 111; sul "rectum decimum" dovuto al vescovo D. Bando, Le istituzioni, pp. 287 ss.
110. I prestiti della Repubblica, p. XXXIX e doc. 65; S. Romanin, Storia documentata, II, p. 237.
111. I capitolari delle arti veneziane sottoposte alla Giustizia e poi alla Giustizia Vecchia dalle origini al MCCCXXX, a cura di Giovanni Monticolo, II, Roma 1905, p. LX e n. 1 (con ulteriori rinvii); Gino Luzzatto, Per la storia delle costruzioni navali a Venezia nei secoli X V e X VI, in Id., Studi di storia economica oeneziana, Padova 1954, pp. 38-39 (pp. 37-57).
112. F.C. Lane, Venice, pp. 12, 49; I prestiti della Repubblica, pp. XXII-XXIII, XXXV-XXXVI; De liberazioni del Maggior Consiglio, III, p. 250; G. Belloni - M. Pozza, Sei testi, p. 79.
113. Bartolomeo Cecchetti, Le industrie in Venezia nel secolo XIII, "Archivio Veneto", 4, 1872, pp. 256-257 (pp. 211-257); G. Belloni - M. Pozza, Sei testi, pp. 79, 81.
114. F. C. Lane, Venice, p. 49; G. Luzzatto, Storia economica di Venezia, p. 112; M. Roberti, Le magistrature, II, pp. 276-301.
115. G. Luzzatto, Storia economica di Venezia, pp. 29, 116; L. Buenger Robbert, The Venetian Money Market, p. 31.
116. I prestiti della Repubblica, p. XII e doc. 1; Wolfgang von Stromer, Bernardus Teutonicus e i rapporti commerciali tra la Germania meridionale e Venezia prima della istituzione del Fondaco dei Tedeschi, Venezia 1978, partic. pp. 7-9.
117. Anche per quanto segue cf. R.C. Mueller, La Camera, pp. 321 ss.; sui tassi (e sul problema dell'usura) Gino Luzzatto, Tasso d'interesse e usura a Venezia nei secoli XIII-XV, in AA.VV., Miscellanea in onore di Roberto Cessi, I, Roma 1958, partic. p. 192 (pp. 191 -202); Id., Storia economica di Venezia, p. 96; più in generale I prestiti della Repubblica, pp. LI ss.
118. R.C. Mueller, The Procurators, pp. 175, 215-216.
119. I prestiti della Repubblica, pp. VIII ss. (anche per quanto segue).
120. Ibid., pp. XIX-XX, XXVII-XXVIII, XL; G. Luzzatto, Il debito pubblico, passim.
121. Gerhard Rösch, La nobiltà veneziana nel Duecento : tra Venezia e la Marca, in AA.VV., Istituzioni, società e potere nella Marca trevigiana e veronese (secoli XIII-XIV).Sulle tracce di G.B. Verci, Roma 1988, p. 267 (pp. 263-270).
122. G. Luzzatto, Storia economica di Venezia, p. 116.
123. F.C. Lane, Venice, p. 53; più in generale I prestiti della .Repubblica, pp. LX ss.; sui prestiti nei patrimoni amministrati dai procuratori di S. Marco, R.C. Mueller, The Procurators, pp. 154, 192-193.
124. I prestiti della Repubblica, pp. XXI ss., XXXIII ss., XLVI-XXVIII; anche F.C. Lane, The Funded Debt, partic. pp. 91, 95.
125. I prestiti della Repubblica, p. XXX. Per quanto segue, ibid., pp. XXX ss.
126. Ibid., partic. p. XL; F.C. Lane, The Funded Debt, pp. 87-91.