La fine della Repubblica aristocratica
Nel tardo autunno del 1781, al termine del suo mandato di capitanio e vice-podestà di Padova, il patrizio veneziano Giacomo Nani avrebbe dovuto presentare al senato, come ogni altro rettore uscente, una relazione scritta sul suo incarico di governo. Nani raccolse diligentemente un piccolo dossier di documenti, che gli sarebbero potuti servire per tracciare un bilancio del suo operato. Tuttavia ciò che gli uscì dalla penna non fu una delle tante scritture stereotipate, che i segretari del senato si affrettavano a seppellire negli archivi, ma un suggestivo trattato sulla politica veneziana e sui compiti e i poteri di un rettore di una provincia suddita, i Principi d'una amministrazione ordinata e tranquilla. Nani si guardò bene dal divulgare questa sua opera, ancorché in notevole misura riflettesse e per un certo verso giustificasse lo stagnante conformismo che dominava la vita della Serenissima: ciò che l'indusse a far sparire cautelativamente i Principi in un cassetto furono una diagnosi quanto mai spregiudicata e una prognosi radicalmente pessimista circa i mali che affliggevano la Repubblica marciana.
Nani era infatti convinto che alla costituzione veneziana fossero "già stati corrosi tutti li fondamenti" e che la Repubblica vivesse quindi le sue ultime ore, fosse "già sull'orlo della caduta": "non manca che l'urto di una qualche interna o esterna combinazione, che faccia crollar quella fabbrica". "I buoni cittadini", tra i quali il patrizio collocava, come è ovvio, anche se stesso, sapevano bene che non era possibile invertire la rotta, che stava portando - volendo riprendere una metafora impiegata all'indomani del collasso della Serenissima - "la nave desolata ed involta d'algosa materia" ad infrangersi contro gli scogli. "Non credono che alcuna eloquenza e autorità possa prolungar i suoi giorni. Conoscono essere li mali della vecchiezza incurabili".
Stando così le cose, qualsiasi riforma appariva inutile, se non dannosa. Venezia doveva invece puntare ad un'amministrazione ordinata e tranquilla, che le avrebbe consentito, tra l'altro, di mascherare la sua impotenza nei riguardi della Terraferma. L'ordine e la tranquillità non erano, in questo caso, soltanto gli indispensabili ingredienti della ricetta politica cara ai conservatori d'ogni tempo e latitudine, ma anche e soprattutto lo strumento che doveva evitare che la Repubblica colasse a picco nel peggiore dei modi, tra "straggi e convulsioni". In poche parole, tutto ciò che i "buoni cittadini" si auguravano era una fine dello Stato marciano per eutanasia (1).
Senza dubbio non era questa la prima profezia colorata di nero pronunciata a carico della Repubblica di Venezia da un membro della sua classe dirigente. Più di cinquant'anni prima l'autorevole savio del consiglio e pubblico storiografo Piero Garzoni aveva stilato uno sconsolato "pronostico alla durabilità della Repubblica": questa gli appariva, a causa della "corruttela de' tempi", talmente "indebolita de' Stati, d'uomini e di consiglio" e la sua "estimazione" politica così vacillante che non gli rimaneva altro che riporre ogni speranza di salvezza in "Dio Signore". Soltanto l'Altissimo poteva concedere a Venezia di "reggere e continuare libera sin al fine del Mondo".
Pochi anni più tardi questa visione apocalittica sarebbe stata riproposta in chiave laica da altri nobili veneziani: chi ne avrebbe registrato in un suo diario le amare riflessioni sarebbe stato il fratello maggiore di Giacomo Nani, Bernardo. "La Repubblica Veneta è vecchia", era una delle denunce registrate dal giovane patrizio, "durò assai; ora le cause della decadenza delli Imperi e d'altre Repubbliche sono in essa. Lusso, costumi corotti, e licenziosi". In sintesi, "lo stato della Repubblica è infelice: tutto da disgrazie, senz'amici, senza soldi, senza riputazione, senza amore per il pubblico" (2).
Che queste non fossero opinioni condivise unicamente dalla sempiterna corporazione dei laudatores temporis acti, una categoria tanto più incline a criticare il presente nella misura in cui mitizzava il passato, lo attesta un'ipotesi ventilata nel 1739 da due membri del nucleo dirigente marciano: essendo convinti che "il successivo deperimento della Repubblica" fosse inevitabile, avevano suggerito che "preventivamente a un tal cattivo momento" Venezia chiedesse di entrare a far parte del "Corpo Germanico affine di essere caratterizzata quale un altro Elettore", trovasse un rifugio, in altre parole, all'"ombra dell'impero asburgico" (3).
Nei decenni seguenti questi giudizi erano stati confermati in maniera più o meno drastica dalle bocche o dalle penne dei patrizi veneziani più lungimiranti e impegnati, tra i quali gli stessi dogi Marco Foscarini ("questo secolo dovrà essere terribile a' nostri figli e nepoti") e Paolo Renier ("vivemo a sorte, per accidente", aveva dichiarato davanti al maggior consiglio nel corso della Correzione del 1780) (4). Perfino Giorgio Baffo, un poeta di solito interessato a tutt'altre faccende, aveva spezzato una lancia, nei primi anni 1760, contro la decadenza della Repubblica: "le gran teste mancando se ne va, / e no resta de qua se no i cogioni". "No se pensa che all'ozio, al lusso, al ziogo, / e i libri, che se studia sulla sera, / xe 'l mazzo delle carte, o quel del cogo. / Debotto non ghè più zente da guera, / e, se ghe n'è, questi no ha visto el fogo; / come puorla durar in sta maniera?" (5).
È vero che le profezie di queste Cassandre erano rimaste lettera morta talvolta addirittura per più di settant'anni, una constatazione che tra l'altro potrebbe indurre a non attribuire un rilievo particolare alle stesse previsioni avanzate da Giacomo Nani nel 1781. Ma è anche vero che, se il "cattivo momento" era stato procrastinato di decennio in decennio, se l'"orlo della caduta" si era rivelato assai meno sottile di quanto fosse stato predetto, non per questo le denunce della crisi della Serenissima devono essere considerate affatto gratuite. Come avrebbe spiegato Denis Diderot in una pagina della fortunatissima Histoire philosophique et politique des établissements et du commerce des Européens dans les deux Indes di Guillaume-Thomas Raynal, l'Europa ospitava "quelques Républiques sans éclat et sans vigueur" (e tra queste repubbliche sembra difficile evitare di includere la Serenissima) che, se da un lato apparivano vittime predestinate delle "vastes Monarchies", "qui tôt ou tard les engloutiront", dall'altro potevano continuare a rimanere paradossalmente a galla grazie a "leur faiblesse même" (6).
Naturalmente la "faiblesse" costituiva una garanzia nella misura in cui era tutelata dalla balance of powers internazionale, dall'equilibrio tra le "vastes Monarchies". Lo stesso Giacomo Nani aveva scritto nel 1763 in coda ad un suo diario di viaggio che "arbitre dell'Italia sono le due nazioni oltramontane", l'Impero e la Francia: "la loro gelosia e il credito del Papa tenne in libertà l'Italia". Era naturale attendersi che, "scemando questo di credito ed entrando altre ragioni in quelle, nasceranno conseguenze diverse" (7). In effetti, quando aveva riconosciuto che l'Italia - e Venezia in particolare - usufruiva di una libertà condizionata dalla reciproca neutralizzazione delle "nazioni oltramontane", Nani aveva trascurato la circostanza che il recente rovesciamento delle alleanze aveva già fatto entrare "altre ragioni" nelle strategie di Parigi e di Vienna, che la tradizionale "gelosia" aveva ceduto il posto ad un'intesa tra i Borbone e gli Asburgo cementata, di lì a poco, anche da scambi matrimoniali.
Va peraltro osservato che questa nuova fase delle relazioni tra gli Asburgo e i Borbone così come la crescente pressione della Russia sul Mediterraneo orientale, se nei primi anni 1780 avevano indotto San Pietroburgo e, soprattutto, Vienna a coltivare un progetto di spartizione dei Domini veneziani, di fatto avevano finito per lasciare com'era l'assetto italiano consacrato dalla pace di Aquisgrana. Ma, se l'"esterna combinazione, che faccia crollar quella fabbrica", doveva presentarsi soltanto dopo che l'antico regime era stato spazzato via in Francia e nei paesi nell'orbita della Grande Nation, non per questo si deve abbracciare la tesi di Francesco Gritti che la fine della Repubblica aristocratica "forse non poteva svolgersi che alla sola condizione del sovvertimento di Europa" (8), attribuire, cioè, la responsabilità della caduta al devastante impatto della rivoluzione francese e del suo braccio armato in Italia, Bonaparte. Dopo tutto non va dimenticato che a Leoben fu un'intesa franco-imperiale basata, a ben vedere, sulla tradizionale Realpolitik e comunque assai lontana dai principi proclamati dalla rivoluzione che decretò la scomparsa della Serenissima.
Nel sommario dei primi capitoli de La fin de la République de Venise. Aspects et reflets littéraires lo storico della letteratura Guy Dumas ha riassunto in maniera esemplare, un terzo di secolo fa, le tesi di coloro che, a partire da Gritti e dagli altri protagonisti e spettatori delle vicende traumatiche del 1797, avevano in ogni caso individuato nel futuro Napoleone il villain della pièce della caduta della Repubblica veneta, gli avevano assegnato la parte del malvagio affossatore della Serenissima. "Sa disparition a, en réalité, des causes essentiellement extérieures: la France et l'Autriche s'étant mises d'accord pour la dépecer, plus rien ne pouvait la sauver. Doit-on faire grief son gouvernement de l'amour de la paix manifesté par lui au cours du XVIIIe siècle? [...] L'ambition de Bonaparte, cause primordiale de la perte de Venise [...]. Pour conclure avec l'Autriche le marché qu'il médite, il présente la Sérénissime comme un Etat dégénéré et le Directoire finit par se ranger à son avis. C'est là l'origine des jugements péjoratifs portés sur Venise par tant d'historiens".
Dopo aver ῾provato' la duplice colpa di Bonaparte - non solo aveva deciso l'esecuzione della Repubblica aristocratica, ma aveva anche fabbricato e imposto la leggenda nera, che l'avrebbe perseguitata post mortem -, Dumas ha potuto dipingere la Serenissima con i colori più rosei ed idilliaci: "réelle vitalité", "patriotisme de l'ensemble de la population", "la noblesse: preuves de son attachement au régime", "les patriciens continuent à assurer consciencieusement les devoirs qui leur incombent", "le peuple: joie de vivre, satisfaction et sécurité générale", "l'amour de la patrie et du régime était commun à toutes les classes de la société" (9).
In effetti la tesi della "réelle vitalité" politica generosamente attribuita da Dumas alla Repubblica fa a pugni, oltre che con i giudizi dei patrizi citati in precedenza, anche con quanto scriveva - e non era il solo a tracciare un quadro così negativo - il residente napoletano a Venezia nel gennaio del 1784: "questa Repubblica ritrovasi nella totale sua decadenza sì per la corruzione e divisione che regna tra i suoi individui, come per la mancanza di denaro nel pubblico erario, per lo stato della sua truppa, che non ascende a più di 10 mila uomini [...] e finalmente per lo deterioramento del suo commercio, così che qualunque potenza volesse un poco mostrarle i denti, Ella è nella dura necessità di compiacerla intieramente" (10). È evidente che la rivoluzione francese si limitò a mettere a nudo, oltre alla crisi strutturale della Repubblica, la precarietà della sua collocazione internazionale, un pavido isolamento che in un quadro europeo sempre meno capace di opporsi con successo all'imperialismo delle grandi potenze non appariva più un salvacondotto, ma al contrario un decisivo elemento di debolezza.
Nonostante che nel luglio del 1788 l'ambasciatore veneziano a Parigi Antonio 1° Capello facesse presente che, "ora che la nostra Repubblica non ha niente a sperare dalla passata rivalità tra la casa d'Austria e la Francia; ora che questa corte segue gl'impulsi di quella per i motivi già noti, e che lacerata da debiti, e da intestine discordie abbandona, o perde i suoi più antichi alleati; ora che tutti i sovrani d'Europa cercano di fortificarsi con amicizie [...]; ora che la Repubblica può essere disturbata nel suo sistema di neutralità da chi forse vorrebbe imbarazzarla, ed associarla a' suoi pericoli", era il caso di "riflettere seriamente alla propria situazione" e chiedersi se convenisse "alla nostra sicurezza starsene isolati da tutti gli altri" (11), i savi del consiglio avrebbero preferito allora e negli anni seguenti rimanere fedeli alla massima di Andrea Tron, che prescriveva alla Repubblica di "nascondersi come i fanciulli che hanno vergogna di comparire fra gli uomini e raccomandarsi alla provvidenza" (12), e ad ogni buon conto avrebbero occultato al senato l'invito di Capello a ridiscutere le linee di fondo della politica estera della Serenissima.
Quanto invece all'"interna [...] combinazione", che avrebbe potuto causare la caduta di "quella fabbrica", essa doveva riflettere e discendere, stando ai Principi, dalla recente metamorfosi ideologica del patriziato. Nani riteneva che i tradizionali valori marciani fossero stati debellati da uno spirito di "despotismo", che aveva trasformato le istituzioni repubblicane in un mero simulacro: ad un tempo la Serenissima aveva smarrito la propria identità e la propria forza. Il verdetto stilato da Nani a carico della Repubblica aristocratica, se da un lato lo induceva ad auspicare una fine dello Stato marciano non molto diversa da quella che sarebbe stata decisa dalla storia (che lo si qualificasse con disprezzo, come avrebbe fatto il pubblicista conservatore Jacques Mallet du Pan, quale "un esempio inaudito per anco ne' fasti della pusillanimità", oppure lo si esaltasse, nella scia di Gritti, quale un magnanimo sacrificio della sovranità dettato da "principi di moderazione", una virtù tipicamente repubblicana, rimane sempre il fatto che il regime aristocratico si sarebbe "disciolto da se stesso", che si sarebbe dato una morte, tutto sommato, dolce, in quanto preceduta e seguita da alcune "straggi e convulsioni" di ridotta magnitudine e che in ogni caso avrebbero affatto risparmiato il patriziato) (13), dall'altro segnalava che la "fabbrica" era minata da profonde crepe interne, non ultima delle quali la persuasione, che paradossalmente aveva fatto breccia proprio nelle file dei "buoni cittadini" più lucidi, dell'ineluttabilità del crollo.
"La caduta della repubblica veneta sarà tanto memoranda nella storia, quanto memoranda si è la sua origine", avrebbe dichiarato Francesco Donà, l'ultimo storiografo pubblico della Serenissima e uno dei protagonisti della drammatica sequenza finale, nell'introduzione ad un Esatto diario di quanto è successo dalli 2 sino a 17 maggio 1797 nella caduta della Veneta Aristocratica Repubblica frutto, in realtà, della fusione delle effemeridi redatte da lui stesso e dal lontano parente Piero Donà. Anche se Francesco Donà "non pretende[va] di farla da storico" e si riprometteva soltanto di offrire una fonte attendibile a quei "dotti, che a somiglianza de' Ferguson e de' Mably ci daranno un'esatta storia di tale avvenimento politico", in effetti da un lato si rifugiava nella filosofica constatazione che "è già destino delle umane cose, specialmente dei governi, che dopo qualche giro, pieni di scorno vadano a precipitarsi nell'occaso" e dall'altro sentenziava che la storia della caduta della Repubblica marciana "si riduce[va] a molto poco; colmo di debolezza in chi presiedeva alle cose pubbliche; colmo di perfidia in una nazione", ovviamente la Francia della rivoluzione (14).
Benché la formula riduttiva utilizzata da Donà per spiegare o, meglio, per esorcizzare la "memoranda" caduta sia ben lontana dall'essere soddisfacente, mi sembra comunque utile contrapporre, quanto meno dal punto di vista metodologico, i due piani di riferimento individuati dallo storiografo, vale a dire distinguere l'"avvenimento", "la storia", la trama delle azioni e reazioni che sfociarono nella crisi finale, dal processo strutturale dominato dal ῾destino'. È tuttavia evidente che nel caso di Venezia ci si deve riferire non tanto ad un destino tuttofare, ad un generico ῾padrone' delle "umane cose" e, in particolare, della sorte degli Stati quanto ad un destino dai poteri, per così dire, più locali e contingenti, a quello, cioè, che impresse il suo marchio sull'Italia continentale nei convulsi decenni tra la rivoluzione e la restaurazione.
Come è stato osservato fin dalla metà del secolo scorso dagli storici veneziani Girolamo Dandolo e Samuele Romanin (15), il rullo compressore rivoluzionario-napoleonico doveva travolgere, prima o dopo, in tutta la Penisola le formazioni politiche d'antico regime, fossero nemiche dichiarate della Francia, alleate più o meno convinte oppure seguissero gli stretti sentieri della neutralità. Ma va anche ricordato che tutte le repubbliche nobiliari italiane furono definitivamente sepolte nel 1814-1815 dal congresso di Vienna, il quale si guardò bene dal restaurare l'antico regime dei patriziati. Quando, all'indomani della conclusione del congresso, Stendhal cercherà di cancellare in una Vita di Napoleone una delle macchie più vistose che deturpavano la fama del suo eroe, "la distruzione di Venezia", potrà ritenersi autorizzato proprio dalle decisioni prese sulle rive del Danubio a contrapporre il governo marciano, "un'aristocrazia dal piede di argilla", agli "altri governi d'Europa", "aristocrazie su basi di ferro" che avevano saputo superare indenni le devastanti stagioni della rivoluzione e dell'impero (16).
Sotto questo profilo la ῾definitiva' eclissi della Serenissima da un lato andrebbe posticipata di quasi un ventennio e dall'altro dovrebbe essere considerata l'esito di una singolare struggle for life tra le aristocrazie decisa dalla restaurazione a favore delle nobiltà delle grandi monarchie (le "aristocrazie su basi di ferro" evocate dal milanese d'adozione) e a spese dei patriziati delle arcaiche città-stato. La prospettiva indicata da Stendhal consentirebbe anche di evitare i trabocchetti della Schuldfrage veneziana, di una ricerca del colpevole più che della colpa rimasta troppo a lungo prigioniera dell'alternativa tra le due chiavi interpretative della "distruzione" e dello "scioglimento", tra una caduta frutto di un'irresistibile e violenta pressione dall'esterno (la tesi di Dumas), che poteva per di più fare assegnamento, in seno al regime lagunare, su una quinta colonna di giacobini e di massoni e approfittare dell'inettitudine e della viltà di parecchi membri del governo (questa la versione veneziana del complotto alla Barruel accreditata dagli scritti del patriziato conservatore diffusi all'indomani del crollo della Repubblica aristocratica e da essi trasmessa a buona parte della storiografia dell'Ottocento e del primo Novecento) (17) e una fine per implosione, per cedimento strutturale del regime aristocratico sotto il peso dei suoi vizi e, in particolare, delle sue scelte nefaste in ambito religioso (un'interpretazione moralistico-clericale, che godette di una certa fortuna nel primo Ottocento soprattutto grazie all'austriacante Fabio Mutinelli) (18).
Appare più produttivo riconoscere piuttosto la fragilità intrinseca di una forma politica, la città-stato dei patrizi, irrimediabilmente destinata ad essere schiacciata, nei tempestosi anni tra la fine del Settecento e l'inizio dell'Ottocento, tra il martello democratico e l'incudine delle monarchie assolute. Senza dubbio il governo veneziano si distinse per l'incapacità di adottare una linea politica che gli consentisse di opporre un'apprezzabile resistenza alle manovre che puntavano alla dissoluzione o, nell'ipotesi migliore, ad un drastico ridimensionamento della Repubblica. Ma perché continuò ad opporre una pavida neutralità e un inossidabile immobilismo costituzionale ad un contesto che lo minacciava sempre più dappresso? Va da sé che, a monte della "debolezza", si collocavano non soltanto le responsabilità e gli errori tattici dei vertici del governo marciano, ma anche e soprattutto, come aveva sottolineato Nani, delle cause strutturali. Agli inizi del Settecento un ministro di Luigi XIV aveva spiegato ad un ambasciatore della Serenissima che "la condizione dei gentiluomini veneziani, che si credono liberi, era simile a quella libertà che godono li cavalli di bronzo sovraposti alla porta della chiesa di S. Marco, i quali, quantunque non legati o ritenuti, pure non sapevano o potevano muoversi" (19).
Nella trama dei lacci invisibili, che non soltanto negli ultimi mesi della Repubblica aristocratica dovevano impedire ai "gentiluomini veneziani" di "muoversi" in una direzione o nell'altra con la necessaria determinazione e, in ogni caso, quanto meno di opporre un'apprezzabile resistenza "all'impero delle circostanze" (20), figuravano alcuni nodi, che nel loro intreccio contribuivano a paralizzarne le volontà e, ancora prima, a distorcerne la visione. Il traballante tavolo della politica veneziana, una volta venuta meno la rete di protezione assicurata dalla balance of powers internazionale, doveva necessariamente crollare a causa di alcune opposizioni irrisolte e di uno scarto sempre più evidente tra la retorica ufficiale e una realtà effettuale di segno diverso.
Venezia voleva essere ed era, per un certo verso, ad un tempo una città-stato, cui facevano capo i due Domini di terra e ῾da mar', e uno stato ῾regionale', che privilegiava il rapporto tra la Dominante e la Terraferma e che conseguentemente confinava la Dalmazia e il Levante in una posizione semicoloniale. Da un paio di secoli le fortune materiali del patriziato abbiente riposavano soprattutto sulle campagne della Terraferma (21), ma il mare continuava ad attirare dei grandi investimenti ideali (nonché materiali, come avevano sottolineato le dispendiose campagne di Angelo Emo contro Tunisi), anche perché rimaneva lo schermo su cui si poteva proiettare il glorioso passato della Repubblica e sembrava garantire a tutto il corpo aristocratico un orizzonte comune.
Quest'ultimo era tanto più necessario in quanto all'interno del patriziato la contrapposizione tra i ricchi e i poveri (due classi certamente frutto della semplificazione di un contesto sociale a più strati, ma che appaiono in ogni caso significative ai fini di una ricostruzione della caduta della Repubblica) non rispecchiava soltanto, come è scontato, una disuguaglianza economica, ma, come ha recentemente dimostrato Volker Hunecke in un importante volume dedicato a Il patriziato veneziano alla fine della Repubblica 1646-1797.
Demografia, famiglia, ménage (22), era a sua volta matrice di altre disuguaglianze. Il divario tra le due componenti concerneva in effetti, oltre la proprietà, anche il potere politico, i livelli e gli stili di vita, il prestigio sociale, le strutture familiari, le pratiche matrimoniali, l'educazione dei figli e il rapporto con la casa e con lo Stato.
La polarizzazione era talmente marcata che non sembra eccessivo fare riferimento a due corpi aristocratici veneziani retti da sistemi ideologici che, se presupponevano - va da sé - uno zoccolo comune di storia e di tradizioni, di usi e costumi, di miti e di riti, erano per altri aspetti radicalmente distanti l'uno dall'altro. Mentre gli strati medi e superiori del patriziato da una parte concepivano il servizio dello Stato come una sorta di potlatch, che li costringeva a sacrificare sull'altare dei pubblici interessi il privato - dai beni alla famiglia e, fino a poche generazioni prima, alla stessa vita - e dall'altra ubbidivano di regola al cosiddetto "spirito di famiglia", una ῾ragione di casa' che prescriveva la conservazione ad ogni costo dell'unità familiare in modo da evitare una frantumazione del patrimonio, che ne avrebbe abbassato il livello di vita e soprattutto compromesso il rango politico e sociale, la ῾plebe' patrizia si aspettava invece dallo Stato che la impiegasse in reggimenti o in altri incarichi ῾di guadagno' o che le destinasse delle ῾provvidenze' per consentirle di tirare avanti alla meno peggio e, priva o quasi com'era di beni al sole e di regola anche di un'abitazione stabile, viveva alla giornata senza preoccuparsi dei destini di aggregati familiari di per se stessi assai instabili.
Alla vigilia della caduta della Repubblica i ῾poveri', l'῾altro' corpo aristocratico, occupavano più della metà, se non i due terzi delle panche del maggior consiglio. Anche se il rapporto di forze registrato in ambito demografico non si era affatto tradotto sul piano politico-istituzionale, non per questo la massa grigia dei patrizi più o meno miserabili poteva essere ignorata dal regime. Il consolidamento dello stato sociale aristocratico a beneficio dei ῾poveri' e il rispetto, da parte di questi ultimi, degli equilibri politici e costituzionali tradizionali apparivano alla maggioranza dei nobili veneziani strettamente connessi e correlati. L'immobilismo in politica internazionale era in larga misura il riflesso di un immobilismo imposto dalla situazione interna e che aveva favorito anche una burocratizzazione dello Stato-corpo aristocratico. La Venezia dei patrizi aveva smarrito da un paio di secoli la sua ragion d'essere mercantile senza peraltro riuscire a rimpiazzarla - se non in seno ad alcune delle grandi case del patriziato - con una compiuta ideologia proprietaria.
In ogni caso adoperando, oltre alla carota, anche il bastone, la frazione più ricca del patriziato non solo aveva conservato nelle sue mani il timone del regime, ma aveva addirittura consolidato le proprie posizioni in seno alla consulta dei savi, la versione veneziana del consiglio dei ministri, a spese del patriziato ῾mezzano', mentre la parte conservatrice di quest'ultimo aveva conquistato il pieno controllo del consiglio dei dieci e dell'inquisitorato di Stato. Nel 1780 questo assetto politico era stato definitivamente ibernato dalla sconfitta, che l'ala radicale del patriziato povero - ma anche, indirettamente, il ῾partito' delle riforme guidato da Andrea Tron - aveva subito da parte di un blocco conservatore sostenuto dai filoclericali e più che mai deciso a rimanere fedele alle "buone leggi" ereditate dai "maggiori".
Di qui l'avvento di un clima ottusamente conformista, che avrebbe indotto Gritti, uno dei pochi patrizi di orientamento illuminista, a definire la Repubblica un'"aristolidocrazia" (23). Di qui, ancora, un grottesco rilancio della mitologia tradizionale della Serenissima, ad un tempo sintomo della crisi della "fabbrica" statale e indice di una diffusa cecità nei confronti delle crepe denunciate da Nani e da molti altri osservatori. Quando era già in corso da tre anni la rivoluzione in Francia, un patrizio non avrebbe esitato a scrivere che "i principi, le direzioni e le politiche sapienti leggi" di Venezia, l'"affetto ingenuo dei sudditi verso il pubblico nome e la ben rassodata riputazione" internazionale dello Stato marciano congiuravano nell'"assicurar[ne] sempre più la durata" (24).
La soddisfatta evocazione dell'"affetto ingenuo dei sudditi verso il pubblico nome" mascherava una realtà per nulla univoca. Senza dubbio Venezia poteva fare assegnamento sui propri strumenti usuali di dominio, su una strategia ῾repubblicana' che faceva leva sul paternalismo, su un fisco relativamente mite e su un'amministrazione capace di districarsi con una certa abilità nella selva dei particolarismi e dei privilegi ereditati dal passato e che tendeva spesso ad accontentarsi - come aveva del resto suggerito Nani nei Principi d'una amministrazione ordinata e tranquilla - del mero rispetto delle forme. Ma "la dolce influenza del Veneto governo" (25), se poteva essere un talismano efficace in tempi di quiete, non garantiva granché di fronte al "generale sovvertimento di Europa".
Come riconosceva un giovane patrizio veneziano in una dissertazione accademica, che aveva finto che fosse uscita dalla penna dei riformatori dello Studio di Padova, a ben vedere Venezia governava le province della Terraferma, sia pure utilizzando il guanto di velluto ῾repubblicano', come se fossero "poco meno che tante provincie suddite in uno Stato monarchico", vale a dire secondo un modulo ῾dispotico' - quello stesso che si era affermato, non soltanto a detta di Nani, in seno al governo e al patriziato della Dominante - che concedeva un'autonomia assai ridotta alle periferie e che in ogni caso non faceva leva sullo "spirito" - veneto o ῾nazionale' che fosse - vale a dire su legami politici sottesi da un'ideologia comune, ma riconosceva i suoi puntelli esclusivamente nelle "leggi" e nell'"interesse" (26), in un potere normativo e in comuni obbiettivi economici che i sudditi non erano in grado di contribuire a definire.
Il ventre molle del sistema di potere veneziano era la nobiltà della Terraferma, la quale, come avrebbe denunciato a posteriori l'ex patrizio Alessandro Balbi, "proscritta dai nazionali comizi, confinata a delle urbane mansioni, subalterna alle presidenze patrizie, dal di cui confronto sempre più campeggiava la sua degradazione, senza speranza di occupar una carica se non comprandola, costretta a mendicar presso una corte straniera la opportunità di far brillare dei talenti militari o civili, oppressa da gravezze scritte e non scritte, divorata dal desiderio di migliorare la sua sorte, calpestata da un ministero ignorante, da una ingorda finanza e sempre da un nuovo tirannetto, languiva nell'obbrobrio e nel disprezzo" (27). Una subalternità e una marginalità politiche che erano per di più aggravate in molte province dal manifesto predominio economico del patriziato veneziano, che non solo possedeva la maggior parte delle campagne, soprattutto quelle più fertili, della pianura padana, ma era anche proprietario, a Padova e in altri centri minori, di molti stabili urbani. Non era difficile prevedere che, nel caso in cui "la dolce influenza del Veneto governo" fosse stata neutralizzata dagli sviluppi della guerra, le tentazioni municipalistiche dei patriziati della Terraferma sarebbero ritornate alla ribalta.
Tra i fattori della "durata" della Repubblica elencati dai patrizi conservatori non figurava - e non era una dimenticanza casuale - una forza armata in grado di difendere lo Stato e di imporre la volontà della Dominante alle periferie recalcitranti. La questione militare o, meglio, quella della mancanza di un valido esercito (alquanto diversa la situazione sul mare, come aveva dimostrato, nonostante tutto, la guerra contro Tunisi) era da un paio di secoli il più evidente "tallone d'Achille" della Repubblica. L'esercito veneziano si limitava ad essere la sommatoria delle guarnigioni, che presidiavano distrattamente le fortezze dello Stato. La guerra di successione spagnola aveva dimostrato che non era di per se stesso in grado, ancorché accresciuto dalle cernide e da reggimenti levati per l'occasione, di evitare l'occupazione della Terraferma da parte degli eserciti delle grandi potenze europee (anche allora si era trattato di Francia e Impero): soltanto dopo cinque anni di guerra Venezia era riuscita a mettere in campagna un corpo di truppe con il compito di controllare dappresso quelle dei belligeranti.
Le riforme del secondo Settecento, prima fra tutte l'istituzione del Collegio militare di Verona, avevano senza dubbio favorito una relativa modernizzazione dell'esercito veneziano e una notevole qualificazione professionale di una parte ristretta dei quadri, come avrebbe testimoniato, tra l'altro, il rilevante contributo dato dagli ex militari veneti all'esercito cisalpino-italico (due ministri della guerra, sette generali, otto colonnelli, ecc.) (28), ma non lo avevano trasformato in un affidabile esercito ῾nazionale', anche perché i patrizi veneziani avevano continuato a rimanere esclusi dal corpo ufficiali e la maggioranza dei nobili della Terraferma con vocazione militare aveva preferito cercare un più gratificante impiego all'estero. Non stupisce quindi che fin dagli anni 1760 il futuro tenente generale (il grado più elevato nella gerarchia militare veneziana dopo quello, affidato sempre a stranieri, di comandante in capo) Alvise Frachia Magnanini predicesse: "tempo verrà, e non è molto lontano, che nell'abbandono delle fortezze e nello squallore dell'armata li generali della Repubblica in luogo di chiudere le porte e presentare un aspetto imponente ad esempio de' maggiori, non avran che far di meglio che di ricevere civilmente quel belligerante che per ragioni di guerra vorrà rendersene il primo padrone" (29).
In un'Esposizione per la consulta estraordinaria convocatasi per d[ecreto] 20 lug[lio] [17]93 il g[iorno] 23 luglio [17]93, allo scopo di decidere se il governo veneziano dovesse o no respingere le credenziali presentate dal nuovo ministro plenipotenziario della Repubblica francese Jean-François-Michel Noël, erano individuate dall'anonimo savio di Terraferma, che l'aveva compilata, tre "epoche" della rivoluzione d'Oltralpe: "dalla convocazione degli Stati Generali sino alla fuga del re da Parigi", "dalla fuga sino alla di lui morte" e "dalla morte sino il dì d'oggi". L'Esposizione non era, né voleva essere, una storia della "più sorprendente rivoluzione, che la posterità averà pena a credere" (così l'aveva definita l'ambasciatore Capello nella relazione presentata al senato nel dicembre 1790 e approvata dall'assemblea il 17 marzo successivo), ma unicamente un promemoria, in cui erano registrate "le cose esterne", l'impatto che quelle vicende avevano avuto fuori dell'esagono e in modo particolare sui rapporti diplomatici tra Venezia, la Francia e gli Stati che avevano cercato di opporsi alla marea rivoluzionaria.
Nel luglio del 1793 il governo giacobino, che poche settimane prima si era installato a Parigi, appariva stretto in una morsa terribile tra le rivolte interne e gli eserciti della coalizione. Non meraviglia quindi che l'Esposizione intitolasse la terza epoca "nuovo rigore di tutti contro la Francia", che portasse, a prima vista, il suo cero all'altare della reazione. Ma la cronistoria non poteva evitare di registrare i reiterati rifiuti che la Serenissima aveva opposto ai tentativi dell'Impero e dei maggiori Stati italiani di farla aderire alle alleanze dirette contro i Transalpini. Non solo il regime aristocratico non era mai uscito dai binari di una politica di neutralità, ma l'aveva per di più interpretata in maniera talmente meticolosa che nel gennaio del 1793 aveva riconosciuto la Repubblica francese e aveva quindi rotto, di fatto, il fronte del "rigore".
Anche se l'autore dell'Esposizione cercava di trovare un compromesso di facciata tra la crociata antirivoluzionaria di "tutti", Venezia compresa, e la "volontà del Senato di non meschiarsi" in faccende comunque rischiose, mettendo in rilievo non senza una buona dose d'ipocrisia che, "quando si accettarono le credenziali" rilasciate dalla Repubblica francese all'incaricato d'affari Etienne Félix d'Hénin, "il Re, comunque decaduto, era ancora vivo" e che inoltre "non si crede offendente l'accettazione delle credenziali la neutralità e pare Vienna così giudicarne" (30), è tuttavia evidente che era quanto mai difficile, se non impossibile, mediare a lungo tra due prospettive e due linee di condotta così divaricate, fare blocco con la coalizione reazionaria sul piano ideologico e ad un tempo conservare rapporti diplomatici immacolati con un governo rivoluzionario.
Questa contraddizione di fondo della politica veneziana avrebbe pesato in misura non secondaria sulle relazioni con la Francia, la quale avrebbe sempre potuto accusare, a ragione, la Repubblica veneta di mascherare le proprie convinzioni reazionarie dietro il velo di una condotta formalmente declinata in base al paradigma della "perfetta neutralità", così come a sua volta la Serenissima non s'ingannava affatto quando temeva - come avrebbero ammesso a posteriori gli stessi Transalpini - che "la résidence d'une légation française à Venise facilitait la propagation des principes révolutionaires" (31). Che fin dall'estate del 1789 la rivoluzione d'Oltralpe avesse partorito un'"orribile anarchia" (32) e che per di più dopo la metamorfosi della monarchia in una Repubblica "questi principi francesi, che combattono tutt'i governi, nei quali tendono a portare la rivolta, combatt[essero] ancor più il nostro", dal momento che "alla democrazia niente è di più opposto quanto l'aristocrazia" (33), l'aveva o l'avrebbe lucidamente argomentato Capello dalle ambasciate di Parigi e di Roma, riassumendo in maniera esemplare i fondamenti di quella "indisposition marquée contre la révolution qui s'opère en France" condivisa, come era costretto ad ammettere Hénin all'indomani del fallimento del tentativo di Luigi XVI di fuggire all'estero, da "la plus grande partie des nobles vénitiens" (34).
Tuttavia contemporaneamente il governo - e prima del governo lo stesso Capello, che aveva insistito su questo aspetto nel già ricordato dispaccio del 14 agosto 1788 - aveva vissuto la rivoluzione di Francia come un preoccupante cedimento degli equilibri internazionali, una crisi che rischiava di lasciare l'Impero padrone assoluto dell'Italia. Di qui la propensione, che non doveva essere del tutto smarrita neppure nei mesi del Terrore, a guardare alla Francia senza i paraocchi dell'ideologia, a considerarla, nonostante tutto, un attore di primo piano sulla scena europea, una potenza con la quale era, a seconda delle circostanze e delle congiunture, opportuno oppure necessario fare i conti e che in ogni caso meritava di essere adeguatamente coltivata. Fu anche per questo motivo che, quando i dispacci assai critici riguardo alla rivoluzione transalpina, che Capello indirizzava al senato, furono messi in circolazione a Venezia da qualche patrizio o segretario poco scrupoloso e divennero "l'entretien des cafés de cette ville", "tous les principaux de la République" disapprovarono che "un ambassadeur près d'une cour étrangère" lasciasse "apercevoir si peu politiquement et sans nécessité sa manière de penser" (35).
Nell'Esposizione si sottolineava che nella prima epoca della rivoluzione francese "le cose esterne servono alle operazioni dell'Assemblea" nazionale: "Russia ed Imperatore occupati sulla guerra co' Turchi", "insurrezione del Brabante. Guerra tra la Spagna e l'Inghilterra che non progredì". "In somma", in questa fase, "gli altri o storditi od occupati o deboli o contenti" (36). In quale categoria degli "altri" il savio di Terraferma collocasse implicitamente la stessa Serenissima, non è agevole precisarlo. È scontato che appartenesse alla classe dei "deboli" così come si può escludere per le ragioni esposte in precedenza che fosse uno degli Stati "contenti" delle disgrazie della Francia. Il governo marciano era senza dubbio ῾occupato' a modo suo dal conflitto di terz'ordine che l'opponeva a Tunisi, ma soprattutto preoccupato dall'ultima fase della questione d'Oriente, dalla guerra che gli Austro-Russi stavano combattendo contro i Turchi.
Infine, ῾stordito': se si interpreta questo aggettivo nei significati usuali di spensierato o di intontito, non mi sembra che qualifichi in modo pertinente l'atteggiamento della diplomazia, della stampa e dell'opinione pubblica della Serenissima. Venezia non solo guardò con la massima attenzione, quanto meno a partire dalla presa della Bastiglia, allo "spettacolo" d'Oltralpe (la circolazione di gazzette, fogli volanti, opuscoli, poesie, ecc. fu talmente fitta e, forse ciò che contava maggiormente, così poco simpatetica nel riferire "le nuove di Francia" che nel settembre del 1789 l'ambasciata transalpina nella città lagunare invitò il governo a stringere le maglie della censura) (37), ma, come si è visto, ne colse assai per tempo gli aspetti più inquietanti sia per la stessa Francia che per l'Europa.
Certo, non erano mancate alcune aperture di credito quando erano stati riuniti a Parigi gli Stati Generali e perfino all'indomani del 14 luglio anche da parte di chi sarebbe poi rapidamente rifluito su posizioni più o meno decisamente critiche. Ad esempio, il "Prospetto degli Affari Attuali dell'Europa" aveva inizialmente accolto la convocazione dell'assemblea come un anello di una catena riformatrice che in quegli anni sembrava unire il regno di Luigi XVI alla Polonia, alla Gran Bretagna e agli Stati Uniti, tutti paesi che sperimentavano nuovi equilibri costituzionali. Anche gli Stati Generali dovevano consentire, secondo il compilatore del periodico, Domenico Caminer, in quei decenni il più impegnato giornalista politico veneziano, di "liberare i popoli da quell'oppressione, di cui senza interruzione si dolgono" e di "rendere comuni e bilanciati i pesi pubblici e la universale tranquillità" (38). Perfino Capello, colui che sarebbe diventato il più intransigente nemico della rivoluzione, presentò "la strepitosa rivolta di Parigi" del 14 luglio come il risultato dell'"accordo meraviglioso di tutti i cittadini che vollero difendere la loro causa", un evento "nobile" che, "si può dire senza effusione di sangue", aveva trasformato la Francia in "una democrazia sotto un Re" (39).
Ma la piega presa dalla rivoluzione a partire dall'agosto del 1789 doveva sospingere tanto Caminer quanto Capello così come, in generale, la stampa e il governo veneziani verso tutt'altre spiagge. L'ambasciatore non si limitò a deprecare e a condannare la mostruosità di "un governo senza governo", ma offrì anche un tentativo di interpretazione della rivoluzione, che ascrisse - in primissima fila tra i commentatori delle vicende transalpine - all'influenza degli "spiriti forti", dei "lumi", così come segnalò anche i rischi che avrebbe certamente corso "la tranquillità d'Europa" nel caso in cui "questo male epidemico" dilagasse al di fuori dell'esagono (40). A sua volta Caminer, che era con tutta probabilità al corrente dei giudizi assai critici di Capello, avrebbe ben presto denunciato, sempre dalle colonne del "Prospetto", lo "spirito di vertigine", che "si era sparso per tutta la Francia" (41).
Se le gazzette - con la parziale eccezione delle "Notizie del Mondo" dirette da Giuseppe Compagnoni - e i periodici politici, una stampa abituata a tenere conto dei desideri del potere, si allinearono ben presto sulle posizioni di Caminer, i giornali letterari conservarono invece più a lungo - come attesta il più influente tra essi, il "Nuovo Giornale Enciclopedico d'Italia" di Elisabetta Caminer Turra - un atteggiamento più o meno favorevole a quegli aspetti della rivoluzione che incarnavano lo spirito riformatore. Volendo tirare le somme, si può affermare che fino alla fallita fuga di Luigi XVI all'estero prevalsero i giudizi critici nei riguardi di quanto succedeva nell'esagono, ma senza che si traducessero nel loro insieme in una vera e propria crociata antirivoluzionaria. Quanto al patriziato, salvo Capello e qualche altro lungimirante conservatore (ad esempio, Girolamo Ascanio Molin), così come, sul fronte opposto dello schieramento ideologico, un'esigua minoranza ῾progressista' ai margini della vita politica (in prima fila i fratelli Ippolito e Giovanni Pindemonte, Alessandro Pepoli e Francesco Gritti), "ne voyait les commencements de la révolution de France que comme un point d'histoire" (42).
Nulli o quasi gli echi di queste prime fasi della rivoluzione al di fuori della cerchia delle classi colte. Merita anche per questo di essere segnalata la frase pronunciata da un "omaccio lacero e scalzo, di coloro che formano la feccia del popolo", che aveva commentato un rincaro del prezzo dell'olio - come avrebbe riferito una spia agli inquisitori di Stato il 2 agosto 1789 - con un "Sì, sì, che i cressa, eh, in Franza, in Franza, cospetton de B[acco], no i xe minga vis de ... come nu", facendo chiaramente capire che - come avrebbe commentato il confidente - lo stesso popolo veneziano poteva "in delirio immaginarsi collega" di quello d'Oltralpe (43). Ma questo sfogo, che testimonia - al pari della decisione presa nel 1792 dagli abitanti di Motta di ribattezzare assemblea nazionale la locale riunione dei capi famiglia (44) e di altri episodi analoghi di quegli anni - più la rapida circolazione delle nuove di Francia che una qualche adesione all'ideologia dei "partitanti della libertà", fu senza domani. A Venezia più ancora che nella Terraferma le classi popolari rimasero estranee, quando non furono decisamente avverse, ad un progetto rivoluzionario, che del resto prima dell'occupazione francese dei territori della Repubblica trovò ben pochi fautori anche negli ambienti (nobiltà di Terraferma e intellettualità ῾progressista') più disponibili ad accogliere le nuove idee libertarie.
Allo scopo di bloccare la propagazione dei "principi di libertà, uguaglianza ed indipendenza, spregiatori degli uomini e delle cose di religione e nemici dichiarati dell'ordine sociale" (45) si mobilitarono per tempo, fin dal gennaio del 1790, gli inquisitori di Stato, dapprima contro singole opere eversive e per controllare l'afflusso degli emigrati francesi (il Veneto fu la meta italiana preferita dalle varie ondate di aristocratici in fuga dall'esagono), poi, a partire dall'estate di quell'anno, per far fronte all'attività di un fantomatico club della propaganda che si diceva fosse stato istituito a Parigi con il compito di esportare la rivoluzione. Ma, come indica anche la curva delle spese del magistrato, che nel periodo novembre 1790-ottobre 1791 aumentarono solo del 10% rispetto alla media degli anni precedenti (46), si deve constatare che a Venezia prima dell'episodio di Varennes il tentativo dei "fanatici del sistema popolare" di diffondere "da per tutto" "la loro venefica dottrina", un proselitismo che Capello aveva denunciato nella sua applauditissima relazione (47), non innescò una risposta isterica, anche perché non vi era un reale motivo di preoccuparsi per le ripercussioni di un evento che, come era accaduto quindici anni prima per la rivoluzione americana, calamitava di regola unicamente una superficiale curiosità.
La fallita fuga di Luigi XVI dalla Francia non solo mise a nudo il radicale contrasto tra il re e l'assemblea nazionale, ma facilitò anche la costituzione di un fronte controrivoluzionario, alla testa del quale si posero, con la dichiarazione di Pillnitz dell'agosto 1791, l'Impero e la Prussia. Quando l'ambasciatore francese a Venezia Louis de Durfort informò il serenissimo governo di quanto era avvenuto al re e di ciò che aveva deciso in proposito l'assemblea nazionale, la memoria fu "restituita sul fatto, come quella che dava grado ad un corpo non riconosciuto", un episodio che - come avrebbe commentato tutto soddisfatto l'autore dell'Esposizione - non solo non aveva "avuta alcuna mala conseguenza", ma che dimostrava anche che, quando s'era dovuta confrontare con la più grave crisi della monarchia costituzionale transalpina, la Repubblica veneziana non aveva avallato i nuovi equilibri politici francesi (48).
Anche perché sollecitate dagli emigrati francesi le stamperie veneziane pubblicarono in quell'anno alcune opere più o meno critiche nei riguardi della rivoluzione. Spicca tra esse l'Essai philosophico politique sur les Etats Généraux et la Révolution de la France de l'année 89 du dixhuitième siècle dell'abate Giannantonio Pedrini, un veneziano confidente degli inquisitori, che aveva vissuto una decina d'anni in Francia, dove era diventato un convinto ammiratore di Rousseau. Di qui una curiosa interpretazione della rivoluzione, a prima vista affatto allineata sulle posizioni reazionarie (denuncia dell'"esprit mutin", che minacciava "l'Univers", condanna della "licence, antipode de 1a liberté", difesa della religione, accuse contro "les esprits forts" tutti - se si eccettua Rousseau - giudicati responsabili della crisi...), ma che in realtà ruotava intorno alla tesi che il popolo non era stato che uno strumento nelle mani dei "Gros-Sires de la Nation", che l'"Apocalypse de nouvelle espèce", che si stava consumando al di là delle Alpi, aveva sì demolito la società d'antico regime, ma per sostituirla con una società altrettanto, se non maggiormente, disuguale fondata sulla proprietà (49).
Da parte loro gli inquisitori intensificarono la vigilanza sulla stampa filorivoluzionaria, sugli stranieri sospettati di condividere la "venefica dottrina" e sui partigiani veneti dell'assemblea: non a caso il budget a loro disposizione aumentò, nel biennio 1791-1793, di quasi la metà rispetto a quello degli anni ῾normali'. Il senato autorizzò anche gli inquisitori a collaborare con le autorità della Lombardia austriaca "ad oggetto di fornirsi scambievolmente quei lumi che riusciva ad ognuno dei due principi di scoprire in linea di seduttori" ῾. Tuttavia quando, nel novembre del 1791, il governo di Torino invitò la Repubblica, tramite il suo residente nella capitale sabauda Rocco Sanfermo, ad aderire ad "una coalizione de' Principi Italiani" (compresi la Spagna e l'Impero) per "impedire la propagazione nell'Italia degli attuali funesti principi di libertinaggio ne' Popoli" e per "scambievolmente soccorrersi al caso, che qualche esplosione fosse per manifestarsi violenta", il senato fece rispondere che "la Repubblica provava la soddisfazione d'aver potuto con li buoni ordini conservare la più imperturbata tranquillità fra li propri sudditi" e si lusingava quindi di non correre anche per il futuro "nessun ragionevole pericolo dalle insidiose arti degli emissari francesi".
Venezia temeva che la lega prospettata da Torino permettesse agli Asburgo di consolidare ulteriormente la loro egemonia in Italia. Vienna - aveva preannunciato il ministro degli esteri sabaudo - stava per inviare altre truppe in Lombardia: se il senato avesse dato una risposta positiva all'avance e quindi avallato un intervento contro una Francia che era, tra l'altro, ancora in pace, avrebbe concorso a promuovere una crociata, dalla quale poteva ragionevolmente attendersi più danni che benefici. D'altra parte - come avrebbe sottolineato il senato - Venezia era nell'"inscienza delli principi, che sieno per adottarsi non solo dagli altri Principi d'Italia, ma da quella Potenza singolarmente, che con vasti Domini in questa Provincia separa dal Piemonte il Veneto Territorio" (51), vale a dire dalla stessa Austria: spettava a quest'ultima - era il suggerimento avanzato tra le righe - farsi carico della questione francese.
Quando, nell'aprile del 1792, la Francia dichiarò guerra al re di Boemia e d'Ungheria (una formula con la quale Parigi sperava di evitare il coinvolgimento degli Stati tedeschi), "tutti gli altri", "tranne la Russia che [diede] soccorsi agli emigrati" e la Prussia che intervenne militarmente a fianco dell'Impero, "non [furono]" - come avrebbe sottolineato l'autore dell'Esposizione - "che spettatori". Ma Venezia non poté rimanere a lungo ad osservare tranquilla la guerra in corso alle frontiere belga e renana della Francia, in quanto in giugno l'imperatore Francesco II e suo fratello Ferdinando III granduca di Toscana rilanciarono il progetto della lega italica, chiedendo anche alla Serenissima di inviare la flotta a proteggere Civitavecchia e Livorno da eventuali attacchi della squadra francese di Tolone. Una consulta nera non solo ribadì la direttiva strategica dell'"imparziale neutralità", ma decise anche di informare le altre corti di tale determinazione con un "promemoria e circolare ai ministri" e, ad ogni buon conto, ordinò al grosso della flotta veneziana di retrocedere da Malta a Corfù, di tenersi il più lontano possibile da quello che poteva diventare il teatro di una guerra marittima (52).
Questa strategia, ribadita agli inizi di settembre quando il piano della "confederazione italica" fu riproposto ancora una volta, in questo caso da Napoli (53), fu recepita dal senato in maniera affatto passiva. Secondo lo storico americano George B. McClellan, che attribuiva una notevole importanza all'incremento, proprio dall'estate del 1792, del numero delle ῾comunicate non lette', vale a dire delle ῾carte' degli inquisitori e dei diplomatici tenute nascoste al senato dai savi del consiglio, questi ultimi in tale fase "frankly seized dictatorial powers" (54). Una conclusione certamente sopra le righe, che tuttavia ha il merito di mettere a fuoco un aspetto della politica veneziana di regola rimosso dai cronisti e dagli storici della caduta della Repubblica (55), i quali hanno invece preferito proiettare a monte le contrapposizioni interne al gruppo dirigente della Serenissima esplose nel 1797: la compattezza dei savi del consiglio, favorita dalle consulte nere, intorno a "quell'antico metodo, al quale era dovuta fino a quel momento la sua sicurezza e la sua tranquillità", la politica di non "urtare, né favorire alcuna Potenza" (56), e di conseguenza, data la tradizione politica veneziana, l'assenza di un dibattito e di un confronto in senato.
Nel settembre del 1792 la proclamazione della Repubblica in Francia e la coeva invasione e occupazione della Savoia e del Nizzardo da parte dei Transalpini costrinsero il governo veneziano a interrogarsi nuovamente circa la validità della politica, che aveva seguito fino ad allora. Sono stati conservati i sommari degli interventi ad alcune consulte, che si tennero dall'ottobre del 1792 al luglio del 1793 (57) in risposta all'evoluzione della situazione internazionale e dei rapporti con la Francia, una serie di documenti che permette non solo di ricostruire il retroterra e le motivazioni di alcune scelte puntuali della Repubblica, ma anche di precisare, accantonando gli stereotipi sulla fine della Serenissima in buona parte frutto della lotta politica successiva, le scelte strategiche, in cui si riconobbero nella nuova temperie politico-ideologica i patrizi alla testa del governo marciano.
Nicolò 2° Guido Erizzo, un patrizio conservatore che avrebbe analizzato tra i primi, all'indomani di Campoformido, "l'avvenimento della distruzione del Veneto Governo Aristocratico", era convinto che, se si fosse dato ascolto a Francesco Pesaro, nel 1796-1797 il capo dell'ala misogallica dell'establishment lagunare (non a caso il democratico Balbi lo presentava come il Pitt veneziano, un omologo dell'allora leader dei tories), e, invece di adottare "la massima d'una Neutralità disarmata, ch'è quanto dire di un abbandono di Territorio al primo occupante", si fossero prese "le più adeguate misure, onde difender la Veneta Terra Ferma dai mali inevitabili d'una Guerra", la Repubblica di Venezia si sarebbe salvata o quanto meno non sarebbe crollata così rapidamente ed ingloriosamente (58).
In questo caso Erizzo insisteva - come del resto avrebbero insistito dopo di lui quasi tutti i cronisti e gli storici che avrebbero ricostruito le vicende della caduta della Repubblica - su una radicale contrapposizione tra due linee politiche, la neutralità disarmata adottata dal governo veneziano e la neutralità armata invocata da Pesaro, che in effetti erano rimaste, a causa dei limiti del procuratore, soltanto virtualmente lontane. Risulta in ogni caso dagli interventi di Pesaro alle consulte dei savi che si tennero in quei mesi che l'influentissimo procuratore di San Marco (Giovanni Andrea Spada gli avrebbe addirittura attribuito un'"autorità più che dittatoria") (59) concordava con i suoi colleghi riguardo ad una serie di punti qualificanti, che si possono così riassumere: 1) lo scontato rigetto del "mostruoso governo della Francia" (tale "odio" - sottolineava Piero Zen nel gennaio del 1793 - era "un sentimento comun a tutti"); 2) di regola la recisa condanna ideologica non faceva velo, quando i savi dovevano giudicare circa la potenza francese (un realismo, che induceva tra l'altro a respingere la consolante interpretazione della rivoluzione transalpina come un fenomeno entropico, che non avrebbe mancato di far rapidamente collassare la Repubblica democratica su se stessa: nell'ottobre del 1792 Nicolò Michiel "guarda[va] la Francia come governo ch'à ancora principi, saran non buoni, ma [ha] un piano", le truppe "si portano con bravura", "tutte le direzioni fino ad ora compariscono consigliate, non condotte da fanatismo, da entusiasmo, da furore"; "convien dunque rifletter" - invitava da parte sua Zaccaria Valaresso, il quale dichiarava anche che aveva "più paura della paura del Senato che de' Francesi" - "alla dimostrazione solenne del consenso di tutta la Francia a mantener il sistema di libertà", "stabilito avendo decadimento della Monarchia ed instituzione [della] Repubblica democratica"); 3) anche per questa ragione tutti i savi condividevano, sia pure con motivazioni diverse a seconda delle congiunture politiche e della percezione che avevano della minaccia francese, la "massima di sostener neutralità perfetta" (Zen nel gennaio del 1793). Non era soltanto per supina obbedienza a "tutte le ragion da un secolo e mezzo stabilite" che si doveva "restar nel stato ove siamo" (Valaresso): la neutralità era imposta non tanto o non soltanto dalla storia quanto dalla diffusa convinzione che si riteneva la Serenissima affatto "impari alla difesa" (Zen); 4) come sottolineava Valaresso, "da Crema a Fusina" era uno "stato troppo lungo, troppo stretto, difficilissimo a garantir": "piazze sproviste, opere esteriori mancanti, depositi vuoti, non artiglieria, non munizioni"; "fa tristezza lo stato della Terra Ferma", ripeteva Francesco Battagia, che "riflette[va] anche sulla mancanza d'un comandante che imprima stima, considerazione", mentre Pesaro ricordava che "la Repubblica ha li suoi stati d'Italia abbandonati": "né truppa né uomini né fortezze né artiglierie", anche le cernide, le milizie rurali, erano "rese inefficaci"; 5) il procuratore era convinto che si dovesse rimediare in qualche modo a questo disastroso assetto militare (in ogni caso arruolando Svizzeri e altri mercenari, non certo armando i sudditi, come invece avrebbero voluto, con il senno di poi, alcuni del suo partito), ma si rendeva anche conto che, in ogni caso, era utopico sperare che "una forza portata alla frontiera" veneziana potesse opporsi con una qualche speranza di successo all'esercito di una grande potenza; 6) Pesaro ripiegava conseguentemente su una linea più realistica: si doveva "pensar almeno [alle] città murate", riprendere, di fatto, la politica militare seguita durante la guerra di successione spagnola, quando "la sola massima" della Repubblica era stata quella di "guardar le piazze" e il resto della Terraferma era stato in buona sostanza abbandonato all'arbitrio degli eserciti occupanti, anche allora francesi e imperiali (60); 7) tuttavia i Francesi del 1792 (e, nonostante Termidoro, anche quelli del 1796-1797) erano ben diversi dai Francesi del 1701, dal momento che - sottolineava il procuratore - avevano "gioco non colle truppe ma colle massime portate da dette truppe" e, anche se gli eserciti della Repubblica transalpina fossero stati arrestati sulle Alpi, non bisognava dimenticare che la loro "guerra [era] da popolo a popolo": "oggi li francesi fanno una guerra ne' stati colla bandiera seduzione"; 8) secondo Pesaro e la maggioranza dei savi era conseguentemente necessario privilegiare l'"interna custodia", vale a dire "prima di tutto poner i popoli in istato di neutralità e che corrispondino alle massime" della Repubblica e quindi far intervenire gli inquisitori di Stato ("Tribunal faccia") per controllare strettamente la Terraferma: in conclusione una "neutralità [...] accompagnata da misure di premunimento", che impedissero soprattutto alla propaganda rivoluzionaria di "turbar li sudditi".
"Il Senato sia neutrale ma lo sia non con abbandono", era la linea invocata da Pesaro e in larga misura recepita dal governo marciano, quanto meno sul versante della vigilanza (nel 1792-1795 gli inquisitori ῾investirono' nell'intelligence somme nettamente superiori a quelle impiegate negli anni che avevano preceduto la rivoluzione: il tetto, quasi 60.000 ducati, vale a dire più di tre volte il livello precedente il 1789, fu raggiunto nel 1793-1794, nei mesi del Terrore) (61). Dove invece Pesaro fallì, ma più per demerito suo che per la resistenza oppostagli dalla maggioranza dei savi, fu sul fronte del "premunimento" militare. Il procuratore, come del resto anche gli altri savi del consiglio, non aveva nel suo cursus honorum alcuna esperienza in divisa, né aveva al suo fianco un consigliere che potesse suggerirgli un piano militare di un qualche respiro: anche a causa dei limiti di Giuseppe Priuli, un suo fedele seguace cui aveva fatto affidare il saviato alla scrittura (la versione veneziana del segretariato alla guerra), la parola d'ordine della neutralità armata rimase uno slogan, cui non corrispose un vero e proprio programma di riarmo.
Questioni chiave come la necessità di costituire un valido esercito da campagna e di affidarlo ad un comandante in capo che, diversamente dagli alti ufficiali veneziani, avesse avuto modo di distinguersi in guerra, furono tutt'al più sfiorate. Sia sul finire del 1792 che nella primavera del 1794, nei due momenti in cui perorò con maggior energia la causa della neutralità armata, il procuratore si accontentò che fossero presi alcuni provvedimenti (spostamento di truppe dalla Dalmazia in Terraferma, arruolamento di tremila miliziani, ecc.) (62) affatto inadeguati se non nella prospettiva dell'"interna custodia", di una repressione degli "assembleisti" e degli altri simpatizzanti per le esperienze politiche d'Oltralpe.
La decisione del governo veneziano - nei fatti più che nelle dichiarazioni d'intenti - di lasciare inerme la Repubblica non deve indurre a ritenere, come ha invece preteso una storiografia superficiale, che i savi del consiglio fossero affatto ciechi di fronte alla prospettiva di un'invasione dei Transalpini. Al contrario essi mettevano in conto il "pericolo ch'un'orda francese s'introduca a Brescia, Bergamo, Verona a piantar [lo] stendardo della libertà" (Valaresso); in particolare Pesaro prevedeva assai lucidamente che "quando saranno vicini, oppugneranno e niente basterà" e "se si lascerà piantar l'albero, i Francesi saranno avversi", che, in poche parole, una volta che i Transalpini avessero messo piede in Terraferma, lo schermo della neutralità non avrebbe in alcun modo protetto il regime aristocratico dalle fiamme dell'incendio rivoluzionario. Ma la minaccia ῾giacobina' era percepita come una sorta di punizione, che il Signore voleva infliggere all'antico regime ("soggiaceremo al destin comun, che Dio vuol sottometter l'Europa", era il lamento degno di Giobbe, che usciva dalle labbra di Valaresso), non come una laica sfida alla costituzione materiale veneziana.
Appare chiaro dai sommari delle consulte che né Pesaro né gli altri savi si riconoscevano in un progetto che non fosse quello di una mera conservazione dell'esistente, della salvaguardia di un'identità ontologica, che per di più il potente procuratore continuava a rivestire dei panni della più tradizionale mitologia della Serenissima, arrivando al punto di affermare che i Francesi "l'anno colla Repubblica perché il miglior governo". Certo, non tutti i membri del nucleo dirigente condividevano questa visione politica ispirata da un inossidabile orgoglio patrizio. Ma i savi più realisti e pragmatici erano anche i meno disposti a varare misure energiche e i più inclini alla rassegnazione. Ad esempio Giovanni Querini "teme mali dall'avvanzamento delle truppe francesi in Italia, conosce tutto ciò, ma riflette e trova che niente si può far e che, se si facesse, tardo sarebbe il soccorso". Era la linea di un immobilismo ῾piagnone' teorizzata soprattutto da Battagia, per molti aspetti (origine, studi, carriera politica, legami massonici, idee economiche) l'anti-Pesaro: "piange sulla costituzion infelice della Repubblica, trova minor pericolo nel continuar a farsi quello che si è sempre fatto più tosto che altrimenti".
Battagia si opponeva ai provvedimenti militari anche nell'ipotesi che fossero diretti esclusivamente all'"interna custodia": la sua tesi era che "la custodia da massime [rivoluzionarie] non se fa colla guerra, ma con la forza sobriamente esercitata e colla dolcezza [del] Governo" e che la "prima base della sicurezza è il non abusar dell'impero". Mentre il conservatore Pesaro insisteva a favore dell'adozione di una politica repressiva, il ῾progressista' Battagia era convinto che qualsiasi "premunimento" avrebbe paradossalmente aggravato la crisi della Serenissima: le tasse, che bisognava imporre per poter armare la Repubblica, e le misure poliziesche non solo non avrebbero modificato in tempo utile e nella misura necessaria "la costituzion infelice della Repubblica", ma l'avrebbero per di più privata del consenso dei sudditi. E i Francesi? "Si deve confidar delle circostanze varie non appartenenti a noi", sperare che in un modo o nell'altro la coalizione antirivoluzionaria togliesse a Venezia le castagne dal fuoco.
In ogni caso secondo Battagia le scelte della Repubblica non dovevano essere decise in base a sentimenti e risentimenti ideologici, ma alla luce di un calcolo spassionato, che riconoscesse nella "giusta probabilità" l'unico criterio razionale nelle "cose umane". Da un paio di secoli quasi tutte le case abbienti del patriziato puntavano, nel tentativo di conservare intatto patrimonio e peso politico, ad un solo matrimonio per generazione, sapendo bene che in tal modo mettevano spesso a repentaglio la loro stessa sopravvivenza. La "giusta probabilità" invocata da Battagia rilanciava per un certo verso questa rischiosa scommessa a carico di tutto lo stato-corpo aristocratico veneziano: il "continuar a farsi quello che si è sempre fatto", se non offriva alcuna garanzia per il futuro, presentava l'indubbio vantaggio di non costringere a rimettere in discussione la forma politica e le pratiche tradizionali di quella piramide di case che era la società patrizia.
Va da sé che non erano né le convinzioni liberal né i calcoli razionali di Battagia che potevano pesare sull'atteggiamento della maggioranza degli altri savi del consiglio, anche se va tenuto presente che la linea politica ῾rinunciataria' del futuro provveditore generale in Terraferma era condivisa in larga misura da uomini di primo piano quali Girolamo Zulian, Valaresso e Piero Donà. Se la strategia immobilista doveva avere la meglio, era soprattutto perché andava incontro sia al diffuso misoneismo ("non si faccia cose nuove, non si alteri, va tanto bene", dichiarava ad esempio Giannantonio Ruzzini) che a quell'"hideuse avarice" della classe dirigente veneziana, che Giacomo Casanova avrebbe stigmatizzato all'indomani della caduta della Repubblica marciana (se Battagia, che apparteneva ad una casa della media nobiltà, non voleva ulteriori "pesi all'erario" per non gravare sui sudditi, alcuni savi assai ricchi erano avversi alla neutralità armata e, a maggior ragione, ad una partecipazione di Venezia alla "viva guerra" perché temevano "di dover essi pagare le conseguenti imposizioni") (63).
Non stupisce pertanto che tra i savi tendesse sempre a prevalere l'opinione che "le precauzioni possono esser domandate da circostanze che qui non vi sono", che apparisse ragionevole, di fronte agli alti e ai bassi della politica internazionale e ad una situazione interna che non dava alcuna preoccupazione, continuare a procrastinare o comunque ad annacquare qualsiasi "premunimento" consigliato da Pesaro. Come avrebbe riassunto Vittorio Barzoni, "l'imperizia era in concorrenza colle vane speranze, coll'amore del suddito, col piacere del riposo, col sentimento della propria impotenza, colla mancanza di patriotismo, col riguardo di non turbare il senato, colla scioperataggine universale e, per una tacita transazione fra la debolezza di tutti, la patria si trovò immolata all'improvidenza d'ognuno". I savi del consiglio "speravano, ed era l'unica loro speranza, che qualche fausto avvenimento mutar facesse l'aspetto delle cose e dalla faccia dell'Italia rimovesse il turbine, che le romoreggiava sopra" (64).
Nell'attesa del "fausto avvenimento" la Repubblica si aggrappava alla ciambella della "perfetta neutralità" nei confronti dei belligeranti, una linea politica che tendeva tuttavia ad interpretare come una prudente e realistica presa d'atto degli equilibri del momento. Di qui una serie di mezze misure, di scelte congiunturali che, in luogo di rendere - come era nelle intenzioni del governo marciano - ancora più perfetta la neutralità, non potevano che contribuire ad appannare i rapporti, a seconda dei casi, con la Francia o con l'Impero e di conseguenza offrivano alle due potenze dei motivi o dei pretesti per recriminazioni e rivendicazioni. Volendo evitare di inimicarsi i belligeranti (questa l'interpretazione ῾negativa' che fu data alla neutralità), la Serenissima ne attizzò paradossalmente l'ostilità, così come la sua arrendevolezza nei confronti delle loro richieste aprì la strada a ulteriori cedimenti. In questo modo la Repubblica compromise di fatto la possibilità di evitare di essere direttamente coinvolta nel conflitto: quando, nel maggio del 1796, i territori marciani diventarono un teatro di guerra, Venezia aveva già perduto da tempo, se mai l'aveva avuto, quello scudo, che la professata neutralità avrebbe dovuto garantirle.
Anche se o, meglio, proprio perché si rifiutò di accogliere i reiterati inviti di Vienna di aderire alla coalizione antifrancese (l'ultimo di essi fu respinto il 17 novembre 1792), la Repubblica si guardò bene dal negare agli Austriaci una serie di concessioni, che l'agganciavano, di fatto, al carro imperiale e che quindi erano destinate quanto meno ad irritare Parigi e ad indurre quel governo a considerare la neutralità marciana una maschera ipocrita. In particolare Venezia non denunciò la convenzione che consentiva alle truppe degli Asburgo di transitare per quella strada di Campara, che collegava Borghetto con Goito, vale a dire il Trentino con il Mantovano (e di conseguenza il Milanese). Inoltre il governo marciano aderì alle richieste degli Imperiali e dei loro alleati sardi di consentire loro "di far co' sudditi veneti qualunque privato contratto di armi, viveri, cavalli ecc." (65). In terzo luogo collaborò con Milano, come abbiamo visto, con l'intento di erigere un cordone sanitario contro la propaganda sovversiva. Infine consentì a parecchi emigrati francesi, tra i quali vi era perfino il conte di Lilla, il futuro Luigi XVIII, di rifugiarsi nei suoi Domini.
Nello stesso tempo Venezia cercò di conservare, pagando il necessario pedaggio, buoni rapporti con la Francia. Quando l'ambasciatore veneziano Almorò 1° Alvise Pisani fu costretto dalle sanguinose giornate dell'agosto 1792 ad abbandonare Parigi e a rifugiarsi a Londra, il governo marciano non prese neppure in considerazione l'ipotesi di approfittare dell'occasione per chiudere l'ambasciata, ma preferì rimanere in quella sorta di limbo diplomatico che era garantito da un'ambasciata priva di ambasciatore. Il più importante e discusso passaggio successivo della politica veneziana nei confronti della Francia rivoluzionaria fu, il 26 gennaio 1793, il riconoscimento del cambiamento di regime. Come abbiamo visto, l'Esposizione del luglio 1793 avrebbe cercato di minimizzare la portata traumatica dell'evento e di ricondurlo, nonostante tutto, sul terreno della continuità statuale: le credenziali a Hénin "in nome della Repubblica" erano state "rilasciate a Parigi prima della morte del Re" e, "quando s'accettarono", "il Re, comunque decaduto, era ancor vivo" (in effetti, era stato decapitato il 21 gennaio, ma la notizia della sua esecuzione non aveva ancora raggiunto Venezia) (66).
In realtà, la questione del riconoscimento fu sviscerata dai savi del consiglio in tutte le sue eventuali ricadute, politiche e ideologiche, senza preoccuparsi affatto del destino di Luigi XVI. Piero Pesaro, un fratello minore di Francesco, cui era accomunato anche da una scelta conservatrice, ricordò che, "riconoscendo con sollennità il Governo Francese", "si riconosce li principi francesi", vale a dire la triade eversiva "empietà, eguaglianza, libertà", e che ciò avrebbe necessariamente avuto un "effetto orribile per la Repubblica" veneta, mentre Ruzzini, che era invece favorevole al riconoscimento, invitò a condizionarlo all'impegno di Parigi di "tener lontana la guerra di seduzion". Prevalse, alla fin fine, l'impostazione esclusivamente politico-diplomatica di Valaresso: "l'accoglier [Hénin quale incaricato d'affari del nuovo regime] lascia la Repubblica" veneta "nel stato ove si trova ora", mentre "il rifiutarlo ci separa dalla Francia" (67).
Questa tesi fu ribadita di fronte al senato dal savio in settimana Zulian, che fece presente che, "quantunque cambiatasi effettivamente dalla Francia la forma del suo governo, non si è giammai perciò interrotta la corrispondenza con essa" e che questa "medesima corrispondenza si era pur mantenuta col fatto fino a questi ultimi giorni da alcune altre principali Corti d'Europa, Napoli, Spagna, Toscana, Genova, perfino Inghilterra". "Le massime di antica amicizia verso la Francia" e il pericolo "di un rifiuto" consigliavano pertanto di accettare Hénin nella sua nuova veste: in ogni caso Zulian avvertì che bisognava considerare "come semplice in tale circostanza" la richiesta francese, in quanto gli appariva - e voleva far apparire - affatto naturale "la nuova destinazione di ministri in relazione al nuovo sistema di governo" (68).
Secondo il reazionario Tentori, "il Senato [fu] abbagliato dalle insidiose [...] riflessioni" di Zulian "sostenute ed avvalorate da quelli della di lui lega" (69). In realtà, se si prende in considerazione il risultato della votazione del senato (193 voti a favore, 7 tra contrari e ῾non sinceri'), appare chiaro che il consiglio non fu vittima di una qualche congiura ispirata dai massoni (la società cui aveva appartenuto Zulian) e dai filogiacobini, ma si limitò a ratificare una scelta precedentemente adottata da tutti i savi, ivi compresi i conservatori fratelli Pesaro. Va del resto tenuto presente che l'unico senatore che prese la parola contro la parte "accettante le credenziali segnate dal Consiglio esecutivo provisionale di Parigi all'incaricato degli affari della nuova Repubblica di Francia" fu Angelo Querini, un tradizionale avversario dell'establishment veneziano, ma da posizioni, quanto meno in passato, ispirate dai Lumi (70).
La scelta della "perfetta neutralità" fu ufficialmente comunicata ai sudditi con un proclama datato 23 febbraio 1793 (71). Un mese più tardi fu accolta dal senato, ancora una volta in seguito ad un intervento di Zulian, la richiesta francese di poter esporre le armi del nuovo regime: questa volta "fu generale la disapprovazione, e sì numeroso fu il concorso del popolo accorso a riguardare l'odiato Stemma, che fu d'uopo di tutta la vigilanza degl'inquisitori di Stato, e delle Guardie da essi stabilite per impedire gl'insulti dell'adirata popolazione" (72). Nonostante la reazione popolare, che del resto lo stesso governo aveva favorito, in modo particolare all'indomani dell'esecuzione di Luigi XVI, da un lato impedendo la pubblicazione di qualsiasi scritto sulla rivoluzione (una decisione drastica che mirava ad evitare che la stessa propaganda controrivoluzionaria potesse contrabbandare i messaggi eversivi dei giacobini) (73) e dall'altro mobilitando le gazzette contro la Repubblica transalpina (anche le moderate "Notizie del Mondo" di Compagnoni avrebbero dipinto la Francia come "una foresta di bestie feroci sitibonde d'umano sangue") (74), nonostante che quasi tutti i principali Stati europei si fossero alleati, tra febbraio e marzo, allo scopo di schiacciare l'idra rivoluzionaria francese, i savi non si allontanarono dalla retta via precedentemente tracciata.
Ad esempio quando, in maggio, Angelo Querini propose di richiamare da Londra Pisani, un "assurdo ambasciatore a chi sfortunatamente più non esisteva" - si riferiva al re di Francia - in modo che apparisse chiaro a tutti che anche la Serenissima prendeva le distanze da "un popolo paricida e regicida" e, se la sua scelta neutrale le impediva di impugnare le armi, era comunque ideologicamente vicina alla "giusta coalizione di tutti li maggiori potentati del mondo", che combattevano "quel governo di mostri", fu paradossalmente il convinto antirivoluzionario Piero Pesaro che chiese al senato di concedere ai savi carta bianca su questo tema e convinse una larga maggioranza dei pregadi (133 i voti a suo favore contro 23 tra negativi e ῾non sinceri', uno scarto, in ogni caso, meno favorevole di quello ottenuto in gennaio) a bloccare il tentativo di modificare i rapporti con la Francia (75).
Fu soltanto nel luglio 1793, quando fu posta all'ordine del giorno la questione se accettare o meno le credenziali presentate da Noël in qualità di inviato straordinario della Repubblica transalpina, che la Serenissima si permise uno strappo nei confronti della Francia. Nella consulta nera del 23 luglio Zulian spiegò che Pisani non era stato richiamato "per non dar motivo alla C[onvenzione] N[azionale] di dimandar altro Ministro". Che fare di fronte all'inattesa mossa di Parigi? Zulian e Piero Donà erano convinti che, "se la Francia non è quale era il 26 gennaro, ella è ancora grande e da considerare assai per li tempi avvenire" e che quindi, "se è pericoloso per i tempi presenti l'accettare il Signor Noël, lo sarebbe ancora di più per li futuri il riffiutarlo". Ma prevalse la tesi del procuratore Pesaro e di Nicolò Foscarini del "poco timore in oggi di dispiacere alla Francia in vista delle attuali circostanze" (la Repubblica, invasa dagli eserciti della coalizione e minacciata dalle rivolte dei nemici del nuovo regime, attraversava la fase più difficile della sua breve storia) e la consulta decise di respingere le credenziali, informando l'incaricato d'affari Jean Jacob che Venezia non poteva "prestarsi a veruna alterazione diplomatica" e quindi doveva "astenersi nelle circostanze attuali da ogni cambiamento nella forma di ministeriale corrispondenza" (76).
Questa interpretazione della "perfetta neutralità" in quanto ibernazione dei rapporti diplomatici fu ribadita da Battagia un paio di mesi più tardi, quando Angelo Querini cercò di approfittare delle difficoltà della Francia rivoluzionaria (anzi il senatore dava già per "avvenuto" il "totale sfasciamento" della Repubblica transalpina) per riproporre il richiamo di Pisani. Battagia affermò in tale occasione che "non conveniva in minima parte alterar le cose, mentre nello stato attuale si poteva esser contenti": in questo modo si era riusciti ad evitare i pericoli "nelle variazioni" e si era "dimostrata fermezza di non volersi mescolare nelle attuali turbazioni, ripulsando" tutti gli inviti ad aderire alla lega italica. Anche questa volta Querini uscì sconfitto, sia pure con uno scarto negativo assai più onorevole del precedente, così come andò incontro ad un clamoroso fallimento - soltanto 12 i voti avversi ai savi - un analogo tentativo promosso nel gennaio successivo dal più influente Daniele 1° Andrea Dolfin (77).
Su quest'ultimo esito pesarono certamente i più recenti sviluppi della guerra in corso. La Francia non solo si era arrestata sull'orlo del "totale sfasciamento", ma tra l'autunno e l'inverno i suoi eserciti erano passati all'offensiva riconquistando Tolone (e quindi riaffacciandosi prepotentemente sul Mediterraneo), schiacciando le più pericolose rivolte interne e ricacciando i nemici sulla linea delle cosiddette frontiere naturali. Di conseguenza nelle lagune i savi ritennero prudente adoperare la parola d'ordine di non "prestarsi a veruna alterazione diplomatica" a vantaggio e non più a danno della Repubblica d'Oltralpe. In dicembre fu bloccato il maldestro tentativo del residente inglese presso la Repubblica, che dalla sua ambasciata romana Capello cercò di appoggiare presso gli inquisitori di Stato, di allontanare da Venezia un incaricato d'affari francese accusato di essere il perno di una rete eversiva. Nel febbraio del 1794, quando da Napoli giunse l'ennesima offerta alla Serenissima di aderire ad una lega italica, di fatto fu lasciata cadere senza essere neppure discussa, il che accadde, tre mesi più tardi, anche ad una memoria austriaca, che invitava Venezia a difendere il golfo dalla flotta nemica (78).
Nello stesso tempo i preparativi della Francia giacobina in vista della campagna di primavera e i suoi primi successi sulle Alpi indussero il procuratore Pesaro a riproporre il programma della neutralità armata. Era "necessario" - come avrebbe riassunto Romanin - "che le autorità veglianti fossero fornite di opportune forze e tali presidii che guarentissero l'obbedienza e la tranquillità del paese" (79); ancora una volta l'obbiettivo non era la difesa della Repubblica da un'invasione, ma quello di "poner i popoli in istato di neutralità". Nonostante l'opposizione della gran maggioranza dei savi (la banca era allora dominata da Zulian) e degli altri sostenitori, da Battagia a Valaresso, della tesi che in quelle condizioni il riarmo non solo era inutile, ma anche dannoso, in quanto avrebbe costretto la Serenissima ad indebitarsi ulteriormente e, soprattutto, l'avrebbe resa pericolosamente visibile sul piano internazionale, il 3 maggio l'"eccitamento" del procuratore a favore della neutralità armata fu accolto da una confortante maggioranza di senatori (119 contro 67 i rapporti di forza tra i due schieramenti) e i savi furono costretti a presentare tra maggio e giugno una serie di decreti destinati, in realtà, più a rabberciare (come è già stato sottolineato) che a dare un nuovo, valido assetto alle strutture militari della Repubblica (80).
Gli avvenimenti dell'estate-autunno 1794 - la caduta di Robespierre e le vittorie al nord (in luglio fu conquistato il Belgio, in ottobre fu invasa l'Olanda), a nord-est (occupazione del Palatinato) e a sud (invasione della Catalogna e dei Paesi Baschi) - consolidarono ulteriormente la posizione internazionale della Francia. La guerra sulle Alpi segnò invece il passo (i Francesi riuscirono in aprile-maggio ad occupare i passi più importanti, ma poi furono costretti a rimanere sulla difensiva a causa del trasferimento di quindici battaglioni sul fronte renano), il che indusse a ritenere eccessive le preoccupazioni di Pesaro. Inoltre la coalizione antirivoluzionaria cominciò a scricchiolare a causa delle sconfitte e delle rivalità attizzate dalla questione polacca: molti indizi facevano capire che fosse ormai agli sgoccioli quella stagione del "nuovo rigore di tutti contro la Francia", che si era aperta all'indomani dell'esecuzione di Luigi XVI.
Non stupisce quindi che in questa temperie la Serenissima interpretasse la regola di non "prestarsi a veruna alterazione diplomatica" con maggiore flessibilità, stiracchiandola a tutto vantaggio della Francia, e che, più in generale, cercasse di dare un timido contributo ad un processo di ῾normalizzazione', se non di pacificazione internazionale, che, una volta coronato da successo, avrebbe santificato a posteriori la politica della "perfetta neutralità". Di qui alcuni episodi significativi quali la sostituzione di Jacob con Jean Baptiste Lallement, l'invio di un nuovo ambasciatore a Parigi e la ῾mediazione' del diplomatico veneziano Rocco Sanfermo nelle trattative franco-prussiane di Basilea. Nel novembre 1794 il Comitato di salute pubblica destinò Lallement a Venezia in quanto inviato della Repubblica francese, facendo chiaramente capire che da un lato "il Popolo Francese vincitore di tutti Principi coalizzati contro la sua Libertà [voleva] finalmente conoscere i suoi Amici" (e quindi un altro rifiuto delle credenziali dopo quello opposto a Noël sarebbe stato pagato caro) e che dall'altro si accontentava di un qualsiasi titolo diplomatico: anzi, "se il Signor Pisani ricevesse l'ordine di ritornar a Parigi [...] niente gli costerebbe per compiacere al senato di dare al suo Agente in Venezia il titolo, che più soddisfacesse il voto" del governo marciano (81).
Nonostante che il residente inglese e gli inquisitori di Stato cercassero di mettere il bastone tra le ruote, i savi riuniti in consulta nera e nella loro scia il senato non solo accreditarono senza particolari patemi e divisioni Lallement quale inviato, ma pochi mesi più tardi, in febbraio, quando la Francia fece capire tramite Sanfermo che avrebbe preferito che Venezia ponesse fine all'῾esilio' di Pisani e destinasse un ambasciatore alla Repubblica ῾sorella', si affrettarono a procedere all'elezione di un nobile a Parigi nella persona del savio di Terraferma Alvise Querini. Come osservò Piero Donà, che avrebbe preferito che l'incarico fosse affidato ad un segretario come Sanfermo, era alquanto curioso che ci si facesse rappresentare presso uno Stato, che aveva proscritto la nobiltà, da un patrizio con il titolo di nobile. Querini ricevette le sue credenziali agli inizi di marzo, ma fu soltanto in luglio che raggiunse Parigi, un intervallo che almeno in parte va imputato al desiderio del governo veneziano di stare per un po' alla finestra per vedere quale piega prendessero le operazioni militari (82).
La campagna del 1795 iniziò tardi e soltanto in autunno registrò qualche episodio di un certo rilievo sul suo fronte più importante, quello renano. Sulle Alpi i Francesi rimasero sulla difensiva fino a novembre inoltrato. Ma, se la guerra segnò il passo, la diplomazia fu assai attiva. A Basilea la Francia stipulò dei trattati di pace in aprile con la Prussia e in luglio con la Spagna: fallirono invece le trattative con l'Impero imperniate sullo scambio tra il Belgio (che Vienna avrebbe dovuto cedere definitivamente alla Francia) e la Baviera (una vecchia aspirazione asburgica). Nella città svizzera, dove si trovava fin dalla fine del 1792 con il mandato di riferire circa gli sviluppi della situazione francese, Sanfermo mise la sua residenza e, a quanto pare, anche i suoi buoni uffici a disposizione delle "negoziazioni, che l'interesse delle Potenze [aveva] intavolate per ridonare la quiete all'Europa" (avrebbe fatto capire, a posteriori, che si era anche attivato affinché "il Re di Sardegna [...] pure facesse la pace e neutralizzasse l'Italia"), attirandosi le ire dell'Austria e dell'Inghilterra, che in maggio ne richiesero il richiamo (83). Nonostante che un insolito fronte composto da Francesco Pesaro, Piero Donà e Battagia prendesse le difese di Sanfermo (84), il senato decise di dare soddisfazione ai nemici della Francia.
Con il richiamo di Sanfermo da Basilea si chiuse l'unico tentativo di Venezia di influire in una qualche misura sugli sviluppi del conflitto. Come avrebbe scritto Cristoforo Tentori, "nulla di memorabile accadde nel rimanente di quest'anno 1795", salvo che "si rendeva sempre più osservabile", soprattutto dopo la morte di Luigi XVII, "la dimora nella città di Verona del [...] Conte di Provenza sotto il nome di Conte di Lilla" (85). Anche se cercava di non dare particolarmente nell'occhio, il fatto stesso che il futuro Luigi XVIII si fosse proclamato in giugno re di Francia e tenesse stretti rapporti con alcuni rappresentanti delle potenze in guerra contro la Repubblica transalpina e con gli altri emigrati rappresentava un oggettivo elemento di disturbo nei rapporti tra Venezia e il Direttorio, tanto più dopo che la vittoria di Loano del 24 novembre 1795 "in discapito degli Austro-Sardi sulla Riviera" aveva posto le premesse di un'invasione dell'Italia. Di qui l'intervento degli inquisitori di Stato nel gennaio 1796, che indusse i savi a porre il problema all'ordine del giorno del senato. Se in questa occasione Francesco Pesaro riuscì ad evitare la cacciata del conte di Lilla, quattro mesi più tardi le pressioni del governo francese su Querini convinsero la maggioranza dei senatori, nonostante che Pesaro rimanesse di diverso parere, ad espellere il compromettente "re di Verona" (86).
Nelle convulse settimane dall'11 maggio al 1° giugno 1796 furono poste le premesse e per un certo verso anche recitata la prova generale della catastrofe che un anno più tardi avrebbe travolto Venezia. La crisi causata dall'ingresso delle truppe francesi e austriache nei Domini di San Marco fu una logica conseguenza sia dei limiti strutturali della linea politica che la Serenissima aveva adottato nei mesi e negli anni precedenti, sia, in particolare, della sua incapacità di reagire con prontezza e flessibilità ad una situazione non solo in rapida e sorprendente evoluzione, ma che usciva anche dagli schemi mentali di una classe dirigente fossilizzata. Il clamoroso conflitto tra la Weltanschauung politico-militare e il comportamento del futuro Napoleone e le aspettative e i calcoli di un regime aristocratico in costante debito d'ossigeno appare il più sicuro bandolo per districare la matassa dei confusi avvenimenti di quelle settimane decisive.
Prima che Bonaparte mettesse piede, il 12 maggio, in territorio veneziano e che il rettore di Crema Giambattista Contarini ne tracciasse un ritratto de visu, il suo nome era comparso nella corrispondenza inviata a Venezia dal nobile a Parigi Querini, dal console a Genova Gaetano Gervasoni e dal residente a Torino, un segretario che portava - una coincidenza quanto mai curiosa - lo stesso nome e cognome dell'ambasciatore a Parigi. Quest'ultimo aveva menzionato per la prima volta Bonaparte o, meglio, Buonaparte in un dispaccio del 5 ottobre 1795, quando aveva riferito che il comando delle truppe della capitale era stato tolto al generale Menou e affidato "al General Buonaparte, che per altro si vuole che non sia neppur lui molto ben affetto agl'interessi della Convenzione". Due giorni più tardi Querini aveva diffusamente raccontato la repressione del 13 vendemmiaio, ma l'aveva messa in conto esclusivamente al "generalissimo" Barras.
Del "general Buona-Parte, corso di nazione, ed ora Comandante Generale della Forza armata di Parigi", Querini ritornava a parlare il 3 marzo 1796, quando raccoglieva la voce che fosse "veramente destinato a comandar in principalità l'armata d'Italia in luogo del generale Sherer" (87). Ventitré giorni più tardi il console a Genova riferiva che "tra breve giungerà a Savona il Generalissimo Buonaparte stato sostituito al comandante in capite Scherrer". Che il nuovo generale alla testa dell'Armée d'Italie fosse in grado di mietere dei successi, non se l'aspettava nessuno. Il residente a Torino comunicava al senato il 19 marzo che "li continui rapporti che si hanno dalla Riviera dello stato infelice dell'armata nemica, del suo poco numero, della defficienza di magazzini e di provvigioni calmano giornalmente li timori in prima concepiti da questa corte". Ancora a fine marzo Gervasoni ribadiva che alle truppe francesi "manca sempre il necessario" e che quindi era assai improbabile che potessero lanciarsi in un'offensiva (88).
Quando, contro ogni previsione, i Francesi attaccarono e con successo sull'Appennino, né Querini né Gervasoni menzionarono inizialmente la presenza di Bonaparte alla testa dell'esercito francese. In entrambe le corrispondenze fu sottolineato piuttosto il ruolo del commissario di guerra Antonio Cristoforo Saliceti, di cui si scriveva in una lettera allegata dal residente a Torino al dispaccio del 18 aprile che "tutto il Mondovì sarà fra poco in suo potere". Si prese atto, in maniera più o meno precisa, del ruolo di Bonaparte a Genova il 23 aprile, quando Gervasoni riferì che era avanzata verso Ceva "l'ala sinistra dell'Armata Francese forte di 20 mila uomini e diretta da Buonaparte", e a Torino tre giorni più tardi, quando Querini comunicò che il generale Colli, il comandante delle truppe piemontesi, aveva proposto "al Generale Buonaparte" di stipulare un armistizio, quello che sarebbe stato sottoscritto a Cherasco due giorni più tardi e avrebbe permesso ai Francesi di prendere il controllo del Piemonte. La figura del Corso guadagnò un significativo spessore soltanto il 30 aprile, quando Gervasoni illustrò il "colpo giudizioso", che aveva permesso "al Comandante Francese Buonaparte" di "istaccare il Barone Colli dalla posizione in cui si era situato dopo la ritirata da Ceva" e quindi "d'impossessarsi di Mondovì", e presentò il generale come un "uomo ambiziosissimo e gonfio della sua vittoria", che non solo aveva "idee più vaste" di quelle dell'inviato francese a Genova Faypoult, ma che godeva per di più a Parigi di "potenti appoggi onde presumerne la preponderanza" riguardo al diplomatico (89).
Quando l'Armée d'Italie si avvicinò alla Lombardia austriaca, spettò soprattutto al residente a Milano Giovanni Vincenti Foscarini informare Venezia della sua irresistibile progressione. Vincenti adottò un paradigma narrativo analogo a quello utilizzato a Torino da Querini: mentre ricordava nei suoi dispacci i generali imperiali e piemontesi, da Beaulieu a Provera e a Colli, alla testa delle loro truppe, nel caso dei Transalpini continuò a lungo a riferirsi genericamente all'armata francese. Di fatto, fu soltanto a partire dal 14 maggio, vale a dire dopo l'ingresso di Masséna a Milano, che Vincenti citò per nome i comandanti dell'Armée d'Italie. Ma nel frattempo Bonaparte e Saliceti avevano incontrato a Crema Contarini, il primo incontro-scontro tra il generale e i Veneziani era già avvenuto. L'11 maggio duemila Francesi comandati dal generale Berthier si erano accostati alle mura di Crema. Berthier aveva fatto presente al podestà Contarini che "essendo [...] Governatore di questa provincia che appartiene alla Veneta Repubblica amica della Francese e neutrale nella guerra presente credeva che gli fosse permessa l'introduzione e passaggio delle sue armi per questo territorio accennando di volo l'oggetto ed il bisogno che ne aveva nel presente incontro per profligare l'inimico".
Contarini, che non solo era privo di specifiche istruzioni del suo governo, ma che per di più in circostanze analoghe era stato costretto due giorni prima, potendo fare affidamento unicamente su uno "scarsissimo presidio di fanteria e di cavalleria, mancando anche interamente di polvere e di munizioni", ad acconsentire che le truppe del generale austriaco Kerpen attraversassero il territorio cremasco, non poté far altro che prendere atto della situazione, limitandosi a replicare che, "affidato a quella buona corrispondenza che passa tra le due Repubbliche, era persuaso che [Berthier] non avrebbe leso in minima parte li riguardi dello stato di neutralità in cui si attrova il Veneto Governo ed in cui si lusingano questi sudditi di non soffrire alcun danno". Mentre Berthier si era accontentato di vedersi riconoscere il diritto di passaggio e di "chiedere una pronta somministrazione di pane e vino [...] e così pure di fieno", di mettere in moto, cioè, l'infernale macchina delle requisizioni militari, il giorno seguente Bonaparte e Saliceti sfogliarono astiosamente il dossier dei rapporti tra la nuovissima Repubblica democratica e l'antichissima Repubblica aristocratica. "Il General in capite Buonaparte" e "segnatamente" Saliceti esibirono "un tuono alquanto sostenuto e di animo ingombro di mala soddisfazione rapporto alla Serenissima Veneta Repubblica". Tuttavia, stando al resoconto di Contarini, i due corsi recitarono in questa occasione parti diverse, ancorché complementari. Bonaparte "o per naturale tacciturnità o per volontaria dimostrazione di mal umore e forse ancora per stanchezza delle sofferte fatiche stette serio e pensieroso" e, quando prese la parola, lo fece unicamente per acquisire una serie di informazioni utili ad un generale. Invece Saliceti, "sdragiato con sprezzante non curanza nella poltrona su cui se ne stava assiso alla [...] sinistra" di Contarini, affrontò le questioni politiche, dall'ospitalità che la Serenissima aveva concesso fino a poche settimane prima al conte di Lilla alla presenza di molti émigrés nella Dominante, dal passaggio degli Austriaci ai rapporti tra le due Repubbliche. Il commissario aveva anche commentato "le parole d'altri che nominarono la Veneta [Repubblica] amica alla Francese" con una frase ambigua: "dovrebbe esserle amica ma l'interesse l'interesse [...]" (90).
Cinque giorni più tardi lo stesso copione fu ripreso a Milano. Il residente Vincenti aveva presentato al governo veneziano il 14 maggio il proclama emanato da Bonaparte a Cherasco il 23 aprile, in cui, tra l'altro, si annunciava ai "peuples d'Italie" che "l'armée Françoise vient pour rompre vos chaînes" e che di essa avevano da temere unicamente i "tyrans qui vous asservissent", come un "manifesto pubblicato e fatto spargere da Comandanti Francesi prima di sortir dal Piemonte, diretto a qualche tranquillizzazione degli altrui Stati", dando così prova non si capisce bene se di imbecillità o di parzialità nei confronti dei Francesi. Anche Vincenti incontrò Saliceti, che gli ripeté la stessa ramanzina impartita a Contarini, e Bonaparte, che l'accolse invece "con molto graziose, sebben serie forme". Forse il fair play del generale sedusse il residente: quel che è certo è che un elogio incondizionato di Bonaparte uscì pochi giorni più tardi dalla penna di Vincenti, un elogio tanto più curioso in quanto non era stato suggerito da una delle tante vittorie campali del generale, ma dalla repressione dei moti di Binasco, Pavia "e contorni". "Anche in questa occasione", avrebbe scritto il 1° giugno il residente a Milano, "il General in capite Buonaparte" aveva dato "non solo non equivoci saggi di risoluzione, prontezza e valore, ma ancora di plausibili sentimenti di retta giustizia e di umanità, allontanando possibilmente i mali maggiori" (91).
I dispacci di Contarini e di Vincenti furono compendiati da Francesco Lippomano, il suocero del Querini nobile in Francia, in alcune lettere al genero. Il "dialogo" con Saliceti e Bonaparte - i due corsi erano entrambe le volte citati in quest'ordine senza dubbio nella presunzione che il commissario fosse più importante del generale - faceva "melancolia per lo Stato Veneto". Il 6 maggio Querini aveva assicurato il senato "dietro li discorsi che d'alcuno del Direttorio vennero fatti" che poteva "esser tranquillo per li sovrani suoi riguardi" e che non doveva "temere che dall'Armate Francesi non sia per essere esattamente rispettata la sua neutralità e che li di lui sudditi non sieno per mantenersi, com'è di ragione, imuni da tutte le calamità di così disastrosa guerra", "una lusinga di riguardo alla neutralità veneta" che - commentava amaramente Lippomano - i "discorsi" di Saliceti e di Bonaparte, le "circostanze" e i "fatti" che avevano accompagnato e seguito l'ingresso dei Francesi nei Domini marciani si erano incaricati di smentire. "Lo Stato Veneto" era diventato "il teatro della guerra", era "innondato, vessato e sagrificato" (92).
Il 12 maggio, il giorno stesso dell'incontro di Contarini con Bonaparte e Saliceti, il senato aveva finalmente preso atto che la situazione stava precipitando e aveva proceduto alla nomina di un provveditore generale in Terraferma nella persona di Nicolò Foscarini. La "fortuna ed avvicinamento de' Francesi", aveva scritto Lippomano al genero il 30 aprile, "vanno agitando li pubblici consigli e ieri s'è tenuta una consulta di savi usciti ad esaminar se accrescer le forze, se elegger carica estraordinaria in Terraferma, cosa abbia a farsi per istruir e contener i sudditi, e fu deciso di niente ora far". L'irresistibile avanzata francese aveva costretto i savi ad uscire dallo stato comatoso, in cui li aveva precipitati l'improvvisa accelerazione della storia, ma le loro idee erano rimaste quanto mai confuse e incerte. Alla vigilia dell'elezione del provveditore generale, Lippomano aveva informato Querini che tale era l'intenzione dei savi, ma aveva anche aggiunto un eloquente: "a chi? e perché?" (93).
I patrizi più autorevoli quali Pesaro e Valaresso si erano defilati: alla terza votazione il cerino acceso era rimasto nelle mani di Foscarini, vale a dire di colui che in qualità di savio in settimana aveva proposto la carica straordinaria, un tipico prodotto di una selezione del personale di governo imperniata sulle case (era un nipote del celebre doge Marco) più che sugli individui e comunque privo di una qualsiasi competenza militare.
"E perché?". Nel decreto di nomina, che coltivava ancora l'illusione che "le attuali circostanze" fossero "estese" unicamente "in prossimità alli Pubblici Stati", la "mira sovrana" era genericamente indicata nella conservazione della "pubblica tranquillità" e della "disciplina" dei sudditi (94). Quando, il 18 maggio, Foscarini s'insediò a Verona nel suo nuovo incarico, la neutralità veneta era stata ripetutamente violata da Francesi e Austriaci.
Ormai al centro delle sue preoccupazioni erano il "caso di nuovi passaggi di estere truppe e militari concomitanze non che [...] l'occasione di richieste per parte de loro comandanti" (95). Facendo propria la direttiva adottata, con fortune alterne, fin dalla guerra di successione spagnola, il provveditore, che, come avrebbe sottolineato Barzoni, era "senza truppe, senza artiglieria, e senza il potere necessario a sostener decorosamente un ministero, nel quale era raccolta la dignità di un'intiera nazione", tentò di salvare il salvabile, di impedire, cioè, da un lato che i belligeranti occupassero le terre murate e dall'altro che le requisizioni militari pesassero eccessivamente sui sudditi e sulle stesse finanze statali.
Le fragili linee di resistenza abbozzate da Foscarini nella piena consapevolezza che quanto ai Veneziani "l'uso di forza non [era] concedibile dall'odierna situazione di cose" (96) e che, in una situazione fortemente compromessa dallo stato deplorabile di tutte le fortezze (ad esempio, a Verona "non esiste[va] sulle mura una sola garita per collocarvi una sentinella", le munizioni erano scarsissime, i pezzi d'artiglieria erano soltanto quarantadue "in maggioranza senza letti", mentre Chiusa era "mancante di pezzi d'artiglieria e di munizioni di qualunque genere") (97), egli non poteva far altro che cercare di mediare tra le pressioni dei belligeranti e le illusioni del governo lagunare, furono rapidamente travolte su entrambi i fronti. Il 23 maggio un intendente dell'esercito francese chiese che nello spazio di poche ore il rettore di Crema raccogliesse viveri per diecimila uomini e il giorno seguente Bonaparte e Saliceti presero possesso della città, minacciando che, se non avessero ottenuto "le cose domandate e per il tempo accennato, sarebbero [stati] costretti di abbandonare il paese alla militare licenza". Il 26 maggio gli Austriaci occuparono con gran disinvoltura le fortezze di Peschiera e della Chiusa. Quel giorno stesso Foscarini scrisse una lettera a Bonaparte (che valeva anche per Saliceti: di entrambi infatti lodava la "prudente condotta"), protestando contro l'ingresso delle truppe francesi a Crema e i loro "modi violenti" e chiedendo un "pronto riparo alli suespressi disordini" (98).
Furono incaricati di recapitarla al destinatario il colonnello Giovanni Francesco Avesani e il capitano Leonardo Salimbeni. I due militari raggiunsero Bonaparte a Brescia il 27 maggio. Il generale alternò sapientemente il bastone alla carota, la "terribile minaccia" che avrebbe trattato i Veneziani "come nimici" nel caso in cui gli Austriaci non avessero abbandonato Peschiera all'assicurazione che "osserverebbe una perfetta neutralità" e che "voleva render certa la Repubblica Veneta della confidenza e della amicizia che sentiva la Repubblica Francese" (di questo tenore anche il proclama emanato il giorno seguente, in cui si ricordava che una "lunga amicizia unì le due repubbliche" e si prometteva di mantenere "la più severa disciplina" e di pagare "esattamente" tutto ciò che sarebbe stato "somministrato all'armata"). Il fumo delle vecchie e nuove accuse (ricordava che "l'esercito francese chiama[va] lo Stato Veneto il paese del re di Verona" e si lamentava che i Veneziani non si fossero opposti in alcun modo all'occupazione di Peschiera) celava a malapena gli obbiettivi strategici di conservare un pieno controllo militare del territorio veneziano, città murate comprese, e di garantirsi la "prontezza" degli occupati "ad incontrare i bisogni dell'Armata Francese", a sopportare tutti gli oneri della loro presenza.
Tra l'altro le rimostranze relative a Peschiera consentirono a Bonaparte di mettere a nudo la debolezza militare veneziana: "la Repubblica", si giustificarono ingenuamente Avesani e Salimbeni, "non aveva presentemente forze da opporre" agli Austriaci "per aver essa creduto che in questa guerra di un genere nuovo conveniva al suo interesse mantenere una neutralità di un genere differente di quello che ne' casi anteriori era solita di fare, cioè una neutralità disarmata". Infine il generale avvertì gli ufficiali che non era necessario che si recassero, come era loro intenzione, da Saliceti, mettendo in chiaro una volta per tutte che il commissario "non aveva nell'esercito quell'autorità che prima esercitavano i rappresentanti eletti dalla Convenzione e che il politico ed il militare tutto dipendeva da esso lui" (99).
Essendo ritornati Avesani e Salimbeni senza una risposta scritta di Bonaparte, il 30 maggio Foscarini inviò al generale una seconda lettera, affidandola questa volta al tenente colonnello Giacomo Giusti, che incontrò il "comandante in capite" il giorno seguente a Valeggio. Irritato dalla richiesta del risarcimento dei danni recati dai soldati francesi, Bonaparte interruppe a metà la lettura della missiva e aggredì Giusti, dichiarando che la Repubblica francese aveva "due forti motivi [...] di trattar come nimica quella di Venezia", l'ospitalità concessa al pretendente e la cessione di Peschiera agli Austriaci. Esigeva pertanto che lo stesso Foscarini si recasse quella sera a Peschiera, dove aveva fissato il campo dopo la vittoria di Borghetto sugli Imperiali, per giustificare tale comportamento.
Il povero provveditore generale ubbidì all'ordine perentorio del "giovine generale ebbro di ambizione e di gloria": "fu accolto", come avrebbe riferito Lippomano a Querini, "con tutto il disprezzo, e ricevé le dichiarazioni di tutto il risentimento verso li Veneziani che chiamò suoi nemici perché amici di casa d'Austria, perché finti neutrali, e per il trattamento fatto al conte di Lilla, e per gli emigrati, e per l'occupazione di Peschiera, tollerata e non impedita, dagli Austriaci".
Bonaparte affermò "che già dal momento dell'occupazione di Peschiera aveva scritto al Direttorio, da cui fra sette giorni aspettava la formale commissione di dichiarar la guerra e che intanto spediva sul momento il general Massena a gettar bombe in Verona" (100).
La messinscena ottenne il risultato che Bonaparte si era prefisso: la consegna - il giorno seguente, il 1° giugno - di Verona, il perno strategico della Terraferma veneta, ai Francesi senza che questi ultimi incontrassero la minima resistenza. Nelle province occupate dall'Armée d'Italie rimaneva alla Repubblica aristocratica "la sola amministrazione civile a discrezione però de' [...] Comandanti" transalpini. Senza dubbio migliore la situazione nelle aree sotto il controllo imperiale: ma la presa - tra l'altro a tradimento - delle fortezze di Peschiera e di Chiusa aveva fatto capire che anche Vienna rispettava la neutralità veneziana soltanto se e nella misura in cui le faceva comodo. Dall'"occupazione [...] di Verona" era incominciato, come avrebbe scritto Tentori, "il progresso della rivoluzione e caduta della Repubblica" (101).
Nei nove mesi successivi all'ingresso dei Francesi in Verona la situazione rimase, quanto meno in superficie, immutata: la Repubblica marciana si conservò fedele alla politica di neutralità, mentre nella Terraferma investita dai belligeranti si aggrappò a quell'"ombra di sovranità" (102), che le truppe di occupazione le regalavano. Questa - relativa - quiete prima del ciclone finale dipese soprattutto dalla piega che presero in quella fase della campagna le operazioni militari. L'obbiettivo principale dei due eserciti divenne la piazzaforte di Mantova, per Bonaparte l'ultimo ostacolo sulla strada del controllo della pianura padana e per gli Austriaci un caposaldo, che doveva essere conservato a tutti i costi in modo da impedire all'Armée d'Italie di avanzare verso Vienna e in ogni caso di favorire l'avanzata delle armate francesi schierate sul Reno. Gli Imperiali cercarono testardamente di liberare Mantova dall'assedio, allestendo, una dopo l'altra, quattro spedizioni contro i Francesi; tutte e quattro furono sconfitte da Bonaparte, nonostante che le sue truppe fossero sempre inferiori a quelle nemiche. Finché Mantova non cadde, il 2 febbraio 1797, la guerra interessò un'area relativamente limitata, comprendente soprattutto quello che sarebbe stato chiamato, qualche decennio più tardi, il Quadrilatero, nonché la zona prealpina da Bassano a Trento.
In quei mesi le trattative diplomatiche non approdarono ad alcun risultato: il problema fondamentale sul tappeto continuò pertanto a rimanere, quanto meno nel caso della Repubblica veneta, quello del controllo militare del territorio e delle sue risorse. Nei piani strategici del Direttorio era stata inizialmente attribuita un'importanza secondaria alla campagna d'Italia: il fronte principale era sempre stato considerato quello tedesco. Le impreviste vittorie di Bonaparte e lo stallo delle operazioni sul fronte tedesco mutarono in una certa misura le prospettive: l'Italia venne ad acquistare un rilievo notevole sia perché si rivelò una preziosa fonte di risorse finanziarie e di viveri, sia perché si pensò di utilizzare i territori conquistati nella penisola come una moneta da scambiare con l'annessione del Belgio e della riva sinistra del Reno alla Francia. Una linea che tuttavia Bonaparte doveva ῾correggere' introducendo due fondamentali varianti, la cui interazione si sarebbe rivelata esiziale non solo per la Serenissima, ma anche per i governi democratici che nel Veneto sarebbero subentrati alla Repubblica aristocratica: l'istituzione di repubbliche "sorelle" nell'Italia liberata dai "tiranni" e un'intesa con l'Impero, che permettesse alla Grande Nation di conservare una posizione forte in Italia e di proiettarsi in direzione del Mediterraneo centro-orientale.
Quanto al governo marciano, se seppe reagire al trauma dell'occupazione francese di Verona con un fascio di provvedimenti che, con tutti i limiti del caso, potevano consentire alla Serenissima di ricuperare una qualche capacità di incidere sugli sviluppi della guerra in corso ("se più si avesse saputo immaginare più s'avrebbe fatto", avrebbe commentato perfino un testimone poco indulgente come Lippomano) (103), smarrì ben presto la lucidità e la determinazione che aveva momentaneamente ritrovato sotto l'urgenza del pericolo, e riprese a tessere la tela di una politica debole e contraddittoria, anche perché basata su una visione miope del quadro internazionale e interno. Il 2 giugno il senato "richiamò a Venezia tutta l'Armata marittima del Levante", "fu mandato pressantissimo ordine al General in Dalmazia [...] ed al [...] Capitanio a Capo d'Istria per l'arruolamento di truppe" e "create furono due cariche estraordinarie, l'una di Provveditor generale alle lagune e lidi nella persona" di Giacomo Nani e di "Commissario pagador, che fu appoggiata" a Valaresso; infine il savio del consiglio Battagia e il savio di Terraferma Nicolò 1° Andrea Erizzo furono inviati in missione presso Bonaparte allo scopo di "mantenere [la] perfetta corrispondenza fra le due Repubbliche" (104).
La "lunga intervista", che il 4 giugno Bonaparte concesse a Roverbella ai due deputati, permise di mettere a fuoco - grazie all'abilità di Battagia, un personaggio di tutt'altro spessore rispetto a Foscarini, e alla franchezza del generale - un panorama ad un tempo rassicurante e inquietante per l'avvenire della Serenissima. Bonaparte si aspettava che Venezia "manifesta[sse] la lealtà dei suoi sentimenti" nei confronti della Francia, "facendo che niente manchi alla sussistenza dell'armata": il costo della logistica rivoluzionaria, "di un'armata, che" - come spiegava il generale in vena pedagogica - "per accelerare il corso delle sue vittorie, non avendo seco magazzino, né imbarazzi di sorte, doveva trarre la sua sussistenza dai territori sopra de' quali si ritrovava", ricadeva inevitabilmente sullo Stato veneto. Quanto alle "cose politiche", era "intenzione della sua Repubblica di ridonare l'Italia a se stessa, di erigere il Milanese in Stato indipendente come lo era altre volte, aggiungendo che era questo d'interesse della Veneta Repubblica perché veniva con ciò ad assicurarsi di non essere circondata da tropo grandi potenze". Battagia aveva ricavato dalla conversazione la convinzione che Bonaparte "non solo sia dotato di molti talenti anche ne' politici affari, ma che somma sia l'influenza sua nel Direttorio". "Le contraddizioni che risultano tra la condotta di fatto e le espressioni francesi", concludeva il savio, "lascia coltivare lusinga che, se il pubblico erario avrà per un canto a soggiacere a grave sacrificio, per l'altra non saranno compromessi i riguardi concernenti la pubblica tranquillità" (105).
"Pacienza che tutto fosse dinaro", era il commento di Lippomano, che dopo l'occupazione di Verona "ad ogni momento" si era aspettato, sulla falsariga dei cupi scenari tracciati nel 1792 da Valaresso e da Pesaro, "di veder anche l'albero della libertà piantato in qualche città". Ma, nel momento in cui manifestavano il loro sollievo di fronte alla prospettiva che l'occupazione militare francese non dovesse necessariamente generare la rivoluzione, sia Lippomano che Battagia non si rendevano conto che la promessa di Bonaparte di "ridonare l'Italia a se stessa" era una minaccia puntata contro la Repubblica aristocratica: come poteva convivere un Milanese democratizzato sul modello francese con la Serenissima e, più in generale, la nuova Italia alleata alla Grande Nation con una città-stato, che lo stesso antico regime giudicava un anacronismo?
Inoltre la "lusinga di non restar esposti che a sacrifizii cruenti di erario e non d'altri più eminenti riguardi" (106) era malriposta: in realtà la "sussistenza" dell'armata francese e, ancor di più, la sua asfissiante presenza ("immense provvigioni d'ogni spezie", "trasporti giornalieri che occupano centinaia e centinaia di carri, impiego sforzato de' sudditi per travagliare ne' medesimi ed alle fortificazioni"; e poi l'usuale quadro delle violenze militari: gli abitanti colpiti "ne' loro averi, e alcuni nella vita", le donne "sforzate", ecc.) ponevano comunque un problema politico nella misura in cui veniva a incidere pesantemente sui rapporti tra la Dominante e la Terraferma. Non solo "l'ombra di sovranità" marciana non garantiva i sudditi dai soprusi e dalle estorsioni degli eserciti occupanti, ma la "giusta tutela" delle autorità veneziane si risolveva nella paradossale richiesta che non compromettessero con le loro reazioni ai soprusi dei Francesi la "perfetta neutralità" della Repubblica: non stupisce quindi che fin dai primi giorni dell'occupazione "sorde voci e malconosciute figure tenta[ssero] per ogni dove fra il popolo di allontanarlo da quello spirito di moderazione, che singolarmente nelle presenti circostanze si rende[va] necessario" (107).
Il 2 giugno il senato aveva affrontato il problema della difesa della Dominante: nove giorni più tardi fu invitato dai due ex savi di Terraferma Tommaso Mocenigo 1° Soranzo e Alvise 1° Mocenigo a prendere coscienza della "gravità delle circostanze attuali e [delle] future pericolose contingenze della Repubblica sia in rapporto alla Francia che alla Corte di Vienna" e quindi ad abbracciare una politica di neutralità armata anche in relazione al Dominio, "armando la Terra Ferma, elleggendo cariche estraordinarie e fortificando le piazze". Furono i patrizi più vicini a Pesaro, dal savio in settimana Filippo Calbo a Giuseppe Priuli, che convinsero la maggioranza dei senatori (160 contro i 53 schierati con i "due focosi giovani" Soranzo e Mocenigo) a respingere la proposta.
Gli argomenti utilizzati dal ῾partito' di Pesaro ricalcarono in parte quelli che gli avversari del procuratore gli avevano opposto nel 1792 e nel 1 794 (la "grandiosa spesa occorrente", "pericolo e impossibilità di pronte ulteriori deliberazioni"...), ma tennero soprattutto conto della situazione contingente: da un lato "li Francesi [erano] desiderosi di pretestare argomenti a rotture" e le "disposizioni" avrebbero "allarma[to] li sudditi, già per naturale sentimento avversi ai Francesi e per le violenze, che da questi loro si usavano, proclivi a vendicarsi con le armi, lo che avrebbe decisivamente gettata la Repubblica in viva guerra, sempre terribile, ma più nello stato, in cui si trovava di assoluto sprovvedimento di ogni mezzo militare"; dall'altro, le "cose richieste" comportavano "la dannosa distrazione all'urgenti difese, che si sta[vano] approntando in questa Dominante".
Benché Marc'Antonio Michiel, un patrizio che nei mesi seguenti si sarebbe distinto per i suoi interventi accesamente misogallici, avesse sottoscritto la sostanza delle "cose richieste", suggerendo tuttavia che fossero fatte "gradatamente e quanto [fosse] possibile inosservate" (108), in realtà l'11 giugno fu compiuta una scelta strategica, che il senato avrebbe rimesso in discussione soltanto dopo le rivolte di Bergamo e di Brescia. Lo indica, tra l'altro, la decisione di aderire alla richiesta, che Bonaparte aveva avanzato a Roverbella, di essere rifornito di un migliaio di fucili: su suggerimento di Battagia si diede ordine a Foscarini di dargli, "anche con pubblico peso e sotto l'apparenza di privati contratti", quelli dei depositi del territorio veronese, che avevano il vantaggio di avere una "marca [...] facile da cancellarsi" (109). Come gli avrebbe rimproverato Guido Erizzo, il governo aveva "pens[ato] alla difesa della sola Dominante, quasicché un Principe non avesse il preciso dovere di soccorrer tutti i suoi sudditi e che nella conservazione della sola Venezia consistesse la Veneta potenza". A monte della scelta vi era, tra l'altro, il mito di Venezia regina del mare, che avrebbe indotto un patrizio conservatore, quasi certamente Giuseppe Priuli, a scrivere che Venezia "città marittima e commerciante non può esistere senza l'oltremare, come lo può senza la Terraferma" e lo stesso Pesaro ad affermare che "la grandezza della Veneta Nazione" era "unicamente appoggiata" alle "forze marittime" (110).
Tra gli avversari di Soranzo si era collocato Lippomano: "si vorrebbe che fosse fatto uso delle disposizioni de' nostri sudditi, commossi li Bergamaschi, li Bresciani, ma qual sicurezza dalle masse popolari lasciate sole e qual effetto e perché li Veneziani debbono fare quello che non hanno fatto gli altri, e coll'esito che si vidde dove sono succedute?". La Serenissima vedeva che tutti "gli altri", gli Stati e i popoli della penisola, erano stati sottomessi da Bonaparte con le buone o con le cattive: in ogni caso le "masse" rurali, ancorché benintenzionate, erano dei soggetti politici sospetti agli occhi di una classe dirigente formata da proprietari terrieri. Di qui una politica schizofrenica, che promuoveva la neutralità armata nella Dominante e la neutralità disarmata in Terraferma - dove Battagia, che prima aveva affiancato e poi sostituito Foscarini quale provveditore generale, recitava in effetti la parte, come scriveva Lippomano, di "Provvisioniere de' Francesi" - e che non sapeva bene se indirizzare i meccanismi della finanza di guerra, che aveva messo efficacemente in moto sull'onda della mobilitazione ῾patriottica' di giugno, verso il riarmo della Repubblica oppure il mantenimento delle truppe d'occupazione (111).
A Venezia Nani presentò il 9 giugno un piano di difesa, che riprendeva le linee essenziali di un'opera, intitolata appunto Della difesa di Venezia, che aveva redatto nel corso della guerra dei Sette anni e aggiornato intorno al 1770 (112). Ma, mentre quarant'anni prima aveva puntato sulla guerra - o, meglio, sulla guerriglia - di popolo, vale a dire su una mobilitazione della popolazione veneziana e sulla costituzione di una flottiglia, che assicurasse il controllo della laguna, nel 1796 affidò la tutela della città alle truppe di mestiere e alle milizie frettolosamente arruolate in Dalmazia e Istria. Il provveditore alle lagune dovette fare i conti con una situazione largamente compromessa: non mancavano certamente i cannoni, ma moltissimi tra essi erano antiquati, mentre nei depositi veneziani i fucili erano circa venticinquemila e le pistole - quasi ottomila - risultavano alquanto difettose (113). Quanto agli uomini, in agosto sarebbero saliti, sulla carta, a più di novemila: ma soltanto quattromila di essi erano considerati da Nani sufficientemente addestrati (114).
Nani non si limitò ad organizzare la difesa della Dominante. Chiese anche "la riduzione del corpo militare che presentemente si attrova in servizio nel riparto d'Italia in una vera forza attiva" - un obbiettivo che si cercò di raggiungere con la giubilazione degli ufficiali più anziani (furono congedati otto colonnelli, ecc.) (115) - e soprattutto invitò il governo a chiamare alla testa dell'esercito veneziano uno sperimentato generale forestiero. È evidente che Nani non condivideva la linea politica che aveva condotto alla sua nomina. In una delle sue prime scritture al senato si dichiarò "mortificato [nel] vedere che [...] siano VV.EE. ridotte a pensare alla difesa del solo estuario, senza osare di rivolgere il pensiero neppur una linea fuori del medesimo". "La pratica di questo secolo", ammonì i suoi colleghi, "mostra che nessun Principe può possedere alcuna provincia, se non quando colla forza possa difenderla [e] che i titoli di antica prescrizione di tempo", perfino quelli garantiti da quattordici secoli di storia, "nulla vagliano e che il potere difenderli è il solo principio, che regna nella presente guerriera giurisprudenza" (116): in altre parole, se si voleva conservare una sovranità che non fosse soltanto nominale sulla Terraferma, bisognava adeguatamente armarla.
Le richieste del provveditore alle lagune caddero in gran parte nel vuoto. Il tentativo di affidare l'esercito veneziano al principe di Nassau fallì a causa dell'opposizione dei savi, che proteggevano il sergente generale di battaglia Antonio Stratico, e soprattutto del veto di Vienna (117). Quanto al riarmo della Terraferma, nonostante che la questione fosse riproposta più volte direttamente o indirettamente all'attenzione del senato (si vedano, tra gli altri, i tentativi di Filippo Nani, Marc'Antonio Michiel, Marco Barbaro...) (118), i savi continuarono imperterriti lungo la strada imboccata l'11 giugno. L'unico, significativo strappo a questa politica fu quello, importante in prospettiva più che nell'immediato, relativo al Bergamasco, dove tra luglio e agosto "tutta intera la Provincia", secondo il locale rappresentante veneziano, "implor[ò] l'assenso sovrano di preparare in una sollecita robusta difesa, la sicurezza a sé stessi e la tutela della felice costituzione loro sotto il Veneto adorato Dominio" e dove gli inquisitori di Stato si preoccuparono di pianificare, sulla carta, un "grande ed arcano oggetto", che in effetti interessò soprattutto le vallate alpine (119).
Mentre gli inquisitori agivano nell'ombra, ponendo le premesse della sollevazione legittimista del marzo 1797, Bonaparte consolidava alla luce del sole il suo controllo della Lombardia veneta e del Veronese, occupando Legnago e la linea dell'Adige, costringendo il governo veneziano a rimpiazzare a Verona i reggimenti schiavoni, che erano ritenuti particolarmente ostili ai Francesi, con i reggimenti italiani e collocando con pretesti e in tempi diversi guarnigioni transalpine nei castelli di Verona, Brescia e Bergamo. Queste "opportune disposizioni" - avrebbe spiegato lo stesso Bonaparte a Battagia il 23 luglio a Desenzano - erano state prese "non tanto per ridurre inutili tutti gli sforzi degli Austriaci", "ma per essere in istato di farsi padrone di tutta la Veneta Terra Ferma" in modo da poter "levare" direttamente "delle contribuzioni pesantissime". In questa occasione il generale protestò anche violentemente contro "l'armo estraordinario che si faceva a Venezia", che aveva dato "un impulso tale a tutta la popolazione di Venezia e dello Stato da farla divenire a Francesi avversa" (una parzialità che avrebbe avuto modo di emergere ancora più chiaramente nei giorni successivi in seguito ad alcuni limitati successi degli Austriaci) e minacciò di dichiarare guerra alla Serenissima nel caso in cui "le forze militari in Venezia" non fossero state rimesse "sul piede ordinario" (120).
Se Bonaparte agitava il bastone, era anche perché in quelle settimane la Francia stava sviluppando una manovra a largo raggio tendente a far aderire Venezia ad una quadruplice ῾mediterranea' composta anche dalla Spagna e dall'Impero ottomano (121). Nonostante che Battagia avesse spezzato una lancia a favore dell'intesa con i Francesi in un dispaccio del 21 agosto, i savi decisero il 27 agosto di non dare alcun seguito a tali avances. Un mese più tardi la Francia ripropose formalmente, mediante una memoria di Lallement, un patto di alleanza: l'8 ottobre i savi fecero votare dal senato un decreto, che chiudeva la porta a qualsiasi trattativa. La guerra, che l'alleanza con Parigi avrebbe inevitabilmente scatenato, era giudicata "assolutamente insopportabile al Senato per li paterni suoi sentimenti verso i propri Sudditi, per la costituzione fisica e politica delli suoi Stati, e per la sicurezza della nazionale Navigazione, colle funeste conseguenze di sconvogliere le basi del proprio Governo" (122). Ancora una volta la preoccupazione di non "sconvogliere le basi del proprio Governo", di un regime che si riteneva costituzionalmente inadatto alla guerra, s'era imposta a spese di una formulazione del rapporto con "i propri Sudditi", che andasse al di là dei giulebbosi "paterni suoi sentimenti"; ancora una volta era stato ignorato l'avvertimento di Battagia che era "assai difficile che l'eccellentissimo Senato, attesa la posizione degli Stati suoi, sia per restare distaccato dal politico vortice, governandoli come da lunghissimi anni ha potuto fare" (123).
All'indomani del rifiuto veneziano di aderire alla proposta francese, il progetto di piantare l'albero della libertà anche in terra di San Marco prese piede sia presso gli ufficiali dell'Armée d'Italie che negli ambienti governativi di Parigi. Nell'ultimo scorcio del 1796 da più parti fu avanzato l'auspicio di una sollevazione di tutta o di una parte della Terraferma, che permettesse - come scriveva il capo di brigata Marie-Jean Beaupoil Saint-Aulaire al ministro degli esteri Charles Delacroix il 19 ottobre - "de renfermer dans ses îles [la république] de Venise". "Rien ne nous empêche [...] de favoriser sans éclat les généreux efforts que ces peuples" (in precedenza erano stati evocati gli abitanti di Bergamo, di Brescia e di Verona) "tenteraient pour recouvrer leur liberté", erano le istruzioni che lo stesso Delacroix dava il 17 novembre al generale Henri-Jacques-Guillaume Clarke, che era stato incaricato dal Direttorio di trattare la pace con l'Impero e di mettere meglio a fuoco la politica italiana della Francia; si riteneva che una volta "admis dans la république lombarde ou devenus ses alliés, ils lui donneraient une force nouvelle" (124).
Una decina di giorni più tardi un aiutante generale di Bonaparte, Victor-Emmanuel Leclerc, ricordò a Battagia che "il Governo Veneto per la sua vecchiaia era debole e che avea bisogno di riforma" (125), una minaccia, forse, più che un invito alle autorità veneziane a dare un nuovo assetto (federale? democratico?) al regime. Ma nelle lagune l'ipotesi di una qualche riforma non fu neppure discussa, così come quando, il 27 dicembre, Querini riferì da Parigi agli inquisitori di Stato che l'ambasciatore prussiano gli aveva prospettato un'alleanza tra la sua corte e Venezia con l'obbiettivo di "metter freno a quelle viste ambiziose, che la Casa d'Austria potesse dirigere contra l'incolumità ed integrità delli Veneti Possessi", il magistrato gli ordinò di evitare di informare della proposta il senato (126).
È assai probabile che all'epoca Vienna vedesse con favore il piano di cedere il Belgio in cambio dell'intera Lombardia, compresa quella veneta: quel che è certo è che il 16 gennaio 1797 il Direttorio incluse tale ipotesi nelle istruzioni destinate a Clarke (127) e che nove giorni più tardi Querini comunicò agli inquisitori, che a loro volta informarono i savi, che Parigi "permetterebbe all'Imperatore di compensarsi [...] sopra tutte quelle Provincie, che oltre la Lombardia gli potessero in Italia convenire", comprese quelle soggette "al Veneto Dominio" (128). Anche questa volta il governo veneziano non reagì affatto ad un'agghiacciante notizia accreditata anche da altre fonti.
L'unico provvedimento che la Serenissima tentò di prendere, su iniziativa di Pesaro, fu quello di varare il 25 febbraio "un piano di mantenimento alle truppe francesi", un progetto che - gli avrebbe rimproverato Piero Donà - "si comprometteva con la Corte di Vienna ed esponeva l'esausto erario ad enormi pesi" e che sarebbe stato bocciato dai quattro quinti dei senatori (129), una maggioranza che, a partire dallo stesso Donà, non appare affatto connotata in senso filoasburgico (130) quanto piuttosto ancora testardamente aggrappata al talismano della "perfetta neutralità". Nel frattempo la vita veneziana rispettava le feste tradizionali: "qui siamo immersi nello strepito del Carnovale. È una compiacenza il veder questo popolo", commentava Lippomano in quei giorni, "quasi non vi fosse alcuna disgrazia e tutto andasse felicemente" (131). Poche settimane più tardi la crisi voltava pagina: in seguito alla rivolta della Lombardia veneta la "disgrazia" prendeva la forma di una vera e propria catastrofe.
"Cadde Mantova [...] e Venezia si trovò trasportata di slancio all'orlo del precipizio che aveva avuto agio di contemplare più mesi in qualche distanza", avrebbe riassunto pochi mesi più tardi l'agente piemontese a Venezia Carlo Bossi (132). In realtà il rapporto tra gli sviluppi della guerra e il disfacimento del Dominio veneziano in Terraferma non fu così automatico. Senza dubbio l'irresistibile progressione dei Francesi in direzione di Vienna contò parecchio, anche se non va dimenticato che Bonaparte sconfisse gli Austriaci nella decisiva battaglia del Tagliamento il 16 marzo, vale a dire dopo l'insurrezione di Bergamo. In ogni caso non sembra che prima della conclusione di un armistizio con gli Austriaci il generale in capo dell'Armée d'Italie abbia pianificato, facendo leva sulla tenaglia della democratizzazione della Terraferma e dell'intesa spartitoria con Vienna, la caduta della Repubblica marciana. Le rivolte della Lombardia veneta furono certamente favorite da una regia francese (anche se le sue memorie vanno prese con le pinze, il deus ex machina fu, a quanto pare, Jean Landrieux, un aiutante generale che dirigeva un ufficio segreto creato da Bonaparte a Milano all'indomani della conquista della Lombardia austriaca), ma seguendo una logica, che in ogni caso teneva conto più dei desideri dei rivoluzionari italiani che di quelli dell'armata transalpina, più degli obbiettivi politici che del contesto militare.
Come ha scritto Xavier Tabet nella sua brillante thèse de doctorat su 1797. La chute de la République de Venise. L'événement et ses récits, "les municipalisations étaient autant des provocations que des moyens de contrôler le territoire" (133). Era senza dubbio nell'interesse di Bonaparte creare, prima o dopo, un casus belli con Venezia che gli permettesse di impadronirsi dei Domini marciani di diritto oltre che di fatto. Tuttavia è anche vero che, mentre era ancora in corso la guerra con l'Austria, era piuttosto rischioso aprire nelle retrovie un secondo fronte: se l'esercito regolare veneziano (meno di venticinquemila uomini, compresi diecimila miliziani) non destava una particolare preoccupazione, le masse popolari rimaste fedeli alla Serenissima potevano rivelarsi un pericolo nient'affatto trascurabile. Tanto più che la marcia delle truppe francesi in direzione dell'Austria aveva indotto il governo veneziano ad abbozzare la mobilitazione di alcune "pattuglie villiche" dirette da drappelli di cavalleria allo scopo di limitare i danni, che potevano provocare soprattutto i militari sbandati (134).
Le rivolte di Bergamo (12-13 marzo) e di Brescia (17-18 marzo) furono pianificate da Landrieux e dal comitato segreto di Milano senza che Bonaparte avesse dato, a quanto pare, ordini precisi in proposito, ma sempre nel quadro della strategia ῾rivoluzionaria' approvata dal generale in capo. In particolare nel caso di Bergamo sembra che l'equivoco Landrieux, uno che cercava di farsi dare denaro da tutti, dagli inquisitori di Stato come dai patrioti lombardi, comunicasse a Ottolini, il locale rappresentante veneziano, una lista di sospetti ῾giacobini' in modo da costringere questi ultimi ad uscire allo scoperto: fu comunque determinante, come avrebbe ammesso l'autore dell'Histoire de la Révolution de la République de Venise, il ruolo del comandante del presidio francese che indusse o costrinse i deputati bergamaschi a sottoscrivere una dichiarazione d'indipendenza dal dominio marciano (135). Quanto al retroterra sociale della rivolta, può valere in larga misura per Bergamo il quadro sommario tracciato dall'ingegnere Simon Vidali a proposito di Brescia: il popolo "istupidito e silenzioso nella massima parte, e non pochi fra esso vi sono ancora fautori del Veneto Governo, ma che temono di palesarsi. Il mercadante è indolente e specula solo i propri vantaggi. Il nobile per la maggior parte gioisce sperando minori gli aggravi nel nuovo Governo" (136).
L'"avvenimento mostruoso di Bergamo" (137) ruppe anche a Brescia le fragili dighe di un consenso logorato non tanto dalla diffusione delle idee democratiche quanto dalla manifesta incapacità della Serenissima di tutelare i propri sudditi. Come avrebbe enfaticamente sottolineato Balbi, Venezia aveva dissipato nell'arco di pochi mesi un grande patrimonio di credibilità politica. "La Veneta Terra-Ferma e la popolazione stessa della Dominante consideravano la loro schiavitù come il loro stato di natura. In ogni novità vedevano il loro naufragio". Ma "il Senato [era stato] sempre sordo" di fronte alle grida di dolore della Terraferma: "questa diffidenza sulla magnanimità di una Nazione, che chiamata dalla promiscuità dei pericoli avrebbe trascurata ogni recriminazione, la indispose contro il Governo". Non solo "il Senato oppresse la Terra-Ferma in cento maniere" ("contribuzioni sforzate, votive, imposte, foraggi, mantenimento alle truppe forastiere di due possenti nazioni"), ma per di più le armi "comprate e mantenute con il [...] sangue" della Terraferma erano state "concentra[te] nella Capitale e disperse nelle Lagune si impiegarono alla difesa della sede del Governo". "Qual fu la disperazione e lo sbalordimento del continente", "quando scoperse che il prezzo de' suoi sacrifici o volontari o coati era convertito in tutt'altro oggetto che a quello della sua difesa": non ci si doveva meravigliare se "l'uomo" - nella fattispecie soprattutto il nobile lombardo - "per quanto [...] avvilito dall'abitudine della schiavitù si [fosse] precipita[to] con trasporto a baciar la destra che spezza[va] le sue catene" (138), si fosse schierato, in altre parole, con i Francesi.
Quanto al governo veneziano, la gravissima congiuntura mise a nudo tutti i suoi limiti. Gli inquisitori non furono in grado di prevedere lo sviluppo degli eventi. Le autorità locali - Ottolini a Bergamo, Battagia a Brescia - furono facilmente travolte da un'onda rivoluzionaria nient'affatto irresistibile. Certo, le truppe a disposizione erano poche (seicento "individui militari" a Bergamo, sette-ottocento a Brescia) (139) e per di più prive di cannoni. Inoltre i castelli erano in mano ai Francesi. Ma anche i ῾giacobini' erano poche centinaia, mentre l'appoggio dei Transalpini ai ribelli forse non sarebbe stato così determinante, se i rappresentanti veneziani avessero opposto una ferma resistenza. Invece entrambi ritennero ben presto che "gli espedienti tutti" fossero - come scriverà Ottolini - "o come inutili, o come fuori di tempo, o senza alcun fondamento estremamente azzardosi" e che quindi fosse "forza il piegare"; entrambi s'illusero che l'"incendio" fosse "parziale" (140).
Battagia, che in questa occasione rivelò tutte le insufficienze di una selezione della classe politica veneziana basata unicamente sulle capacità di mediazione e di rappresentanza degli ῾ordini' del patriziato, arrivò a scrivere al senato poche ore prima della rivolta di Brescia che "l'esempio di Bergamo non è molto seducente, regnandovi nella maggior parte, trattane l'infima plebe sempre amante di novità, la confusione e lo squallore per il nuovo ordine di cose" e che, in ogni caso, "ogni movimento non sarebbe effetto che di zelo animoso e di fede, pure inopportuno alle circostanze" e che quindi aveva esortato i sindaci del territorio a "contenere i villici in quel buon ordine ch'è delle pubbliche massime" (141). Una capitolazione che a posteriori avrebbe giustificato con "la freddezza" dei deputati della città e, in genere, della locale "classe potente" di fronte "al pericolo d'essere sottratti al dolce Dominio Veneto": anche se "qualche tratto di efficace fedeltà appariva da parte de' Sindici del Territorio, [...] senza la base degli abitatori" di Brescia "con una cooperazione resa quasi certa dei Francesi, non si saria fatto altro che spargere inutilmente del sangue"; "quanto alle valli era un esporre a certo sagrifizio i loro abitatori, i quali anche volenterosi niente avrebbero potuto conseguire senza artiglieria, senza truppa regolata, che le sostenesse, senza condottieri" (142).
A Venezia le rivolte della Lombardia veneta suscitarono il panico. Lippomano scrisse a Querini il 15 marzo, comunicandogli la notizia della democratizzazione di Bergamo: "poveri noi. È deciso pur troppo", e otto giorni più tardi, dopo la rivolta di Brescia: "io temo tutto andato, e Terraferma e Dio non voglia la Dominante" (143). I savi, presieduti in quella settimana dall'incolore Alessandro 1° Marcello, reagirono "a tanta vicissitudine di cose" con provvedimenti scontati (vive proteste nei confronti del governo e dei comandi militari francesi: fu deciso di inviare Francesco Pesaro e il savio di Terraferma Giambattista Corner in deputazione presso Bonaparte con il mandato di chiedergli un "pronto riparo") e in larga misura rituali (conferma della fiducia negli inquisitori, "il più valido fondamento per l'allontanamento di quelle disgrazie, dalle quali vengono minacciati egualmente li sudditi ed il governo", e in Battagia, nonostante che i dispacci di quest'ultimo indicassero che aveva perso la testa e nonostante che gli inquisitori si fossero rivelati un assai debole argine antirivoluzionario; un contraddittorio invito a Nani ad attivarsi per l'"esenziale difesa" di Venezia, ma anche a fornire truppe da inviare in Terraferma) (144).
Fu soltanto dopo che "li temuti fatali progressi della rivoluzione" si erano estesi a Brescia che i savi e il senato s'impegnarono, anche se in maniera confusa e incerta, in un dibattito a tutto campo sulla politica della Serenissima. Quattro i problemi principali al centro della discussione, l'uno strettamente intrecciato o correlato con l'altro: la scelta di campo internazionale, la questione della Terraferma, la riforma del regime e la difesa della Dominante. Almorò 1° Alvise Pisani, il successore di Marcello alla testa della consulta, si mosse con una certa determinazione e lucidità sul piano tattico, ma non riuscì a far adottare dal senato una linea strategica, che consentisse di sistemare in un insieme coerente tutti gli elementi del puzzle. Come era avvenuto agli inizi del giugno 1796, Pisani puntò su una mobilitazione patriottico-militare, che tuttavia questa volta non fu circoscritta entro il perimetro lagunare. A Pesaro si chiese di strappare a Bonaparte la promessa di neutralizzare le truppe francesi, che stazionavano nei territori marciani, "onde resti libero il campo al Senato di prendere senza compromissione le misure necessarie a rimmettere la pubblica tranquillità" (145).
I "pubblici rappresentanti capi di provincia", cui fu genericamente promesso un "qualche rinforzo di truppe", furono invitati a sollecitare manifestazioni di fedeltà alla Serenissima da parte dei "corpi" sudditi e a chiamare, appoggiandosi al clero, le popolazioni alla difesa del "buon ordine" contro le mene dei "mal intenzionati" (146). A Nani si ordinò di "mettere in vigile costante esercizio di custodia" l'estuario e "l'interno stesso della Città": fu costituita una rete di presidi nella Dominante e le pattuglie civiche furono inviate di ronda anche di giorno (147). Ma qual era la meta di questa mobilitazione? "Rimmettere la pubblica tranquillità" nella Lombardia veneta - e quindi puntare alla riconquista di Bergamo e di Brescia - oppure proporsi unicamente di cercare di arrestare i "progressi della rivoluzione"? Che fare, in ogni caso, se i Francesi si fossero rifiutati di lasciare "libero il campo" al senato? La questione chiave diventava quella del controllo di Verona, sotto ogni aspetto il perno strategico del Dominio di terra. Il 20 marzo si discusse se la difesa della città scaligera dovesse essere "prudente", come suggerivano Pisani e gli altri savi, vale a dire prevedesse la possibilità di "resistere con la forza" soltanto nel caso in cui "non constasse la cooperazione e l'intervento dei Francesi", oppure "assoluta", come chiedevano Angelo 1° Giacomo Giustinian Recanati e molti altri senatori, e quindi eventualmente rivolta anche contro i Transalpini.
Pur respingendo la proposta di Marc'Antonio Michiel di prevedere a chiare lettere nella ducale quest'ultima ipotesi, i tre quarti dei senatori votarono a favore dell'"assoluta difesa". Due giorni più tardi fu deciso di inviare, nella persona di Andrea Erizzo, un esponente dell'ala intransigente, un provveditore straordinario a Vicenza (ma la sua competenza si estendeva anche sulle province di Padova, Rovigo e Bassano). Nello stesso tempo gli si legò le mani con un mandato che rovesciava la linea politica del 20 marzo: fu infatti approvata con 118 voti a favore e 80 a vario titolo contrari una ducale, che prescriveva ad Erizzo di "mantenere il buon ordine e prevenire e ripulsare gl'arditi attentati de' facinorosi, che venissero a turbarlo", ma "senza esporre codesti fedelissimi sudditi a un certo sacrificio" e "sempre che [non ci fosse] per parte di Francesi un'attiva cooperazione".
I savi transigenti avevano ripreso il controllo del senato grazie ad un intervento di Sanfermo, che Battagia aveva inviato da Verona per illustrare una situazione militare della città che il provveditore generale in Terraferma riteneva quasi disperata. Nonostante l'opposizione di Michiel e di Erizzo, il senato decise che anche la difesa di Verona doveva essere "prudente". Ma la navigazione a vista della maggioranza dei savi fu rimessa in discussione da un "eccitamento" di Andrea Dolfin a favore di una svolta strategica. Se si desiderava "la possibile preservazione e sussistenza della Repubblica", bisognava, a detta dell'ex ambasciatore, da un lato "legarsi con la Francia, le di cui forze tanto prevalevano sull'altre Potenze" e dall'altro, "per tentare di consolidare la fede e l'attaccamento della suddita terra Ferma non rivoltata ed anche il ricupero di quella infelicemente mancata al Governo", "verific[are] il piano immaginato e scritto di commissione pubblica dal fu marchese Scipione Maffei [...] cioè l'associazione degl'individui delle provincie della Terra Ferma al Governo della Repubblica".
Nonostante che Piero Donà, il portavoce della maggioranza dei savi, invitasse il senato a respingere l'"eccitamento", facendo presente, tra l'altro, che il regime "poteva ricever un urto rapido dalle spinosità, che si sarebbero frapposte nello spedire l'argomento, tutto dipendente dal Maggior Consiglio, trattandosi di alterare la costituzione vigente", la mozione fu approvata, nella votazione finale, dai tre quinti dei senatori. È evidente che in questo caso i savi, sapendo bene che la proposta di venire a patti con la nobiltà suddita sarebbe stata fortemente osteggiata da una ῾base' patrizia timorosa di perdere, in seguito al cambiamento di regime, i privilegi economici che le derivavano dall'appartenenza al ceto di governo, scelsero tra i due mali (la progressiva alienazione della Terraferma e una crisi radicale del consenso della ῾plebe' aristocratica) quello che consideravano il minore (148).
Ma i savi vollero evitare di scendere nell'arena del maggior consiglio anche allo scopo di conservare la tradizionale gestione centralistica del potere. Non solo l'assemblea generale del patriziato fu messa al corrente soltanto all'ultima ora degli sviluppi della situazione politico-militare (come avrebbe accusato Balbi, ancora una volta collocandosi parecchio sopra le righe, "il dispotismo [...] aveva per tal modo assorbito ogni potestà e per tal modo coperta del velo spergiurato del mistero, che tutto il Maggior Consiglio dodici giorni prima di esser distrutto ignorava la perdita della Terraferma e la procella, che lo minacciava") (149), ma, come si è visto, lo stesso senato fu tenuto "più volte all'oscuro del vero e genuino andamento degli affari" e "deluso più volte nella esecuzione de' suoi più essenziali decreti" (150).
Il 22 marzo la maggioranza dei savi deluse il senato "nella esecuzione" in questo caso non di un decreto "essenziale", ma di una ancora più essenziale linea politica in quanto non diede alcun seguito sia all'"eccitamento" di Dolfin che ad un invito di Ruzzini, anch'esso approvato dall'assemblea, di "dilatare" le commissioni, di cui erano stati muniti sette giorni prima Pesaro e Corner, "onde tentare un maneggio al generale" Bonaparte (la trattativa doveva essere condotta a tutto campo e - aveva fatto capire il savio del consiglio uscito - non doveva escludere neppure l'"alterazione della costituzione del governo", un'"alterazione" che probabilmente andava nella stessa direzione indicata da Dolfin) "e così preservare la Repubblica" (151). Di conseguenza Pesaro, quando il 24 marzo incontrò Bonaparte a Gorizia, poté tranquillamente lasciar cadere il suggerimento del generale che la Serenissima imitasse il re di Sardegna (si era alla vigilia della conclusione di un'alleanza difensiva tra la Francia e lo Stato sabaudo), vale a dire "stringe[sse] maggiormente li rapporti con appositi legami" con Parigi (152). In tal modo la Venezia aristocratica gettò al vento l'ultima chance concessale da Bonaparte di salire sul carro dei vincitori. Come è ovvio, l'offerta del generale non era stata dettata né da una qualche simpatia per la Repubblica marciana, né da una generosità d'animo: in effetti, era la difficile congiuntura bellica che suggeriva a Bonaparte, che aveva ben presenti i rischi a cui lo esponeva l'avanzata in direzione di Vienna, di garantire nel breve periodo la sopravvivenza a quella parte dell'antico regime italiano (dal re di Sardegna al duca di Parma, dalla Serenissima e, perché no?, allo stesso papa), che avesse accettato la tutela francese e si fosse conseguentemente schierata contro l'Austria.
Una volta ritornato a Venezia, Pesaro riprese il pieno controllo della situazione. Il procuratore "cercò di sparger de conforti sulle intenzioni del Buonaparte e si mostrò fermo in creder che col dinaro tutto abbia a finire e che s'abbiano a ricuperar le provincie perdute, non alterar il governo e aver la nostra tranquillità" (153). Il 27 marzo Battagia, il maggior esponente dell'ala transigente, venne eletto avogador di comun e quindi di fatto privato della carica di provveditore generale in Terraferma. Tre giorni più tardi Pesaro fece approvare dalla maggioranza dei senatori (116 i voti a favore, 85 i contrari, tra i quali ultimi Francesco Donà e Andrea Dolfin) la "corrisponsione di mensuali ducati 250.000" a Bonaparte per sei mesi nonché, di fatto, la cancellazione dei debiti contratti dai Francesi con Venezia in cambio della sua acquiescenza alle "provvide cure del Senato" dirette a "ristabilir [l'ordine e la quiete] nelle [province] traviate", un provvedimento giudicato alternativo ad una "lega con la Francia", che necessariamente avrebbe fatto scendere la Repubblica "in guerra con la casa d'Austria e con l'Inghilterra" (154).
Il 1° aprile su sollecitazione di Pesaro il senato bocciò, con 109 voti a favore del procuratore e 66 contro, la richiesta dei savi, illustrata da Marcello e da Dolfin e appoggiata da Francesco Donà, di inviare a Bonaparte dei deputati per un "verbale colloquio", che doveva condurre alla firma di un trattato. Fu invece approvato l'invio di una lettera scritta da Pesaro al generale francese, in cui si precisavano i termini del baratto - denaro contro complicità politico-militare - che secondo il miope procuratore doveva rimettere le cose a posto sia in Italia che a Parigi (si veda, a quest'ultimo proposito, il dispaccio di Querini dell'8 aprile e i successivi sviluppi dell'affaire Barras). Al posto di Battagia fu eletto provveditore straordinario a Verona Giuseppe Giovanelli, mentre a Giustinian Recanati fu affidato il medesimo incarico riguardo al Friuli, al Bellunese e al Trevigiano (155).
Incapace di abbandonare un conservatorismo costituzionale a ventiquattro carati, la Repubblica marciana perseguiva sotto la leadership di Pesaro una complicata e contradittoria strategia politico-militare di difficilissima orchestrazione, la cui chiave di volta era data dall'illusione del procuratore che si potesse comperare da Bonaparte il via libera alla repressione degli "insorti democratici". Mentre i rapporti con la Francia continuavano a correre sui binari della neutralità disarmata, Venezia non cessava di rafforzare le difese della capitale e, soprattutto, armava le vallate e le campagne del Bergamasco, del Bresciano e delle province venete prossime alla Lombardia con l'obbiettivo di riconquistare le città ribelli o, quanto meno, di "impedire li progressi dell'epidemia rivoluzionaria". Un assurdo e devastante equilibrio tra la moderazione dei sudditi nei confronti dei Francesi e la loro mobilitazione ideologica contro i fiancheggiatori ῾nazionali' dei Transalpini, tra la pace con gli esteri e la guerra civile, che sarebbe andato rapidamente in pezzi sotto la spinta dei ῾giacobini' lombardi secondati, se non diretti, dai servizi segreti dell'Armée d'Italie e, soprattutto, dall'intesa ancien régime tra la Francia e l'Impero, che sarebbe stata sancita formalmente a Leoben il 18 aprile, ma che era da mesi all'orizzonte e di cui l'armistizio di Judenburg era stato il primo passo.
"Lo Stato posto in guerra fra sé" (come definì Lippomano la mobilitazione militare della Terraferma fedele alla Dominante contro i ῾ribelli') (156) recitò un copione estemporaneo, in cui si mescolarono tragedia e farsa, episodi epici e pagine grottesche, esplosero contrasti e contrapposizioni di ogni tipo, politico ed economico, sociale e ideologico (i territori contro le città, le classi popolari - soprattutto delle campagne e delle vallate alpine, ma anche, ad esempio a Verona e a Venezia, quelle urbane - contro i possidenti ῾giacobini', il clero ῾zelante' contro il clero ῾progressista', ecc.). La guerra civile fu combattuta da Venezia alla luce di un modulo militare assai singolare, per tanti versi arcaico (furono soprattutto i condottieri delle genti d'armi - un curioso reperto rinascimentale - che guidarono le truppe marciane nel Veronese; in questa provincia "la principal direzione dei militari apparecchi" fu affidata da Battagia all'anziano generale Dinadamo Nogarola, un conte veronese al servizio dell'Elettore di Baviera) (157), ma anche nello stesso tempo, nella misura in cui ricalcava, mutandola di segno ideologico, la guerra di popolo di matrice rivoluzionaria, sorprendentemente moderno. Le truppe veneziane, che si batterono contro i ῾giacobini' e i loro fiancheggiatori, furono al pari di quelle francesi del 1793 il frutto di un amalgama tra militari di professione (nel caso dei veneti pochi ufficiali di cavalleria) e masse di volontari (che furono per lo più inquadrati facendo leva sull'organizzazione delle cernide, le milizie contadine) che ebbe i suoi commissari politici nei rappresentanti veneziani, adottò, come i nemici, una coccarda ("blu e gialla" la "gloriosa insegna del veneto governo") (158), più in generale fu spesso animato da entusiasmi e passioni (difesa della famiglia, della casa, dei campi, della religione, ecc., vendetta contro i Francesi devastatori: incise in misura certamente inferiore la vera e propria ideologia ῾marchesca') che non erano patrimonio del comune soldato di mestiere.
La ῾campagna' di Terraferma dei Veneziani si prolungò per poco più di un mese e attraversò quattro fasi: 1) lungo gran parte di marzo la mobilitazione legittimista, che pure riuscì a schierare in pochi giorni nelle valli e in genere nei territori decine di migliaia di contadini sotto le bandiere con il leone, mentre a Verona furono organizzate venti pattuglie di popolani e creato un ufficio di "sopraveglianza" (159), non fu in grado di contrastare, per mancanza di denaro, di truppe regolari, di cannoni e, soprattutto, di un efficace coordinamento militare, "li progressi dell'epidemia rivoluzionaria": i "ribelli" bergamaschi e/o bresciani s'impadronirono tra il 25 e il 28 di Desenzano, Salò e Crema, in quest'ultimo caso grazie allo scoperto appoggio dei Francesi; 2) a partire dagli ultimi giorni di marzo, in particolare dal 31 (quando a Salò i valligiani della Val Sabbia consentirono ai filoveneziani di infliggere una dura sconfitta ad una colonna di rivoluzionari in maggioranza bresciani e bergamaschi, che tentava di rioccupare la cittadina, dalla quale erano stati scacciati quattro giorni prima), scattò una controffensiva in larga misura spontanea, che portò le armate dei contadini ῾marcheschi' a bloccare, da lontano, Bergamo e Brescia; 3) ma pochi giorni più tardi l'intervento francese - politico prima ancora che militare (fu ancora una volta Landrieux che orchestrò un'abile campagna di minacce e di provocazioni) - fece oscillare nuovamente il pendolo a favore dei "ribelli": nell'arco di un paio di settimane tutta la Lombardia già veneta cadde nelle loro mani; 4) infine le Pasque veronesi (17-24 aprile) segnarono il tracollo del dominio veneziano su tutta la Terraferma.
Mentre in Lombardia anche i più fedeli partigiani della Serenissima rispettarono alla lettera - attenendosi a quanto aveva dichiarato il "Sindico generale della Val Sabbia alle truppe sabine all'atto della loro partenza per Salò" - "la prescritta neutralità ed amicizia colle truppe sì francesi che tedesche" (160) e di conseguenza, quando videro che i comandanti francesi accusavano i Veneziani di aver "rotta la neutralità" (161), di avere, cioè, trasformata la guerra civile in una guerra tra Stati, si affrettarono - come dichiarò lo stesso "Sindico generale" a Contarini il 4 aprile - a "sospend[ere] ogni e qualunque minima mozione per ogni riguardo" (162) e in seguito si rassegnarono, sia pure a malincuore (163), alla resa di fronte alla reazione dei Transalpini e dei loro fiancheggiatori ῾giacobini', a Verona le autorità veneziane propiziarono uno scontro frontale con i Francesi, che coinvolse migliaia di popolani e di contadini.
Da parte sua Bonaparte, una volta profilatasi la pace con l'Impero, aveva deciso di regolare i conti in sospeso con la Serenissima e quanto meno di sottrarle quell'"ombra di sovranità" che le rimaneva in Terraferma. Il 5 aprile avvertì il Direttorio che l'odio che il "continente" nutriva per Venezia faceva prevedere la distruzione di quest'ultima (164). Quattro giorni più tardi ordinò al generale Charles-Edouard Kilmaine, il comandante militare della Lombardia, di organizzare anche a Verona, Padova, Treviso e Bassano "une municipalité parmi les principaux citoyens" (165) e affidò all'aiutante di campo Andoche Junot l'incarico di presentare al doge (lo farà il 15 aprile davanti al pien collegio) un ultimatum, che gli imponeva "una spiegazione categorica entro dodici ore", di decidere, cioè, se Venezia si considerava in pace o in guerra con la Francia. Nel primo caso il senato doveva disarmare i contadini, liberare i patrioti che erano stati imprigionati in seguito alle vicende belliche (a Salò ne erano stati catturati trecento) o per motivi politici: in cambio il generale offriva "la mediazione della Repubblica Francese" "riguardo ai torbidi di Bergamo e Brescia" "onde far rientrare il tutto nel solito sistema" (166).
Quella che poteva essere l'ultima ciambella di salvataggio gettata da Bonaparte alla millenaria Repubblica fu afferrata assai maldestramente da Venezia. In ogni caso non va dimenticato che, il giorno in cui Junot presentò l'ultimatum, a Leoben decollavano i negoziati tra la Francia e l'Impero sulla base di ipotesi diverse, ma tutte sottese dall'idea che Vienna ricevesse in cambio del Belgio (ed eventualmente dei ducati di Milano e di Mantova) dei compensi più o meno sostanziosi a spese della Serenissima (167). Quando poi, il 18 aprile, furono sottoscritti i preliminari di pace, che contemplavano sì la sopravvivenza della Repubblica marciana, ma privata dei Domini della Terraferma, dell'Istria e della Dalmazia (era tuttavia generosamente ῾risarcita' dalla Francia con le legazioni emiliano-romagnole strappate un mese prima al papa) (168), la promessa "mediazione della Repubblica Francese" "onde far rientrare il tutto nel solito sistema" assunse il sapore di una terribile beffa.
Quanto al governo veneziano, dopo essersi cullato per alcuni giorni nella duplice illusione che, per quel che riguardava i Francesi, "tutto abbia a finire con sagrifizio di denaro" e che i sudditi "buoni" potessero avere la meglio, con l'acquiescenza dell'Armée d'Italie, sui "ribelli" (169), aveva tentato, alla vigilia dell'arrivo di Junot, di rettificare la precedente rotta bellicosa, proponendo l'11 aprile delle ducali destinate alla Terraferma, che Francesco Donà aveva giudicato "languide ed estinguenti l'affetto dei sudditi" e che era riuscito a modificare, nonostante l'opposizione di un fronte che andava da Pesaro a Piero Donà e a Ruzzini, sia pure soltanto parzialmente. Secondo Francesco Donà la Repubblica non poteva evitare di scegliere tra la "robustezza" e il "maneggio", tra una politica di forza e una trattativa a tutto campo con i Francesi (170). Di fatto Venezia si riconobbe, a seconda delle contingenze e dei patrizi ai posti di comando, in entrambe le alternative, per di più in un contesto internazionale e interno che non concedeva al "maneggio" alcun margine se non nella prospettiva di una resa della Repubblica ai "diktat" di Bonaparte ("bisognerà ricever la legge e rassegnarsi a tutto", scriveva sconsolato Lippomano il 22 aprile, "bisogna esser alla nullità come noi siamo per temer tutto", la guerra come la pace) e convertiva la stessa "robustezza" - in particolare le "mozioni di sudditi" - in "mali" per essi e per la Repubblica (171).
Il 15 aprile il governo decise di inviare due esponenti della linea transigente, lo stesso Francesco Donà e Leonardo Giustinian Lollin, a trattare con Bonaparte, munendoli di commissioni che si premurò di rendere sempre più flessibili (ivi compresi i "cambiamenti dell'interna nostra Costituzione") man mano che la situazione in Terraferma precipitava (172). Ma l'opportunità di un'intesa con la Francia, che preservasse, con gli opportuni ritocchi, la Repubblica aristocratica, era ormai definitivamente tramontata. Una volta che i preliminari di pace erano stati sottoscritti, Bonaparte non doveva far altro che sgomberare il terreno da tutto ciò che poteva impacciarne l'esecuzione. La Serenissima gli diede una mano con l'affare Laugier (il 20 aprile un inconsulto tentativo da parte di una piccola nave francese di entrare nel porto di Venezia fu impedito da Domenico Pizzamano, il deputato al castello di S. Andrea, con un bombardamento e un arrembaggio che lasciò alcuni morti sulla tolda, tra i quali il comandante della nave) (173) e soprattutto con le Pasque veronesi.
Mentre a Venezia Michiel e gli altri sostenitori della "robustezza" (quelli che "calcola[vano] sulla massa popolare" e che avevano in bocca parole e frasi come "amor di patria, dignità, odio, ira, vendetta, perire ma perire da forti e non da porchi") erano messi in minoranza dai savi e dai senatori, che abbracciavano "opinioni di temperanza e di prudenza" (174) (di qui, ad esempio, il tentativo, affidato al proclama del 12 aprile, di circoscrivere la mobilitazione della Terraferma entro il perimetro della "commune difesa" oppure la ducale del 15 aprile all'ambasciatore a Vienna, che imputava alle "stringenti combinazioni, nelle quali fatalmente si ritrova il Governo e per le accresciute rivolte e per l'esistenza di truppe in ogni punto dello Stato", di rendere "persino pericoloso l'effetto della fede ed ardore manifestatoci da alcune provincie") (175), invece a Verona gli "spiriti ardenti" (come li chiamava Lippomano) presero il sopravvento.
Anche se è probabile che la scintilla, che la sera del 17 aprile fece divampare l'incendio, fosse casuale, è anche vero che tanto da parte franco-῾giacobina' che da quella veneta erano state accumulate in vista della rivoluzione o della controrivoluzione tante di quelle tensioni (proprio quel giorno erano stati diffusi sia un apocrifo proclama di Battagia del 22 marzo - confezionato invece il 5 aprile da un collaboratore di Landrieux - che "eccit[ava] i fedelissimi sudditi a prendere in massa le armi" e "a cacciare i Francesi dalle città e castelli", sia quello del 12 aprile ricordato poco sopra, che era stato tuttavia letto dai Veronesi quale un incitamento alla lotta) (176) ed era stato talmente ben preparato il terreno al conflitto (l'istituzione delle pattuglie civiche, la mobilitazione di migliaia di contadini, la concentrazione a Verona di truppe lombarde, ecc.) che questo divampò con un'impressionante facilità e intensità. I ῾marcheschi' presero il controllo della città, salvo i tre castelli presidiati dai Francesi. Quanto alle autorità veneziane, il provveditore Giovanelli e il capitanio Contarini inizialmente cercarono di arrestarsi sull'incerta linea di confine che separava in quella bolgia gli "attacchi diretti" da quelli "difensivi contro i Francesi", e intavolarono delle trattative allo scopo di concludere una tregua: anzi il 18, non volendo dar l'ordine di dare l'assalto ai castelli, abbandonarono Verona e si rifugiarono a Vicenza (177).
Una volta ritornati, il 19, nella città scaligera, i due patrizi, pur continuando a trattare con i Francesi, si preoccuparono soprattutto di organizzare la ῾difesa' di Verona dalle truppe transalpine, lombarde e polacche, che convergevano sulla città in soccorso agli assediati nei castelli. "Scarsissimi di munizioni", con poche armi, con un'artiglieria insufficiente e pochi artiglieri, ma soprattutto privi "di un Capo Militare, che in tanta massa di cose [potesse] consigliare e dirigere" (178) (Nogarola era stato fatto prigioniero dai Francesi: gli era subentrato, in attesa che arrivasse da Vicenza il generale Antonio Stratico, il consigliere militare di Erizzo, il conte Augusto Verità), i Veronesi erano destinati, soprattutto dopo che i preliminari di pace avevano cancellato la possibilità di un soccorso austriaco dal Trentino e li avevano privati della cooperazione di duecento Imperiali (tra i quali alcuni abili cannonieri) liberati dalla prigionia, alla sconfitta. Dopo aver deciso che "conv[eniva] battersi anche colle Truppe Francesi", il 20 aprile Giovanelli e Contarini schierarono contro queste ultime e le loro ausiliarie lombarde e polacche un reggimento dell'esercito regolare che, malamente appoggiato da poche migliaia di contadini, combatté senza molta fortuna a San Massimo, nelle vicinanze della città.
Ancora più in là si spinse Erizzo che, quando decise di muovere in soccorso a Giovanelli con le sue scarse truppe, diede ordine ai rettori di Vicenza, di Bassano e di Padova che, "al caso che comparissero Truppe Francesi o Cispadane" e avessero voluto avanzare verso Verona allo scopo di prendere "per schiena le nostre Genti armate", si raccogliessero "in massa le Popolazioni" e, "appena praticata da' Francesi la forza", "si cerc[asse] di reprimerla con modo eguale" (179).
Il 22 il provveditore arrivò a Verona alla testa di un migliaio di miliziani e di poche centinaia di soldati di mestiere, ma il suo contributo non riuscì a raddrizzare una situazione troppo compromessa e finì anch'egli, il 24, per abbandonare Verona insieme a Giovanelli e Contarini dopo aver sottoscritto una capitolazione incondizionata. "Diciamo di non far la guerra, ma per il fatto ed in realtà ci siamo entrati", era il commento che Lippomano collocava in coda alla notizia della battaglia di San Massimo (180). Erizzo e gli altri rappresentanti veneziani avevano commesso "lo sproposito di sortire dalla neutralità" (181): Bonaparte non attendeva altro.
La caduta di Verona fu seguita, nei giorni immediatamente successivi e senza alcuna prova di forza, da quelle di Vicenza e di Padova (182). Il 29 aprile le truppe francesi raggiunsero i bordi della laguna. Anche se sarebbero trascorsi parecchi giorni prima che la democratizzazione della Terraferma fosse completata e parecchie settimane prima che fosse del tutto ammainata la bandiera veneziana nelle province da mar, era ormai evidente che la Serenissima era ritornata ad essere una città-stato chiusa nelle sue lagune. "Ricever la legge" da Bonaparte "e rassegnarsi a tutto": ciò che aveva profeticamente previsto Lippomano il 22 aprile, sarebbe diventato nelle settimane seguenti il trasparente filo conduttore di una politica veneziana oramai priva di una qualsiasi bussola che non fosse quella della conservazione delle vite e delle proprietà.
Quanto esigui fossero, una volta sottoscritti a Leoben i preliminari di pace e ancora prima del collasso del Dominio nella Terraferma, i margini di manovra della Repubblica marciana, Bonaparte lo enunciò a chiare lettere a Graz il 25 aprile ai deputati Donà e Giustinian: "non voglio alleanze con Voi, non voglio Progetti, voglio dar io la Legge". Da un lato, "io non voglio più Inquisizione, non voglio Senato", "i Nobili delle Provincie tenuti per Schiavi, devono aver parte, come gli altri, al Governo, ma già questo è vecchio, deve cessare", vale a dire una radicale riforma del regime, che ricuperasse anche il progetto maffeiano rilanciato da Dolfin il 22 marzo; dall'altro, "quando non sien puniti tutti i rei d'offese Francesi, non sia cacciato il Ministro Inglese, non sian disarmati i Popoli, liberati tutti i prigioni, non si decida Venezia tra la Francia, e l'Inghilterra, v'intimo la guerra": quel che è peggio, Bonaparte "mai discese a dir pace, quando anche tutte queste ingiustissime richieste si soddisfacessero" (183).
Giuntagli la notizia dell'affare Laugier, il generale lo considerò la goccia che poteva legittimamente far traboccare il vaso dei ῾torti' subiti dalla Francia e di conseguenza consentirgli di accelerare i tempi della dissoluzione dello Stato veneto. Il 30 aprile informò i deputati, che lo avevano seguito a Palmanova, che aveva scritto al Direttorio "perché deliberi la Guerra in diritto, ma che in tanto lui operava in fatto"; esigeva in ogni caso che il maggior consiglio decidesse "se voleva la Pace o la Guerra colla Francia, e se voleva la Pace, proscrivesse quei pochi Nobili, che disposero sino di tutto e concitarono il popolo contro i Francesi" (184). Il giorno seguente il comandante dell'Armée d'Italie, dopo aver elencato quattordici capi d'accusa contro la Serenissima, ultimo dei quali l'"assassinio" di Laugier, le dichiarò guerra (185), una decisione che non ebbe alcuna conseguenza sotto il profilo militare (Donà e Giustinian, una deputazione che il senato aveva ῾rafforzato' con il luogotenente della Patria del Friuli Alvise 1° Mocenigo, un patrizio apprezzato da Bonaparte, strapparono fin dal 2 maggio al generale un armistizio, che sarebbe stato prolungato fino alla caduta della Repubblica marciana), ma che gli consentì di affrettare la democratizzazione della Repubblica marciana.
"La destruction de l'aristocratie héréditaire, la restitution au peuple de sa souveraineté et de ses droits [...], le rétablissement de la démocratie représentative [...], l'abolition du tribunal des inquisiteurs d'État, des réformes très simples, très nécessaires dans l'administration": questo, nelle sue linee essenziali, il programma che Lallement aveva suggerito sul finire di marzo ai senatori veneziani ῾progressisti' quale indispensabile strumento per "ramener les provinces" e che aveva più volte ribadito in seguito ("démocratisons le Grand Conseil et la Révolution est faite, sans secousses, sans guerre civile", aveva scritto il 23 aprile; sei giorni più tardi aveva suggerito a Pesaro "de proclamer la démocratie", un consiglio che il procuratore aveva tradotto con un giro di frase assai meno impegnativo: "la conservazione della Repubblica di Venezia però con alcuni cambiamenti nell'attual forma di Governo"). Ma, mentre il ministro francese aveva puntato su un'Italia liberata dagli Austriaci e su un "État de Venise [...] puissant et lié d'intérêt et d'amitié avec la République Française" (186), Bonaparte, che doveva tenere conto sia dei preliminari di Leoben, sia dell'eventualità di una ripresa della guerra con l'Austria, assegnava alla democratizzazione della Serenissima un significato assai diverso.
Se a Leoben aveva deciso, come avrebbe intuito Lippomano, che "li Veneziani [dovevano] rinnovar l'esempio della Polonia" (187) e aveva comunque garantito la sopravvivenza di uno Stato marciano, sia pure affatto stravolto e rimpicciolito, se a Graz aveva ancora lasciato baluginare, a consolazione dei deputati veneziani, la possibilità di una ῾democratizzazione' della Serenissima sulla falsariga del Consiglio di Maffei, dopo le Pasque veronesi e l'affare Laugier - ma anche una volta ratificati i preliminari di pace dall'imperatore - Bonaparte adoperò risolutamente il grimaldello della riforma costituzionale allo scopo di cancellare la Repubblica aristocratica. In questo modo raggiungeva tutto un arco di obbiettivi, politici e militari: 1) si vendicava dei patrizi colpevoli di aver sparso il sangue dei suoi soldati; 2) conservava il completo controllo militare dei territori da cedere all'Austria (un obbiettivo meno facile da raggiungere, se avesse avuto quale interlocutore, in luogo di governi provvisori di fatto oltre che di nome e in ogni caso rappresentativi di contesti tutt'al più provinciali, una Serenissima in versione democratica); 3) svuotava una delle clausole dei preliminari di Leoben, il che poteva aprire la strada ad una loro revisione in senso più favorevole alla Francia e ai suoi vassalli; 4) toglieva di mezzo un regime che, nel caso di una ripresa della guerra, avrebbe potuto dar man forte agli Imperiali e lo rimpiazzava con un governo amico; 5) si assicurava la possibilità di ricavare dall'ex Dominante "des secours de toute espèce" (188).
Ma Bonaparte si preoccupò anche di far sì che la scomparsa della Repubblica marciana non apparisse formalmente il frutto di imposizioni o, peggio ancora, della violenza francese: se la democratizzazione di Venezia avesse avuto luogo ad opera dello stesso governo aristocratico diventato per amore o per forza filofrancese, l'Armée d'Italie sarebbe potuta "entrer dans la ville sans difficulté" e, dal momento che l'occupazione si sarebbe configurata come "un acte de protection sollicité par Venise même", ciò avrebbe consentito "de calmer tout ce qu'on pourrait dire en Europe"; inoltre la Francia avrebbe evitato di attirare su di sé "l'espèce d'odieux de l'exécution des préliminaires relatifs au territoire vénitien, et en même temps de donner des prétextes et de faciliter leur exécution" (189). Di qui la necessità di pilotare la caduta della Serenissima, un compito che a Venezia fu assunto, dopo che Lallement era stato richiamato presso Bonaparte, dal segretario della legazione Joseph Villetard, mentre lo stesso generale e Lallement condussero con i tre deputati veneziani delle trattative destinate a sfociare, il 16 maggio, in un trattato di pace.
L'esecuzione del piano di Bonaparte non incontrò ostacoli nel governo veneziano. Come abbiamo visto, le illusioni e l'euforia suscitate dall'episodio di Salò e dalle masse popolari in armi erano state ridimensionate dalla reazione franco-῾giacobina' in Lombardia. Non a caso il 12 aprile un "eccitamento" di Gian Alvise da Mosto, un patrizio povero, a favore delle "trattazioni" con la Francia era stato accolto dal savio in settimana Ruzzini. L'ultimatum di Bonaparte presentato da Junot aveva accelerato lo smottamento della maggioranza guidata da Pesaro: il 15 aprile soltanto la vivace opposizione di Michiel e di Francesco Donà aveva impedito al senato di decidere di sospendere nuove leve di miliziani (190). Anche se tra le richieste ufficiali francesi non era stato incluso alcun accenno ad una riforma del regime veneziano, Lippomano aveva scritto quel giorno stesso a Querini: "si vuole disporre de' Stati ed alterare la forma del Governo. Farei patti su queste due, mi rassegnarei alla prima, per restar colla seconda" (191), una scelta che faceva capire che una parte significativa della classe dirigente marciana (Lippomano era stato savio del consiglio e inquisitore di Stato) era disposta a pagare uno scotto pesante in Terraferma pur di rimanere all'ombra della tradizione politica lagunare.
Un'ottica insulare che, come abbiamo visto, aveva certamente pesato sulla gestione delle operazioni militari in Terraferma: il riarmo delle province occidentali del Dominio marciano non aveva affatto spostato il baricentro del sistema di difesa approvato nel giugno 1796. Dalla Dominante erano stati spediti a Verona e nel resto della Terraferma neppure duemila soldati e pochi pezzi d'artiglieria: il peso della riconquista delle città ribelli e della difesa dei territori rimasti ῾marcheschi' era stato fatto ricadere sui sudditi "buoni". In ogni caso, una volta bruscamente chiusa dalla catastrofe di Verona la (timida) parentesi ῾di terra' della politica militare veneziana, una volta che i Francesi s'erano impadroniti "de' Stati" della Terraferma, diventava più che mai centrale la questione della difesa di Venezia, in quella congiuntura l'ultimo baluardo non solo della "forma di Governo" aristocratica, ma anche della stessa sovranità marciana.
I decreti del senato indicano chiaramente che fino al 29 aprile la linea del governo era stata dettata - come avrebbe accusato Guido Erizzo - dalla convinzione che "nella conservazione della sola Venezia consistesse la Veneta potenza" (192). Fu la mattina del 30, quando arrivò la relazione di Donà e Giustinian Lollin relativa all'incontro di Graz con Bonaparte, che il governo decise, piegandosi ai "diktat" del generale, di cambiare del tutto rotta. "Non voglio Senato", aveva statuito colui che aveva minacciato di diventare "un Attila per lo Stato Veneto" (193) e i savi del consiglio decisero di non convocare più il senato e di trasferirne di fatto i poteri ad una conferenza di quarantadue membri, comprendente la signoria, la consulta dei savi attuali e dei savi del consiglio usciti, i capi del consiglio dei dieci e gli avogadori di comun. Che fosse un arbitrio "evitare le legali adunanze del senato" e che l'assemblea del 30 aprile fosse "illegale, spuria e contraria alla Costituzione della Repubblica" (194), è sempre stato sottolineato con una certa enfasi - ritengo più a torto che a ragione, date non solo le caratteristiche della costituzione veneziana (i poteri del senato erano delegati dal maggior consiglio, che fu regolarmente convocato per approvare le parti approvate dalla conferenza), ma anche la condotta dei più inossidabili conservatori, da Pesaro a Capello, che non si opposero affatto alla convocazione di questa sorta di comitato di salute pubblica - dai cronisti e dagli storici, che hanno ricostruito gli ultimi giorni della Repubblica marciana.
Ciò che è sfuggita loro è, in ogni caso, la circostanza che, mentre il decreto del 2 giugno 1796 aveva conferito la facoltà d'intervenire alle riunioni della consulta dei savi al provveditore alle lagune e lidi, costui era invece escluso dalla conferenza, una decisione che fa ritenere che il dado fosse ormai stato tratto, che "la massima di difesa" di Venezia "decretata tante volte dall'Eccellentissimo Senato" fosse già stata accantonata dalla maggioranza dei savi a favore di una trattativa o, meglio, di una resa lungo i binari tracciati da Bonaparte. Non meraviglia quindi che, da un lato, Pesaro e Capello non riuscissero a convincere gli altri membri della conferenza dell'"inutilità di qualunque progetto da quello in fuori della difesa" e che, dall'altro, quando Tommaso Condulmer, il luogotenente del provveditore alle lagune Giovanni Zusto (aveva preso il posto di Nani, che era morto il 3 aprile), comunicò che i Francesi stavano avanzando nella laguna, alcuni savi proponessero di "tosto cedere e trattare la resa della Città", una decisione che non passò unicamente per l'opposizione dei savi di Terraferma (195). Pur avendo contribuito alla redazione della parte che il 1° maggio sarebbe stata votata dal maggior consiglio, una parte che concedeva ai deputati a Bonaparte di "estendere le loro Negoziazioni anche sopra argomenti dipendenti dalle sole Sovrane sue disposizioni", vale a dire sulla riforma della costituzione (196), Pesaro abbandonò Venezia prima della seduta dell'assemblea generale del patriziato. Pochi mesi più tardi l'ex procuratore avrebbe invocato, a giustificazione della sua fuga, una "precisa necessità": non voleva "prender parte alcuna, né favorevole, né contraria alla rivoluzione". Questo perché si rendeva conto che, nel caso in cui fosse riuscito a far prevalere la tesi della difesa ad oltranza di Venezia, ciò avrebbe provocato non solo "orrori nella Dominante", ma anche "la desolazione di tutte le proprietà dei Veneziani in Terra Ferma" (197), che, in altre parole, l'alternativa militare era in quella situazione affatto impraticabile.
La querelle prima politica e poi storiografica sulla caduta della Repubblica non ha tenuto conto del fatto che perfino il leader riconosciuto dei conservatori intransigenti - l'unico patrizio che lasciò Venezia per non aver nulla a che fare con la rivoluzione - riteneva che la Serenissima si fosse cacciata in un vicolo cieco, dal quale l'uso delle armi non era in grado di farla uscire, e ha invece preferito insistere, in modo da coonestare uno scenario enigmatico dominato dalla paura, dall'ignavia e dal tradimento, sul catalogo delle imponenti forze armate che la Repubblica aveva ancora a disposizione nel maggio 1797: 19.500 soldati, 800 cannoni, 200 legni armati secondo Guido Erizzo, quasi 20.000 uomini (compresi 1.500 marinai), 1.400 cannoni, 30.000 fucili a detta di Gritti, 14.500 soldati, 800 pezzi, 206 legni stando a Tentori, ecc. (198). Non va peraltro dimenticato che Nani, nella penultima scrittura che aveva indirizzato il 21 marzo al senato, aveva sottolineato che i provvedimenti militari presi fino ad allora assicuravano "la sola custodia" dell'estuario e della città, erano cioè in grado di "sostenere qualunque colpo di mano" (199), ma, come aveva esplicitato in quei giorni in una consulta nera, "poco 0 nulla si poteva contare sulle cose predisposte [...] a difesa della Capitale, qualora venisse questa attaccata nelle forme da truppe numerose" (200).
Un mese più tardi, il 18 aprile, Zusto aveva presentato una dettagliata relazione - in cui segnalava, tra l'altro, che le truppe presenti a Venezia e nell'estuario riunivano meno di diecimila uomini, una cifra senza dubbio aumentata nei giorni seguenti a causa dell'arrivo dei soldati in ritirata dalla Terraferma e delle ultime leve d'Oltremare, ma probabilmente non nella misura pretesa da Erizzo e Gritti - che ribadiva che era "difficile" "ridurre [...] questa Città [...] in istato di difesa ed in piazza d'armi" (201). Certo, è opportuno vagliare criticamente queste dichiarazioni e valutazioni: che, nonostante le sue peculiari caratteristiche, Venezia fosse in grado di resistere relativamente a lungo a blocchi e ad assedi, lo avrebbe dimostrato tre volte nel corso dei successivi cinquant'anni della sua storia. Inoltre va rammentato che a San Massimo i soldati veneziani avevano dato prova di saper ancora battersi. Che poi anche nelle file dei patrizi non mancassero gli ufficiali, lo avrebbe sottolineato l'età napoleonica, offrendo ad un manipolo di essi l'opportunità di distinguersi anche nelle file dell'esercito.
In conclusione: se dal punto di vista tecnico-militare Venezia poteva certamente sostenere un assedio, anche se la situazione non era così confortante come si è quasi sempre preteso e si addensavano i segnali di un collasso psicologico, oltre che del nucleo dirigente, anche della ῾base' patrizia e cittadina (l'8 maggio il savio in settimana Pisani sarebbe stato preso di mira da una piccola folla di patrizi poveri e di popolani, che accusavano i membri del governo di voler "sacrificare il proprio paese al massacro ed alla rovina" - tutti sapevano come era andata a finire a Verona - "per salvare il comando") (202), tuttavia l'opzione militare non solo presentava non pochi rischi (non bisogna dimenticare che, tra l'altro, gli Schiavoni costituivano i cinque sesti delle truppe e che la Dalmazia era stata assegnata a Leoben all'Impero), ma, soprattutto, poteva colpire a morte, come aveva sottolineato Pesaro, gli interessi del corpo aristocratico veneziano in Terraferma.
Nel corso delle ῾trattative' con i tre deputati veneziani che, una volta che il maggior consiglio aveva accettato, il 4 maggio, le condizioni preliminari avanzate da Bonaparte a Marghera due giorni prima, vale a dire l'arresto dei tre inquisitori di Stato e di Pizzamano, il presunto responsabile della morte di Laugier (203), si tennero presso Milano dal 9 al 16 maggio (andarono a rilento perché il generale attendeva che "libera la città e sgombro questo territorio da Francesi, facesse il Maggior Consiglio spontaneo e senza ombra di forza il suo cambiamento di Governo"), l'"Attila per lo Stato Veneto" prospettò ai suoi interlocutori un'"alternativa", che ad ogni buon conto si rifiutò di consegnare ad uno scritto: "o volevano democratizzar la città interamente e avrebbero riunito e ampliato lo stato o volevano preservar il governo aristocratico, e questo avrebbe l'oltre mar e un piccolo territorio di dieci leghe intorno alle lagune, nel qual poteva includersi Treviso e il Dolo, dove sono i palazzi dei Veneziani".
Dopo aver chiesto una pausa di riflessione, Donà, Giustinian e Mocenigo, che nel frattempo erano stati raggiunti anche da Pisani, optarono, nella speranza di "portar la pace a Venezia" e di favorire "la riunione delle Provincie", per la prima ipotesi (204). Tutto fa credere, alla luce dei preliminari di Leoben e di quanto stava succedendo in quei giorni a Venezia, che Bonaparte si limitasse a giocare di fioretto sulla pelle dei poveri deputati. Chi avrebbe invece preso sul serio l'"alternativa", sarebbe stato un patrizio vicino a Pesaro, quasi certamente Giuseppe Priuli, che in un commento all'Esatto diario di Francesco Donà avrebbe scritto che Venezia non poteva "esistere senza l'oltremare, come lo può senza la Terraferma" e che i deputati avevano invece dimostrato, scegliendo apparentemente la democratizzazione, quanto in effetti stessero ad essi "a cuore li [loro] possedimenti" rurali (205). Lo stesso bivio drammatico tra Venezia e la Terraferma, tra il pubblico e il privato, tra la politica e l'economia (ma, almeno in linea di principio, anche tra la guerra e la pace) si era presentato, secondo Francesco Calbo, al doge Ludovico Manin alla vigilia del 12 maggio: da una parte il "rispetto ai giuramenti", la fedeltà alla tradizione marciana, dall'altra "il peso di causare la rovina di sua famiglia, che era la più doviziosa del paese per li suoi grandi possedimenti in Terra Ferma e per li molti fondi" (206).
Il ῾sacrificio' della sovranità fu deciso - quanto meno dal manipolo di patrizi, quasi tutti assai benestanti, che gestirono, sotto la guida di Battagia e di Piero Donà, le iniziative del governo nel corso delle ultime due convulse settimane (207) - non tanto in base a sentimenti, alti o bassi che fossero, quanto in vista dell'"importante oggetto" di preservare "a tutti li possidenti" (s'intende: patrizi) "i beni" in Terraferma, che le municipalità democratiche si erano affrettate a sequestrare (208). Anche secondo Balbi, "se li aristocratici quali li soli massimi possidenti o non avessero avuti gran fondi sul continente o fossero stati meno vili avrebbero [...] combattuto in Terraferma" (209): ma, dal momento che in Terraferma non avevano combattuto, non vi era alcun motivo che difendessero Venezia armi in pugno. Salvare la proprietà a spese della sovranità: questa la Grundnorm, se si vuole più borghese che aristocratica (come avrebbe moralisticamente deprecato Barzoni, "in una Nazione nella quale l'amore delle ricchezze era la virtù pubblica, si dovea immolare tutto alla conservazione del danaro") (210), che di fatto orientò i comportamenti dei leaders più realistici o più rassegnati del patriziato abbiente e che essi seppero abilmente imporre a quello povero (211).
Anche l'ultima decisione-harakiri del maggior consiglio obbedì a questa logica e nello stesso tempo ῾risolse' il problema dei due patriziati: "il gran corpo che ascolta è composto di ricchi e di poveri. Per vincer quelli si promette la sicurezza delle proprietà, per soggiogar questi ultimi si giura di provvedergli preliminarmente a qualunque costituzion di governo" (212), di continuare, cioè, a concedere loro i benefici dello stato sociale patrizio. Come faceva capire l'articolo quarto del trattato di pace del 16 maggio (213), la Repubblica aristocratica sperava di passare la mano ad uno stato ῾regionale' democratico, in seno al quale i patrizi ricchi avrebbero avuto modo di continuare a contare grazie alle loro proprietà in Terraferma e alla centralità di Venezia. Un obbiettivo che la versione bonapartista del berretto frigio non consentirà di centrare e che sarà invece paradossalmente raggiunto, sia pure per un breve lasso di tempo, all'ombra dell'aquila a due teste, nei primi anni della dominazione austriaca (214).
1. Cf. Piero Del Negro, Proposte illuminate e conservazione nel dibattito sulla teoria e la prassi dello Stato, in AA.VV., Storia della cultura veneta, 5/II, Il Settecento, Vicenza 1986, p. 143 (pp. 123-145). La metafora della "nave desolata" compare ne La risorsa morale, politica ed economica degli ex-Nobili Veneti, s.l. [Venezia] 1797, p. V.
2. Cf. P. Del Negro, Proposte illuminate, pp. 131-132.
3. Cf. Id., La memoria dei vinti. Il patriziato veneziano e la caduta della Repubblica, in L'eredità dell'Ottantanove e l'Italia, a cura di Renzo Zorzi, Firenze 1992, p. 351 (pp. 351-370).
4. Cf. Samuele Romanin, Storia documentata di Venezia, I-X, Venezia 19753: VIII, pp. 264 e 502.
5. Giorgio Baffo, Poesie, a cura di Piero Del Negro, Milano 1991, p. 396.
6. [Guillaume-Thomas Raynal], Histoire philosophique et politique des établissements et du commerce des Européens dans les deux Indes, VI, Maastricht 17772, p. 75.
7. Giacomo Nani, Viaggio in Italia, in Padova, Biblioteca Universitaria, ms. 396, c. 42v.
8. Francesco Gritti, Pensieri suggeriti dall'amore della Patria, s.l. [Venezia] 1798, pp. 111-112.
9. Guy Dumas, La fin de la République de Venise. Aspects et reflets littéraires, Paris 1964, pp. 640-641.
10. Cf. Giuseppe Nuzzo, A Venezia, tra Leoben e l'occupazione francese dalla corrispondenza dei diplomatici napoletani, estratto dall'"Annuario del R. Liceo-Ginnasio T. Tasso" di Salerno, Salerno 1937, p. 3.
11. Questo importante dispaccio di Capello è stato edito per la prima volta da [Cristoforo Tentori], Raccolta cronologico-ragionata di documenti inediti che formano la storia diplomatica della rivoluzione e caduta della Repubblica di Venezia corredata di critiche osservazioni, I-II, Augusta [Venezia] 1799: I, pp. 17-19.
12. Cf. Piero Del Negro, Il mito americano nella Venezia del '700, Padova 19862, p. 113.
13. Cf. Id., La memoria dei vinti, pp. 353 e 365.
14. [Francesco e Piero Donà], Esatto diario di quanto è successo dalli 2 sino a 17 maggio [...], Basel [Venezia] 1797 [1798], pp. I-III. Sulla redazione dell'opera cf. P. Del Negro, La memoria dei vinti, pp. 365-366 (dove però si anticipa al 1798 la morte di Piero Donà, avvenuta in realtà nel 1799).
15. Cf. Girolamo Dandolo, La caduta della Repubblica di Venezia ed i suoi ultimi cinquant'anni, I, Venezia 1855, pp. 630 ss. e S. Romanin, Storia documentata di Venezia, X, p. 131.
16. Stendhal, Vita di Napoleone, Torino 1959, p. 35.
17. Cf. P. Del Negro, La memoria dei vinti, p. 370.
18. Cf., tra i precursori, Giovan Tommaso Facciuoli, Le vindicie della giustizia di Dio nella caduta della Repubblica di Venezia (giugno 1797), in Vicenza, Biblioteca Bertoliana, ms. Gonzati 23.8.29 (3192) e Gerolamo Griselini, Stato religioso, politico, economico, civile e militare, in cui ritrovavasi la Serenissima Repubblica di Venezia nel giorno XII maggio 1797 in cui cessò di esistere, preceduto da alcune riflessioni sulla di lei caduta (1825 circa), in Venezia, Museo Correr, ms. Cicogna 1498.
19. Giacomo Nani, Esposizione del carattere dell'orazioni dell'Emo, in Padova, Biblioteca Universitaria, ms. 917, c. 95v.
20. Di "impero delle circostanze" parla l'inviato piemontese Carlo Bossi in un dispaccio del 5 maggio 1797: cf. Giovanni Sforza, La caduta della Repubblica di Venezia studiata ne' dispacci inediti della diplomazia piemontese, "Nuovo Archivio Veneto", n. ser., 25, 1913, p. 317 (pp. 263-339).
21. Come osservava Bossi, era "per verità esistita un tempo la Repubblica florida e potente senza un gran territorio in Italia, ma ave[va] ora più né quel commercio, né quelle colonie, né quegli Stati del Levante che possedeva in allora, e la Repubblica e le famiglie nobili tra[evano] al presente tutta la loro sussistenza dalla terra ferma" (dispaccio del 2 maggio 1797, ibid., p. 315).
22. Roma 1997 [Tübingen 1995]. Cf. anche l'ancora più recente monografia di un allievo di Hunecke, Oliver T. Domzalski, Politische Karrieren und Machtverteilung im venezianischen Adel (1646-1797), Sigmaringen 1996.
23. È un termine che Gritti mette sarcasticamente in bocca ad un ignorante senatore, Lombria (era il nome di una casa patrizia estinta da parecchi decenni), che era diventato, nonostante la sua insipienza e crassa ignoranza, riformatore dello Studio di Padova, ne Le giozze d'oro. Favola eterogenea in versi vernacoli, Venezia 18682, p. 23.
24. Cit. in P. Del Negro, Proposte illuminate, pp. 144-145.
25. Così la definiva il patrizio Paolo Antonio Erizzo: cf. Marino Berengo, La società veneta alla fine del Settecento. Ricerche storiche, Firenze 1956, p. 273.
26. Cf. Andrea Benzoni, L'Accademia dei nobili in Ca' Zustinian a Venezia, "Antologia Veneta", 3, 1902, p. 194.
27. Alessandro Balbi, Osservazioni storico-critiche sopra li XIV secoli di Venezia, s.l. [Venezia] 1797, p. 40.
28. Cf. Piero Del Negro, Dalla Repubblica di Venezia al Regno d'Italia. Una ricerca sugli alti ufficiali napoleonici originari dei territori di San Marco, "Ricerche Storiche", 22, 1993, pp. 461-532.
29. Antonio Paravia, Notizie istoriche intorno ad alcuni generali ecc. della Repubblica Veneta, citato in Roberta Penso, L'esercito veneziano del '700 nelle memorie del capitano Antonio Paravia, tesi di laurea, Università degli Studi di Padova, a.a. 1995-1996, p. 45. Sulla crisi militare veneziana cf. il recente saggio di Sergio Perini, Lo stato delle forze armate della terraferma veneta nel secondo Settecento, "Studi Veneziani", n. ser., 23, 1992, pp. 195-258.
30. Summari consulte sugl'affari della rivoluzion di Francia e conseguenze all'Italia, in Venezia, Biblioteca Querini Stampalia, ms. it. cl. IV. 534 (= 853), fasc. III, cc. n.n. Cf. per la relazione di Capello [C. Tentori], Raccolta cronologico-ragionata, I, p. 25.
31. A. N-P., Histoire de la Révolution de la République de Venise et de sa chute totale consommée par le traité de Campo-Formio, Milan 1807, p. 84.
32. Dispaccio del 17 agosto 1789 dell'ambasciatore veneziano a Parigi Antonio 1° Capello citato in Mario Mazzucchelli, La rivoluzione francese vista dagli ambasciatori veneti, Bari 1935, p. 38.
33. Dispaccio del 18 dicembre 1793 dello stesso Capello, all'epoca ambasciatore a Roma, agli inquisitori di Stato edito in S. Romanin, Storia documentata di Venezia, IX, p. 340.
34. Citato in M. Berengo, La società veneta, p. 253 n. 3.
35. Cf. Marco Cuaz, Le nuove di Francia. L'immagine della rivoluzione francese nella stampa periodica italiana (1787-1795), Torino 1990, pp. 64-65. Va anche tenuto presente che Capello era un ambasciatore alquanto anomalo, in quanto era espressione, secondo Nani, del "partito di quei che fanno la guerra ai ricchi", mentre la maggioranza dei "principaux de la République" apparteneva, come è noto, al "partito dei ricchi" (cf. Giacomo Nani, Discorsi sul governo della Repubblica di Venezia, in Padova, Biblioteca Universitaria, ms. 2234, fasc. 7, c. 106).
36. Cf. sopra la n. 30.
37. M. Cuaz, Le nuove di Francia, pp. 69-70.
38. "Prospetto degli Affari Attuali dell'Europa", 2, 1789, nr. 5, pp. 7-8.
39. Cf. Giovanni Scarabello, L'"Ottantanove" francese visto dalla diplomazia veneziana, in L'eredità dell'Ottantanove e l'Italia, a cura di Renzo Zorzi, Firenze 1992, pp. 299-300 (pp. 291-306).
40. Ibid., pp. 300-301.
41. Ibid. Cf. su Venezia in particolare Mario Infelise, Gazzette e lettori nella repubblica veneta dopo l'Ottantanove, in L'eredità dell'Ottantanove e l'Italia, a cura di Renzo Zorzi, Firenze 1992, pp. 307-350. Sulla diffusione delle idee della rivoluzione francese a Venezia e nella Terraferma rimane fondamentale M. Berengo, La società veneta, pp. 195-224 e 252-334; sugli inquisitori di Stato e la repressione dei ῾giacobini' cf. Paolo Preto, I servizi segreti di Venezia, Milano 1994, pp. 557-576.
42. A. N-P., Histoire de la Révolution, p. 60.
43. Riferta di Giannantonio Pedrini in A.S.V., Inquisitori di Stato, b. 622.
44. Cf. M. Cuaz, Le nuove di Francia, p. 115.
45. Così li avrebbe definiti, alcuni anni più tardi, un confidente degli inquisitori citato in Franco Trentafonte, Giurisdizionalismo illuminismo e massoneria nel tramonto della repubblica veneta, Venezia 1984, p. 155.
46. Cf. George B. McClellan, Venice and Bonaparte, Princeton 1931, p. 99.
47. Citato in [C. Tentori], Raccolta cronologico-ragionata, I, p. 30.
48. Cf. sopra la n. 30.
49. Cf. Piero Del Negro, Tra Versailles, Rousseau e gli Inquisitori di Stato: il primo saggio politico veneziano sulla rivoluzione francese, in corso di stampa.
50. Cf. M. Cuaz, Le nuove di Francia, p. 129.
51. Dispaccio di Sanfermo del 5 novembre 1791 e ducale di risposta del 19 novembre in [C. Tentori], Raccolta cronologico-ragionata, I, pp. 30-35.
52. Cf. sopra la n. 30.
53. Cf. il relativo dossier in [C. Tentori], Raccolta cronologico-ragionata, I, pp. 37-41.
54. G.B. McClellan, Venice and Bonaparte, p. 121.
55. Un'eccezione è rappresentata da Vittorio Barzoni, Rivoluzioni della Repubblica Veneta, Venezia 1799, p. 38 n. 4, che ricorda che anche Francesco Pesaro, il leader dell'ala conservatrice (e nel 1797 filoasburgica) del patriziato, "erasi col maggior vigore opposto ad ogni coalizione coi Principi stranieri contro la Francia".
56. Ibid., p. 30.
57. Summari consulte sugl'affari della rivoluzion di Francia (consulte dell'ottobre e del novembre 1792 e del luglio 1793), citato sopra alla n. 30 e Consulta nera (gennaio 1793), ibid., ms. it. cl. IV. 572 (= 558), c. 299.
58. [Nicolò 2° Guido Erizzo], Lettera ingenua ad un amico in cui viene descritto l'avvenimento della distruzione del Veneto Governo Aristocratico, Zürich [Venezia] 1797, pp. 5-6; A. Balbi, Osservazioni storico-critiche, p. 37.
59. Giovanni Andrea Spada, Memorie apologetiche scritte da lui medesimo, I, Brescia 1801, p. 17.
60. Sull'atteggiamento dei Veneziani nel corso della guerra di successione spagnola cf. Sommario di lutto ciò concerne l'uso da farsi de sudditi in Terra Ferma e la massima di poner truppe in campagna, in A.S.V., Savio alla scrittura, b. 3, cc. 41, 49v e 55.
61. G.B. McClellan, Venice and Bonaparte, p. 99.
62. Cf. Eugenio Barbarich, La campagna del 1796 nel Veneto. Parte prima: La decadenza militare della Serenissima, Roma 1910 (benché il saggio sia "in memoria di Francesco Pesaro, tenace propugnatore nel Veneto Senato d'una Venezia forte", fa comunque risaltare il contrasto tra la retorica del procuratore e le misure militari effettivamente adottate su suo consiglio).
63. Cf. la Lettre sur la révolution française di Casanova a Piero Zaguri in Pompeo G. Molmenti, Carteggi Casanoviani. Lettere del patrizio Zaguri a Giacomo Casanova, Milano 1918, p. 371 e [Francesco Calbo], Memoria che può servire alla storia politica degli ultimi otto anni della Repubblica di Venezia, London [Venezia] 1798 [1799], p. 44.
64. V. Barzoni, Rivoluzioni della Repubblica Veneta, pp. 49-50 e 57.
65. [C. Tenori], Raccolta cronologico-ragionata, I, p. 41.
66. Cf. sopra la n. 30.
67. Consulta nera citata sopra alla n. 57.
68. Il discorso di Zulian è riportato da S. Romanin, Storia documentata di Venezia, IX, pp. 142-143.
69. [C. Tentori], Raccolta cronologico-ragionata, I, pp. 44-45.
70. Francesco Calbo, Le "Annotazioni" alle sedute del consiglio dei Rogati (1785-1797), a cura di Roberto Cessi, Appendice ai Verbali delle sedute della Municipalità Provvisoria di Venezia 1797, Bologna 1942, p. 163.
71. Cf. Esposizione citata sopra alla n. 30. Va tenuto presente che tanto Barzoni quanto, senza dubbio nella sua scia, il francese che si nascondeva dietro la sigla A. N-P., datano il proclama al febbraio del 1792 (di qui l'affermazione di quest'ultimo che si trattava di una dichiarazione "singulièrement prématurée", dal momento che precedeva lo stesso inizio delle ostilità tra la Francia e gli Austro-Prussiani), senza tenere conto del fatto che il febbraio 1792 more veneto corrispondeva al febbraio 1793 del calendario gregoriano: cf. V. Barzoni, Rivoluzioni della Repubblica Veneta, p. 39 n. 5 e A. N-P., Histoire de la Révolution, p. 73.
72. [C. Tentori], Raccolta cronologico-ragionata, I, p. 45.
73. Cf. M. Infelise, Gazzette e lettori, p. 323.
74. Cf. Roberto Ellero, Giuseppe Compagnoni e gli ultimi anni della Repubblica di Venezia, Roma 1991, p. 54. I giornali letterari della Repubblica veneta conservarono invece perfino nei mesi del Terrore un atteggiamento tutto sommato equilibrato nei riguardi della Francia rivoluzionaria (cf. M. Cuaz, Le nuove di Francia, pp. 178-181).
75. F. Calbo, Le "Annotazioni", pp. 170-171, 173 e 179 (il contenuto dell'"eccitamento" di Querini è ricostruito alla luce del discorso tenuto dal senatore sullo stesso tema il successivo 7 settembre).
76. Consulta nera citata sopra alla n. 57 e S. Romanin, Storia documentata di Venezia, IX, p. 149.
77. Cf. F. Calbo, Le "Annotazioni", pp. 177-178 (7 settembre 1793) e 185 (9 gennaio 1793 m.v.).
78. Cf. [C. Tentori], Raccolta cronologico-ragionata, I, pp. 45-49 e S. Romanin, Storia documentata di Venezia, IX, pp. 150-151.
79. S. Romanin, Storia documentata di Venezia, IX, p. 153.
80. Cf. soprattutto F. Calbo, Le "Annotazioni", pp. 195-196 e [Id.], Memoria, pp. 65-67.
81. Cf. la silloge di documenti sull'accreditamento di Lallement in [C. Tentori], Raccolta cronologico-ragionata, I, pp. 56-61.
82. Ibid., pp. 63-66; F. Calbo, Le "Annotazioni", p. 214; [Id.], Memoria, pp. 78-85; S. Romanin, Storia documentata di Venezia, IX, pp. 163-168.
83. [C. Tentori], Raccolta cronologico-ragionala, I, pp. 74-75.
84. F. Calbo, Le "Annotazioni", pp. 221-222.
85. [C. Tentori], Raccolta cronologico-ragionata, I, p. 75.
86. Ibid., pp. 69-88; F. Calbo, Le "Annotazioni", pp. 228-229; [Id.], Memoria, pp. 88-91. Cf. la recente puntualizzazione di Francesco Vecchiato, "Del quieto et pacifico vivere" turbato: aspetti della società veronese durante la dominazione veneziana tra '500 e '700, in AA.VV., Verona e il suo territorio, V/1, Verona 1995, pp. 651-658 (pp. 399-690).
87. Dispacci del Nobile a Parigi Alvise Querini dai 23 maggio 1795 sino tutto maggio 1796, nrr. 26-27 (5 e 10 ottobre 1795) e 70 (3 marzo 1796), in A.S.V., Senato III Secreta, Francia, filza 267.
88. G. Gervasoni ai cinque savi alla mercanzia, nrr. 1951 e 1955, Genova 26 marzo 1796, ivi, Cinque savi alla mercanzia, b. 692 (Consoli a Genova 1796-97) e A. Querini al senato, nr. 52, 19 marzo 1796, ivi, Senato III Secreta, Dispacci Torino, filza 32.
89. Copia di lettera da Genova del 6 aprile allegata al dispaccio di Querini nrr. 60 e 63, Torino 18 e 26 aprile 1796, ivi, Senato III Secreta, Dispacci Torino, filza 32, e dispacci di Gervasoni, nrr. 1961 e 1963, Genova 23 e 30 aprile 1796, ivi, Cinque savi alla mercanzia, b. 692.
90. Dispaccio di Contarini al senato, Crema 11-12 maggio 1796, allegato al decreto del senato del 19 maggio, ivi, Senato militar Terraferma, filza 23 (il testo del dispaccio è stato parzialmente edito da S. Romanin, Storia documentata di Venezia, IX, pp. 198-200).
91. Dispacci di Vincenti Foscarini al senato, senza numero (Milano, 14 maggio 1796), nrr. 102-103 (16 e 19 maggio) e 107 (1° giugno), in A.S.V., Senato III Secreta, Milano, filza 241.
92. Francesco - e non Gasparo, come è erroneamente scritto nel titolo del ms. e ripetuto da coloro che lo hanno utilizzato nei loro studi, a partire da Attilio Sarfatti, il curatore delle Memorie del Dogado di Lodovico Manin, Venezia 1886, che riprodusse nella prefazione parecchie lettere del patrizio - Lippomano a A. Querini, Venezia 18, 21 e 28 maggio 1796, in Lettere familiari ad Alvise Querini negli anni 1795-1797, in Venezia, Biblioteca Querini Stampalia, ms. it. cl. VII. 78 (= 1083), cc. n.n. e dispaccio di Querini nr. 87, Parigi 6 maggio 1796, in A.S.V., Senato III Secreta, Francia, filza 267.
93. F. Lippomano a A. Querini, Venezia 30 aprile e 11 maggio 1796, in Lettere familiari.
94. [C. Tentori], Raccolta cronologico-ragionata, I, p. 102.
95. Circolare di Foscarini ai rettori della Lombardia veneta, Verona 20 maggio 1796, allegata al dispaccio nr. 2 inviato quello stesso giorno dal provveditore al senato, in A.S.V., Senato, Dispacci Provveditori generali in Terra Ferma, filza 160.
96. Dispaccio di Foscarini nr. 12, Verona 28 maggio 1796, ibid. Cf. V. Barzoni, Rivoluzioni della Repubblica Veneta, p. 71.
97. Relazione del tenente generale Giovanni Salimbeni, Verona 13 maggio 1796 allegata a dispaccio del rettore di Verona Antonio Marin 2° Priuli, in A.S.V., Senato militar Terraferma, filza 23, e lettera del capitano ingegnere Nicolò dalla Bona a Foscarini, Chiusa 18 maggio allegata al dispaccio del provveditore nr. 4, Verona 22 maggio, ivi, Senato, Dispacci Provveditori generali in Terra Ferma, filza 160.
98. Dispacci di Foscarini nrr. 6 e 8, Verona 24 e 26 maggio 1796 e lettera di Foscarini a Bonaparte, Verona 26 maggio, allegata a dispaccio nr. 8, ivi, Senato, Dispacci Provveditori generali in Terra Ferma, filza 160.
99. Il promemoria dei due ufficiali è allegato al dispaccio nr. 13 di Foscarini, Verona 29 maggio 1796, ore 14, ibid. Di notevole importanza anche le Osservazioni intorno all'esercito francese ed alla sua marcia per lo Stato Veneto di Salimbeni allegate al dispaccio nr. 15, Verona 30 maggio, ore 20. Una versione italiana del proclama di Bonaparte diffuso a Brescia il 28 maggio è allegata al decreto del senato del 2 giugno, ivi, Senato militar Terraferma, filza 23.
100. La relazione di Giusti del 31 maggio 1796 e il dispaccio di Foscarini del 1° giugno in [C. Tentori], Raccolta cronologico-ragionata, I, pp. 116-117 e 119-122. La lettera di Lippomano a (Querini, Venezia 1° giugno 1796, in Lettere familiari.
101. [C. Tentori], Raccolta cronologico-ragionata, I, p. 122.
102. È un'espressione di Alessandro Ottolini, l'ultimo rettore veneziano di Bergamo, affidata alla relazione che presentò al senato il 16 marzo 1797, all'indomani della ῾rivoluzione' della città lombarda: ibid., II, p. 10.
103. Lippomano a Querini, Venezia 2 giugno 1796, in Lettere familiari.
104. I decreti approvati dal senato il 2 giugno su proposta del savio in settimana Ruzzini in [C. Tentori], Raccolta cronologico-ragionata, I, pp. 124-130. Il ῾mazzo' fu approvato con 188 voti a favore, 1 contro e 27 ῾non sinceri' (cf. A.S.V., Senato militar Terraferma, filza 23).
105. Il dispaccio di Battagia e Erizzo, Verona 5 giugno ore 12, in [C. Tentori], Raccolta cronologico-ragionata, I, pp. 131-135.
106. Lippomano a Querini, Venezia 2, 8 e 11 giugno 1796, in Lettere familiari.
107. Cf., a titolo esemplificativo, i dispacci di Foscarini al senato nrr. 8, 21 e 24, Verona 26 maggio, 4 e 6 giugno 1796, in A.S.V., Senato, Dispacci Provveditori generali in Terra Ferma, filza 160.
108. Il dibattito del senato è ricostruito alla luce di F. Calbo, Le "Annotazioni", pp. 229-230; [Id.], Memoria, pp. 158-166; A.S.V., Senato militar Terraferma, filza 23.
109. Cf. i decreti del senato del 7 e 11 giugno 1796 (quest'ultimo, che invitava a consegnare i fucili del territorio, fu approvato con 192 voti a favore e 5 a vario titolo contrari), ibid., filze 23 e 24.
110. [N. 2° G. Erizzo], Lettera ingenua, p. 7; [Giuseppe Priuli?], Lettera critica sull'Esatto diario (agosto 1798), in Venezia, Museo Correr, ms. Cicogna 3059/9; Francesco Pesaro, Copia di lettera scritta dal K Pesaro al Sig. Tommaso Gallino a Venezia (Vienna, 18 luglio 1797), s.n.t. [Venezia 1797], p. 5.
111. Lippomano a Querini, Venezia 12 e 27 luglio 1796, in Lettere familiari. Sulla finanza di guerra cf., tra gli altri, V. Barzoni, Rivoluzioni della Repubblica Veneta, pp. 84-85.
112. Cf. Giacomo Nani, Della difesa di Venezia, a cura di Guerrino Filippi, Venezia 1997.
113. Cf. la relazione del colonnello Zorzi Molari soprintendente alle sale dell'armi dell'Arsenale, Venezia 6 giugno 1796, in A.S.V., Senato militar Terraferma, filza 23.
114. Cf. G.B. McClellan, Venice and Bonaparte, p. 155.
115. Cf. i decreti del senato del 30 luglio e 7 settembre
1796, in A.S.V., Senato militar Terraferma, filza
151.
116. La scrittura di Nani del 5 luglio 1796 in [C. Tentori], Raccolta cronologico-ragionata, I, pp. 156-158.
117. Cf. il dispaccio dell'ambasciatore a Vienna Agostino Garzoni del 6 agosto 1796, ibid., pp. 189-190.
118. Cf. [F. Calbo], Memoria, pp. 163, 173-179 e 194-195 (va ricordato, tra l'altro, che il 1° dicembre 1796 Michiel propose, con il sostegno di Barbaro e di Gabriele Marcello, "l'armo in terra ferma, cariche estraordinarie e studi di tutti li savi" e chi convinse il senato a respingere le "cose estraordinarie" con 101 voti a favore e 59 contro fu il savio in settimana Francesco Pesaro).
119. Dispaccio di Alessandro Ottolini al senato, Bergamo 18 agosto 1796, in [C. Tentori], Raccolta cronologico-ragionata, I, pp. 201-203. Cf. anche ibid., pp. 161, 208-212 e 216-217.
120. Dispaccio di Battagia al senato, Desenzano 23 luglio 1796, in S. Romanin, Storia documentata di Venezia, IX, pp. 233-235.
121. Cf. i dispacci del bailo in Costantinopoli e degli ambasciatori veneziani a Madrid del 9 e 26 luglio 1796 in [C. Tentori], Raccolta cronologico-ragionata, I, pp. 183-189.
122. Cf. i documenti editi ibid., pp. 227-229 e 234-235.
123. Il dispaccio di Battagia, in S. Romanin, Storia documentata di Venezia, IX, pp. 249-252.
124. Cit. in André Bonnefons, La chute de la République de Venise (1789-1797). Un État neutre sous la Révolution, Paris 1908, pp. 203 e 229.
125. Battagia a Piero Donà, Brescia 27 novembre 1796, in A.S.V., Archivio proprio Donà riva de Biasio, in Archivio Marcello Grimani Giustinian, filza 342.
126. [C. Tentori], Raccolta cronologico-ragionata, I, pp. 254-256.
127. Cf. Roberto Cessi, Campoformido, Padova 19732, pp. 48-49.
128. [C. Tentori], Raccolta cronologico-ragionata, I, pp. 277-279.
129. Ibid., pp. 279-283 e F. Calbo, Le "Annotazioni", p. 253.
130. Cf. la bozza di una lettera, forse destinata a Battagia, senza data (ma del novembre-dicembre 1796) né firma, in cui sottolineava che "sono sei mesi che manteniamo la [...] armata [francese] con un peso rovinoso e che non è ormai sostenibile"; "la forza e la fortuna li rendono padroni delle proprietà e delle vite altrui, ma con tali massime non si acquista l'affetto degli uomini. Dunque siamo parziali verso gli Austriaci? tutt'altro, poiché sull'esempio dei Francesi egualmente ci rovinano" (A.S.V., Archivio proprio Donà riva de Biasio, in Archivio Marcello Grimani Giustinian, filza 342).
131. Lippomano a Querini, Venezia 22 febbraio 1797, in Lettere familiari.
132. Cf. il dispaccio del 5 maggio in G. Sforza, La caduta della Repubblica di Venezia, p. 315.
133. Xavier Tabet, 1797. La chute de la République de Venise. L'événement et ses récits, thèse de doctorat, relatore Alessandro Fontana, Université Paris VIII, 1995, I, p. 169 (cf. anche Id., Venise, mai 1797: la révolution introuvable, in Venise 1297-1797. La République des castors, a cura di Alessandro Fontana - Georges Saro, Paris 1997, pp. 129-148). Una ricerca esemplare sia per lo scavo negli archivi francesi (in modo particolare in quello del ministero degli affari esteri) sia perché sorretta da un puntuale esame dell'ampia letteratura sull'argomento.
134. Cf., ad esempio, la scrittura del savio alla scrittura G. Priuli, Venezia 9 marzo 1797, in A.S.V., Senato militar Terraferma, filza 42.
135. A. N-P., Histoire de la Révolution, pp. 215-217. Cf. X. Tabet, 1797. La chute de la République, I, pp. 169-171 (che peraltro non prende in considerazione la testimonianza di A. N-P.).
136. Costituto del capitano ingegnere S. Vidali, Verona 28 marzo 1797, allegato al dispaccio nr. 6 del 28 marzo 1797, in A.S.V., Senato, Dispacci Provveditori generali in Terra Ferma, filza 237.
137. Giovanni Alvise Mocenigo 2° Piero agli inquisitori di Stato, Brescia 16 marzo 1797, ivi, Inquisitori di Stato, Dispacci dei rettori di Brescia, filza 251.
138. A. Balbi, Osservazioni storico-critiche, pp. 40-44.
139. Cf. il Trassunto degli individui militari esistenti nelli qui descritti presidi (Lombardia veneta e Veronese) del 9 gennaio 1797, in A.S.V., Senato, Dispacci Provveditori generali in Terra Ferma, filza 224 e la Relazione degli ultimi avvenimenti in Brescia allegata ad un dispaccio di Battagia al senato, Verona 28 marzo 1797, ibid. (edita in [C. Tentori], Raccolta cronologico-ragionata, II, pp. 26-34).
140. Relazione di Ottolini agli inquisitori di Stato, Venezia 16 marzo 1797, in [C. Tentori], Raccolta cronologico-ragionata, II, pp. 12-13.
141. Dispaccio nr. 97 di Battagia al senato, Brescia 17 marzo 1797, ore 18 1/2, in A.S.V., Senato, Dispacci Provveditori generali in Terra Ferma, filza 224.
142. Cf. [C. Tentori], Raccolta cronologico-ragionata, II, p. 28.
143. Lippomano a Querini, Venezia 15 e 23 marzo 1797, in Lettere familiari.
144. Cf. i decreti del 15, 17 e 18 marzo e i loro allegati, in A.S.V., Senato militar Terraferma, filza 42, soltanto in parte editi in [C. Tentori], Raccolta cronologico-ragionata, II, pp. 16-24. Cf. anche S. Romanin, Storia documentata di Venezia, X, pp. 15-19, che tiene presenti anche le parti segrete del consiglio dei dieci.
145. Ducale del 20 marzo 1797 "alli Savi del Collegio" Pesaro e Corner, in A.S.V., Senato militar Terraferma, filza 43. Cf. S. Romanin, Storia documentata di Venezia, X, p. 23.
146. Ducale dello stesso giorno edita in [C. Tentori], Raccolta cronologico-ragionata, II, pp. 35-36.
147. Ducale dello stesso giorno al provveditore alle lagune e scrittura di Nani del 21 marzo, in A.S.V., Senato militar Terraferma, filza 43.
148. Cf. per i dibattiti e i decreti del 20 e 22 marzo ibid., nonché F. Calbo, Le "Annotazioni", pp. 256-259; [Id.], Memoria, pp. 212-218 e S. Romanin, Storia documentata di Venezia, X, pp. 23-25.
149. A. Balbi, Osservazioni storico-critiche, p. 26.
150. [Angelo 1° Giacomo Giustinian Recanati], Osservazioni imparziali sopra un libro intitolato Memoria che può servire alla storia politica degli ultimi otto anni della Repubblica di Venezia, London [Venezia] 1798 [1799], pp. 6 e 12.
151. F. Calbo, Le "Annotazioni", p. 258; [Id.], Memoria, p. 219. Cf. peraltro [C. Tentori], Raccolta cronologico-ragionata, II, pp. 37-38, che rettifica, nella forma, a mio avviso, non nel merito, la ricostruzione di Calbo.
152. Relazione di Pesaro e Corner, Udine 25 marzo 1797, in [C. Tentori], Raccolta cronologico-ragionata, II p. 48.
153. Lippomano a Querini, Venezia 1° aprile 1797, in Lettere familiari.
154. Ducale del 30 marzo 1797, in A.S.V., Senato militar Terraferma, filza 43; F. Calbo, Le "Annotazioni", pp. 260-261; [Id.], Memoria, pp. 237-239.
155. Le più importanti ducali deliberate il 1° aprile in [C. Tentori], Raccolta cronologico-ragionata, II, pp. 68-72 (per le iniziative di Querini in aprile-maggio dirette a corrompere il Direttorio affinché intervenisse a favore della Serenissima ibid., pp. 142-163); cf. F. Calbo, Le "Annotazioni", p. 261; [Id.], Memoria, p. 243.
156. Lippomano a Querini, Venezia 1° aprile 1797, in Lettere familiari.
157. Ducale del 28 marzo 1797 (approvata dal senato due giorni più tardi) a Battagia e al capitanio di Verona Alvise 1° Contarini, in A.S.V., Senato militar Terraferma, filza 43.
158. Lettera anonima, Verona 25 marzo 1797, in Venezia, Biblioteca Querini Stampalia, ms. it. cl. IV. 534 (= 853), fasc. VI, cc. n.n.
159. Cf. il dispaccio (con gli allegati) di Battagia e Contarini al senato, Verona 24 marzo 1797, in A.S.V., Senato, Dispacci Provveditori generali in Terra Ferma, filza 237. Tutta questa documentazione è stata riprodotta in [C. Tentori], Raccolta cronologico-ragionata, Il, pp. 42-44.
160. Cf. l'Eccitamento allegato al dispaccio di Contarini, Verona 4 aprile 1797, in A.S.V., Senato, Dispacci Provveditori generali in Terra Ferma, filza 235.
161. Lettera ῾aperta' di Landrieux a Battagia, Brescia 14 germinale (3 aprile), cit. in S. Romanin, Storia documentata di Venezia, X, p. 42.
162. Ibid., p. 82.
163. Cf. la lettera dei sindici della Val Sabbia a Giovanelli, Val Sabbia 15 aprile 1797, cit. in S. Romanin, Storia documentata di Venezia, X, pp. 49-50.
164. Cf. R. Cessi, Campoformido, p. 79 n. 65.
165. Cf. A. Bonnefons, La chute de la République de Venise, p. 230.
166. Cf. le lettere di Bonaparte a Lallement e al doge del 20 germinale anno V (9 aprile 1797) e a Pesaro del 22 germinale (in risposta a quella inviatagli dal procuratore il 6 aprile, un atto d'accusa contro le "equivoche direzioni per parte de' Comandanti Francesi" e il comportamento delle legioni lombarda e cispadana) in [C. Tentori], Raccolta cronologico-ragionata, II, pp. 85-87 e 126-129.
167. R. Cessi, Campoformido, p. 108.
168. Cf. in questo stesso volume il saggio di Giovanni Scarabello.
169. Lippomano a Querini, Venezia 1° e 15 aprile 1797, in Lettere familiari.
170. F. Calbo, Le "Annotazioni", pp. 262-263; cf. [Id.], Memoria, pp. 255-258 e A.S.V., Senato militar Terraferma, filza 45.
171. Lippomano a Querini, Venezia 22 aprile 1797, in Lettere familiari (cf. Giovanni Scarabello, Gli ultimi giorni della Repubblica, in AA.VV., Storia della cultura veneta, 5/II, Il Settecento, Vicenza 1986, p. 502 [pp. 487-508], che tuttavia legge: "bisogna essere alte nullità [...] per tener tutto").
172. Cf. le ducali del 15, 17, 18, 21, 26, 27 e 29 aprile e 1° maggio in [C. Tentori], Raccolta cronologico-ragionata, II, pp. 130-133, 140, 168-169, 182-183, 217-220, 234-235 e 250-251.
173. Cf. Andrea Da Mosto, Domenico Pizzamano, "Nuovo Archivio Veneto", n. ser., 23, 1912, pp. 5-51.
174. Lippomano a Querini, Venezia 22 aprile 1797, in Lettere familiari.
175. A.S.V., Senato militar Terraferma, filze 44-45.
176. Enrico Bevilacoua, Le Pasque veronesi. Monografia storica documentata, Verona 1897, pp. 81-87.
177. Giovanelli e Contarini al senato, Vicenza 18 aprile 1797, in [C. Tentori], Raccolta cronologico-ragionata, II, pp. 164-168.
178. Giovanelli e Contarini al senato, Verona 20 aprile 1797, ibid., p. 176.
179. Erizzo ai rettori delle città citate sopra, Vicenza 19 e 20 aprile 1797, ibid., pp. 178-179. Di fronte alle reazioni poco bellicose dei rettori veneziani di Vicenza e di Padova e, in modo particolare, dei rappresentanti dei corpi della città e territorio di Vicenza (cf. il memoriale, che figura quale inserta nr. 2 della lettera del capitanio di Vicenza Girolamo Barbaro del 21 aprile: gli abitanti si dichiaravano "impossibilitati [...] per le loro attuali circostanze a prestar un'efficace difesa" e quindi "non bene disposti a cooperare dal loro canto alle pubbliche disposizioni, prevedendo che una resistenza esser potesse la cagione immediata di quelle pubbliche calamità, che le armate belligeranti hanno fatto sempre esperire alle popolazioni, che avevano opposta resistenza ai loro progressi"), il 22 aprile il senato bocciò le ducali approvate dai savi il giorno prima, che invitavano a "disporre i possibili mezzi alla cauta difesa" e a "tenere animati e pronti li villici", e le sostituì - con una votazione quasi plebiscitaria: 157 a favore, nessuno contro, 14 ῾non sinceri' - con ordini meno impegnativi ("allontanare possibilmente da cotesti amatissimi Sudditi li pericoli compromittenti la loro tranquillità e sicurezza" e quindi, "all'occasione di passaggi e stazioni di estere truppe", far sì che osservassero "un moderato contegno, non esclusa però la difesa al caso di violenze o sopraffazioni"): cf. A.S.V., Senato militar Terraferma, filza 46 e, per la ducale remissiva del 22 aprile, [C. Tentori], Raccolta cronologico-ragionata, II, pp. 188-189. In effetti, quando quel giorno stesso il senato dichiarava al residente a Milano che "l'armo dei nostri sudditi non è dippendente da' pubblici ordini, ma affatto spontaneo delle popolazioni e diretto soltanto a diffendersi dalle temute aggressioni e violenze degl'insorgenti" (A.S.V., Senato militar Terraferma, filza 46), spacciava senza dubbio una mezza verità ("l'armo" era stato deciso a Venezia, non in periferia), ma coglieva anche nel segno nella misura in cui faceva dipendere l'incisività dell'"armo" dalla risposta, più o meno entusiastica, delle popolazioni.
180. Lippomano a Querini, Venezia 22 aprile 1797, in Lettere familiari.
181. [F. Calbo], Memoria, p. 290.
182. Il 27 aprile i savi ordinarono il ritiro delle truppe da Padova e da Rovigo e la loro concentrazione a Venezia: cf. [C. Tentori], Raccolta cronologico-ragionata, II, p. 238 e A.S.V., Senato militar Terraferma, filza 46.
183. Donà e Giustinian al senato, Gradisca 28 aprile 1797, in [C. Tentori], Raccolta cronologico-ragionata, II, pp. 227-229.
184. Donà e Giustinian al senato, Codroipo 1° maggio 1797, ibid., pp. 252-253.
185. Il manifesto di guerra datato Palma Nova 12 fiorile - 1° maggio, ibid., pp. 262-264. Cf. in questo volume il saggio di G. Scarabello.
186. Lallement al ministro degli esteri Charles Delacroix, "Venise le 5 germinal an V" (25 marzo 1797), "le 12 germinal" (2 aprile), "le 4 et 10 floréal" (23 e 29 aprile), in X. Tabet, 1797. La chute de la République, II, Annexes, pp. 7-8, 16 e 19; cf. la relazione di Pesaro al senato, Venezia 29 aprile 1797, in [C. Tentori], Raccolta cronologico-ragionata, II, p. 237.
187. Lippomano a Querini, Venezia 26 aprile 1797, in Lettere familiari.
188. X. Tabet, 1797. La chute de la République, I, pp. 147-161.
189. Ibid., p. 161.
190. F. Calbo, Le "Annotazioni", pp. 262-263.
191. Lippomano a Querini, Venezia 15 aprile 1797, in Lettere familiari.
192. Cf. sopra la n. 110. Gli ultimi decreti approvati dal senato il 29 aprile ebbero quali oggetti il "maggior possibile presidio e tutela de' più importanti punti dell'Estuario e Littorali", "l'interna tranquillità e sicurezza" e "l'affluenza dei generi tutti necessari al sostentamento di questa Città" (cf. [C. Tentori], Raccolta cronologico-ragionata, II, pp. 238-241 e A.S.V., Senato militar Terraferma, filza 46).
193. Cf. [C. Tentori], Raccolta cronologico-ragionata, II, p. 227.
194. Ibid., p. 241.
195. Ibid., pp. 244-245.
196. Ibid., p. 248.
197. Copia di lettera scritta dal K. Pesaro al Sig. Tommaso Gallino a Venezia, pp. 18-20; [F. Calbo], Memoria, p. 302.
198. [N. 2° G. Erizzo], Lettera ingenua, pp. 18-19; F. Gritti, Pensieri, pp. 95-96; [C. Tentori], Raccolta cronologico-ragionata, II, p. 278.
199. Scrittura di G. Nani, Venezia 21 marzo 1797, allegata alla ducale del 22 marzo che l'approva, in A.S.V., Senato militar Terraferma, filza 43.
200. [F. Calbo], Memoria, p. 204.
201. Cf. [C. Tentori], Raccolta cronologico-ragionata, II, p. 173 (tuttavia le cifre non coincidono sempre con quelle presenti nell'originale: cf. A.S.V., Senato militar Terraferma, filza 45).
202. Cf. il brano delle memorie di Pisani cit. in Mario Brunetti, Un responsabile della caduta della Repubblica? Le accuse e l'autodifesa di Almorò Pisani, "Ateneo Veneto", luglio-dicembre 1925, p. 127 (pp. 107-148).
203. Cf. [C. Tentori], Raccolta cronologico-ragionata, II, pp. 265-268 e 275-276.
204. [F. e P. Donà], Esatto diario, pp. XL-XLIX.
205. Cf. sopra la n. 110.
206. [F. Calbo], Memoria, p. 358.
207. Cf. la ricostruzione di G. Scarabello in questo stesso volume.
208. [F. Calbo], Memoria, p. 359.
209. A. Balbi, Osservazioni storico-critiche, p. 80.
210. V. Barzoni, Rivoluzioni della Repubblica Veneta, p. 41.
211. Il 1° maggio, quando propose la parte, che di fatto sanzionava la scomparsa della Repubblica marciana, il doge "fu secondato [...] dal Consigliere Zuanne Minotto e dal Capo di 40 Pietro Bembo" (cf. [C. Tentori], Raccolta cronologico-ragionata, II, p. 248), vale a dire da due barnaboti incaricati di rassicurare la ῾base' patrizia.
212. A. Balbi, Osservazioni storico-critiche, p. 57.
213. Cf. il trattato nell'appendice di [F. e P. Donà], Esatto diario, pp. LI-LVI.
214. Cf. Michele Gottardi, L'Austria a Venezia. Società e istituzioni nella prima dominazione austriaca 1798-1806, Milano 1993.