La fine della vita
Affrontare l'inevitabilità della morte, termine ultimo della vita, rappresenta da sempre una sfida per l'uomo. L'uomo occidentale oggi rifiuta lo morte, cerca di vincerne l'insensatezza attraverso una vita piena di successo, sana e lunga. La medicina, intesa come tecnologia medica, è lo più potente risorsa dell'uomo per sconfiggere lo malattia e tenere a bada lo morte. Tuttavia, questa è comunque inevitabile e quello che diventa importante è controllare il momento, le condizioni e il modo in cui si muore. Non solo l'individuo, ma lo società, i sistemi sanitari e i provvedimenti legali in molti paesi occidentali sembrano sostenere questo atteggiamento di rifiuto. Non è più chiaro dove si collochi lo differenza fra le opinioni religiose e quelle laiche sulla fine della vita. L'arte di morire è segnata dal pluralismo culturale.
Vita e morte
La morte è inevitabile ma non incontrollabile
La morte fa parte della vita. Il fisiologo francese Claude Bernard (1878) ha affermato: "La vita è la morte". In effetti, non esiste vita senza morte e questa consapevolezza ha rappresentato per l'uomo, in tutti i tempi, una certezza sconcertante. Oggi il genere umano cerca di convivere con tale consapevolezza o ignorando la morte o esercitando su di essa un controllo. Nel 20° secolo l'uomo è riuscito, infatti, a ritardarla, seppur non all'infinito. La vita si è universalmente allungata, la sua qualità è migliorata, ma i suoi limiti temporali non sono stati oltrepassati. In Occidente l'atteggiamento tradizionale nei confronti della morte, sintetizzato nell'espressione "lasciare che la natura segua il suo corso", è oggi profondamente contrastato. La prevenzione della morte prematura ha certamente costituito un obiettivo che, specie nei paesi sviluppati, la medicina moderna ha realizzato in larga misura. Talvolta, comunque, il prezzo per la sopravvivenza è economicamente e moralmente sproporzionato e appare irragionevole. Inoltre, la vita, anche se prolungata, ha comunque un termine: l'uomo è destinato a morire.
Durante la seconda metà del 20° secolo, le reazioni individuali e culturali nei confronti della morte come destino dell'uomo sono notevolmente cambiate. P. Ariès (1974) definisce l'atteggiamento odierno come "negazione della morte". Atteggiamenti comuni caratteristici di periodi precedenti, pur resi noti a noi dagli storici, raramente giocano ancora un ruolo decisivo. Così, la familiarità con la morte durante il Medioevo, quando "la morte era di casa" o la morte dell'Io quale ultimo atto di un dramma personale, il rigoroso modello dell'ars moriendi durante il Rinascimento o la morte dell' altro come la fine di una relazione, durante l'ultimo secolo, possono tutti essere concetti noti, ma non impediscono di chiudere gli occhi di fronte all'innegabile certezza della morte futura. La parola negazione indica molto chiaramente che non vogliamo sapere pur essendo certi che moriremo. Il problema non è tanto quello della consapevolezza, quanto piuttosto quello del rifiuto. È possibile identificare due strategie attraverso le quali l'uomo persegue questo atteggiamento. Una consiste ne Il 'inesorabile impegno medico di posticipare la morte, l'altra nello sforzo culturale per far fronte all'insicurezza e all'incertezza riguardo a cosa accada dopo di essa. Un corollario importante della prima strategia è l'ambizione, tipica dell 'uomo occidentale, di dominare la propria morte, riuscendo a controllame il momento, il luogo e le modalità.
Oggi la medicina dispone di un infinito armamentario di tecniche e di farmaci per sconfiggere la malattia e tenere a bada la morte. Dopo la Seconda guerra mondiale, molti paesi sviluppati hanno investito massicciamente in tecnologie mediche, allo scopo di rendere durevole l'effetto immediato dell'intervento di pronto soccorso che aveva comportato un successo solo provvisorio nella rianimazione dei pazienti. La rianimazione cardiopolmonare, per esempio, oggi mantiene artificialmente in vita persone che, soltanto pochi anni fa, sarebbero state senza speranza; il macchinario impiegato, infatti, attraverso l'ossigenazione artificiale, stabilizza la situazione del paziente e la mantiene sotto controllo.
Analogamente, durante gli anni Cinquanta fu ideato il rene artificiale, che ha salvato la vita a migliaia di pazienti sofferenti di insufficienza renale. Ben presto, è seguito il trapianto di reni, il primo nel 1954, che ha prolungato di anni la vita a numerosi pazienti. Trapianti di cuore, di occhi, di fegato, di polmone e in seguito eterotrapianti con esiti sempre migliori si sono aggiunti alla lista. La tecnologia soccorre, quindi, la medicina nella lotta contro la morte prematura. Alla fine, comunque, è l'età stessa a porre il limite ultimo alla vita. La morte è inevitabile. Questo, d'altra parte, non significa che l'uomo non abbia alcun potere su di essa, sul come, quando e dove sopraggiungerà. Né, tantomeno, significa che l'impatto sociale e culturale del morire non possa essere migliorato. Indubbiamente, ora più che nei tempi precedenti, l'uomo ha accettato la sfida di padroneggiare la morte. Recenti sviluppi nelle società occidentali, sostenuti da argomentazioni morali e a volte anche giuridiche, mostrano una chiara tendenza a riconoscere il "diritto di morire". La scelta strettamente personale di pazienti terminali, capaci di intendere e di volere, nel determinare il momento e le modalità della loro morte, viene, sempre più, accettata e persino approvata dalla società. L'inevitabilità della morte è estremamente gravosa per l'esistenza individuale umana. La specie sopravviverà, forse anche a costo di lasciar morire individui. Ma che dire dell'esistenza dell'individuo: la morte è realmente conclusiva per lui? La consapevolezza dell'inevitabile giungere della morte sembra suscitare reazioni molto diverse nella gente. Alcune persone si rasserenano all'idea di sopravvivere nella progenie, attraverso le opere d'arte realizzate, le imprese politiche e militari, nell'aldilà. Per la maggior parte delle persone, però, "l'angoscia esistenziale" resta, nonostante le realizzazioni e i successi raggiunti. Quest' ansietà, pressoché indelebile, dovrebbe stimolare la ricerca morale dei rimedi contro la paura della morte (Fagot-Largeault, 1996). l sociologi ritengono che, nella maggior parte delle società e delle civiltà, "da popoli così primitivi come gli aborigeni australiani fino alle più sofisticate religioni del mondo, la convinzione dell'esistenza di un'anima individuale è stata presente [ ... ]. Il persistere di una tale credenza e i fattori che ne determinano il sorgere forniscono la cornice per la problematica della morte nel mondo occidentale" (Parsons, 1996). Da un punto di vista storico, è stato affermato che "probabilmente il tema che singolarmente è più persistente nella riflessione filosofica occidentale sulla morte è la visione della morte non come annullamento dell'lo, ma come sua trasformazione in un'altra forma di esistenza" (Momeyer, 1996). Cionondimeno, gli orientamenti scientifici contemporanei, esemplificati nelle tecnologie biomediche, hanno contribuito ai profondi mutamenti nella percezione, da parte della gente comune, di valori e norme. Allora "non è sorprendente che ci sia una gran quantità di turbamento, ansietà e confusione assoluta nelle tendenze e nelle opinioni contemporanee in questo campo" della morte e del morire (Parsons, 1996).
Il modo in cui viviamo riflette ciò che crediamo riguardo alla morte. Il modo in cui valutiamo la vita riflette anche la nostra interpretazione della morte o la nostra carenza in tal senso. È difficile discutere sulla fine della vita senza riferirsi al valore della vita in sé. Dobbiamo parlare francamente, specialmente nelle situazioni in cui la fine della vita, sia essa provocata con un atto intenzionale o lasciata accadere, si imponga all'attenzione. Per molti la vita è sacra e non si può porle un termine secondo il desiderio dell'uomo. La concezione della vita come sacra proviene dalla convinzione religiosa che Dio abbia dato la vita all'uomo o dalla convenzione sociale fra cittadini che impone allo stato il dovere di assicurare loro protezione. Sia essa religiosa o profana, la proibizione riguarda inizialmente tutto ciò che concerne la vita in un contesto medico. Della vita, dunque, non può disporre ogni essere umano.
Un'altra controversia all'interno di questo dibattito nasce relativamente alle nozioni di essere umano come individuo e come persona. Qui, ancora una volta, si tratta di un valore di cui non è possibile disporre; l'essere persona è definito in modi assai diversi. Per alcuni, la persona sopravvive persino alla morte, per quanto quest'ultima possa trasformarla. Inoltre, non è ammissibile la divisione degli esseri umani in esseri 'niù o meno' meritevoli di vivere. Per altri, la vita non ha un valore maggiore di qualunque altro fenomeno biologico, e l'essere persona assume valore attraverso l'esperienza. Secondo gli utilitaristi, per esempio, gli esseri umani esistono solo fmché sia presente in essi la coscienza. Per costoro sono dotate di valore le sole esperienze consapevoli. Una volta perduta la coscienza, non si ha più un'esistenza umana normale. Un mutamento ancor più grande nel modo in cui noi valutiamo la vita si esprime nella distinzione fra vita biologica e vita biografica come categoria eticamente rilevante. Questa distinzione è stata utilizzata (Rachels, 1975) per descrivere il passaggio da un contenuto determinato e oggettivo a uno definito soggettivamente. In effetti, una biografia contiene tutto quello che è rilevante per l'individuo: aspirazioni, decisioni, scelte, conquiste, progetti e relazioni umane. Come logica conseguenza di ciò, quando un individuo è senza biografia, ucciderlo non sarebbe equivalente a distruggere una vita.
È, allora, facile affermare che la morte, benché inevitabile, non è al di fuori del nostro controllo. Come vedremo oltre, per alcuni un tale controllo è in accordo con linee guida eteronome, mentre per altri è l'ultima occasione di affermare l'autonomia dell'uomo e il suo diritto all'autodeterminazione.
Accertamento e definizione della morte
Accertare la morte di una persona è competenza professionale dei medici. Definire, invece, la morte è una questione diversa, la cui decisione spetta alla società nella sua interezza. Fino agli anni Cinquanta, la morte era definita cessazione irreversibile delle funzioni circolatorie e respiratorie. Da allora, nuove tecnologie, come gli apparecchi per la respirazione artificiale e le tecniche di rianimazione cardiopolmonare, unitamente a una migliore conoscenza delle funzioni neurologiche, hanno creato il bisogno di criteri diversi e di una nuova terminologia, sia per accertare, sia per definire la morte.
Il nuovo criterio, l'unico ampiamente riconosciuto, adottato per la definizione di morte è quella di morte cerebrale, oggi intesa come cessazione irreversibile di tutte le funzioni dell'intero cervello, incluso il tronco cerebrale. Questo concetto venne introdotto nel 1959 dai neurologi francesi P. Mollaret e M. Goulon con l'espressione "coma dépassé" (stato oltre il coma). Nel decennio successivo si svilupparono tecniche e criteri migliori per l'accertamento della morte. Un Comitato della Harvard MedicaI School descrisse, in un famoso rapporto, nel 1968, i criteri neurologici del coma irreversibile o whole brain death (morte dell'intero cervello), come uno stato caratterizzato da: mancanza di recettività cerebrale e di reattività, assenza di movimenti e di respirazione, assenza di riflessi ed elettroencefalogramma piatto. Un'altra definizione tuttora dibattuta è quella di stato vegetativo persistente a seguito di danno cerebrale,persistent vegetative state after brain damage, che fu per la prima volta coniata da B. Jennett e F. Plum (1972). Negli Stati Uniti, nel 1994, una Multisociety task force on the persistent vegetative state, Multisocietà di reparto di intervento sullo stato vegetativo persistente, suggerì l'utilizzazione di due diverse definizioni: quella di stato persistente per indicare che lo stato vegetativo era presente da più di un mese; quella di stato permanente, quando la condizione è considerata irreversibile, di norma dopo 12 mesi (Multi-Society, 1994).
La categoria medica, nel compiere l'accertamento di un decesso, generalmente ricorre tanto ai criteri della morte cardiorespiratoria, quanto a quelli della morte cerebrale. Comunque, l'accertamento e la defmizione di morte possono differire per il momento in cui viene identificata la cessazione della vita. La società può qui trovarsi di fronte a un dilemma: adottare una politica unitaria che trovi una definizione univoca di morte, o tollerare questa differenziazione come un'altra espressione di pluralismo culturale? Ciò che questo può concretamente significare viene di seguito esemplificato. "Una famiglia con un bambino in stato di morte cerebrale potrebbe insistere sulla necessità di terapie per il suo mantenimento in vita finché non sopravvenga la morte cardiopolmonare, mentre altri potrebbero sostenere che il bambino è già morto e che dovrebbe essere trattato come tale" (Emanuel, 1995). Le conseguenze per l'attività medica sono comunque problematiche. Per coloro che accettano i criteri della morte cerebrale sarebbe una corretta prassi clinica spegnere l'apparecchio per la respirazione artificiale e interrompere la nutrizione e l'idratazione. Per coloro che accettano esclusivamente i criteri cardiopolmonari, questa sospensione costituirebbe, quanto meno, eutanasia passiva.
Pratiche mediche per il paziente in fin di vita
L'odierno atteggiamento del mondo occidentale di "negazione della morte" descritto da Ariès è largamente influenzato dalle pratiche mediche che celano la morte, la rendono un fatto clinico e, soprattutto, la prevengono. Il risultato di tali pratiche lo si può vedere accanto al letto di morte, nei luoghi di "nascondigli" specializzati, come le unità di cura intensiva, le strutture di ricerca oncologica e il pronto soccorso (Nuland, 1994). Allo stesso tempo, la gente non sempre desidera l'adozione di misure straordinarie. Un gran numero di persone, oggigiorno, infatti, aspirano all'ideale di 'morte con dignità', non in ospedale bensì a casa. Nei casi in cui la sofferenza non può essere controllata e la morte è inevitabilmente alla porta, un numero crescente di pazienti richiede l'aiuto dei medici per il suicidio assistito o per l'eutanasia. È interessante notare che nei Paesi Bassi, nazione verso cui si volge l'attenzione a causa della liberalizzazione delle pratiche dell'eutanasia, il 65% di tutti i decessi si verifica in casa e il 75% di tutti i casi di eutanasia e suicidio assistito ha luogo sotto la supervisione di un medico di famiglia.
Prassi comune della medicina generica e degli ospedali
Generalmente i medici di oggi non sono adeguatamente preparati a lavorare con pazienti gravemente malati e prossimi alla morte. La formazione medica e la routine spesso li rendono insensibili e questo rappresenta un handicap nel momento in cui sono tenuti a prestare cure attente e premurose a un paziente. In effetti molti stati, come per esempio i Paesi Bassi, promuovono iniziative per cercare di modificare la formazione degli studenti e dei medici interni. In molti altri stati l'Hospice movement si è notevolmente diffuso e medici e infermieri imparano nuovamente come stare accanto ai malati terminali.
Nell'America Settentrionale, il 75% dei pazienti muore negli ospedali o nelle cliniche private, ma la tendenza a permettere ai pazienti di morire in casa sembra in ripresa. In alcuni ospedali è diffusa la consapevolezza dello svantaggio che sia l'ambiente ospedaliero a prendersi cura dei moribondi. Si vuole far prendere migliori decisioni sulla fine della vita e ridurre la frequenza di agonie dolorose e prolungate. Uno studio negli Stati Uniti ha mostrato che, nonostante un terzo dei pazienti in un ospedale preferisse che non gli venisse effettuata alcuna rianimazione cardiopolmonare (CPR, CardioPulmonary Resuscitation), meno della metà dei medici era a conoscenza di quel desiderio (Support, 1995). È stato anche osservato che il controllo della sofferenza non è ottimale, anzi peggiora negli ultimi giorni prima della morte. S.E. Nuland, egli stesso chirurgo e docente di medicina, ritiene che l'arte medica, che consiste nel gestire il processo della morte rendendo lo tanto sereno quanto è possibile per mezzo della gentilezza professionale, si sia ormai persa. Piuttosto, è stata sostituita da "l'abilità professionale nel praticare il soccorso e, sfortunatamente, anche dal troppo comune abbandono del paziente quando il soccorso si dimostri impossibile" (Nuland, 1994).
Misure straordinarie
L'accanimento terapeutico è stato abbastanza diffuso fino alla metà del 20° secolo. Il potere nascente della tecnologia biomedica era tale che molti casi, che in tempi precedenti sarebbero stati considerati persi, potevano essere risolti. Ancora oggi l'adozione di misure straordinarie costituisce una pratica diffusa. Le frontiere delle tecnologie impiegate per salvare la vita si vanno continuamente spostando. La vita, così si argomenta, deve essere, infatti, salvata a ogni costo e indiscriminatamente. Specialmente nei sistemi sanitari a pagamento, come ne esistono negli Stati Uniti, il criterio della giustificazione dei costi in questi casi non può trovare sempre applicazione. Invece si ricorre spesso alla medicina d'urgenza e alle misure straordinarie, indipendentemente dalle possibilità di successo o dalla qualità delle vite che possono essere prolungate (Lidz, 1996).
D'altro canto, negli ambienti medici e non, l'adozione di misure straordinarie è stata messa in discussione, poiché considerata accanimento e controproducente e ingiustificata aggressione del paziente morente. l medici generici oggi, qualora sia consentito dal sistema legale e sociale del loro paese, mettono in discussione l'insensatezza e l'inutilità di certi interventi. Per quanto riguarda le riserve da parte della società nei confronti dei trattamenti medici continuati a oltranza, già verso la metà degli anni Cinquanta diversi movimenti religiosi introdussero la distinzione tra mezzi ordinari e straordinari nell'ambito del trattamento medico. Negli anni Ottanta tali concetti sono stati ulteriormente definiti secondo un 'criterio di proporzionalità'. Così, la dichiarazione (Iura et bona) sull' eutanasia della Congregazione vaticana per la dottrina della fede (1980) afferma che, con il consenso del paziente: "È anche permesso interrompere l'applicazione di questi mezzi, laddove i risultati non corrispondano alle aspettative. [ ... ] È sempre ammissibile che ci si serva dei normali mezzi che la medicina può offrire. [ ... ] Quando la morte inevitabile è imminente nonostante i mezzi usati, è permesso in coscienza prendere la decisione di rifiutare forme di trattamento che assicurerebbero solo un prolungamento precario e gravoso della vita, purché la cura normale dovuta a una persona malata in casi similari non sia interrotta".
L'hospice movement
L' hospice movement è nato nel 1967 , quando C. Saunders aprì il Saint Chrìstopher's Hospice a Londra. Il suo scopo era quello di offrire cure ai pazienti terminali ormai incurabili, soprattutto ai malati di cancro. Spesso questi pazienti dovevano sopportare sofferenze indicibili. Cure adeguate ad alleviare le sofferenze e a restituire un po' di sollievo e qualità di vita hanno sempre rappresentato un obiettivo primario del movimento. Giustamente, laddove nessuna cura possa più essere offerta, l'attenzione si sposta sulla terapia sintomatica o sulla somministrazione di palliativi. Poiché l'hospice movement si occupa degli ultimi giorni di vita, ciò implica che i pazienti devono rinunciare alle tecniche di mantenimento in vita. Infatti, molto spesso, nell' hospice non è presente questo tipo di attrezzature e di impianti medici. Ciò è comprensibile perché, in linea di principio, l'assistenza in tali strutture non è compresa nei servizi ospedalieri. Per di più, l'assistenza vuole essere olistica e cerca di venire incontro ai bisogni sia personali che sociali e spirituali dei pazienti, dei parenti e degli amici. Proprio per questa complessità e ampiezza dell' assistenza, si è spesso constatata l'impossibilità di riproporre gli stessi servizi negli ospedali e in altre strutture mediche. Perciò, conformemente ai suoi obiettivi e grazie all'aiuto di numerosi volontari, l'assistenza dell 'hospice movement si è concentrata molto più a livello domiciliare.
A livello mondiale, l'hospice movement ha trovato un forte sostegno, da un punto di vista psicologico, nella pubblicazione, nel 1969 , che è stata un successo di vendite di On death and dying (trad. it., La morte e il morire) di E. Kübler-Ross. Il principale tema del libro è la lotta dell'uomo per venire a patti con la morte. Questa lotta, secondo il parere della Kübler-Ross, attraversa cinque fasi: rifiuto e isolamento, rabbia, contrattazione, depressione e accettazione. Per molti pazienti e per la maggior parte degli operatori nell 'hospice, sia volontari sia professionisti, queste formulazioni sono state utili per assistere il malato terminale nell'hospice, in quello che Saunders ha definito "l'unico periodo nella malattia del paziente in cui la prolungata sconfitta della vita può essere gradualmente convertita in un'accettazione positiva della morte".
Certamente, l'hospice movement ha contribuito a mitigare non solo la sofferenza fisica dei malati terminali, ma anche quella spirituale. Tuttavia, persino il sistema hospice britannico, ogni anno concede i suoi efficaci servizi a meno del 10% di coloro che stanno morendo. Negli Stati Uniti d'America i programmi hospice si prendono cura di circa il 15% di tutti i moribondi. Ovviamente le ristrettezze frnanziarie e la scarsità delle risorse, che comportano inevitabilmente un accesso limitato ai malati indigenti, sembrano essere il maggior freno dell 'hospice movement. A metà degli anni Novanta ha nuovamente ripreso vigore il dibattito sulla medicina palliativa e sul suo rapporto con gli ospedali. È convinzione ricorrente che, benché le cure palliative facciano già parte dell' assistenza ospedaliera, gli ospedali possono ancora imparare dall 'hospice movement come migliorame l'applicazione.
Eutanasia e suicidio medico-assistito
Oltre a contrastare e a ritardare la morte, l'uomo ha sempre affrontato la possibilità di accelerare il processo e di determinare attivamente il termine della propria vita. Nell'antichità, gli stoici rappresentano solo un esempio delle molte culture che conobbero la morte autodeterminata quando si riteneva ne fosse giunto il momento. Questa è una questione morale che, nella sua versione attuale del suicido medico-assistito, riguarda molti più pazienti prossimi alla morte di quanto non sia accaduto in passato. A partire dal Rinascimento, il desiderio di disporre di medici che non solo aiutassero i pazienti intenzionati a porre fine alla propria vita ma che praticassero l'eutanasia è divenuto un'esigenza diffusa. Francis Bacon fu il primo a introdurre il termine "eutanasia, una morte tranquilla, senza sofferenza e serena". Egli raccomandò anche ai medici di perfezionare la loro arte e di essere d'aiuto nell'alleviare l'agonia e la sofferenza del morire.
Medici ed eutanasia
Generalmente, le associazioni mediche si oppongono tanto all'eutanasia quanto al suicidio assistito. Un'indagine realizzata nel 1994 (Shapiro et al., 1994) mostra che nella maggior parte dei paesi la professione medica insiste ancora sulla proibizione legale e morale per un medico di porre fine intenzionalmente alla vita di un paziente. Per esempio, il Commentaire du Code de Déontologie Médicale (Commentario al codice medico francese) del 1996 (Ordre National, 1996) si riferisce all'eutanasia come a un intervento irreversibile che viola la legge francese e la Convenzione europea del 1950 per la protezione dei diritti e delle libertà fondamentali dell'uomo.
Un numero crescente di medici, comunque, sostiene il diritto dei malati terminali, adulti e coscienti, che siano gravemente sofferenti, di chiedere nel trapasso l'assistenza di un dottore. l Paesi Bassi sono il primo e finora l'unico paese in Europa ad aver reso l'eutanasia e il suicidio medico-assistito legalmente ammissibili. Grazie a una chiara definizione della pratica dell' eutanasia, la professione medica ha potuto evitare condanne da parte delle corti di giustizia. l giudici hanno adottato una posizione molto indulgente in casi in cui un medico sia stato in grado di provare di essersi trovato stretto in un conflitto di doveri e di conseguenza di avere scelto di dare maggior peso al rapporto di fiducia con il paziente che gravemente sofferente aveva richiesto l'eutanasia (Maas et al., 1991). Nel 1994 fu introdotto, e recentemente discusso (Wal e Maas, 1996), l'obbligo di denunciare ufficialmente al coroner tutti i casi di morte non naturale. Altri stati sembrano andare incontro a uno sviluppo analogo, seppure in modo meno trasparente. Così il 46% dei medici generici britannici e dei medici ospedalieri, riteneva che avrebbe dovuto essere autorizzato dalla legge a porre termine alla vita di un paziente terminale che avesse richiesto l'eutanasia, contrariamente al 44% che si opponeva alla concessione di tale autorizzazione. In modo più o meno simile, più di un terzo dei medici danesi considera accettabile l'eutanasia e il suicidio medico-assistito. La loro opinione si basa sul diritto del paziente di autodeterminarsi, sul fatto che egli non dovrebbe essere obbligato a soffrire e sul suo diritto a essere aiutato a morire in modo dignitoso (Polker et al., 1996).
L'AMA, American Medicai Association, (l'Associazione medica americana) ha nel 1996 votato pressoché all'unanimità la sua opposizione al suicidio medico-assistito. Per l'associazione consentire ai medici di prendere parte al suicidio assistito comporterebbe più svantaggi che benefici. Questa pratica viene, infatti, considerata fondamentalmente incompatibile con il ruolo di guaritore del medico. Un'indagine condotta fra gli oncologi americani ha rilevato che il 57% ha ricevuto una richiesta di eutanasia o di suicidio assistito e che il 14% ha affermato di aver praticato l'eutanasia o il suicidio assistito su richiesta del paziente. La stessa indagine è stata svolta anche tra i malati di cancro e tra un campione di popolazione. È emerso che due terzi degli intervistati ritenevano l'eutanasia e il suicidio medicoassistito accettabili per quei pazienti affetti da una malattia inguaribile (Emanuel et al., 1996). Questo conferma i risultati di numerosi sondaggi d'opinione secondo i quali il 63% degli americani ritiene che ai medici dovrebbe essere consentito di porre termine alla vita dei malati incurabili che richiedono l'eutanasia (Blendon et al., 1992).
Orientamenti sociali e legali in tema di eutanasia
In molti stati occidentali, le decisioni mediche sulla fine della vita sono state incluse decisamente nella terminologia sociale, morale e legale. L'interazione tra la legge e l'etica nel campo della medicina ha dato origine alla nuova disciplina chiamata bioetica. Questa disciplina gioca un ruolo importante sia per l'individuo che voglia riflettere sui diritti e sui doveri, sia sul piano del dibattito pubblico. L'intreccio della legge con l'etica, specialmente nell'ambito della scienza medica, ha determinato un'informazione giuridica di complesse questioni etiche sul termine della vita. Il principale attore in questo campo è, comunque, l'essere umano come individuo, la cui posizione è completamente cambiata nell' epoca postmoderna.
La società permissiva: l'individualizzazione come fenomeno sociale
L'individualizzazione è una tendenza predominante nella società occidentale odierna. L'indagine sui valori europei (European Values Survey), effettuata nel 1981 e ripetuta nel 1990 ha mostrato che, insieme alla decristianizzazione e alla secolarizzazione, l'individualizzazione può spiegare il motivo per cui l'eutanasia sia stata largamente accettata e sia addirittura avvertita come rispettosa dei valori e delle norme basilari (Ester et al., 1993). L'individualizzazione rappresenta due cambiamenti: il primo è che la società ha perso molto del suo potere di agente normativo, le cui regole venivano interiorizzate dall'individuo; il secondo è che la felicità individuale prevale sul sacrificio di sé e che l'individuo può pretendere anche dalla società un contributo alla propria felicità. lnoltre, la transizione dalla 'vita biologica' alla 'vita biografica' come categoria moralmente adatta ad apprezzare il valore della vita dà corpo alla tendenza culturale all'individualizzazione. L'Indagine sui valori ha confermato queste tendenze e ha rivelato che i giudizi in tema di adulterio, prostituzione, omosessualità, divorzio, suicidio, aborto ed eutanasia si basavano tutti su un valore di riferimento comune. Sono stati riscontrati, infatti, solo due tipi di reazioni: una reazione rigida e una permissiva, anche se quest'ultima era articolata in vari tipi di comportamento. Per esempio, si riteneva in generale che il suicidio fosse meno giustificabile dell'eutanasia (Moor, 1996), a sua volta, l'eutanasia, intesa come interruzione della vita di un malato incurabile, era considerata un diritto morale o un atto neutro. Nella ripetizione dell'Indagine, nel 1990, è risultato che nella maggior parte dei paesi la tolleranza in campo morale è notevolmente aumentata durante gli anni Ottanta.
Le corti di giustizia e le decisioni sulla fine della vita
A partire dalla metà degli anni Settanta in qualche stato europeo, ma con più frequenza negli Stati Uniti, si sono verificati sempre più numerosi casi giudiziari di ricorso alle corti di giustizia per decisioni relative alla morte e alle sue modalità. Ad esse venivano presentate le richieste dei pazienti o dei parenti di pazienti privi della facoltà di intendere. Contemporaneamente, i casi giudiziari contro medici che praticavano l'eutanasia o il suicidio assistito avevano creato nuova giurisprudenza in molti stati. In alcuni paesi, per esempio nei Paesi Bassi, questi casi sono giunti fino ai più alti gradi del giudizio. Negli Stati Uniti simili casi giudiziari, insieme alla crescente attività legislativa nei diversi stati, obbligherà la Corte Suprema a occuparsi di queste cause prima della fine dell'anno 2000. La Corte Suprema potrà allora affermare o che tutti i cittadini hanno interesse nella libertà del suicidio medico-assistito, o che ogni stato può stabilire una propria linea di condotta (Capron, 1995). La questione cruciale, qui, è che i giudici inevitabilmente dovranno dare indicazioni sul problema della legalizzazione di nuove pratiche relative alla fine della vita. Un esempio in tal senso è rappresentato dalla validità riconosciuta alle disposizioni anticipate di trattamento (advance directives) di cui discuteremo ora.
Volontà di vivere e disposizioni anticipate di trattamento
Le disposizioni anticipate di trattamento esprimono il volere del paziente prima che sopraggiunga l'incapacità decisionale, dovuta a eventuale malattia o infortuni. In contrasto con la 'volontà di vivere' che tende a essere generale ed espressa in termini ampi, le disposizioni anticipate di trattamento sono istruzioni pratiche specifiche e concrete, benché alcuni insistano sull'importanza dell'indicazione di obiettivi e valori personali, cosicché il medico possa decidere in base a questi valori. Spesso queste disposizioni vengono depositate per iscritto in documenti legali. L'efficacia tanto della volontà di vivere quanto delle disposizioni anticipate di trattamento rimane dubbia, sia nella pratica che nella teoria. A partire dal 1991, gli Stati Uniti hanno previsto che tutti i pazienti siano resi edotti sul proprio diritto di avvalersi delle disposizioni anticipate di trattamento. Nell'era della dialisi, uno studio sul ruolo delle disposizioni anticipate di trattamento ha mostrato che il 30% dei pazienti americani avevano dato tali disposizioni, contro lo 0,3% dei pazienti tedeschi e giapponesi. È interessante rilevare che quasi tutti i medici in questi paesi sarebbero disposti a interrompere la dialisi se una richiesta in tal senso della famiglia fosse anche avvalorata da una disposizione anticipata di trattamento (Sehgal et al., 1996).
Cittadini ed eutanasia
La prima società che si è proposta di rivendicare la legalizzazione dell' aiuto medico a morire è stata la British Voluntary Euthanasia Society, fondata nel 1935. Medici, sacerdoti e giuristi hanno avviato le attività del gruppo. Oggi la stessa società è uno dei membri della World federation of right to die societies (Federazione mondiale delle società per il diritto a morire). Si vuole consentire agli adulti capaci di intendere e di volere, che stiano gravemente soffrendo per una malattia incurabile, di ricevere un aiuto medico nel morire, qualora lo richiedano in modo consapevole e insistente. Le misure di tutela includono un secondo parere medico, valutazione psichiatrica, ampia possibilità di consulti, richiesta scritta preventiva. È auspicabile che tali misure impediscano il verificarsi di casi di eutanasia o di suicidio assistito per pazienti che risentano di una capacità di giudizio menomata.
Per quanto riguarda l'attuale popolazione europea, la sopracitata Indagine sui valori europei (Ester et al., 1993) ha evidenziato una diretta relazione tra la decristianizzazione nella società e l'aumento della tolleranza verso l'eutanasia e il suicidio assistito. I Paesi Bassi si collocano in cima alla graduatoria, con 1'87% della popolazione a favore dell'eutanasia. Molti altri paesi mostrano tendenze simili, benché meno marcate. Un gruppo di stati dell'Europa meridionale (Italia, Portogallo, Spagna) insieme all'Irlanda raggiungono una percentuale del 35%, mentre un gruppo di stati dell'Europa nord-occidentale (Belgio, Francia, Germania, Islanda e Paesi Scandinavi) una percentuale media del 55%.
Legge, eutanasia e suicidio assistito
Molti paesi europei proibiscono ancora l'eutanasia e il suicidio medico-assistito (De Wachter, 1996): è il caso del Belgio, della Danimarca, della Finlandia, dell'Irlanda, dell'Italia e della Spagna. Altri paesi, come la Francia, la Germania e la Gran Bretagna, non vietano il suicidio, ma il suicidio medico-assistito resta ancora molto dibattuto. In Francia e in Germania, per esempio, assistere un paziente nel suicidio sarebbe considerato equivalente a non soccorrere una persona in pericolo. Grecia, Paesi Bassi, Portogallo e Svizzera dispongono a questo proposito di una legislazione permissiva. Nei Paesi Bassi, in particolare, il suicidio medico-assistito è tollerato allo stesso modo dell'eutanasia. All'inizio degli anni Novanta, nell'America Settentrionale sono nate diverse iniziative in favore della legalizzazione del suicidio e dell'eutanasia volontaria attiva, e per divulgare i metodi di suicidio, destinati specificatamente a pazienti terminali in condizioni di sofferenza insostenibile.
Questioni etiche a proposito della morte e del morire
Il contesto culturale
Il dibattito etico sull'eutanasia e sul suicidio medico-assistito si inserisce nel contesto culturale e nelle premesse della bioetica occidentale. Gli antropologi giustamente sottolineano che razionalismo, individualismo, e naturalismo costituiscono le premesse che sottendono al progresso tecnologico, di immediato riscontro, della medicina moderna (Lidz, 1996). Alcuni stati, comunque, oppongono resistenza a una o più di questi assunti. Di conseguenza, il loro atteggiamento e le loro preoccupazioni etiche nei riguardi della morte e del morire possono anche divergere. La Germania, per esempio, resta profondamente scettica nei confronti del cosiddetto rational instrumentality (strumentalità razionale). Questa razionalità viene percepita dai tedeschi come una giustificazione artificiosa della ricerca biomedica anche quando essa abbia effetti distruttivi per l'ambiente e per la società. Se si aggiunge il peso storico delle atrocità naziste al crollo della tradizione morale tedesca, si possono comprendere i motivi di fondo dello scetticismo tedesco nei confronti della rational instrumentality e la drastica opposizione all'eutanasia (Vollmann, 1996; de Wachter, 1997). Tuttavia, si può affermare che la premessa dell'individualismo gioca un ruolo maggiore nel recente, radicale cambiamento della disposizione del mondo occidentale nei confronti della morte e del morire.
Eutanasia attiva e passiva
Da un punto di vista morale si può distinguere fra un atto e la sua omissione. Nel caso dell'eutanasia e del suicidio assistito, la modalità attiva corrisponde a provocare intenzionalmente la morte di una persona con l'impiego di mezzi rapidi e indolori, mentre quella passiva corrisponde all'astensione da qualsiasi prestazione di cura e di soccorso. Entrambe, pertanto, comportano la stessa intenzione e lo stesso risultato, probabilmente con un allungamento dei tempi nel secondo caso.
In passato la distinzione tra eutanasia attiva e passiva è servita, tra gli altri scopi, a separare alcune pratiche mediche moralmente giustificabili da altre che, invece, potevano non esserlo. Talvolta questa distinzione viene ancora operata. Per esempio, il Commentario del 1996 al codice di deontologia medica francese afferma che il dovere del dottore non è solo quello di cercare di alleviare la sofferenza e di offrire un sostegno morale al paziente, ma anche quello di evitare ogni forma di accanimento ingiustificato tanto nella diagnostica quanto nella terapia.
Attualmente, considerato l'aumento dei trattamenti farmacologici e l'uso diffuso di metodi per alleviare il dolore, può risultare difficile stabilire se un trattamento analgesico costituisca una forma di eutanasia attiva o passiva. Inoltre, già nel 1975, a seguito di un articolo molto discusso di J. Rachels, molti autori hanno abbandonato questa distinzione. Il punto principale su cui insiste l'autore è l'impossibilità di sostenere che il 'lasciar morire' non sia causa di morte, sia da un punto di vista morale, sia considerandone le conseguenze. Non vi è, quindi, una differenza morale intrinseca fra 'uccidere' e 'lasciare morire'. Dunque il 'lasciare morire' attribuisce ai medici una responsabilità morale pari a 'uccidere' i pazienti (Rachels, 1975). Nonostante questa critica, la distinzione viene operata correntemente all'interno dei gruppi religiosi e nelle varie Chiese, anche se i teologi morali non sempre ne approvano l'uso. Infine, tanto l'atteggiamento favorevole quanto quello di rifiuto nei confronti della distinzione tra eutanasia attiva e passiva hanno ormai assunto un valore simbolico. Il primo rappresenta la continuità con il passato religioso, il secondo significa la rottura con esso e l'affermazione dell'autonomia dell'uomo.
Rispetto dell'autonomia del paziente
La nostra società attribuisce il più alto valore possibile all'autonomia personale. La medicina ha imparato a rispettare l'autonomia del paziente, informando lo adeguatamente e rendendolo partecipe del processo decisionale. l pazienti bene informati possono soppesare benefici e oneri derivanti dalle varie terapie alternative e hanno la facoltà di scegliere di non venire sottoposti ad alcun trattamento se ciò dovesse apparire più adeguato al raggiungimento dei loro scopi e valori personali. Nel campo della medicina, 'morte e morire' rappresentano solo un'area accanto a molte altre come la libertà di procreazione e il diritto di aborto, in cui l'autonomia del paziente e il consenso informato sono pressoché decisivi. In particolare, il paziente adulto e nel pieno delle sue facoltà ha il diritto di parlare per se stesso; il medico, d'altra parte, ha il dovere di conformarsi a un rifiuto sensato. Testimonianza di ciò è offerta dai Principles of Medicai Ethics (Principi di etica medica) del 1988, dell'American MedicaI Association, in cui si afferma che "per umana compassione il medico può fare ciò che è necessario per alleviare una forte sofferenza, o interrompere oppure non effettuare un trattamento per permettere di morire a un paziente malato terminale la cui morte sia imminente" (AMA, 1988).
Come si è domandato T.L. Beauchamp, un'autorizzazione e un rifiuto possono essere considerati parimenti validi, oppure una richiesta valida può autorizzare l'azione nella stessa misura in cui un rifiuto valido autorizza l'omissione? La risposta a questa domanda dipende dalla natura del rapporto fra paziente e medico, come anche dalla ragionevolezza della richiesta.
Pur essendo possibile affermare che, nella maggior parte dei paesi occidentali, è attualmente opinione diffusa che "sarebbe sia immorale che illegale per un medico non interrompere un trattamento di fronte a un rifiuto, consapevole e autorevole, di qualsiasi forma di servizio o di trattamento medico" (Beauchamp, 1996), non è possibile estendere questa generalizzazione a tutti i paesi europei.
Nutrizione e idratazione
Un passo importante nel dibattito su trattamento e cura di pazienti prossimi a morire fu compiuto negli anni Ottanta, nell'ambito della discussione sulla sospensione dell'alimentazione e dell' idratazione artificiali.
Per tradizione, la nutrizione e l'idratazione artificiali non erano considerate per principio forme di trattamento. Piuttosto erano considerate cure essenziali dovute a tutte le persone non auto sufficienti. Comunque, più la tecnologia e il personale medico si trovavano coinvolti nella somministrazione di questi metodi di sostenimento, più la nutrizione e l'idratazione assumevano l'aspetto di azioni mediche vere e proprie. Gli infermieri tuttavia insistono sul valore simbolico della nutrizione e dell'idratazione come ultimo segno di attenzione verso coloro che si trovano in uno stato di bisogno. Questa argomentazione si contrappone, però, alla considerazione che non si dovrebbe nuocere al paziente, tramite, per esempio, un inutile prolungamento dell'agonia o infliggendogli una sofferenza immotivata, con la giustificazione di arrecargli benefici.
Sulla definizione di eutanasia Il termine "eutanasia" rimane polivalente nella pratica medica. Ciò, in verità, non è particolarmente di aiuto se si vuole ottenere un insieme normativo che regolamenti una varietà di pratiche. Nella terminologia corrente, la parola eutanasia può ancora significare non solo l'uccisione attiva del paziente, ma anche la sospensione del trattamento in seguito al rifiuto delle cure da parte del paziente stesso, l'astensione da una terapia inutile, o anche un trattamento della sofferenza che acceleri la morte del paziente. Nel passato, sulla base della distinzione classica fra atti e omissioni, quasi tutti i casi in cui si era lasciato morire il paziente confluirono nella definizione di eutanasia passiva. Per superare la difficoltà generata dalla confusione delle definizioni, alcuni studiosi hanno cercato di caratterizzare in modo più accurato l'eutanasia. Una definizione più rigorosa e puntuale venne coniata nei Paesi Bassi durante gli anni Settanta e Ottanta. Seguendo il suggerimento offerto da una commissione statale nel 1985, gli olandesi definiscono eutanasia l'interruzione intenzionale della vita di qualcuno, operata, su sua richiesta, da qualcun altro. La definizione suicidio assistito è adottata esattamente per la stessa circostanza, fatta eccezione per colui che somministra la sostanza letale: in quest'ultimo caso il paziente stesso anziché il medico. Gli altri criteri cui ricorrono le corti di giustizia olandesi quando si pronunciano in materia di eutanasia o di suicidio medico-assistito, coincidono, sostanzialmente con i seguenti: la volontarietà, cioè una richiesta libera, consapevole e insistente da parte del paziente; una circostanza priva di speranza, ovvero uno stato di malattia che sia considerato, tanto dal paziente quanto dal medico, al di là di ogni possibilità di recupero e di miglioramento; un consulto medico che valuti la fondatezza della richiesta di eutanasia.
Fino a tempi recenti i Paesi Bassi erano l'unico stato in cui l'eutanasia attiva era ben accetta da un punto di vista sociale, medico e legale, nonostante il fatto che la legge che la defmiva come un reato non fosse stata modificata. Verso la metà degli anni Novanta diversi altri stati hanno iniziato a mostrare tendenze simili. Nel 1996, il Northern Territory dell'Australia ha istituito la prima legge che autorizzava l'eutanasia volontaria. Questa legge è stata immediatamente attaccata dal governo federale e resta fortemente controversa. Diversi stati dell'America settentrionale e il Giappone seguiranno probabilmente la stessa direzione. L'assemblea legislativa dello stato dell'Oregon è stata, infatti, la prima a votare per la legalizzazione del suicidio medico-assistito.
Controversie nel dibattito etico sull'eutanasia
I due maggiori argomenti in favore dell' eutanasia e del suicidio assistito sono il rispetto per l'autonomia del paziente e il principio di non offensività, ovvero di compassione per la sofferenza del paziente. Il primo argomento sostiene il diritto della persona, libera e capace di intendere e di volere, di decidere della propria morte così come della propria vita; il secondo che l'eutanasia attiva può essere considerata dai medici parte integrante dell'assistenza a un paziente prossimo alla morte la cui sofferenza sia tale da mettere a repentaglio e distruggere la sua dignità. Gli argomenti a sfavore dell'eutanasia e del suicidio assistito sono numerosi. In primo luogo si tratta sempre dell'atto di uccidere, difficile da giustificare. È sufficiente fare riferimento alla richiesta libera ed esplicita del paziente di morire o di essere aiutato a fado? In secondo luogo, la pratica dell'eutanasia ci colloca su un pendio scivolo so, sul quale è impossibile arrestare eventuali sviluppi che portino dall'interruzione volontaria della vita a quella non-volontaria o, addirittura, involontaria. Il primo argomento è basato sul dovere di non uccidere, il secondo sulle gravi conseguenze che l'eutanasia potrebbe avere per la professione medica e per la società in generale.
Punti di vista religiosi e laici sulla morte e sul morire in Occidente
Punti di vista religiosi
La tradizione giudaico-cristiana è basata su una sorgente comune, la Bibbia. Sebbene nella Bibbia non vi sia un unico punto di vista relativo alla morte e al morire, sia nel Vecchio che nel Nuovo Testamento, il valore della vita come tale deriva dal fatto di essere stata creata e donata all'uomo affmché egli ne abbia cura e la serbi. La morte viene invece considerata o come potere malvagio o come evento naturale della vita.
Le implicazioni bioetiche riguardanti la morte e il morire sono simili nelle religioni ebraica, cattolica e protestante (Kliever, 1996). Genericamente parlando, tutte sembrano accettare la validità di una defmizione di morte strettamente connessa alle funzioni cerebrali (brain-oriented) senza che questo comporti necessariamente la sostituzione radicale dei criteri tradizionali definiti sulla base della respirazione e della circolazione. Pur non vedendo la morte come un bene, queste religioni non sostengono nemmeno che la lotta contro la morte debba essere senza fine. La morte piuttosto rappresenta il male ed è permesso opporvisi con tuttI I mezzi ragionevoli e appropriati. Certamente, il rifiuto o la desistenza da misure straordinarie, e finanche dalla nutrizione e dall'idratazione, sono riconosciuti da molti pensatori religiosi. Infine, è importante menzionare il rispetto che queste religioni tradizionalmente provano nei confronti dei defunti. La mutilazione per dissezione e la raccolta degli organi per la ricerca o per il trapianto sono state a lungo questioni controverse. Oggi prevalgono, in materia, vedute più aperte. A seguito della secolarizzazione che pervade la maggior parte delle religioni occidentali, la morte, il momento della morte e i momenti che la precedono, appaiono sotto una luce differente. La morte e il morire non rappresentano più una soglia, una transizione, un nuovo inizio, l'ingresso in un'altra vita. Così i membri dei gruppi religiosi si trovano a domandarsi quale possa essere il loro significato. Nella loro ricerca essi possono rivolgersi a un'altra tradizione, quella delle opinioni laiche.
Punti di vista laici
I punti di vista laici sulla morte e sul morire, in particolare sull' eutanasia e sul suicidio assistito, attingono alla tradizione sviluppata a partire dal 16° secolo da M.E. Montaigne, proseguita da D. Hume e più tardi da A. Schopenhauer e F.W. Nietzsche. Questi autori concordavano che la sofferenza insostenibile, il timore di una morte peggiore e il desiderio di morire giustificassero il porre fine attivamente alla vita. Questa concessione introduce un'eccezione ai doveri del patto sociale, in particolare alla proibizione del suicidio, basata sul fatto che la vita individuale è a disposizione della società. In altre parole, sia nell' ottica laica sia in quella religiosa, sono state assunte posizioni permissive nei confronti del suicidio qualora l'individuo giudichi che la sua vita non valga la pena d'essere vissuta. In questi casi l'autodeterminazione prevale sui doveri sociali. Essa consente all'individuo di porre fine al suo patto con la società così come al suo patto con Dio (Fagot-Largeault, 1996).
Alcuni sembrano rammaricarsi dell'impoverimento del pensiero filosofico odierno sulla morte. "Il problema della morte, visto come lotta per rendere la vita significativa in un'epoca sempre più laica, piagata dalle tentazioni del nichilismo, continua. Il poco che nell' epoca attuale i filosofi hanno ritenuto di dover dire sulla morte - al di là di preoccupazioni eminentemente morali incentrate sulla scelta della morte - è stato volto a ritenere che la morte sia conclusiva, che non le si possa sopravvivere in nessun caso" (Momeyer, 1996).
I diversi approcci, provenienti da opinioni tanto religiose quanto laiche, divergono quando si tratta di decidere sulla fine della vita? Alcuni sostengono che né il credo religioso, né la classe sociale determinino differenze significative nel desiderio del paziente riguardo al quando e come morire (Searle e Addington-Hall, 1994). Altri, a seguito di indagini svolte nella zona orientale degli Stati Uniti, hanno desunto che l'essere un fedele della Chiesa cattolica e l'essere religioso fossero associati fortemente e indipendentemente con i vari aspetti della disposizione favorevole delle persone nei confronti dell' eutanasia e del suicidio medico-assistito (Emanuel et al., 1996).
Ars moriendi nell'anno Duemila
Ovviamente, in un mondo in cui la morte viene tenuta a bada, ci si può aspettare che l'arte del morire non sia ben sviluppata. Nella cultura occidentale la "ricerca personale per scoprire e affermare il significato finale della morte dell'individuo è evitata o sfuggita finché la morte non sia imminente" (Bresnahan, 1996). La storia offre molti esempi di ars moriendi, ma l'uomo moderno non vuole seguirne le orme senza riserve e la medicina lo aiuta a posticipare sempre più la morte. l filosofi contemporanei affermano che l'esplorazione della vita nell'aldilà sia un'impresa priva di senso; la loro preoccupazione principale è costituita dalle scelte dell'uomo nei confronti del morire. Difficilmente i punti di vista religiosi sono in grado di fare meglio in quanto sembrano non soddisfare l'uomo moderno. Il messaggio della vita eterna non viene accolto dalla maggior parte delle persone, anche se credenti. L'uomo moderno, così spietatamente concentrato su se stesso alla fine del 20⁰ secolo, si trova di fronte al pluralismo culturale dei punti di vista sulla morte e alla diversità dei comportamenti considerati adeguati. Forse, l'attuale insistenza mostrata dall'uomo nell'ignorare il significato della morte e nel concentrarsi su una vita di successo, impedisce anche di sviluppare un interesse per quello che può accadere dopo la morte. Nondimeno, il timore esistenziale di fronte all'assoluta certezza del termine della vita obbliga l'uomo a compiere una valutazione morale delle alternative a sua disposizione per riuscire a superare quel timore. Inoltre, in linea con i movimenti di emancipazione del nostro tempo, nuove forme di regolamentazione relative al 'come morire' sono state abbracciate dal consenso comune. Così, le disposizioni anticipate di trattamento, le volontà di vivere, la delega del consenso, influiscono sull'arte di morire in quanto cercano di mantenere il più a lungo possibile il controllo sulla morte anticipando ciò che potrà o che non potrà essere fatto in caso di incapacità di intendere e di volere. Tuttavia, nonostante la progressiva espansione dei confini temporali della vita, la morte rimane il termine inevitabile della vita. Confrontandosi con questa realtà, l'uomo occidentale al limitare del 21⁰ secolo ha compiuto una scelta per il massimo controllo della vita fino all'ultimo momento prima del suo termine, facendosi talvolta egli stesso carico di tale termine. Quello che in tal modo guadagna può risultare una perdita per sempre. Così il problema della morte, inteso come lotta per rendere significativa la vita in un' epoca sempre più laica, piagata dalle tentazioni del nichilismo, continua a persistere (Momeyer, 1996).
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