La fine della vita
Nel corso del XX sec., in particolare nella seconda metà, gli straordinari progressi della medicina ne hanno potenziato le capacità di prolungare la vita e rianimare pazienti clinicamente morti, imponendo però il confronto con la constatazione che, in talune circostanze, la vita aggiunta o restituita al malato è caratterizzata da intense sofferenze fisiche e psicologiche o da gravi condizioni di invalidità. A partire dagli anni Settanta l'emergere di un nuovo modo di affrontare le dimensioni etiche delle scelte mediche parallelamente al declino del paternalismo medico e al riconoscimento dell'autonomia decisionale del paziente, ha acceso un importante confronto sulle decisioni inerenti la fine della vita. Le decisioni che i medici, insieme ai pazienti e ai loro familiari, possono prendere nei momenti che precedono la morte riguardano, per esempio, la possibilità di sospendere o continuare un trattamento che prolunga la vita (come la ventilazione meccanica, l'alimentazione forzata o la dialisi); se alleviare il dolore o altri sintomi con oppiacei, benzodiazepine o barbiturici, somministrando dosi che possono però accelerare la morte; considerare l'eutanasia o l'assistenza del medico al paziente che abbia deciso di suicidarsi, mediante la somministrazione o la prescrizione di farmaci che mettano fine alla vita dietro sua esplicita richiesta.
Nonostante nessun bioeticista ponga più ostacoli al diritto dei pazienti di opporsi all'accanimento terapeutico che prolunga inutilmente le sofferenze fisiche e psicologiche, permane il disaccordo su ciò che debba essere considerato come una pratica terapeutica. Si assiste così a casi eclatanti in cui non viene permessa la sospensione dell'alimentazione anche quando somministrata tramite sonde a pazienti in stato vegetativo permanente da decine di anni. L'eutanasia attiva e passiva è quindi al centro di discussioni estremamente accese, non solo nell'ambito degli studi bioetici. L'opinione pubblica si è spesso divisa su casi estremi, che vengono anche amplificati ad arte per scopi che poco hanno a che fare con il benessere del paziente.
Il diritto ha iniziato da qualche anno un processo di adeguamento dei punti principali degli ordinamenti che riguardano questa materia. Le differenze tra i diversi Paesi permangono e sono in alcuni casi molto profonde. Gli approcci che ispirano le legislazioni sono infatti estremamente variegati: è inevitabile che i diversi sistemi giuridici approdino a soluzioni differenti dovendo tener conto di molteplici fattori, etici, morali, economici, sociali, culturali. A livello europeo sono ormai molte le nazioni che permettono ai pazienti di rifiutare le cure mediche, mentre l'eutanasia attiva con la partecipazione del personale medico è un'opzione possibile in pochi Paesi. Pesano sul dibattito anche importanti e inquietanti eredità storiche: la legge sull'eutanasia varata da Adolf Hitler è uno spettro tuttora agitato dagli oppositori di tale pratica.
Nessuna dottrina morale o religione è ormai contraria all'idea che alle persone allo stadio terminale di una malattia si debba riconoscere il diritto di non subire trattamenti che prolungano soltanto le sofferenze fisiche e psicologiche. Allo scopo di garantire che i pazienti possano esercitare un controllo sulle fasi terminali della loro esistenza, anche nel caso in cui venga a mancare lo stato di coscienza, riguardo ai trattamenti medici che giudicano compatibili con i loro valori e la loro concezione della dignità della vita, si è largamente diffusa la pratica delle 'direttive anticipate di trattamento', ovvero il cosiddetto 'testamento biologico' (living will). Negli Stati Uniti le direttive anticipate sono state formalizzate con il Patient self-determination act del 1991, che garantisce ai cittadini il diritto di stabilire come essere curati nel caso in cui perdano la capacità di decidere. La legge venne promulgata dopo la sentenza della Corte suprema che, nel 1990, riconosceva a Nancy Cruzan, che si trovava dal 1983 in stato vegetativo persistente a seguito di un incidente automobilistico, il diritto di interrompere l'alimentazione artificiale e quindi di morire. Le direttive anticipate sono legalmente in vigore in diversi Paesi occidentali, e, per quanto riguarda l'Europa, sono previste dall'art. 9 della Convenzione di Oviedo per la protezione dei diritti dell'uomo e la dignità dell'essere umano riguardo le applicazioni della biologia e della medicina, firmata nell'aprile del 1997 dai Paesi membri del Consiglio d'Europa.
Naturalmente è necessario tener conto del fatto che non per tutti i pazienti l'autodeterminazione e il rispetto per l'autonomia nelle decisioni di fine vita sono una priorità. In realtà solo una parte della popolazione di pazienti compila le direttive anticipate, non tanto per la difficoltà di elaborare formalmente tali direttive, ma perché i pazienti hanno spesso un'idea dell'autonomia diversa da quella teorizzata dai filosofi morali. Alcune ricerche recenti hanno mostrato che i pazienti manifestano atteggiamenti eterogenei verso l'autonomia intesa come priorità decisionale. Per esempio, alcuni pazienti non vogliono discutere col medico le proprie preferenze, e uno studio condotto negli Stati Uniti ha rilevato che meno del 50% pensa che decidere il luogo e il momento della morte sia importante, mentre quasi tutti considerano determinante 'essere trattati come persone complete'. Inoltre, l'età e l'origine etnica influenzano l'atteggiamento verso l'autonomia decisionale: gli adulti più anziani tendono ad avere priorità diverse dal prolungamento della vita rispetto ai giovani, mentre negli Stati Uniti e presso le popolazioni non caucasiche sono meno interessati a compilare le direttive anticipate e desiderano coinvolgere l'intera famiglia nelle scelte in merito alla fine della vita.
Per quanto riguarda l'Italia, una sentenza della Corte d'appello civile di Milano del 17 ottobre 2003 che negava l'autorizzazione al genitore di una ragazza in stato vegetativo da 13 anni a interrompere l'alimentazione forzata, segnalava allo stesso tempo la necessità di una legislazione sul . Ciò ha indotto il Comitato Nazionale per la Bioetica (CNB) a licenziare il 18 dicembre 2003 un documento sulle 'dichiarazioni anticipate di trattamento' che sollecita una legge sulla base dei punti di merito indicati nel documento. Il disegno di legge n. 2943 approdato alla Commissione affari sociali della Camera nel luglio 2005 accoglie le indicazioni del CNB. Se da un lato si dà valore giuridico alle dichiarazioni anticipate per tutelare le persone dall'accanimento terapeutico, vengono tuttavia escluse le dichiarazioni di volontà che implichino 'finalità eutanasiche'. Inoltre, le dichiarazioni anticipate, contrariamente alla manifestazione contestuale di un'autonoma decisione, non sono vincolanti per il medico.
Il punto più controverso, su cui il CNB si è spaccato, riguarda il significato della idratazione e alimentazione artificiali in un soggetto in stato vegetativo permanente, se cioè questo intervento si configuri come un atto medico e quindi come una forma di accanimento terapeutico rispetto a cui possono valere le direttive anticipate di trattamento. L'orientamento prevalente nel CNB è stato di considerare 'intervento eutanasico' la sospensione dell'idratazione e dell'alimentazione artificiali ‒ contrariamente alla pratica e al giudizio della comunità medica internazionale che li considera trattamenti medici ‒ per cui le dichiarazioni anticipate non valgono per i soggetti in stato vegetativo permanente. La questione è stata intensamente dibattuta agli inizi del 2005, in relazione al caso di Terri Schiavo, una donna che viveva da 15 anni in condizioni vegetative ed era alimentata artificialmente. Il marito chiedeva che fosse sospesa l'alimentazione forzata per lasciarla morire, mentre i genitori volevano che l'alimentazione fosse mantenuta per tenerla in vita. I giudici hanno riconosciuto le ragioni del marito e la donna è morta il 1° aprile 2005. Il caso Schiavo, che negli Stati Uniti ha stimolato la richiesta di informazioni da parte dei cittadini sul testamento biologico, era controverso in quanto mancava la testimonianza scritta e il marito riportava le volontà espresse oralmente. Allo stesso tempo la vicenda ha messo in luce, attraverso l'autopsia che ha dimostrato che la donna non era in alcun modo cosciente e che le lesioni cerebrali erano irreversibili, la necessità di definire più precisamente i danni neurologici associati agli stati vegetativi e disporre quindi di maggiori informazioni per dirimere ogni controversia sul livello di coscienza e il grado di irreversibilità del danno, così da consentire almeno il diritto di non essere tenuti artificialmente in vita quando non esiste alcuna possibilità di recupero della coscienza.
A seconda dei Paesi e dei contesti culturali il diritto di non soffrire e di morire con dignità ha implicazioni diverse: in alcuni Stati il medico può aiutare a suicidarsi o mettere fine attivamente alla vita di persone che lo richiedono consapevolmente, ma anche di individui ‒ come neonati destinati a morire o a vivere in condizioni di grave sofferenza fisica e psichica o soggetti in coma vegetativo permanente ‒ che non sono in grado di chiederlo. Alcuni studi empirici sulle scelte di fine vita mostrano che la morte assistita è una pratica abbastanza diffusa in tutti i Paesi occidentali, con proporzioni che vanno dall'1 al 3,5% delle morti. Ovviamente bisogna tenere conto del fatto che nei Paesi dove l'eutanasia e il suicidio assistito non sono legali, i medici sono meno propensi ad ammettere di praticare interventi, su richiesta o meno del paziente, che accelerano o provocano direttamente la morte. In Italia, la scelta di alleviare i sintomi e il dolore con la conseguenza di accelerare la morte riguarderebbe il 19% dei decessi. È abbastanza comune anche in Italia la sedazione terminale, vale a dire un trattamento palliativo con l'interruzione dell'alimentazione che sopprime lo stato di coscienza e accelera la morte. È significativo il fatto che nei Paesi in cui l'eutanasia e il suicidio assistito sono legali le decisioni mediche da prendere nelle fasi terminali vengono quasi sempre discusse con il paziente o con i parenti, mentre in un Paese come l'Italia, dove tali pratiche sono vietate, in più del 50% dei casi le decisioni non vengono discusse né col paziente né con i familiari.
La scelta di fine vita eticamente e giuridicamente più controversa rimane l'eutanasia, che è ritornata progressivamente al centro della riflessione medica e morale dopo alcuni decenni di silenzio successivi alla Seconda guerra mondiale, segnata dal tragico sterminio di massa che nella Germania nazista aveva fatto seguito alla promulgazione della legge sull'eutanasia del 12 ottobre 1939 ‒ simbolicamente retrodatata da Adolf Hitler al 1° settembre dello stesso anno. Il dibattito sulla liceità morale e le prospettive legali dell'eutanasia e del suicidio medicalmente assistito si è orientato, nella maggior parte dei Paesi occidentali ‒ ma l'Italia è tra quelli che ne sono rimasti fuori ‒, in una direzione meno connotata in senso emotivo e ideologico. Questo è avvenuto grazie ai risultati scaturiti da esperienze concrete di legalizzazione dell'eutanasia e del suicidio assistito; sono infatti stati condotti studi empirici sulle decisioni che i medici assumono nelle fasi terminali della vita dei pazienti e sulle aspettative dei malati terminali per quanto riguarda i trattamenti e la qualità degli ultimi momenti della loro esistenza. I medici, attraverso prese di posizione personali o delle associazioni, stanno accettando in modo sempre più diffuso di discutere il loro ruolo. Di conseguenza, il confronto filosofico tra chi è favorevole e chi è contrario in base a convinzioni etico-religiose deve fare i conti con una serie di esperienze concrete, e quindi con la necessità di trovare risposte a domande e problemi di rilevanza personale e sociale. Le più antiche e diffuse religioni vietano l'eutanasia in base al principio della sacralità della vita, così come la proibiscono, a tutt'oggi, le legislazioni di quasi tutti i Paesi. In realtà, agli inizi del secolo scorso diverse legislazioni penali, come quella norvegese (1902), quella russa (1903) e quella polacca (1932), prevedevano pene ridotte per coloro che uccidevano malati senza speranza. In Uruguay con l'articolo 37 del codice penale in vigore dal 1° luglio 1934 è stata addirittura introdotta la non punibilità per le persone di riconosciuta probità che "commettono omicidio motivate da compassione indotta dalle ripetute richieste della vittima". Procurare la morte prima del termine naturale viene generalmente considerato un omicidio volontario, benché le responsabilità risultino attenuate quando si dimostra che l'uccisione ha avuto luogo dietro richiesta di una persona sofferente, malata in modo inguaribile. Per quanto riguarda il suicidio assistito, questo viene punito nei Paesi dove il suicidio è un crimine, ma anche in molti Paesi dove il suicidio non è illegale. L'eutanasia volontaria, cioè quella a fronte della richiesta esplicita del paziente, è oggi legale solo in Olanda e Belgio, essendo stata revocata nel 1997 dal Parlamento federale dell'Australia la legge emanata nel 1996 nel Territorio del Nord, che consentiva l'eutanasia volontaria.
Dal 1º aprile 2002 è in vigore in Olanda una legge che consente l'eutanasia e il suicidio assistito dal medico, nel caso di precise circostanze e sulla base di una rigida procedura, che codifica una pratica già tollerata e consentita da anni passando attraverso il giudizio di un tribunale. L'Associazione dei Medici Olandesi aveva accolto infatti il principio dell'eutanasia volontaria già nel 1984, ma fin dalla metà degli anni Settanta furono sostenute diverse difese legali dell'eutanasia nei tribunali dei Paesi Bassi. La linea di difesa accettata dalla Corte suprema si basava su un articolo del codice penale, che non ritiene responsabile chi commette un reato per cause di forza maggiore. La Corte suprema stabilì che il dovere del medico di rispettare la legge e la vita "può essere sopravanzato dal suo dovere di aiutare il paziente, che si affida a lui, e per il quale non esiste altra alternativa che possa porre fine alle sue sofferenze che la morte". La linea di condotta formalmente stabilita per non essere penalmente perseguiti esigeva il rispetto delle seguenti condizioni: una richiesta esplicita, libera, ripetuta e consapevole del paziente, che non lasci dubbi circa il suo desiderio di morire; una situazione senza speranza, accompagnata da gravi sofferenze fisiche e psichiche, dovuta a uno stato della malattia per la quale sia il paziente sia il medico non vedono vie d'uscita; la consultazione di un altro medico (ma anche di assistenti sociali, figure religiose o altri), che verifichi la trasparenza del processo attraverso cui si è deciso per l'eutanasia.
La ratio della legge del 2002 era di rendere trasparente la pratica, in quanto i medici erano riluttanti a denunciare i casi in regime di depenalizzazione, e consentire l'applicazione di criteri uniformi nella valutazione dei casi in cui il medico mette fine alla vita di un malato, ovvero per garantire la massima attenzione nel procedere all'eutanasia. L'eutanasia rimane illegale per i pazienti al di sotto dei 12 anni (mentre tra 12 e 16 serve il consenso dei genitori) ma, sulla base di dati che mostrano come più del 50% dei decessi di neonati e bambini negli ospedali dei Paesi Bassi e del Belgio è dovuto alla scelta di porre fine ‒ interrompendo o rifiutando una terapia o somministrando un farmaco letale ‒ alle loro sofferenze, è stato proposto un protocollo (Groningen protocol) che stabilisce le condizioni per cui può essere giudicato compassionevole e quindi moralmente accettabile praticare l'eutanasia su un bambino, senza che il medico venga incriminato.
Il 28 maggio del 2002 il Parlamento del Belgio legalizzava l'eutanasia e la legge entrava in vigore il 23 settembre dello stesso anno limitatamente agli adulti consapevoli e ai minori emancipati. Il rapporto della Commission fédérale de contrôle et évaluation de l'euthanasie, reso pubblico nel settembre del 2004, registrava 259 casi dall'entrata in vigore della legge il 31 dicembre 2003. Il rapporto rilevava che le eutanasie sono più frequenti al di sotto dei 40 anni e dopo gli 80 e segnalava l'esigenza di migliorare l'informazione a livello sia scientifico sia divulgativo sulla legge e la preparazione dei medici ad affrontare i problemi che emergono nelle situazioni di fine vita, inclusa l'eutanasia. Poiché il rapporto sottolineava che il 40% dei casi di eutanasia avviene a domicilio e suggeriva di facilitare tale tendenza, agli inizi del 2005 nelle 240 farmacie belghe della catena Multipharma è stato commercializzato un 'kit spécial euthanasie' disponibile in 24 ore.
Rimane in vigore la legge dello Stato dell'Oregon, Death with dignity act che, dal novembre 1997, consente il suicidio medicalmente assistito (ma non l'eutanasia) nonostante i ripetuti appelli per farla annullare dalla Corte suprema. La Svizzera ha scelto di mantenere, senza tuttavia dare regolamentazione, la possibilità per il medico di prestare assistenza al suicidio senza incorrere in sanzioni. In questo Paese, dunque, dove in base all'art. 115 del codice penale viene punito solo chi induce al suicidio o aiuta una persona a suicidarsi per interessi personali ('motivi egoistici'), ma non chi dimostra di aver agito altruisticamente, di fatto il suicidio assistito è depenalizzato e la persona che aiuta a compiere il suicidio non deve necessariamente essere un medico.
È degno di nota che dopo un secolo è caduta, il 1° luglio 2005, l'opposizione della British Medical Association contro l'eutanasia, che ha espresso una posizione neutrale rispetto alla legalizzazione dell'aiuto da parte del medico ai malati terminali che chiedono di morire. La stessa posizione è stata assunta dal Royal College of Physicians e dal Royal College of General Practictioners. Il 10 ottobre 2005 il Selected Committee della House of Lords ha avviato la discussione del rapporto Assisted dying for terminally ill bill, che prevede la legalizzazione del suicidio medicalmente assistito. A livello europeo, a parte la situazione dell'Olanda, del Belgio e della Svizzera, è stato respinto il tentativo di depenalizzare l'eutanasia in Lussemburgo, mentre in Danimarca il comitato etico ha bocciato l'ipotesi di legalizzazione dell'eutanasia, nonostante i sondaggi abbiano rilevato un sostegno pubblico. In Francia è stata definitivamente approvata nel 2005 una proposta di legge sulla fine della vita e i diritti dei malati che consentirà ai pazienti affetti da malattia grave e incurabile di rifiutare le cure, e autorizzerà i medici a non praticare atti inutili e sproporzionati e ad alleviare le sofferenze di un malato in fase terminale applicando un trattamento che può avere come conseguenza di abbreviare la vita, a condizione di averlo informato. La legge francese riconosce le direttive anticipate, rendendo possibile per il paziente decidere prima la limitazione e la sospensione dei trattamenti di fine vita.
A livello dell'Assemblea parlamentare del Consiglio d'Europa sono stati respinti il rapporto del deputato Dick Marty, che propone di riconoscere che di fatto l'eutanasia viene praticata in numerosi Paesi e in una misura ben superiore a quella documentata, e l'interpretazione della raccomandazione 1418 (1999), che chiede agli Stati di proteggere il diritto all'autoderminazione dei malati inguaribili e dei morenti, consentendo anche il ricorso all'eutanasia. In realtà, la raccomandazione 1419 (1999) afferma anche che "il desiderio di una persona terminalmente malata o morente non può di per sé costituire una giustificazione legale per realizzare azioni intese a causare la morte".
Dal punto di vista etico, l'atto eutanasico viene valutato in relazione a due elementi: la presenza di una richiesta volontaria del malato e la modalità ‒ attiva o passiva ‒ dell'intervento di eutanasia. La volontarietà, nel caso di una persona cosciente e capace di intendere e di volere, è una condizione comunque necessaria perché si possa parlare di eutanasia e non di omicidio. Alcuni bioeticisti, come Tristam Enghelardt, sostengono che nel caso di persone non in grado di intendere e di volere, qualora la cessazione della vita sia giudicata più opportuna del suo protrarsi, sarebbe doveroso praticare l'eutanasia anche in assenza della richiesta diretta o anticipata.
L'eutanasia viene detta 'passiva' quando il medico, in seguito a una richiesta del paziente o di un sostituto legalmente investito, interrompe il trattamento terapeutico, limitandosi, nel caso, alla somministrazione di farmaci antidolorifici e lasciandolo morire. L'eutanasia 'attiva' comporta invece che il medico ponga fine deliberatamente alla vita del paziente. Eutanasia attiva e passiva volontarie possono comunque coincidere, come nei casi in cui il medico pratica una terapia farmacologica contro il dolore che affretta la morte del paziente. Lo stato presente della discussione fra chi è portato a giustificare moralmente l'eutanasia attiva volontaria, chiedendone la legalizzazione, e chi è contrario, in modo assoluto o con alcune distinzioni, investe un ampio ventaglio di tematiche, dalle diverse concezioni dell'etica al ruolo socioculturale del medico. Vi è chi, sulla base di un'etica utilitaristica o della qualità della vita, riconosce al malato il diritto di chiedere e ottenere dal medico l'eutanasia. Infatti, dal punto di vista dell'etica utilitaristica la vita ha valore soltanto come prerequisito per ottenere la felicità, e una persona avrebbe il diritto di rinunciarvi quando questa comporti insopportabili sofferenze. Il dovere del medico di prolungare l'esistenza riguarderebbe, in tal senso, solo una vita la cui qualità porti il soggetto a desiderarne il prolungamento, mentre mantenere in vita una persona consapevole che non lo desidera sarebbe contrario al principio dell'autonomia e, in qualche caso, al dovere del medico di alleviare la sofferenza. Negando qualsiasi differenza morale di principio fra 'uccidere per pietà' e 'lasciar morire', chi afferma la legittimità dell'eutanasia attiva volontaria preferisce parlare di 'morte assistita' o 'suicidio razionale assistito', che implicano una decisione libera e consapevole del paziente e un ruolo comunque passivo del medico, piuttosto che di 'uccisione pietosa' od 'omicidio su richiesta', che confonderebbero aspetti etici e legali.
Nel contesto delle filosofie morali fondate sul principio della sacralità della vita, in quanto dono di Dio, l'eutanasia attiva è moralmente illegittima, come lo è il suicidio, in quanto entrambi contrastano con un fine naturale di autoconservazione e con la prerogativa esclusivamente divina di dare e di prendere la vita. La morale cattolica affronta comunque la questione dell''accanimento terapeutico' distinguendo fra trattamenti terapeutici 'normali' e 'straordinari', per cui mentre sarebbero sempre obbligatori i trattamenti normali, non viene considerata eutanasia l'interruzione di procedure straordinarie, prive di sbocchi, che aumentano le sofferenze e sono economicamente costose. Il punto di vista del mondo medico e medico-legale è che, in condizioni estreme, la scelta dell'eutanasia deve tener conto, oltre che del diritto individuale del malato, anche dei diritti e dei valori del medico. La legittimazione dell'eutanasia, si sostiene altresì, potrebbe avere delle ricadute negative sul rapporto medico - paziente, in quanto relazione umana basata sulla fiducia, e creare nuove condizioni di discriminazione e il rischio di forzare la volontà dei malati socialmente più deboli. A ciò andrebbero aggiunti il pericolo di una caduta di tensione nella ricerca medica, sia di quella volta all'individuazione di più efficaci terapie analgesiche, sia riguardo alle cure degli anziani e dei malati terminali che non scelgono l'eutanasia. Sempre secondo questo punto di vista, se oggi la legalizzazione dell'eutanasia volontaria riconosce nel desiderio di morire del malato il vincolo fondamentale per evitare abusi, in realtà la richiesta potrebbe estendersi a casi in cui non vi può essere domanda esplicita, come nei malati in coma irreversibile o nei bambini nati con gravi malformazioni. In tal senso, i rischi di intraprendere una pericolosa china sarebbero evidenti considerando le necessità economiche di pianificare una riduzione delle spese necessarie per l'assistenza sanitaria.
Il monitoraggio delle esperienze di legalizzazione dell'eutanasia e del suicidio medicalmente assistito sta mettendo in evidenza meno difficoltà e abusi di quanto temuto. Nello Stato dell'Oregon, per esempio, si è visto che il fatto di essere disposti ad aiutare a morire non offende la professionalità del medico e i pazienti tendono a scegliere i medici favorevoli al suicidio medicalmente assistito piuttosto che quelli contrari. Inoltre, costituiscono una pratica clinica quasi corrente decisioni e atti medici che, al di là delle interpretazioni più o meno capziose, hanno finalità eutanasiche, come la sedazione terminale. Sarebbe quindi più ragionevole portare alla luce quelle che sono le effettive scelte già praticate nelle fasi di fine vita per evitare proprio quegli abusi che vengono associati all'eutanasia.
Stante il fatto che le cure palliative devono essere più accessibili a garanzia che la richiesta di morire non è dovuta a una condizione di sofferenza medicalmente trattabile ‒ in Italia, nonostante sia in vigore dal 2001 una legge che regolamenta la vendita di oppiacei per la terapia del dolore, solo il 3% dei malati terminali riceve cure palliative appropriate ‒, i medici devono assumere la condizione del morente come esperienza eccezionale. In altre parole, se vale il rispetto per l'autonomia decisionale dei pazienti in relazione al rifiuto di un trattamento salvavita, non può più essere considerato un tabù discutere le modalità che garantiscono loro un'assistenza in grado di evitare che proprio l'ultima fase della vita sia la più gravosa.
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