La flessibilita in uscita. Licenziamenti collettivi
La l. 28.6.2012, n. 92 di riforma del mercato del lavoro interviene anche sulla l. 23.7.1991, n. 223, modificandola per diversi aspetti. In particolare, a seguito delle innovazioni introdotte, può prospettarsi la considerazione che la procedura preventiva fissata dall’art. 4 della l. n. 223/1991 sia da seguire solo quando ricorrono gli estremi del licenziamento collettivo come definiti dall’art. 24 della medesima legge. La procedura in questione è particolarmente complessa e, come conferma anche la prassi applicativa, può accompagnarsi ad errori. La nuova legge affronta un particolare aspetto della proceduralizzazione del licenziamento collettivo, attribuendo ad accordi sindacali aventi particolari caratteristiche la capacità di “sanare” i vizi della comunicazione con la quale si apre la procedura di riduzione del personale. Un particolare rilievo assume, infine, la disciplina delle “sanzioni” applicabili nel caso in cui gli atti di recesso conseguenti alla riduzione del personale presentino profili di illegittimità, conseguenze che la nuova legge fissa avendo presente anche quanto si è stabilito per i licenziamenti individuali.
La recente di riforma del mercato del lavoro (l. 28.6.2012, n. 92), nel trattare della “flessibilità in entrata” e della “flessibilità in uscita”1, si occupa ampiamente della regolamentazione dei licenziamenti, individuali e collettivi.
Lo spettro di interventi sulla regolamentazione dei licenziamenti collettivi risulta non molto esteso, ma non per questo insignificante.
Resistendo all’impressione che può dare una prima lettura della legge nonché alle suggestioni indotte da una discussione (mediatica e non) concentrata sull’art. 18 della l. 20.5.1970, n. 300, è possibile individuare cambiamenti di rilievo anche nella fonte di regolamentazione dei licenziamenti collettivi: la l. 23.7.1991, n. 223 e successive modifiche e integrazioni.
L’edificio costruito dalla l. n. 223/1991 era complesso.
Gli elementi, che ne formavano le strutture portanti, non erano costituiti solo dai presupposti e dalla procedura dei licenziamenti collettivi nonché dalla disciplina delle conseguenze dell’illegittimità di tali licenziamenti, ma anche dalla speciale disciplina dedicata ai lavoratori interessati da un licenziamento del genere, disciplina, questa, a sua volta complessa.
Vi rientravano il superamento della tradizionale avarizia previdenziale riguardo ai trattamenti «… in caso di … disoccupazione involontaria …» (art. 38 Cost.), grazie all’indennità di mobilità che, per durata e misura, sopravanzava (e non di poco) la normale indennità di disoccupazione.
Della disciplina in questione facevano parte anche i particolari incentivi per le imprese disposte ad assumere i lavoratori inseriti da licenziati nella lista di mobilità.
Insomma, la l. n. 223/1991 ribadiva la chiusura della stagione dei licenziamenti collettivi “impossibili” e, nel contempo, predisponeva più di una misura perché gli stessi fossero socialmente sopportabili.
Ciò, nella ratio della legge, non traduceva solo l’attenzione verso le esigenze di tutela dei lavoratori, ma perseguiva anche l’obiettivo di attenuare la possibile resistenza (collettiva e/o individuale) alla riduzione del personale.
Non si fa fatica ad evidenziare che l’edificio così come inizialmente costruito e lo stesso ordinamento pensionistico, con il quale l’integrazione è stata stretta anche oltre quanto pensato in sede di elaborazione della l. n. 223/1991, risultano sostanzialmente modificati (stravolti?) dalle riforme succedutesi sul finire del 2011 e nei primi mesi del 2012.
Il cuore della disciplina dei licenziamenti collettivi si ritrova nella procedura che tali licenziamenti deve precedere.
Si tratta di una procedura particolarmente complessa, volta a garantire il confronto fra una pluralità di soggetti: l’impresa, le organizzazioni sindacali, i competenti soggetti pubblici (Regioni, Ministero del lavoro).
Una procedura di informazione e consultazione, quella definita dall’art. 4 della l. n. 223/1991, su cui si riflettono anche questioni di carattere non meramente procedurale, come ad esempio la questione attinente all’ambito entro cui scegliere i lavoratori da licenziare.
In una prospettiva di semplificazione e di garanzia di una maggiore certezza circa gli effetti di un eventuale scostamento dalle tracce segnate dalla legge e, in generale, di maggiore univocità delle prescrizioni impartite alle imprese, sarebbe stata opportuna una rivisitazione generale della procedura in considerazione dei tanti aspetti critici emersi in sede applicativa, rivisitazione che la nuova legge non realizza pur introducendo degli interessanti perfezionamenti che nella predetta prospettiva si muovono2.
I passaggi iniziali della procedura vengono lasciati intatti, secondo quanto previsto fin dall’inizio dalla l. n. 223/1991.
L’attenzione per il cambiamento è, infatti, concentrata sulla parte finale della procedura, con riferimento all’ipotesi in cui l’intenzione di procedere ai licenziamenti trova conferma e, quindi, l’impresa comunica per iscritto a ciascun lavoratore il recesso.
A stregua della versione originaria del co. 9 dell’art. 4 della l. n. 223/1991, la comunicazione finale ai sindacati e alla pubblica amministrazione (Uffici del lavoro), contenente l’elenco dei lavoratori licenziati e la «puntuale indicazione delle modalità con le quali sono stati applicati i criteri di scelta», era da porre in essere contestualmente all’intimazione dei licenziamenti.
Al riguardo, l’orientamento giurisprudenziale era rigoroso.
Anche una minima sfasatura temporale fra l’intimazione dei licenziamenti e la comunicazione finale poteva essere considerata capace di produrre l’illegittimità, sotto forma di inefficacia, dei licenziamenti stessi, con la conseguente applicabilità della tutela reale3.
Al massimo, la sanzione dell’inefficacia veniva esclusa in caso di tardività «... dovuta a giustificati motivi di natura oggettiva da comprovarsi dal datore di lavoro»4.
La nuova legge allenta lo stretto legame fra la comunicazione del recesso ai singoli lavoratori e la comunicazione da indirizzare alle organizzazioni sindacali e alla pubblica amministrazione, ora da effettuare entro sette giorni dalla comunicazione dei licenziamenti5.
Nel prendere atto dell’innovazione, sicuramente capace di assicurare il superamento della “necessaria contestualità”, è comunque opportuno rammentare le motivazioni che la giurisprudenza ha posto a base dell’atteggiamento (rigoroso) adottato nell’interpretare la precedente normativa.
Fra di esse, in particolare, hanno avuto peso le considerazioni, ripetute in diverse sentenze, secondo cui «… nessuna comunicazione dei motivi viene prescritta con riguardo al singolo lavoratore, essendo sufficiente che il recesso venga operato tramite atto scritto, sicché solo attraverso le comunicazioni alle organizzazioni sindacali e agli altri soggetti istituzionali è reso possibile ai lavoratori interessati di conoscere in via indiretta le ragioni della loro collocazione in mobilità (v. ad esempio Cass. n. 5578/2004; Cass. n. 1722/2009). Ne deriva che il riferimento alla “contestualità” delle comunicazioni intercetta, quale sua ratio, l’esigenza di rendere visibile, e quindi controllabile, dalle associazioni di categoria, oltre che dagli uffici pubblici competenti, la corretta applicazione della procedura con riferimento ai criteri di scelta seguiti ai fini della collocazione in mobilità e che tale possibilità di controllo si pone quale indispensabile presupposto per la tutela giurisdizionale riconosciuta al singolo dipendente»6.
Ebbene, è ora da verificare se e come il possibile sfalsamento temporale fra la comunicazione dei licenziamenti ai singoli lavoratori e la comunicazione finale alle organizzazioni sindacali e alla pubblica amministrazione indurrà a rivedere le suddette considerazioni.
Nell’escludere la necessità di inserire la motivazione nelle comunicazioni indirizzate ai singoli lavoratori ha avuto una qualche influenza anche il fatto che, nel caso dei licenziamenti individuali, la motivazione del recesso non era «… nemmeno prescritta dalla L. n. 604 del 1966 …»7.
L’ulteriore innovazione apportata dalla nuova legge, a seguito della quale il datore di lavoro ha l’onere di inserire la motivazione già nella comunicazione del licenziamento, riguarda la disciplina dei licenziamenti individuali8, ma comunque cambia i punti di riferimento e potrebbe costituire un altro motivo di ripensamento.
In ogni caso, ove si tenga ferma la facoltà di non inserire la motivazione nei singoli atti di recesso allorquando questi concretizzano un licenziamento collettivo, comunque appare ragionevole far decorrere il termine di decadenza per l’impugnazione del recesso solo dal momento in cui diviene accessibile la comunicazione finale9. Altrimenti, il lavoratore, in caso di recesso conseguente ad una riduzione del personale, di fatto non sarebbe in condizione di avvalersi di tutto il periodo riconosciutogli per valutare i motivi posti a base del licenziamento e decidere se impugnare, o meno, il recesso.
2.1 L’efficacia sanante dell’accordo sindacale
La comunicazione di cui al co. 2 dell’art. 4 l. n. 223/1991, da inviare in via preventiva alle organizzazioni sindacali, svolge un ruolo particolarmente importante, come si coglie subito non appena si consideri l’insieme di informazioni che attraverso di essa devono essere trasferite a tali organizzazioni (motivi dell’eccedenza del personale; ragioni per le quali si ritiene di non poter adottare misure diverse dal licenziamento; numero, collocazione aziendale e profili professionali del personale eccedente; tempi di attuazione del programma di mobilità; eventuali misure per fronteggiare le conseguenze sociali nell’attuazione del programma di riduzione del personale).
Se la comunicazione con i richiesti contenuti è omessa o comunque è parziale o non veritiera, è chiaro che il ruolo assegnato ai sindacati risulta compromesso, anche nell’ipotesi in cui i successivi passaggi procedurali si svolgono ma pur sempre si svolgono su di una base informativa non adeguata.
Non a caso, una base informativa che, per un motivo o per l’altro, non risponda a quanto richiesto dalla legge, è stata fin dall’inizio considerata in grado di inficiare la procedura, escludendosi anche che «… l’accordo tra il datore di lavoro e le organizzazioni sindacali faccia perdere rilevanza al mancato espletamento o al radicale stravolgimento della procedura medesima, che si trasmette anche al licenziamento rendendolo inefficace»10.
La nuova legge è chiaramente protesa ad intervenire su questi aspetti. L’apprezzamento per tale scelta non è in contraddizione con il rilievo che è stata calata in una formula non particolarmente felice11.
In particolare, secondo il nuovo periodo aggiunto all’art. 4, co. 12, l. n. 223/1991, gli eventuali vizi della comunicazione di avvio della procedura «… possono essere sanati, ad ogni effetto di legge, nell’ambito di un accordo sindacale concluso nel corso della procedura di licenziamento collettivo» 12.
Le questioni che tale formula pone sono, in effetti, diverse.
La capacità dell’accordo sindacale di sanare i vizi della comunicazione viene affermata, come sopra riportato, «ad ogni effetto di legge».
Questo si riflette sia nell’ambito collettivo che in quello individuale.
La comunicazione è da inviare alle organizzazioni sindacali e, quindi, sono in primo luogo loro a poter reagire a carenze della stessa.
La sottoscrizione dell’accordo, a cui fa ora riferimento l’ultimo periodo del predetto co. 12 dell’art. 4, inibisce a dette organizzazioni di attivare il procedimento per la repressione della condotta antisindacale, pure se questa fosse in astratto riscontrabile.
La maggiore portata innovativa, tuttavia, riguarda la sfera individuale o, meglio, le sfere individuali.
La sottolineatura che i vizi della comunicazione sono sanati «ad ogni effetto di legge» è (da considerare) effettuata proprio per ribadire che anche i singoli ne possono risentire, dovendosi dare per acquisito che altrimenti, ove i singoli potessero ugualmente attivarsi dopo la stipula dell’accordo sindacale, l’efficacia sanante non opererebbe ad ogni effetto.
L’orientamento giurisprudenziale, di cui prima si è dato conto, ha avuto come suo presupposto l’idea che «… gli interessi pubblici e collettivi, che pure la legge n. 223 del 1991 mira a tutelare con la scelta della “procedimentalizzazione” del potere di recesso dell’imprenditore, restano in secondo piano rispetto alla salvaguardia dell’interesse del lavoratore alla conservazione del posto di lavoro»13.
Questa impostazione ancor di più fa emergere l’interrogativo sulle caratteristiche che deve possedere l’accordo sindacale dotato di capacità sanante.
Si dovrà trattare necessariamente di un accordo sottoscritto dall’insieme delle organizzazioni a cui, in base all’art. 4, co. 2, l. n. 223/1991, la comunicazione è da inviare?
La formula legislativa non sembra imporlo14.
Spinge in questa direzione anche la diversità rispetto alla formula riscontrabile nell’art. 5, co. 1, della medesima l. n. 223/1993, dove con riferimento ai criteri di scelta dei lavoratori da licenziare si fa rinvio ai «… contratti collettivi stipulati con i sindacati di cui all’articolo 4, comma 2, …».
Nel caso che si sta esaminando, potrà, quindi, aversi un accordo non unitario, con il conseguente problema della sua efficacia soggettiva.
L’applicazione del principio dell’efficacia generale dei contratti gestionali, che beneficino di un espresso rinvio legale, non appare praticabile con facilità15.
Una volta escluso che, per acquisire l’efficacia sanante, l’accordo debba provenire da tutti i sindacati, diviene troppo indeterminato il rinvio della legge ad «un accordo sindacale» perché se ne possa far discendere un’efficacia erga omnes.
Inoltre, si è detto della finalizzazione che la giurisprudenza attribuisce alla procedura preventiva, che si considera destinata a tutelare (anche) l’interesse individuale dei singoli lavoratori.
Stante la formulazione della nuova legge per niente univoca e non potendosi negare che il più rilevante interesse in gioco è quello dei lavoratori soggetti alla perdita dell’occupazione, è molto difficile che l’interpretazione volta a conquistare comunque l’estensione dell’efficacia dell’accordo acquisisca una forza tale da riuscire ad imporsi.
La capacità dell’accordo di precludere al singolo lavoratore la possibilità di far valere un vizio della comunicazione preventiva finisce per avere bisogno della forza del meccanismo rappresentativo.
La delimitazione dell’efficacia dell’accordo nella cerchia dei soggetti rappresentati sembra essere una soluzione senza alternative.
Dire questo, peraltro, non equivale a negare il nuovo introdotto dalla l. n. 92/2012, apprezzabile rispetto all’inidoneità dell’accordo a rimuovere i vizi della comunicazione iniziale riscontrata nella normativa previgente ed estraneo al diverso profilo dell’efficacia soggettiva dell’accordo ora riconosciuto capace di neutralizzare gli effetti di carenze dell’atto di avvio della procedura di informazione/consultazione.
Un altro punto su cui concentrare l’attenzione riguarda la previsione secondo cui l’accordo, in ipotesi intervenuto, può sanare i vizi della comunicazione.
Se ne possono dedurre le seguenti conclusioni.
Della consapevolezza della parti contraenti l’accordo – azienda e soprattutto organizzazioni sindacali – deve far parte la conoscenza delle carenze della comunicazione, fino al punto che l’accordo deve menzionare i vizi che si è inteso sanare16.
Peraltro, con l’accordo si ha modo di sanare i vizi della comunicazione.
La comunicazione, pur se carente, deve esserci; di riflesso, la completa mancanza della comunicazione iniziale, anche se vi sia stato un qualche confronto con i sindacati, non è sanabile.
L’art. 4, co. 9, della l. n. 223/1991 ha fin dall’inizio chiarito che, in carenza di alternative alla riduzione del personale, il recesso è da comunicare «per iscritto» a ciascun lavoratore, come fin dall’inizio è stato stabilito dall’art. 5, co. 3, l’inefficacia del recesso «senza l’osservanza della forma scritta», con la conseguente (e pacifica) applicazione della tutela reale di cui all’art. 18 st. lav.17.
Forma e sanzione per l’eventuale mancato rispetto della forma richiesta vengono confermate dalla nuova legge.
Le disposizioni della l. n. 223/1991 relative all’onere della forma scritta sono lasciate intatte. Il co. 3 dell’art. 5 è sostituito per intero dalla nuova legge, ma nel nuovo testo compaiono previsioni che continuano a condurre alla tutela reale in caso di mancato rispetto della forma scritta.
A tale conclusione, la nuova legge porta con una formulazione non coincidente con quella presente nella versione iniziale del predetto co. 3.
Inizialmente, infatti, il co. 3 si limitava a stabilire che il recesso privo di forma scritta era «inefficace».
Ora, dato il superamento della uniformità dell’art. 18, il nuovo art. 5, co. 3, seleziona all’interno (del più composito contenuto) dell’art. 18, precisando che «qualora il licenziamento sia intimato senza l’osservanza della forma scritta, si applica il regime sanzionatorio di cui all’articolo 18, primo comma, della legge 20 maggio 1970, n. 300 …». Il che equivale a stabilire che, se ricorre il vizio di forma, trovano applicazione il diritto alla reintegrazione e le conseguenze economiche previste, in realtà, (non dal co. 1 ma piuttosto) dai connessi co. 2 e 3 del rinnovato art. 18.
Fin qui, dunque, si registra continuità rispetto alla normativa applicabile in precedenza, ben sapendo che è difficile che emerga un licenziamento orale a conclusione di una procedura di riduzione del personale.
Una novità sostanziale è, invece, prevista «… in caso di violazione delle procedure richiamate …» dall’art. 4 della l. n. 223/1991.
La novità è da considerare sostanziale in quanto una violazione della procedura comportava, in precedenza, la tutela reale a stregua del vecchio art. 18 e ora, dopo la rivisitazione dell’art. 5, co. 3, l. n. 223/1991, trova applicazione una tutela solo risarcitoria, consistente in un’indennità onnicomprensiva che il giudice determina fra un minimo di 12 mensilità ed un massimo di 24 mensilità della retribuzione globale di fatto.
In questa maniera, il vizio procedurale viene parificato, quanto al tipo di conseguenze che se ne fanno discendere, alla carenza di giustificazione del licenziamento individuale (che non attinga la gravità della «manifesta insussistenza» del fatto posto a base del licenziamento individuale per giustificato motivo oggettivo)18.
Pur accomunate dalla scelta di abbandonare la reintegra come rimedio imposto al datore di lavoro recedente, la disciplina del vizio procedurale in caso di riduzione del personale e la disciplina del vizio procedurale in caso di licenziamento individuale non si fanno coincidere sotto il profilo quantitativo.
Nel primo caso, infatti, l’indennità risarcitoria può andare da 12 a 24 mensilità; nel secondo caso, solo da 6 a 12 mensilità.
Differenziazione, questa, che può essere messa in relazione al particolare valore della procedura finalizzata a favorire l’intervento sindacale in vista della (possibile) negoziazione di soluzioni alternative alla riduzione del personale e alla funzione meramente conciliativa della nuova (mini) procedura destinata a precedere i licenziamenti individuali per giustificato motivo oggettivo19.
La procedura in questione è fonte di diritti sindacali tipizzati dalla legge (di informazione e consultazione), per cui la mancata osservanza della stessa può essere aggredita (anche) dal sindacato con il ricorso al giudice finalizzato ad ottenere la cessazione della condotta antisindacale e la rimozione degli effetti che ne sono derivati (art. 28 st. lav.).
Si comprende, pertanto, che venga considerato non agevole il coordinamento fra la sanzione risarcitoria che al massimo il singolo può conseguire e il ripristino del rapporto di lavoro che, invece, può scaturire dall’azione giudiziaria del sindacato.
Stante i due canali giudiziari percorribili, si avrà un maggior ricorso all’azione ad iniziativa sindacale allo scopo di ottenere quanto risulta precluso come (possibile) risultato dell’iniziativa individuale?
È da mettere in conto che questo possa accadere.
L’altra ipotesi considerata espressamente dal nuovo art. 5, co. 3, l. n. 223/1991 riguarda il caso del mancato rispetto dei criteri di scelta dei lavoratori da licenziare.
I criteri a cui si dà rilevanza sono quelli di cui co. 1 dell’art. 5 e il medesimo articolo fa riferimento non solo ai criteri previsti dal contratto collettivo ma anche, in mancanza, ai criteri che esso stesso direttamente indica.
Stante il rinvio all’intero co. 1, la sanzione, di cui ci si accinge a dire, si estende alla violazione degli uni o degli altri, alternativamente operanti nelle diverse situazioni di riduzione del personale.
In particolare, il lavoratore licenziato, che in ossequio ai criteri di scelta non era da licenziare, può ottenere dal giudice l’annullamento del licenziamento e il conseguente riconoscimento del diritto alla reintegrazione in azienda e ad una indennità risarcitoria commisurata alla retribuzione di fatto dal giorno del licenziamento alla effettiva reintegra nel limite massimo di 12 mensilità20.
In ciò consiste la sanzione per la mancata applicazione dei criteri di scelta, che non si discosta da quanto discendeva dalla vecchia versione dell’art. 5, co. 3. Anch’essa, infatti, sanciva l’annullabilità del licenziamento disposto in contraddizione con i criteri di scelta e l’applicazione dell’art. 18, anche se solo la nuova normativa (e non quella precedente) predetermina uno specifico limite dell’indennizzo.
Restando ferma la sanzione di tipo reintegratorio, rimane ferma anche l’attualità dell’art. 17 della l. n. 223/1991, che per l’appunto legittima l’azienda a licenziare, nel rispetto dei criteri di scelta ma senza l’onere di riattivare la procedura preventiva, un numero di lavoratori pari a quelli che hanno ottenuto la reintegrazione facendo valere il mancato rispetto dei criteri.
Vizio di procedura e violazione dei criteri di scelta, dunque, ricevono un trattamento diverso: per il primo tipo di difetto, è prevista solo una reazione di tipo economico; per il secondo, la reintegrazione e conseguenze di tipo economico (sia pure contenute in un limite massimo che nel caso del vizio procedurale costituisce il limite minimo).
Ci si interroga sul perché di questa differenziazione.
Esclusa la maggiore gravità della violazione dei criteri di scelta rispetto al vizio procedurale, la diversificazione delle sanzioni nei due casi è stata ricondotta alla possibilità del datore di lavoro di pervenire comunque alla riduzione del personale avvalendosi della possibilità offerta dall’art. 17 della l. n. 223/199121.
In effetti, il rimedio della reintegrazione può apparire naturale laddove venga licenziato un lavoratore che, a stregua dei criteri contrattuali o di legge, non era da licenziare, tanto più che la reintegrazione dei lavoratori può apparire accettabile stante la possibilità di procedere ad un pari numero di altri licenziamenti.
Una delle questioni più difficoltosi posti dalla l. n. 223/1991 riguarda l’individuazione dell’ambito entro cui individuare i lavoratori da licenziare.
L’individuazione di detto ambito e l’applicazione dei criteri di scelta nell’ambito individuato possono essere visti come passaggi diversi e ciò alimenta dubbi circa la qualificazione dell’errore che dovesse riguardare l’area aziendale entro cui operare la selezione.
Questo tipo di errore può condurre a scegliere lavoratori che altrimenti non incapperebbero nella riduzione del personale. Ne può scaturire la conclusione che lo stesso sia da ricondurre alla sanzione prevista per la violazione dei criteri di scelta, ossia alla reintegrazione obbligatoria.
Fin dalla formulazione iniziale, la l. n. 223/1991 non si è occupato di definire le conseguenze da riconnettere alla consistenza o, addirittura, alla non effettività della scelta imprenditoriale a cui viene in qualche modo legato il licenziamento collettivo.
Al riguardo, la legge tace e tanto è bastato a far affacciare le tesi che i motivi della riduzione del personale siano al riparo di qualsiasi controllo giudiziale.
Tesi che, stante il legame che la legge pone fra «riduzione o trasformazione di attività o di lavoro» e licenziamento collettivo, non poteva prevalere e, di fatto, non è prevalsa.
La riduzione o trasformazione e il nesso di causalità fra di esse e le posizioni lavorative eliminate sono considerate oggetto di (possibile) sindacato giudiziale e nella nuova legge non si vedono cambiamenti che questo compromettano (ferma restando la libertà delle scelte aziendali22).
Il problema che si pone è un altro.
Da una parte, i presupposti sostanziali del licenziamento collettivo devono essere effettivi e, dall’altra, la nuova legge tiene fermo il silenzio circa la sanzione applicabile per la carenza dei presupposti richiesti e, al tempo stesso, diversifica le sanzioni per la illegittimità dei licenziamenti.
Dovendo andare alla ricerca della sanzione applicabile in assenza di esplicite prescrizioni legislative, ci si può rifare al ragionamento sistematico secondo cui, se non sussistono speciali previsioni legislative per gli atti di recesso scaturiti dalla riduzione del personale, trova applicazione la disciplina del licenziamento individuale, che in questo caso non può che essere quella del licenziamento per giustificato motivo oggettivo.
Solo indennità risarcitoria, dunque, se non ricorrono i necessari presupposti; reintegrazione obbligatoria ove il giudice si convinca della “manifesta infondatezza” dei fatti posti a base della riduzione del personale.
3.1 I termini per l’impugnazione del recesso da parte dei singoli lavoratori
Anche sul termine per l’impugnazione del licenziamento scaturito da una procedura di cui all’art. 4 della l. n. 223/1991 si è avuta una specifica disciplina.
Di questo aspetto si occupava l’art. 5, co. 3, l. n. 223/1991 nella precedente versione, fissando un termine di 60 giorni dalla comunicazione del recesso e facendo emergere, in questo modo, un’ipotesi di decadenza stragiudiziale analoga a quella prevista per i licenziamenti individuali dall’art. 6 l. 15.7.1966, n. 60423.
Ora, la nuova legge riconduce direttamente gli atti di recesso conseguenti ad una riduzione del personale alla fonte di regolazione dei licenziamenti individuali.
«Ai fini dell’impugnazione del licenziamento si applicano le disposizioni di cui all’articolo 6 della legge 15 luglio 1966, n. 604, e successive modificazioni». È quanto attualmente prevede la parte finale dell’art. 5, co. 3, della l. n. 223/1991 come ridefinito ad opera dell’art. 1, co. 46, l. n. 92/201224.
Stante la complicazione nell’impugnazione del licenziamento introdotta della l. 4.11.2010, n. 183, con la conferma del termine per l’impugnazione stragiudiziale e con la previsione di un ulteriore termine per l’impugnazione giudiziale, dal rinvio all’intero art. 6 della l. n. 604/1966 si ricava innanzitutto che il lavoratore coinvolto nel licenziamento collettivo può impugnare l’atto di recesso «… con qualsiasi atto scritto, anche extragiudiziale …» entro 60 giorni.
Anche il ricorso al giudice, che in ipotesi si renda necessario per il fatto che il recesso è tenuto fermo nonostante il primo atto contestativo, è un impugnazione del recesso, sia pure mediata dalla sollecitazione rivolta al giudice ad intervenire.
Ne consegue che anche l’ulteriore regola fissata in particolare dall’art. 6, co. 2, della l. n. 604/1966 – regola recante il termine di decadenza per l’impugnazione giudiziale, che è ancora la l. n. 92/2012 a portare a 180 giorni25 – risulta estesa alla contestazione degli atti di recesso scaturenti dalla riduzione del personale.
Estensione, questa, che secondo alcuni autori era ricavabile già dalla l. n. 183/2010 – art. 32, co. 2 – per il fatto di estendere l’art. 6 l. n. 604/1966 «a tutti i casi di invalidità del licenziamento»26.
1 E nel cercare di bilanciarla.
2 La convinzione che la procedura avrebbe meritato una qualche semplificazione «… attraverso una più precisa individuazione degli obblighi gravanti sul datore e, al contempo, un irrobustimento delle politiche attive del lavoro …» è stata già espressa da Ferrante, V., Modifiche nella disciplina dei licenziamenti collettivi, in Magnani, M.-Tiraboschi, M., a cura di, La nuova riforma del lavoro, Milano, 2012, 278.
3 La “necessaria contemporaneità” della comunicazione finale è stata sostenuta già da Cass., S.U., 11.5.2000, n. 302 e a seguire, fra le altre, da Cass., 19.3.2004, n. 5578; Cass., 28.7.2005, n. 15898; Cass., 28.1.2009, n. 2166; Cass., 1.12.2010, n. 24341.
4 Così Cass. n. 24341/2010.
5 È l’art. 1, co. 44, l. n. 92/20112 a sostituire nel secondo periodo dell’art. 4, co. 9, l. n. 223/1991 la parola «contestualmente» con le parole «Entro sette giorni dalla comunicazione dei recessi».
6 Così Cass. n. 24341/2010.
7 Così ancora Cass. n. 24341/2010.
8 È l’art. 1, co. 37, della l. n. 92/2012 a novellare il co. 2 dell’art. 2 della l. 15.7.1966, n. 604.
9 In merito alla disciplina del termine per l’impugnazione v. infra, § 3.1.
10 Così, da ultimo, Cass., 21.9.2011, n. 19233. Questo orientamento, che comporta la legittimazione anche dei singoli lavoratori nel far valere gli eventuali vizi della comunicazione iniziale, si è radicato nel corso del tempo in molte decisioni, fra le quali Cass., S.U., n. 302/2000; Cass., S.U., 13.8.2002, n. 12194; Cass., S.U., 15.10.2002, n. 14616; Cass., 30.12.2010, n. 26492. In dottrina, l’incapacità dell’accordo di sostituire il mancato espletamento della procedura o un suo stravolgimento è apparsa ovvia. Da ultimo, in tal senso, Mazzotta, O., Diritto del lavoro, Milano, 2011, 760. In una diversa prospettiva, la legittimazione dei singoli a far valere eventuali vizi della comunicazione iniziale è stata considerata espressione di un discutibile orientamento giurisprudenziale: Vallebona, A., La riforma del lavoro 2012, Torino, 2012, 66.
11 Lo sottolinea per alcuni aspetti, anche Ferrante, V., Modifiche nella disciplina, cit., 279
12 L’aggiunta è disposta dall’art. 1, co. 45, della l. n. 98/2012.
13 Così Cass., S.U., n. 302/2000 nel passaggio ripreso adesivamente da Cass., S.U., 15.10.2002, n. 14616.
14 La possibilità di un accordo con efficacia sanante, non sottoscritto da tutte le organizzazioni, è presupposta da Vallebona, A., La riforma, cit., 67; Ferrante, V., Modifiche nella disciplina, cit., 279.
15 Nonostante che il rifarsi a tale principio sia stato autorevolmente considerato la conclusione interpretativa più corretta: cfr. Vallebona, A., La riforma, cit., 67.
16 In tal senso, v. già Vallebona, A., La riforma, cit., 66 s.
17 In virtù del rinvio operato dall’art. 24, co. 1, agli artt. 4 e 5, si è sempre dato per scontato che la forma scritta e il regime sanzionatorio siano gli stessi anche in caso di immediato ricorso ai licenziamenti.
18 Nella vecchia versione dell’art. 5, co. 3, il licenziamento effettuato in violazione delle procedure richiamate dall’art. 4 era considerato «inefficace» al pari del licenziamento privo di forma scritta e a questa qualificazione la parte finale del medesimo art. 5, co. 3, collegava espressamente l’applicazione dell’art. 18 st. lav. (anche esso nella vecchia versione). Il cambiamento, ossia l’applicazione della tutela solo risarcitoria, è affermata dalla nuova legge attraverso previsioni alquanto complesse. Nella versione nuova, l’art. 5, co. 3, come conformato dall’art. 1, co. 46, l. n. 92/2012, rinvia al nuovo art. 18, co. 7, terzo periodo, che a sua volta consente di risalire al co. 5 dell’art. 18. Nella medesima direzione porta anche il fatto che la nuova legge, sostituendo il co. 3 dell’art. 5, elimina la qualificazione del licenziamento come inefficace per riflesso del vizio procedurale.
19 Per una spiegazione del genere, Vallebona, A., La riforma, cit., 68 s.
20 È quanto si ricava dal nuovo art. 5, co. 3, l. n. 223/1991 in virtù del rinvio che esso opera all’art. 18, co. 4, st. lav., con la conseguenza che risulta da detrarre dall’indennità quanto il lavoratore ha percepito per lo svolgimento di altra attività lavorativa e di quanto avrebbe potuto percepire dedicandosi con diligenza alla ricerca di nuova attività lavorativa.
21 Così Vallebona, A., La riforma, cit., 69, che considera l’art. 17 potenzialmente efficace, anche se poco coltivato dai datori lavoro, e ancor di più valorizzabile dopo la nuova legge (in virtù del limite massimo di dodici mensilità al risarcimento per il medio tempore e con la potenziata celerità del processo). Preesistono, peraltro, valutazioni che hanno portato a considerare “più apparente che reale” il “beneficio” accordato al datore di lavoro dall’art. 17: cfr., fra gli altri, Ichino, P., Il contratto di lavoro, III, Milano, 2003, 568. L’utilità del “beneficio” è, tuttavia, confermabile ove si provveda all’integrazione del contraddittorio con i lavoratori rimasti in servizio in virtù dei criteri di scelta contestati e in questo modo si assicuri che l’eventuale sentenza di annullamento dei licenziamenti inizialmente disposti possa fare stato anche nei confronti dei lavoratori interessati dai licenziamenti sostitutivi. V., in tal senso, ancora Vallebona, A., La riforma, cit., 69.
22 Libertà che la nuova legge (art. 1, co. 43) cerca di rafforzare confermando l’insindacabilità nel merito delle scelte aziendali tramite un’aggiunta all’art. 30, co. 1, della l. n. 183/2010 secondo cui violazione del divieto del sindacato di merito da parte del giudice costituisce «… motivo di impugnazione per violazione di norme di diritto».
23 La vecchia versione dell’art. 5, co. 3, faceva espressamente salvo «il caso di mancata comunicazione per iscritto» del recesso.
24 La l. n. 92/2012 pone una regola sul piano sostanziale analoga a quella operante in precedenza ma, sulla base di quanto si è osservato, con un campo di applicazione più ridotto, posto che gli atti di recesso rientranti nell’alveo della l. n. 223/1991 sono solo quelli che rispondono ai criteri definiti dall’art. 24. Per quanto riguarda l’aspetto in considerazione, l’omogeneità della disciplina continua tuttavia a sussistere stante la riconduzione sia dei licenziamenti individuali che dei licenziamenti collettivi all’art. 6 della l. n. 604/1966.
25 È l’art. 1, co. 38, l. n. 92/2012 che ha portato a centottanta giorni il termine che la l. n. 183/2010, art. 32, co. 1, aveva inizialmente fissato a «duecentosettanta» giorni.
26 Per la comunanza del termine di decadenza per l’impugnazione giudiziale per i licenziamenti individuali e per quelli collettivi già sulla base della l. n. 183/2010, v. Vallebona, A., La riforma, cit., 69.