La fine delle periferie
Il Novecento è stato il secolo delle dittature e delle grandi guerre mondiali, della tecnica e della comunicazione di massa, delle utopie politiche e del progresso sociale ed economico. È stato ovviamente anche il secolo della modernità, nelle arti, nel gusto, nell’architettura. Per quel che riguarda le città – in particolare europee e latinoamericane – il Novecento è stato soprattutto il secolo delle metropoli e delle periferie, poiché modernità in architettura e urbanistica prima di ogni altra cosa ha voluto dire crescita urbana ininterrotta e costruzione intensiva di quartieri residenziali low-cost per le classi sociali meno abbienti. Quartieri che, lungi dal crescere e moltiplicarsi secondo un modello idealizzato e razionalista di ‘città moderna’, alternativo alle città esistenti, hanno nella stragrande maggioranza dei casi finito per disporsi ‘a macchia d’olio’ intorno ai centri antichi e ottocenteschi, gettando le basi per lo sviluppo informe delle attuali metropoli e megalopoli. È nato in questo modo l’archetipo di periferia moderna costruita sull’alternanza suburbana tra case, inserti rurali residuali e quartieri industriali (le case servivano in origine a dare alloggio agli operai, secondo un’applicazione libera e disaggregata del modello fourierista) cui si pensa ancora oggi quando si sente il termine in questione.
Dagli anni Trenta in poi, con un’accelerazione vertiginosa dopo la fine della Seconda guerra mondiale, le periferie urbane erano cresciute con ritmo esponenziale, alimentate dallo sviluppo industriale intenso, da flussi ininterrotti di immigrazione verso le città, dalla flessibile disponibilità dell’industria edile a farsi antidoto alla disoccupazione e ammortizzatore delle tensioni sociali, dalla progressiva accettazione di alcuni ‘elementi di socialismo’ (welfare, centralità della fabbrica, identificazione della classe operaia come motore sano del progresso ecc.) dentro al modello democratico/capitalista occidentale. Nel crescere, il modello periferico ha anche cominciato ad articolarsi nelle sue mille declinazioni: periferie legali e abusive, quartieri intensivi e città-giardino, borgate e suburbi semirurali e così via. Nonostante le contraddizioni e i conflitti – basti pensare ai film di Pier Paolo Pasolini – la crescita delle periferie urbane (e del proletariato o della piccola borghesia che le abita) fino agli anni Settanta è interpretata comunque come una metafora virtuosa del progresso, una rappresentazione ideale di come il livello di integrazione delle classi meno abbienti possa progredire pur in presenza di una parallela crescita dei livelli di sensibilizzazione politica e sindacale e di conflitto sociale. L’utopia italiana, insomma.
È stata proprio la rottura di questo equilibrio instabile, con la conseguente esplosione dei conflitti e con la parallela impossibilità di controllare modalità e crescita degli insediamenti, a far sì che l’ultimo quarto del secolo sia stato così fortemente segnato dalla crisi del modello urbano otto-novecentesco; e in particolare dalla crisi della periferia, intesa come habitat ideale della modernità e come incubatrice dell’inserimento sostenibile delle classi più povere nel tessuto sociale borghese delle città occidentali. Non basta più ‘risanare la borgata’ e costruire nuovi edifici per dare un senso di miglioramento. La degradazione delle aree urbane più remote è diventato un argomento così popolare e ricorrente da indurre perfino a utilizzare un termine specifico per individuarla, ossia degrado. Parallelamente, l’associazione mentale fra il quartiere periferico (con i suoi ‘casermoni’) e il disagio e la violenza è divenuta così automatica da offrirsi come la ragione principale per dare inizio a un programma internazionale di demolizione di molti quartieri periferici realizzati tra gli anni Cinquanta e gli anni Settanta. Programma che è iniziato negli Stati Uniti, con la famosa demolizione (1974) del complesso di Pruitt-Igoe, costruito a St. Louis da Minoru Yamasaki nel 1955, ed è proseguito con lo ‘sfoltimento’ di molti quartieri di edilizia assistita in Europa (in particolare nei Paesi Bassi e in Francia); uno degli ultimi episodi rilevanti è stata la demolizione (1997-2003) di tre delle sette ‘Vele di Scampia’, le megastrutture costruite tra il 1962 e il 1975 da Franz Di Salvo nell’omonimo quartiere di Napoli.
In estrema sintesi, si può dire che dalla metà degli anni Settanta in poi – non a caso dopo l’entrata in funzione in Italia di alcuni progetti di alto valore simbolico e di scarso successo sociale (Gallaratese, Zen, Corviale ecc.) – il concetto di periferia ha perso ogni accezione progressiva per rimanere solo l’indicatore spaziale di un disagio fatto di distanza dal centro, carenza di servizi e infrastrutture, ritardo nell’integrazione, tensione sociale, senso di emarginazione. Un luogo, insomma, dal quale si voleva fuggire appena possibile. Il cambiamento ha avuto riflessi in alcuni fenomeni rilevanti e tra loro collegati, come la scomparsa de facto della distinzione tra periferia legale (politicamente corretta) e periferia illegale, resa plateale dalla sanatoria delle borgate abusive avvenuta a Roma nel 1975, o l’affermazione su scala nazionale (e planetaria) del modello della casa individuale come alternativa vincente alla tanto biasimata ‘residenza’ collettiva. La villula, come la chiameranno poi l’urbanista Bernardo Secchi e i suoi allievi (riprendendo una geniale definizione di Carlo Emilio Gadda), è talvolta fornita al suo interno di spazi per la microproduzione e la vendita, ed è considerata più economica, più vicina alla natura, più consona allo sviluppo di un’estetica individuale e allo sfruttamento dei nuovi media, più ‘urbanisticamente’ flessibile. In campo disciplinare, tutto ciò ha avuto un riflesso quasi automatico nella fuga generalizzata e repentina dell’intera cultura architettonica più autorevole dal tema dello housing collettivo e della crescita urbana, considerato non più all’ordine del giorno. Gli architetti insomma, per molti e complessi motivi, hanno smesso di occuparsi di residenza collettiva e di classi subalterne e hanno concentrato le ricerche e il dialogo con i loro interlocutori su temi considerati più ‘attuali’ e stimolanti, come, per es., il paesaggio e lo spazio pubblico, i grandi edifici per la cultura, le aree commerciali, le grandi sedi societarie private e così via. Negli ultimi decenni del secolo scorso, in sostanza, sembra che l’architettura ‘moderna’ abbia avuto voglia soprattutto di spazi aperti, monumentalità e lusso, quasi dovesse rifarsi di quel mezzo secolo di standardizzazione (Siedlungen, Existenzminimum, unité d’habitation) che la storia delle periferie urbane rappresenta così bene.
All’inizio del 21° sec., quindi, non ci vuole un gran coraggio per affermare che ‘la periferia non c’è più’, almeno così come la conoscevamo. È scomparsa semplicemente perché non si trovano più i connotati e i caratteri che permettevano di riconoscerla. È infatti impossibile oggi identificare, soprattutto fuori dai grandi centri, quella sorta di topologia urbana radiocentrica, basata su una scala dei valori (la famigerata ‘rendita’) decrescente in ragione della distanza dal centro; né si realizzano più, o quasi, i grandi programmi di edilizia economica e popolare che hanno dato forma all’immagine delle città europee per buona parte del secolo scorso. Inoltre, è in molti casi impossibile tracciare oggi una linea di demarcazione netta tra ciò che è urbano e ciò che non lo è, tra periferia e territorio agricolo. La trasformazione del territorio è per lo più frutto diretto della ricerca individuale (o tutt’al più effettuata ‘in cooperativa’) del miglior lotto disponibile in rapporto all’accessibilità alle infrastrutture e ai servizi, al costo del terreno, alla relazione con il luogo di lavoro, alla malleabilità degli strumenti urbanistici di questo o quel comune, al senso di indipendenza e al rapporto individuale con il verde. In una parola (non molto amata), al posto della periferia vi è oggi lo sprawl, vale a dire villettopoli, la città ‘diffusa’ o ‘infinita’, il continuum che diluisce il senso di appartenenza a una comunità urbana in una sterminata e ininterrotta costellazione di case, casette, capannoni e piccole fabbriche alla cui disposizione sul terreno è ormai impossibile associare la lettura di una gerarchia dello spazio architettonico oppure sociale.
Da un certo punto di vista – se si vuole applicare una lettura ‘purovisibilista’ ai fenomeni urbani – si potrebbe dire che è stato raggiunto il risultato tanto agognato: è stata realizzata l’utopia del capitalismo senza luoghi del conflitto e quel terribile teatro della contrapposizione tra classi, culture, etnie, generazioni, idealità che è la città storicamente intesa, è stato progressivamente sostituito da un tessuto informe di minicittà individuali, luogo di una borghesia suburbana mutevole e onnicomprensiva in cui ognuno si sceglie o si costruisce la casa dove e come gli consente il suo livello economico. Le funzioni collettive della città, invece, sono perfettamente surrogate da contenitori materiali e immateriali dai quali il ‘cittadino’ può attingere a piacimento e senza legami spaziali e geografici diretti, dove l’identità si costruisce come un puzzle individuale. Per le residue manifestazioni di disagio, riconoscibili a Corviale o alle Vele, nelle banlieues parigine o in qualche enclave etnica londinese, non resta che aspettare. Saranno le leggi del mercato, l’innovazione tecnologica e informatica, la polverizzazione produttiva postmoderna a trovare una soluzione automatica, offrendo a ognuno la possibilità di trovarsi un posto per abitare, magari misero ma con il vantaggio di essere indipendente da una qualsiasi connotazione o identità collettiva.
In realtà, e questo gli analisti lo sanno benissimo, molto è cambiato, ma i fenomeni e le ragioni che hanno reso urgente la costruzione di milioni di metri cubi di periferie urbane dagli anni Venti in poi non sono certo scomparsi o esauriti. Il flusso ininterrotto di popolazioni verso le aree urbanizzate prosegue tuttora veloce su scala planetaria. Il differenziale di reddito pro capite all’interno dei grandi centri urbani (splendida metafora del mondo) continua a crescere, e quindi a rendere necessaria la ricerca angosciosa di case a prezzi sempre più bassi (relativamente) e di terreni sempre più ‘distanti’ (e quindi teoricamente più economici) per realizzarle. Perfino il settore industriale, considerato dagli oltranzisti del postmoderno come qualcosa che doveva magicamente scomparire dai paesaggi occidentali (e ricomparire non si sa dove nei terzi e quarti mondi) per essere sostituito da palazzine di uffici, continua in realtà a crescere in mille modi, certo più ibridi e articolati di prima, ma comunque capaci di generare continuamente nuove e sempre più invasive ‘aree industriali’, l’altra ragione essenziale alla base della condizione periferica.
Si realizza quindi un evento tipico della società mediatizzata: si scambia cioè la cancellazione della rappresentazione di un fenomeno con la scomparsa del fenomeno stesso. Se lo Stato smette di ‘costruire la periferia’, forse, si ipotizza, vuol dire che non ce n’è più bisogno, che l’emergenza sociale e abitativa è finita, che non ci sono soggetti e comunità incapaci di risolvere il problema individualmente, che la quota di disagio che si continua a vedere e sentire nelle città è fisiologica. In realtà il concetto di periferia è esploso in mille periferie, difficili da inquadrare dentro i vecchi schemi urbanistici, ma delle quali non è impossibile delineare una mappa. Per disegnarla basta seguire le tracce di vecchie e nuove figure sociali e comunità che in altri tempi si sarebbero aspettate una risposta istituzionale e progettata (una qualche forma di welfare) a un bisogno primario come quello della casa, e che quando non la trovano in qualche modo se la inventano con i mezzi che hanno.
Quella della periferia contemporanea è allora una mappa che scopriremo complessa e contraddittoria, fatta di vecchi quartieri di edilizia pubblica e settori ‘degradati’ di centri storici (basta pensare a Napoli, Genova, Palermo o Marsiglia), casette sparse in zone dimenticate dalla pianificazione e complessi turistici riciclati, centri suburbani o rurali totalmente interessati dai flussi di immigrazione (e quindi trasformati in periferia). Privo di una struttura dello spazio imposta, come quella ‘socialdemocratica’ del Novecento, il flusso dell’inurbamento è andato a riempire qualsiasi spazio vuoto gli si offrisse, dai centri storici alla campagna ai complessi borghesi in decadenza. Il fenomeno però non è indolore, né ciclico e ripetitivo come negli Stati Uniti, dove la gentrification (la riqualificazione, con conseguente cambio dei residenti) (di)smette e rimette continuamente in gioco le aree urbane. Dove non trova resistenza né pianificazione, come avviene in sostanza in Italia, l’esplosione del concetto di periferia dentro i mille cuori della città genera disagi e microconflitti, non aiuta affatto l’integrazione e finisce per alimentare quella ‘democrazia dell’insicurezza’ che ci affligge in questo inizio di secolo. Dove si confronta con un controllo più rigido ed efficiente dello spazio, come, per es., in Francia, in Germania o nei Paesi Bassi, esplode nei modi più tradizionali della violenza antagonista oppure razzista.
All’inizio del nuovo secolo sembra proprio che invece di considerare obsoleto il concetto di periferia occorra aggiornarlo o sostituirlo con qualcosa di più articolato e flessibile. Oggi la questione del disagio urbano pervade in modo discontinuo e irregolare l’intero paesaggio abitato, ed è ormai definitivamente dissociata da quella dello spazio periurbano, che non di rado, rispetto ad altri ‘quadranti’, esprime ben poco disagio e ben poco senso di emarginazione. Le ‘distanze’ quindi rimangono tali ma non sono più rappresentate e misurabili nella lontananza fisica della casa dell’immigrato o del proletario urbano dalla piazza con il municipio. Ciò mette in discussione statuti e strumenti disciplinari, procedure di pianificazione, gerarchie estetiche, e rende quindi urgente riaprire la discussione non tanto sulla periferia, quanto piuttosto su come oggi la cultura politica e quella progettuale possano rispondere alle domande a cui per un secolo intero si era risposto prima con la periferia e poi con i programmi di riqualificazione.
Dopo questa lunga premessa, che ha cercato di inquadrare il problema urbanistico e sociale della trasformazione della periferia, nella seconda parte di questo saggio si cercherà di riconoscere e isolare i nuovi caratteri del problema, riportando all’attenzione dei lettori una serie di fatti culturali e di cronaca particolarmente significativi avvenuti dal Duemila in poi. Una serie disomogenea di mostre, libri, convegni, fatti di cronaca, iniziative legislative e mediatiche è utile per mettere in luce alcuni tratti essenziali del problema. Si è partiti infatti da un’idea fisica, un’invariabile topologica, della periferia, che ammetteva un certo tipo di interpretazioni e di risposte; ci si ritrova ora con un concetto di periferia che non si rappresenta più in una collocazione o in un’immagine fisica e spiazza molti dei linguaggi che intendono raccontarla, analizzarla, o trovare risposte ai problemi. Cercheremo quindi di scomporre il problema e di evidenziarne per quanto possibile i singoli aspetti, tentando di comprenderne ragioni ed effetti e di confrontare le posizioni teoriche più importanti intorno alla loro interpretazione.
Nell’aprile del 2000 si è inaugurata a Bordeaux, presso il centro di architettura Arc en rêve, una mostra sullo spazio urbano europeo chiamata USE: Uncertain States of Europe. Si è trattato di un’esposizione strana, una specie di mostra-evento, composta di tre parti autonome curate rispettivamente da Rem Koolhaas, Sanford Kwinter e Stefano Boeri. Cuore comune della mostra è risultata la registrazione di una serie di fenomeni socioantropologici, tecnologici, infrastrutturali, estetici e politici che stanno cambiando profondamente, a cavallo dei due secoli, la natura dello spazio urbano e delle relazioni che contiene. All’epoca Koolhaas aveva da poco finito di lavorare su progetti quale quello per il supersnodo del TGV (Train Grande Vitesse) a Euralille o quello per il passante della metropolitana al centro dell’Aia, e stava cercando di trarre da quelle e da altre esperienze europee una serie di conclusioni su come le nuove reti influenzino la percezione e la formazione dello spazio e le norme di relazione tra le persone, rendendo pressoché inutilizzabili i concetti/contenitori di città, centro, periferia, spazio pubblico e così via. Kwinter era più interessato alla rappresentazione satellitare che alle geografie urbane – si era all’inizio dell’esplosione della ‘generazione Google Earth’ – e ha raccolto immagini e reportage visivi sul nuovo universo metropolitano.
Tuttavia la sezione della mostra che più ci riguarda in questo caso è quella curata da Boeri, basata in gran parte su una serie di ricerche su vicende urbane raccolte da Multiplicity, un gruppo di ricerca informale. Due dei ‘casi’ proposti appaiono particolarmente pertinenti rispetto alla ‘questione periferia’: la storia di un complesso residenziale parigino e quella dell’Hotel House di Porto Recanati.
Il primo è il complesso Les olympiades (1974), realizzato sotto la direzione di Michel Holley nel 13° arrondissement. Fin dagli anni immediatamente successivi alla sua inaugurazione, oltre a essere abitato dai destinatari originari dell’offerta residenziale, il complesso è diventato il rifugio di immigrati provenienti dal Sud-Est asiatico, fino a diventare uno dei cuori della comunità cinese di Parigi. Ovviamente i nuovi abitanti hanno subito contraddetto la destinazione monofunzionale dell’edificio (residenza e servizi annessi), e lo hanno trasformato in una specie di falansterio parassita, adattando alle loro esigenze (abitative e di spazi per la produzione, distribuzione, stoccaggio e logistica) gli appartamenti e i garage pensati per tutt’altro scopo.
A Porto Recanati il fenomeno è simile. A sud del centro urbano, stretto tra l’autostrada e il mare, si trova uno dei pochi grattacieli per residenze turistiche edificati tra gli anni Sessanta e gli anni Settanta sulla costa adriatica. Si tratta di una struttura interessante, costruita nel 1968 e ancora oggi isolata e circondata da campi coltivati. Anche questo complesso è basato sull’integrazione tra le residenze – unità piccole, da 50 m2, facilmente accoppiabili – e i servizi commerciali e condominiali al piano terra. L’edificio non manca di ambizione architettonica, con una bella pianta cruciforme derivata dai grattacieli disegnati da Le Corbusier per il Plan Voisin (1925) di Parigi. Solo molto più basso, non più di 20 piani per 65 metri. La borghesia composta da professionisti dei centri vicini (Ancona, Macerata, Jesi ecc.) lo ha occupato con successo nei mesi estivi fino ai primi anni Novanta, quando l’effetto ‘casermone’ ha cominciato a farsi sentire e a trasformare il tessuto sociale. Non è facile comprendere come e quando abbia avuto inizio la mutazione, ma probabilmente ha preso avvio dalle possibilità di dare in affitto gli appartamenti tutto l’anno invece dei tre mesi estivi; quindi sono progressivamente arrivati studenti, immigrati, mafiosi in domicilio coatto, prostitute, venditori abusivi (in genere italiani) in cerca di magazzini ecc., fino a rendere il luogo praticamente inaccessibile, del tutto assimilabile a uno slum metropolitano estremo.
I due casi citati, con tutte le loro caratteristiche specifiche e ‘locali’, danno un’idea esatta del ‘dislocamento’ subito dal concetto di periferia, un tempo capace di evocare una relazione stretta tra un luogo e una gerarchia sociale/spaziale, i cui reciproci rapporti sono invece ora del tutto labili, in continuo movimento, legati in modi molto più complessi alla geografia urbana e a quella umana.
Sempre nel 2000, nel mese di settembre, è stata inaugurata una Biennale di architettura a suo modo epocale, curata e allestita da Massimiliano Fuksas, nominato direttamente dal commissario governativo Paolo Baratta. Fuksas, che era da poco rientrato con successo in Italia dopo un lungo esilio professionale in Francia e in Austria, ha scelto in questo caso un approccio eclatante che ha suscitato l’interesse dei media. L’architettura al tempo delle superstar, sostiene l’architetto romano, è una questione soltanto estetica, un lusso riservato a pochi e governato dai media. Il vero problema di cui gli architetti dovrebbero occuparsi a tempo pieno, resuscitando una perduta tensione ‘etica’, è invece quello della crescita vertiginosa e globale delle metropoli, soprattutto di quelle dei Paesi emergenti, e delle condizioni di vita delle enormi masse di popolazione migrante che ne allarga ogni giorno i confini e l’aspetto, grande esercito industriale di riserva del capitalismo globale.
Non è questa la sede per occuparci della credibilità o della coerenza del progetto del curatore. Ciò che qui interessa è notare come Fuksas attribuisca ai soggetti ultimi della trasformazione – le masse di diseredati di Mumbai, Calcutta, San Paolo, Nairobi, che arrivano quotidianamente e poi continuano a muoversi dentro le città – il potere di far saltare le regole dell’organizzazione degli spazi urbani. Nella mostra veneziana al posto dei progetti architettonici e urbanistici dominano le immagini di folle in movimento. Un’installazione indimenticabile di Studio azzurro alle Corderie dell’Arsenale fa scorrere su un unico video ‘largo’ più di cento metri le immagini del movimento caotico e allo stesso tempo armonico di questa specie di quinto Stato che invade le strade e non si ferma mai, indirizzando la sua forza apparentemente anarchica e incontrollabile sui meccanismi più efferati del capitalismo globale. Il concetto di periferia non ha più senso, nella visione della mostra di Fuksas, perché il mondo urbanizzato è tutto periferia, e nessun quartiere, spazio urbano, città possono essere considerati del tutto al sicuro da quel processo di gentrification al contrario generato dal bisogno di spazio e di sopravvivenza della componente più umana del paesaggio metropolitano.
Dalla mostra veneziana emergono almeno due o tre temi interessanti. In primo luogo il fatto che sulla questione sollevata da Fuksas sul problema della crescita illimitata delle metropoli e sulla relazione di questa crescita con i meccanismi di controllo politico ed economico del territorio, già dagli anni Settanta e Ottanta del 20° sec. si erano impegnati numerosi studiosi. A parte i saggi già storici di Jean Gottmann (Megalopolis, 1961; trad. it. 1970) e di Jane Jacobs (The death and life of great American cities, 1961; trad. it. 1969), si segnalano gli studi sulle città californiane di Mike Davis (in partic., City of quartz, 1990; trad. it. 2008) e di Edward W. Soja (in partic., Postmetropo-lis, 2000; trad. it. 2007), i diffusissimi lavori di Marc Augé (come l’abusatissimo Non-lieux, 1992; trad. it. 1993), le analisi di Saskia Sassen (soprattutto The glob-al city, 1991; trad. it. 1997) e l’applicazione del teorema metropolitano alle coste del Mediterraneo di Predrag Matvejević (Mediteranski brevijar, 1987; trad. it. Breviario mediterraneo, 1988). Anche in Italia, quando Fuksas dedica la sua mostra all’etica della metropoli, vi erano da almeno dieci anni studiosi giovani e meno giovani di architettura e di urbanistica che si erano impegnati molto e con accenti diversi nel segnalare ogni situazione di emergenza dello spazio urbano. Tra Milano e Venezia, Bernardo Secchi ha impostato una battaglia pacata contro una disciplina urbanistica che continua ad andare avanti come se tutti questi fenomeni non ci fossero. Più a sud, soprattutto tra Roma e le università adriatiche, l’attenzione dedicata dagli studiosi più giovani all’evoluzione dei fenomeni urbani e alle conseguenze che questa dovrebbe avere sull’architettura viene direttamente disinnescata con l’accusa di antiaccademismo e insensibilità alla tradizione disciplinare. Fuksas comunque ha avuto il merito sia di rendersi conto che la ‘catastrofe’ stava incombendo sia di spettacolarizzarla facendone il tema di una mostra alla Biennale, contribuendo così a una generale sensibilizzazione sul problema.
L’altra questione, forse per noi più interessante, che si può cogliere dall’esperienza della mostra del 2000 è quella del confronto tra l’approccio adottato da Koolhaas per USE e per altre investigazioni urbane e quello del Fuksas ‘etico-estetico’. Da Koolhaas impariamo a focalizzare la nostra attenzione sui meccanismi che producono lo spazio urbano e l’uso che le persone ne fanno. Lo si guarda attraverso i cambiamenti geopolitici e infrastrutturali, tra le maglie delle reti e attraverso le innovazioni della tecnologia e della comunicazione. Vagamente tecnocratico, Koolhaas appare comunque ottimista sulle possibilità del progetto di inserirsi nei nuovi meccanismi, a patto di rinunciare alle certezze della disciplina e ai metodi consolidati di giudizio e previsione. La periferia come la conoscevamo per Koolhaas non esiste più perché l’evoluzione urbana non la ammette. Vi sono però altre forme di periferia, davanti alle quali non rimane che attrezzarsi e affrontare il problema. Il punto di vista sostenuto da Fuksas è opposto. Per quanto l’invasione urbana e la caduta delle gerarchie storiche siano state annunciate nella mostra con toni apocalittici e ‘preoccupati’, come per una chiamata alle armi vecchio stile degli intellettuali engagés, l’autore non vuole indicare nessuna soluzione. O meglio ammette come unica via d’uscita la sublimazione autoriale dell’immagine del disastro. Fuksas reagisce insomma mediante gli strumenti tipici dell’architetto più che attraverso quelli del critico/intellettuale, più utili a sé stesso che agli altri, pronto a trasformare in estetica l’allarme etico a partire dal quale si è mosso.
Un altro dei grandi e vistosi agenti che hanno influenzato la trasformazione dei territori urbanizzati in Italia e, più in generale, nell’Occidente industrializzato è ovviamente da ricercare nei modi e nei processi della produzione industriale. Come la produzione in serie e la fabbrica fordista sono tra le ragioni alla base della nascita delle periferie moderne, così l’esplosione dei meccanismi produttivi in senso postfordista e microindustriale è una delle ragioni prime dell’evoluzione radicale dell’idea di residenza delle classi produttive. Non è compito di questo saggio occuparsi di globalizzazione, ma certo è molto difficile non cogliere come la nuova geografia mondiale delle economie produttive contenga già in sé una serie di meccanismi capaci di influenzare direttamente la civiltà urbana e il rapporto tra le persone, i luoghi della produzione, quelli dell’abitare. La periferia moderna, come si è già sottolineato, nasce come insediamento monoclasse, destinato ad alloggiare le maestranze delle grandi fabbriche situate in prossimità dei centri urbani. Ciò era vero ai tempi degli opifici inglesi di fine Ottocento, ma è ancora vero per i quartieri torinesi intorno al Lingotto o nelle case costruite da Giancarlo De Carlo a Terni per gli operai delle acciaierie (nuovo Villaggio Matteotti, 1975). Questa natura omogenea viene meno per due ragioni. La prima, che abbiamo descritto, risiede nella nascita e nella proliferazione del proletariato urbano, che mette insieme parti di classi diverse, con lavori, aspirazioni e potenzialità diverse, e che comincia a frammentare l’idea dell’abitare periurbano. La seconda è nel mutamento del rapporto tra produzione e territorio, nel passaggio dalle grandi fabbriche alla miriade di piccole e piccolissime imprese, dalla prevalenza territoriale dell’economia agraria a quella dell’impresa molecolare, che si diffonde necessariamente a tappeto nel paesaggio abitato. In sostanza, l’evoluzione del proletariato urbano, quello mitizzato da Fuksas nella sua Biennale, rompe l’omogeneità sociospaziale della periferia e la trasforma in uno spazio concettuale; l’economia postmoderna utilizza questa labilità di relazione per separare definitivamente la natura e l’identità di un luogo da quella di chi lo abita. Per fare un esempio molto concreto, negli anni Sessanta la condizione tipica dell’universo produttivo era quella nella quale la ‘famiglia proprietaria’ risiedeva in villa o in collina, la fabbrica era al margine dell’abitato urbano, gli operai abitavano, a seconda del reddito, nella periferia residenziale che si distribuiva meno lontano possibile dalla fabbrica. All’inizio del nostro secolo prevale ormai l’idea di un territorio indistinto nel quale si distribuiscono, secondo gerarchie rese visibili unicamente dalla tipologia funzionale degli edifici, dal lusso delle finiture e dalla qualità edilizia, la fabbrica maggiore, i laboratori dei ‘terzisti’, i capannoni dei fornitori, la villa dei proprietari, le villette e le case in cooperativa dove abitano sia gli operai sia i piccoli imprenditori, appunto, autonomi oppure terzisti che siano. È ovviamente impossibile far sopravvivere il concetto di periferia in una geografia così definita. Quando a questo si aggiungono poi la rete delle infrastrutture, quella dei contenitori commerciali e di svago, l’arcipelago degli insediamenti storici, il paesaggio, ecco che si materializza la città contemporanea, ormai lontana e differente da quella moderna, irriducibile allo schema costituito da centro, espansioni otto-novecentesche, periferia novecentesca, campagna.
Raccontare questa nuova geografia serve anche a evidenziare la sua complicata incoerenza e quindi a comprendere la difficoltà che hanno le discipline spaziali moderne a razionalizzarla e a trovare gli strumenti per governarla. Da un lato sembra un ritorno a schemi di funzionamento storici, radicati nel Medioevo (le case vicino alle strade, i lavoratori intorno al luogo in cui si svolge il lavoro, la ‘perdita del centro’), fortemente antimoderni. Dall’altro la possibilità di funzionamento poggia su pochi cruciali ingredienti ipermoderni: almeno un’automobile per ogni individuo maggiorenne, moltiplicazione delle infrastrutture, iperconcentrazioni commerciali e dello svago, massima utilizzazione della comunicazione immateriale. In una parola, polverizzazione del concetto di comunità, che era invece quello che teneva insieme gli insediamenti medievali.
In anni molto recenti, una delle migliori rappresentazioni di questa trasformazione del territorio si è avuta in una mostra esposta alla Triennale di Milano da gennaio a marzo del 2004. Curata da Aldo Bonomi e Alberto Abruzzese, La città infinita raccontava infatti un ‘caso-studio’ particolarmente importante del nuovo paesaggio urbano-produttivo, quello del territorio lombardo, e ne metteva in mostra gli spazi, i luoghi della decisione, le testimonianze dei soggetti ‘nomadi-produttivi’ che lo abitano, gli oggetti che raccontano la cultura che questo spazio e i suoi abitanti tendono a produrre. L’esposizione offriva interviste, storie di persone, aziende e oggetti, territori. La proposta originale consisteva nella scelta di rivestire l’intero pavimento del primo piano del Palazzo dell’arte con una gigantografia aerea dove ognuno poteva riconoscere casa sua, ma ciò che è interessante ricordare oggi, scorrendo il catalogo della mostra, sono alcuni concetti base dell’approccio di Bonomi e Abruzzese. Il primo tendeva a comunicarci come il modo attuale di intendere la produzione e il capitalismo postmoderno non possa prescindere da questo modello spaziale. Poiché quindi il fenomeno non è reversibile, amministratori, architetti, urbanisti e pianificatori farebbero bene ad adeguarsi alla realtà piuttosto che rimpiangere equilibri perduti o perdersi dietro utopie falsamente eversive e quindi rassicuranti. Il secondo, che definirei implicito, esprimeva la più totale sfiducia nelle figure professionali sopra citate e nella cultura progettuale da esse prodotta. Scorrendo il catalogo saltano agli occhi due cose: l’ampiezza e varietà dei contributi ‘transdisciplinari’ richiesti dai curatori a sociologi, filosofi, economisti, fotografi, geografi, e la plateale assenza, appunto, di architetti, urbanisti, paesaggisti e così via. L’impressione, ovvia, è che i curatori della mostra considerino ancora insufficienti le risposte date dai nostri studiosi e dai nostri progettisti alle domande che vengono dal territorio contemporaneo. La terza argomentazione, che è forse la più significativa e anche quella che più ci riporta vicino all’asse del nostro discorso, è nell’importanza attribuita da Bonomi al concetto di ‘comunità’, alla sua evoluzione in presenza di un cambiamento così radicale dei rapporti tra persone e spazi, alla necessità di identificare un approccio nuovo e aggiornato al tema.
È chiaro infatti che solo analizzando il passaggio dalle comunità alle nuove forme comunitarie (Bonomi parla di geocomunità) sarà possibile capire cosa ci troviamo di fronte al posto delle vecchie periferie. Se infatti le prime avevano quasi sempre una ragione sociale legata all’appartenenza persistente a un luogo (la terra, la fabbrica, la città, il quartiere, l’omogeneità linguistica o religiosa), le nuove comunità nascono e si sviluppano spesso su basi diverse e il più delle volte contraddittorie. A volte hanno la necessità di far sopravvivere i vecchi caratteri comunitari/identitari in presenza di un inevitabile allentamento della prossimità fisica (si pensi alle comunità di immigrati o ai gruppi religiosi), in altri casi nascono già di per sé scollegate da qualsiasi identità fisica, basate su ragioni che trovano il loro spazio su Internet, o su un gusto o una passione comune, su un lifestyle (non a caso nel linguaggio della comunicazione la community ha sempre disperato bisogno di uno style).
In ogni caso, stando bene attenti a non invadere i campi dei sociologi o degli antropologi, quello che conta per noi studiosi e praticanti delle discipline progettuali è che la vecchia idea di comunità, che rappresentava il referente ideale e materiale dei nostri progetti di insediamento residenziale, e quindi quasi sempre di nuove periferie, si è anch’essa trasformata e polverizzata in mille concetti e mille comunità. Come se il corpus dei cittadini, un tempo ordinato secondo una serie di criteri e appartenenze, fosse esploso e andasse pian piano riorganizzandosi intorno a criteri diversi, comunque più labili e provvisori. Cercando ancora la concretezza: un tempo si tentava di fondare l’identità moderna della città costruendo un quartiere di operai capace di contrapporre i valori della funzionalità e democraticità del moderno alla sedimentazione storica della città borghese. Oggi, se si vuole ancora esprimere un qualche ottimismo nei confronti della sopravvivenza della cultura urbana moderna (o magari postmoderna), le comunità che si deve cercare di identificare per associarle a uno spazio fisico sono del tutto diverse: single, separati, famiglie con un figlio (è il caso di un quartiere di Seoul), gay, ecologisti, individui disponibili al cohousing, creativi, tecnocrati, piccoli produttori. Insomma insieme alla gerarchia spaziale si è dissolta la cultura politica dello spazio urbano che la governava. Non si può pensare di riorganizzare uno spazio apparentemente tendente al caos se non si comprende il suo nuovo, tutt’altro che caotico, ordine politico. Per questo i curatori della mostra La città infinita si sono impegnati essenzialmente nel tentativo di interpretare la forma di questo spazio politico, prestando poca o nessuna attenzione alle risposte progettuali finora proposte, considerate figlie di una cultura ancora troppo novecentesca.
La città infinita, il saggio di Bonomi che introduce l’omonimo catalogo della mostra prima citata, dedica molte pagine a un tema che abbiamo già sfiorato, quello dell’‘individualizzazione dei conflitti’ nello spazio-tempo contemporaneo. Bonomi cita Hans Magnus Enzensberger e la sua perfetta definizione di guerra civile molecolare come fenomenologia del conflitto sociale contemporaneo, fondato sull’individuo e non sulla classe (cfr. Aussichten auf den Bürgerkrieg, 1993; trad. it. 1994). È una situazione che non tutti abbiamo compreso e razionalizzato (basti pensare ai nostri dirigenti politici), ma che tutti percepiamo in qualche modo come naturale e acquisita nel paesaggio metropolitano contemporaneo. Forse per questo, quando scoppia, il conflitto che mette insieme le vecchie comunità territoriali, gli spazi dell’emarginazione tradizionalmente intesi e le forme più violente e disperate di ribellione lascia sorpresi e impreparati. Quindi, quando nell’autunno del 2007 la violenza è dilagata nella banlieue parigina, con l’inevitabile corredo di battaglie con la polizia, aggressioni, morti, auto bruciate e minacce di scorribande in centro, la nostra reazione è stata strana. Più che preoccuparci siamo rimasti perplessi e sorpresi, come per un evento fuori dagli schemi del tempo. Chi è che organizza la ribellione? Se non c’è matrice politica chiara, se non sono azioni di disturbo del terrorismo islamico, chi è in grado di mettere insieme tanti disagi individuali e convogliarli nella violenza collettiva? L’unica risposta è sempre che la responsabilità è della stessa banlieue, della ‘periferia’, che a Parigi è più periferia che in ogni altro posto, dell’orribile città moderna che continua a coagulare e dar forma e sostanza al senso di distanza e di ghettizzazione che gli abitanti provano rispetto a tutti i ‘centri’.
Ma non sono solo le rivolte di Parigi a ricordarci che i problemi della ‘vecchia’ periferia permangono e reclamano attenzione. A Napoli la discussione sui quartieri militarmente occupati dalla camorra va ovviamente avanti da decenni, ma per la prima volta Gomorra (2008), il film di Matteo Garrone tratto dall’omonimo libro del 2006 di Roberto Saviano, ha messo teatralmente in scena il rapporto tra la natura autarchica e chiusa dei falansteri tardomoderni e il loro ruolo di roccaforti inattaccabili e di incubatori sempre attivi della ‘comunità’ fondata sulla malavita e sull’impenetrabilità alle leggi dello Stato. Tanto che non è mancato qualche studioso di architettura che ha provato a dire che le Vele di Scampia, come gli altri ‘quartieri d’autore’ sotto accusa, non c’entrano niente con la diffusione dell’illegalità e della violenza. Si tratta di un’excusatio non petita, perché nessuno accusa lo Zen o il Corviale di essere gli unici responsabili del disagio di chi li abita. Tuttavia, anche affermare che essi non hanno alcuna responsabilità suona velleitario. Le grandi cittadelle dell’edilizia popolare non possono assumere, come piacerebbe poter dire ai progettisti o ai critici più idealisti, valori e significati propri e autonomi, ma definiscono di volta in volta il loro ruolo e il loro senso in relazione a mille variabili politiche, economiche, sociali, infrastrutturali, di comunicazione, estetiche e così via. È ovvio che chi li progetta non può non saperlo e quindi non può neanche sottrarsi quando si apre una discussione sul paesaggio sociale e su tutti i problemi connessi a questo modo di abitare. Non a caso, come si è visto per altri casi precedenti, l’unità di abitazione di Le Corbusier a Marsiglia (1952) ha più volte oscillato tra la condizione di periferia reietta e malfamata e quella di residenza alla moda pensata per le categorie sociali più evolute e creative.
In fondo i molti tentativi recenti di riqualificazione dei complessi periferici basati non sull’intervento edilizio pesante, ma sulla sovrapposizione di iniziative sociali e artistiche danno credito proprio agli aspetti più flessibili dell’identità della periferia moderna. È la posizione dei sostenitori della public art, la quale però progetta azioni artistiche che insistono soprattutto sugli spazi pubblici, o di gruppi come gli Stalker, gli A12 e altri che lavorano sul confine tra architettura, azione politica e performance artistica, e che però concentrano il loro intervento più direttamente sul coinvolgimento degli spazi residenziali. Se è vero, direbbero costoro, che il Corviale o lo Zen non sono sbagliati in sé ma ‘diventano’ sbagliati nel configurarsi delle relazioni con il contesto e la città, proviamo ad agire sui linguaggi e le modalità che regolano queste relazioni. Riusciremo così a definire l’identità e quindi anche la qualità dell’abitare nella periferia storica moderna. L’intuizione è giusta, e trovare la soluzione sarebbe un po’ come scoprire la pietra filosofale. Infatti i gruppi citati hanno guadagnato molta attenzione e sostegno nei primi anni di questo secolo. Vi sono però un paio di osservazioni da fare. La prima è che strategie di questo genere – cambiare la natura dei luoghi attraverso l’atto artistico-politico – hanno dimostrato di ottenere buoni risultati soprattutto quando si tratta di riqualificare spazi dismessi o depressi orientandoli a un uso pubblico e creativo, trasformandoli in musei o centri per attività di produzione scenica. Sembra più difficile farle funzionare quando si parla di migliaia di residenti e quando lo ‘zoccolo duro’ delle relazioni tra l’abitante del complesso di periferia e il mondo è dato dai buoni vecchi ‘rapporti di produzione’, cioè dal reddito, dalla posizione rispetto al luogo di lavoro, dall’accessibilità alle infrastrutture e alle parti centrali della città, dalla presenza di servizi qualificati. L’impressione è che l’efficacia del progetto artistico di riqualificazione della periferia implichi una partecipazione e una volontà collettiva dei residenti molto difficile da mantenere costante nel tempo, soprattutto in presenza di altre solide ragioni di disagio.
La seconda osservazione riguarda la natura profonda dei progetti di architettura. Anche qui l’idea di cambiare l’identità di Corviale o dello Zen (o delle Vele di Scampia) attraverso azioni immateriali, non a tutti appare facile da realizzare. È vero, come si diceva sopra, che il valore dei quartieri residenziali dipende in buona parte da variabili non direttamente connesse alla consistenza edilizia degli edifici. Tuttavia è anche vero che questi e altri grandi progetti degli anni Settanta erano talmente impregnati di ideologia e di spirito del tempo, tradotti in precetti disciplinari, che probabilmente la loro resistenza alla trasformazione si rivelerà più solida del previsto e necessiterà di strategie di riqualificazione più complesse. Paradossalmente il problema più complicato riguarda i progetti d’autore, che dovranno mantenersi in equilibrio tra salvaguardia (quindi mantenimento della natura edilizia e tipologica esistente) e continuità d’uso. In tali casi – e in questo consiste fondamentalmente l’intuizione di quelli che in questi anni hanno lavorato sul Corviale – il ruolo dell’azione socioculturale potrà avere più spazio. Per tutti gli altri ci sarà bisogno di dispiegare un armamentario progettuale più ampio, fatto di demolizioni, integrazioni, alterazioni tipologiche, sostituzioni, densificazioni e rarefazioni. In realtà in molti quartieri CEP, IACP, INA-Casa, per riferirsi solo all’Italia, questo processo è cominciato e si spera che porti buoni frutti.
Chi voglia occuparsi di periferie, o di quello che sta sorgendo al loro posto, all’alba del 21° sec. deve quindi sapere che ha davanti due diversi ordini di problemi. Il primo, che abbiamo in qualche modo delineato nei paragrafi precedenti, riguarda cosa fare di ciò che c’è: i quartieri di edilizia economica e popolare e le favelas sudamericane, gli insediamenti turistici riciclati e i villaggi ex agricoli, i centri storici ‘invasi dal degrado’ e gli slums diffusi di Mumbai e delle metropoli africane. Dopo qualche anno le motivazioni che stavano alla base della mostra di Fuksas alla Biennale del 2000 sono tutt’altro che affievolite. Solo sei anni dopo, nell’edizione del 2006, Richard Burdett, curatore di turno, è tornato a indirizzare il contenuto della mostra verso l’emergenza urbana. Naturalmente il punto di vista è molto diverso. Fuksas descriveva il tormento e l’estasi della marea metropolitana. Burdett, che è inglese e dirige da tempo un autorevole forum sulle città in grado di far dialogare i sindaci delle metropoli globali con studiosi, progettisti ed esperti vari, ha offerto al pubblico di Venezia una grande quantità di dati, informazioni, immagini, studi, con l’intento, da un lato, di mettere tutti in guardia nei confronti di un fenomeno che potrebbe trasformarsi in una specie di pandemia urbanistica universale e, dall’altro, di stimolare una sorta di alleanza multidisciplinare capace di studiare soluzioni innovative e veramente efficienti.
Anche nella mostra di Burdett i progetti architettonici e urbanistici sono pochi e opinabili. Segno che le risposte prese in esame dai suoi forum nel mondo non appaiono ancora sufficienti. E anche che Burdett vuole richiamare l’attenzione degli architetti su ricerche che mettano al centro i problemi generati dal continuo afflusso delle popolazioni verso le aree metropolitane e dai fenomeni urbani di crescita disordinata, habitat insani, caos urbanistico e sociale che ne sono conseguiti. Se il mondo è ormai una specie di grande metropoli a densità variabile, quella che un tempo chiamavamo periferia si è trasformata nel suo tessuto connettivo e problematico, divenendo un continuum ininterrotto e mutante che attraversa e collega l’intero mondo urbanizzato.
La seconda domanda, per chi vuole ancora lavorare sullo housing e sulla periferia, è come costruirne di nuove, come dare risposte alle richieste di spazi abitativi dei nuovi inurbati e dell’intramontabile proletariato urbano che non finiscano per aggravare la situazione evocata da Fuksas e documentata da Burdett. Tali risposte non sono semplici, e le culture dalle quali queste devono provenire sono in attesa di aggiornamento. E non ci si riferisce solo alla distrazione della cultura architettonica o alla lentezza di quella urbanistica. A essere in crisi appare tutta la filiera dei soggetti e delle decisioni che presiedono alla realizzazione di un intervento (diretto o semplicemente normativo) di edilizia a basso costo o comunque diretta a utenti con limitate possibilità economiche. A partire dalle leggi per arrivare agli amministratori, ai responsabili politici e tecnici, alle strutture di indagine e controllo, ai progettisti. Non a caso tra i primi a cercare di riaccendere la questione del welfare abitativo vi è stata una fondazione a sfondo giuridico. L’occasione è arrivata, nel novembre del 2007, con il terzo convegno di un’associazione indipendente di magistrati (la fondazione bolognese intitolata a Carlo Maria Verardi), dedicato a Il diritto di abitare. I magistrati, con un’opera di supplenza che solo in Italia si può capire, hanno individuato nelle carenze legislative e amministrative in sostegno alle famiglie che faticano a trovare casa o a pagarsi un mutuo o un affitto una delle ragioni della conflittualità urbana e dell’integrazione lenta e imperfetta delle comunità di nuovo arrivo. Nel convegno hanno chiesto quindi a vari esperti di ogni genere – CENSIS, CRESME, progettisti, sindacati inquilini e proprietari – di delineare una fotografia credibile del problema. È stato poi chiesto ai ministri e dirigenti locali e nazionali presenti di intervenire sul piano legislativo. Oggi, risolvere la questione della casa, alla luce di quanto finora scritto, non è però facile. Trovati i fondi che non ci sono oppure sono pochissimi, il legislatore e, a seguire, l’amministratore hanno due opzioni. La prima è continuare a ‘costruire la periferia’, ignorando la crisi di cultura che abbiamo descritto e perseverando nella realizzazione di programmi di edilizia assistita (possibilmente a basso costo ed ecologicamente corretta) in aree sempre più suburbane. La seconda è ‘lavorare nell’esistente’ con politiche diversificate, cioè finanziare affitti controllati nell’edilizia commerciale urbana, collegarsi ai programmi di microcredito (in espansione), operare nel campo del restauro e del riuso, riqualificare centri storici, cercare ove possibile occasioni per la densificazione dei tessuti urbani, ricercare insomma il concetto di periferia nei mille luoghi, nei mille soggetti e nelle mille forme nei quali oggi si dissimula, rinunciando all’idea di periferia come idea di un ‘modello di città’. Per chi ha un approccio più ideologico (non ha importanza se di carattere politico o architettonico), questa politica non piace molto, perché implica un confronto serrato e continuo con i privati e perché rinuncia a costruire le periferie come un modello di città che sia anche la proiezione formale di un modello di società. Ma ha il pregio di quella flessibilità che è il requisito primo e necessario per capire dov’è oggi il concetto di periferia e per cominciare ad affrontarne i problemi. È vero anche che le amministrazioni centrali e locali non possono abdicare del tutto al loro ruolo di stimolo e alimento per una cultura positiva dell’abitare urbano. Il loro intervento diretto è essenziale anche per rimettere in moto la ricerca e la fantasia di progettisti finora troppo distratti. A voler essere ottimisti per il futuro si può prevedere il diffondersi di strategie integrate, nelle quali diventi possibile lavorare sia sulla sparizione del concetto tradizionale di periferia e sui suoi frammenti dispersi, sia sulla proposizione diretta di interventi esemplari, incentrati soprattutto sull’integrazione sociale e sulla consapevolezza energetica.
Less aesthetics more ethics, a cura di D.O. Mandrelli, 7a Mostra internazionale di architettura, Venezia 2000 (catalogo della mostra).
Mutations, éd. S. Boeri, R. Koolhaas, S. Kwinter, Arc en rêve centre d’architecture, Bordeaux 2000 (catalogo della mostra).
La grande ricostruzione. Il piano INA-Casa e l’Italia degli anni ’50, a cura di P. Di Biagi, Roma 2001.
A. Bonomi, La comunità maledetta, Torino 2002.
USE: Uncertain States of Europe. Dentro la città europea, a cura di Multiplicity, Bordeaux, Arc en rêve centre d’architecture, 2000-2001, XX Triennale di Milano, Palazzo dell’arte, 2002, Milano 2003 (catalogo della mostra).
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La città infinita, a cura di A. Bonomi, A. Abruzzese, Triennale di Milano, Palazzo dell’arte, Milano 2004 (catalogo della mostra).
Il luogo (non) comune. Arte spazio pubblico ed estetica urbana in Europa, a cura di B. Pietromarchi, Roma-Barcellona 2005.
Città architettura e società, a cura di R. Burdett, S. Ichioka, 10a Mostra internazionale di architettura, Venezia 2006 (catalogo della mostra).
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«Questione giustizia», 2008, 1, n. monografico: Il diritto di abitare, a cura di G. Gilardi.