La flessibilita in uscita. Licenziamenti individuali
Il contributo prende in esame la nuova disciplina dei licenziamenti individuali introdotta dalla l. 28.6.2012, n. 92. La trattazione riguarda la revisione dell’art. 18 dello statuto dei lavoratori. Dopo una ricognizione generale delle novità della disciplina, lo scritto si sofferma sulle trasformazioni apportate all’art. 18 con riguardo alle due componenti fondamentali della tutela contro i licenziamenti illegittimi, quella ripristinatoria-reintegratoria e quella risarcitoria. Nell’ultima parte, vengono messi in evidenza i profili maggiormente problematici del testo, in particolare quelli relativi alla ripartizione dei confini applicativi fra la tutela ripristinatoria-reintegratoria e quella indennitaria o economica con riguardo ai licenziamenti ingiustificati, disciplinari ed economici. La riflessione finale è dedicata agli interrogativi di costituzionalità che probabilmente emergeranno nel dibattito.
Della riforma del mercato del lavoro, adottata con l. 28.6.2012, n. 92, ed altresì nota come “Riforma Fornero”, l’intervento sull’art. 18 st. lav. (l. 20.5.1970, n. 300) ha rappresentato, indiscutibilmente, l’aspetto più qualificante, anche se di importanza non pari all’attenzione politico-mediatica, questa veramente monopolistica rispetto al resto della riforma, che il tema ha suscitato.
Vi sono stati passaggi, nel complesso confronto con le forze politiche e sociali che è stato condotto dal Ministro del lavoro, sovente affiancato dalla Presidenza del Consiglio, nei quali tutte le energie sono state assorbite dall’estenuante ricerca di un compromesso sulla riscrittura di un testo che, sin dalle sue dichiarazioni programmatiche, il Governo aveva dichiarato di voler rivedere, anche per venire incontro alle attese delle istituzioni europee ed internazionali (esemplificate dalla lettera del 5.8.2011 della Banca centrale europea) e dei mercati finanziari.
Non poteva essere diverso, del resto, il destino di quella che è sempre stata la norma-simbolo della legge-simbolo del diritto del lavoro italiano, e sulla quale le discussioni (e le drammatizzazioni) sono sempre state accese, soprattutto attorno alla questione vessata delle conseguenze economiche dell’art. 18. Una questione il cui destino sembra quello di rimanere aperta, non essendo stato accertato né confutato in modo ultimativo (anche se indizi in tal senso ve ne sono) se un regime fondato sulla tutela “reale” del posto di lavoro incida negativamente, non soltanto (com’è pressoché certo) sul tasso di turnover della manodopera, ma sullo stock occupazionale complessivo1.
In ogni caso, per quanto risulta dalla stessa elencazione degli obiettivi della legge (v. l’art. 1), la “Riforma Fornero” sembra essersi tenuta ai margini di questo dibattito, giacché, più che al conseguimento di risultati in termini di creazione di occupazione, essa si è proposta di contrastare le crescenti tendenze dualistiche del mercato del lavoro, adottando misure rivolte a dirottare la domanda di lavoro dalle tipologie contrattuali flessibili (lavoro a termine e somministrato, collaborazioni autonome varie), che assorbono attualmente la maggior parte della nuova occupazione, verso il contratto a tempo indeterminato.
La riscrittura dell’art. 18 deve essere letta, insomma, nel quadro di un intervento finalizzato, per la prima volta nella storia recente del diritto del lavoro italiano, a modificare il set delle convenienze imprenditoriali, restituendo una dose di flessibilità, e quindi di appetibilità, al contratto cd. standard, e nel contempo applicando ai contratti flessibili restrizioni e disincentivi di varia natura.
L’originalità dell’intendimento non garantisce, peraltro, che siano stati toccati i tasti giusti e che lo scambio tra minore flessibilità “in entrata” e maggiore flessibilità “in uscita” sia stato ben calibrato. Di questo potrà dire soltanto l’esperienza attuativa, che si auspica possa essere monitorata in modo organico, secondo una promessa contenuta nella stessa legge.
Allo stato, ci si può limitare soltanto ad osservazioni di superficie e di esperienza. Come è noto, al di là dello stato di necessità politica che ne ha favorito l’approvazione, della “Riforma Fornero” si sono lamentati grosso modo tutti, la destra come la sinistra, le imprese come i sindacati. Ora, se questa non è di per sé una prova della sua bontà (potrebbero aver ragione entrambi, naturalmente con riguardo alle parti rispettivamente criticate2), lo è però dell’impegno con la quale essa ha tentato di fare di necessità virtù: cioè di trarre dalla necessità internazionale, oltre che interna, di toccare l’intoccabile art. 18, l’occasione per riportare al centro del sistema un po’ di quella flessibilità che era stata confinata ai margini del medesimo (oltre che per disegnare un sistema di ammortizzatori sociali più universale ed inclusivo).
Ciò concesso alla difficoltà dell’impresa, è comunque innegabile che il testo porti, ben visibili, le stimmate delle spinte e controspinte delle quali è stato l’ansiogena risultante. Un testo non soltanto articolato al proprio interno (tanto da dover essere ribattezzato «Tutela del lavoratore in caso di licenziamento illegittimo»), ma anche, per così dire, allungato nel tempo (forse, potrebbe chiosare un critico, come quegli “esseri mostruosi” di cui alle ultime parole della Recherche proustiana), nella misura in cui prova a tenere assieme l’originaria tutela “reale” e il progressivo sfumare di questa in forme di tutela indennitaria o economica.
La norma novellata era, infatti, incomparabilmente più semplice, visto che qualunque fosse il vizio del licenziamento, la tutela che ne scaturiva comportava il ripristino giuridico del rapporto malamente interrotto, la reintegrazione del lavoratore licenziato ed il pieno ristoro dei danni patrimoniali patiti. Questo regime si presentava, altresì, col crisma della coerenza con i principi del diritto civile: è “naturale” che ad un licenziamento viziato non sia riconosciuta un’efficacia estintiva del rapporto di lavoro, che tale rapporto torni a dover essere adempiuto – in nome del principio della priorità dell’adempimento e della tutela specifica – tramite la reintegrazione del lavoratore, e che gli effetti che si sono prodotti vengano rimossi.
Ma il fatto che la norma fosse coerente col sistema non comportava un impedimento a prevedere (come già, del resto, nell’art. 8 l. 15.7.1996, n. 604) un regime diverso, purché dotato di una giustificazione razionale ed idoneo a garantire il diritto del lavoratore ad una tutela adeguata in caso di licenziamento ingiustificato, che ha il rango di diritto fondamentale ai sensi dell’art. 30 della Carta di Nizza.
È quanto ha fatto, per l’appunto, l’art. 1, co. 42, l. n. 92/2012, che ha riscritto l’art. 183 non eliminando la tutela “reale”, ma circoscrivendola a situazioni determinate, e sostituendola, negli altri casi, con una tutela di tipo indennitario o economico, che lascia in essere l’efficacia estintiva del licenziamento pur ritenuto illegittimo dal giudice4.
Sono stati disegnati, in questa logica, quattro regimi sanzionatori diversi, modulando l’applicazione di ciascuno di essi in relazione alla tipologia ed alla gravità del vizio da cui sia stato riconosciuto affetto il licenziamento (anche collettivo, circa il quale si è reso necessario attualizzare i rimandi all’art. 18, che figurano nella l. 23.7.1991, n. 223).
Nel contempo, anche dove è stata mantenuta la tutela “reale”, ed a maggior ragione nei casi in cui trovano applicazione le nuove forme di compensazione economica, sono stati previsti dei massimali di costo per il datore di lavoro – del tutto assenti nel testo previgente –, al fine di fissare in anticipo lo spettro dei rispettivi rischi per le parti, e favorire, in tal modo, il pragmatico raggiungimento di accordi transattivi.
In questo modo, pur mantenendo inalterata la dipendenza del sistema sanzionatorio dall’accertamento giudiziale circa l’illegittimità del licenziamento, la normativa ha in qualche modo introiettato, nella sostanza, una logica di firing cost (che comporta l’attribuzione a tutti i licenziati di un’indennità a prescindere dal controllo giudiziale sulla giustificazione del recesso), della quale si fa da tempo fautore, nel dibattito nazionale, Pietro Ichino5.
Passiamo, ciò premesso, ad esaminare i presupposti di applicazione ed i contenuti delle tutele previste.
1.1 La tutela ripristinatoria piena
La “tutela ripristinatoria piena” trova applicazione nelle ipotesi più gravi di licenziamento viziato, cioè in quelle in cui il licenziamento: ha carattere discriminatorio; è intimato in concomitanza col matrimonio (art. 35 d.lgs. 11.4.2006, n. 198) o in violazione dei divieti previsti in caso di maternità e paternità (art. 54, co. 1, 6, 7 e 9, d.lgs. 26.3.2001, n. 151); è qualificato nullo da altre disposizioni di legge; è nullo perché determinato da un motivo illecito ai sensi dell’art. 1345 c.c. (dove il rinvio a tale disposizione, in combinato con l’art. 1324, implica anche la rilevanza del requisito dell’esclusività del motivo); è inefficace perché intimato in forma orale.
La tutela in questione si applica (come già in precedenza, salvo che per il licenziamento orale intimato da un datore di lavoro di piccole dimensioni, cui non si applicava l’art. 18, ma un rimedio di diritto comune) a tutti i datori di lavoro, a prescindere dal numero dei dipendenti occupati, ed a tutti i lavoratori subordinati, inclusi i dirigenti.
In tali ipotesi il trattamento previsto è, di massima, quello del “vecchio” art. 18, per cui, con la sentenza, il giudice:
• accerta l’invalidità e inefficacia del licenziamento, dal che discende – ed è questo, malgrado l’enfasi cada sulla reintegrazione, il contenuto essenziale della tutela – il ripristino giuridico del rapporto di lavoro, con quel che ne segue in punto di operatività dei relativi diritti e obblighi;
• condanna il datore di lavoro anche a reintegrare materialmente il lavoratore nel posto di lavoro (art. 18, co. 1), reinserendolo effettivamente all’interno dell’azienda;
• condanna il datore di lavoro (art. 18, co. 2) a corrispondere al lavoratore un’indennità risarcitoria commisurata al danno patrimoniale sofferto, cioè alle retribuzioni non percepite dal lavoratore nel periodo tra il licenziamento e l’effettiva reintegrazione disposta in ossequio alla sentenza ex art. 18, dedotto quanto percepito dal predetto nello svolgimento di altre attività lavorative (cd. aliunde perceptum).
A queste misure di tutela (ripristinatoria, reintegratoria, risarcitoria) si aggiunge un ulteriore beneficio: fermo restando il risarcimento del danno sofferto, è data al prestatore di lavoro (art. 18, co. 3) la facoltà di rinunciare alla reintegrazione e di ottenere, in sostituzione, un’indennità dell’importo di 15 mensilità retributive (non assoggettato a contribuzione previdenziale).
Tale facoltà si concretizza nell’attribuzione di un diritto potestativo, da esercitare entro 30 giorni decorrenti dalla comunicazione del deposito della sentenza, o dal ricevimento dell’invito del datore di lavoro a riprendere servizio, ove anteriore alla predetta comunicazione. Ed è precisato, con una soluzione innovativa (v. infra, § 2.2), che l’effetto risolutorio del rapporto è prodotto dal fatto in sé della richiesta dell’indennità sostitutiva.
1.2 La tutela ripristinatoria attenuata e la tutela indennitaria
Nelle ipotesi di licenziamento ingiustificato, nelle quali, cioè, il giudice accerti che non ricorrono gli estremi del giustificato motivo soggettivo o della giusta causa (licenziamenti “soggettivi” o “disciplinari”: art. 18, co. 4-5) o del giustificato motivo oggettivo (licenziamenti “oggettivi” o “economici”: art. 18, co. 7) addotti dal datore di lavoro, la norma prefigura due regimi sanzionatori alternativi, il primo (“tutela ripristinatoria attenuata”) incentrato sul ripristino del rapporto e sulla reintegrazione nel posto di lavoro, ma con una tutela risarcitoria attenuata rispetto al regime illustrato supra, § 1.1, data la previsione di un tetto massimo di risarcimento, e il secondo (“tutela indennitaria” o “economica”) prevedente (e trattasi della novità più “rivoluzionaria” del nuovo art. 18, sulla quale si sono focalizzate le tensioni politiche e sindacali) una compensazione meramente economica del lavoratore.
Le sotto-ipotesi nelle quali si applica l’uno o l’altro dei due regimi non sono lasciate alla libera valutazione del giudice (come accade in altri ordinamenti, come quello tedesco), ma sono predeterminate, di base, dalla legge stessa. Peraltro, nella misura in cui la ricognizione concreta di tali sotto-ipotesi dia luogo, come presumibilmente darà (v. infra, § 3.1), a incertezze applicative, si riapriranno margini di discrezionalità giudiziale.
Per quanto concerne i licenziamenti “soggettivi” ingiustificati, la “tutela ripristinatoria attenuata” deve essere applicata a) nel caso in cui nel processo risulti l’insussistenza del fatto contestato, e b) in quello in cui emerga che il fatto rientra tra le condotte punibili con una sanzione conservativa sulla base delle tipizzazioni dei contratti collettivi ovvero dei codici disciplinari applicabili. La “tutela indennitaria” è prevista, invece, in tutte le «altre ipotesi» di licenziamento “soggettivo” ingiustificato.
Quanto ai licenziamenti “oggettivi”, la norma prevede, anzitutto, che la “tutela ripristinatoria attenuata” debba essere applicata nel caso di un licenziamento per inidoneità fisica o psichica del lavoratore che sia stato trovato ingiustificato dal giudice, nonché in quello (che costituisce, peraltro, un’ipotesi a sé, non riconducibile al giustificato motivo oggettivo) di un licenziamento intimato a un lavoratore malato o infortunato in violazione dell’art. 2110 c.c. In secondo luogo, si prevede che il giudice “possa” applicare la tutela in discorso qualora accerti la «manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo». La “tutela indennitaria” deve essere applicata, invece, in tutte le «altre ipotesi» di licenziamento “oggettivo” ingiustificato.
In sostanza, tanto per i licenziamenti “soggettivi” quanto per quelli “oggettivi”, la tutela basata sul ripristino del rapporto e sulla conseguente reintegrazione è circoscritta alle ipotesi identificate dal legislatore come di grave abuso del potere di licenziamento, altrimenti riconoscendosi al lavoratore una compensazione economica che non mette in questione (come già accadeva, e continuerà ad accadere, sebbene sulla base di un diverso meccanismo sanzionatorio, nel campo di applicazione della tutela “debole” o “obbligatoria”) la validità e l’efficacia del licenziamento medesimo.
Le due tutele si disputano il campo anche per quanto concerne le conseguenze sanzionatorie del licenziamento collettivo illegittimo (v. l’art. 5, co. 3, l. n. 223/1991, come sostituito dall’art. 1, co. 46, l. n. 92/2012): quella “ripristinatoria attenuata” trova applicazione in caso di violazione dei criteri di scelta previsti dall’art. 5, co. 1, l. n. 223/1991; quella “indennitaria”, ma nella misura più elevata qui considerata, e non in quella ridotta su cui infra, § 1.3, opera in caso di violazione delle regole procedurali del licenziamento collettivo.
Sotto il profilo dei contenuti delle due tutele, la “tutela ripristinatoria attenuata” riprende, nell’impianto (ripristino del rapporto, reintegrazione od indennità sostitutiva, ristoro patrimoniale), quella già illustrata per i licenziamenti nulli – alla quale, per quanto qui non diversamente detto, si rimanda –, ma con differenze che si traducono in una significativa limitazione, per il lavoratore, dei diritti risarcitori discendenti dall’illegittimità del licenziamento.
Ferme restando la previsione del minimo di 5 mensilità e la commisurazione dell’indennità risarcitoria alle retribuzioni non percepite a causa dell’interruzione del rapporto provocata dall’illegittimo licenziamento, è stabilito che:
• l’indennità risarcitoria di cui sopra non possa comunque essere superiore a 12 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto: si tratta della novità di maggiore rilievo, che si traduce nell’addossare al lavoratore buona parte del rischio inerente alla durata del processo, che nel regime previgente era tutto a carico del datore di lavoro;
• deve essere dedotto dal risarcimento non soltanto l’aliunde perceptum, ma anche, diversamente dall’ipotesi sub § 1.1, quanto il lavoratore avrebbe potuto percepire nel periodo di estromissione, dedicandosi con diligenza alla ricerca di una nuova occupazione (il cd. aliunde percipiendum, che è un’applicazione del principio di cui all’art. 1227, co. 2, c.c.);
• il versamento dei contributi previdenziali e assistenziali deve essere, invece, pieno, ma si prevede che l’ente previdenziale competente a ricevere tali contributi non possa applicare sanzioni per omessa o ritardata contribuzione, bensì soltanto gli interessi nella misura legale; e che l’importo dei contributi da versare possa essere ridotto in corrispondenza dell’eventuale accreditamento al lavoratore di altri contributi maturati in conseguenza dello svolgimento, mentre era licenziato, di altre attività lavorative.
Quanto alla “tutela indennitaria”, essa comporta che il giudice, pur rilevando il carattere ingiustificato del licenziamento e dunque l’illegittimità di questo, dichiari nondimeno l’avvenuta estinzione del rapporto di lavoro (il che significa che il licenziamento, benché illegittimo, permane efficace) e condanni il datore di lavoro al pagamento di un indennizzo per il posto malamente perduto, cioè di un’«indennità risarcitoria onnicomprensiva determinata tra un minimo di dodici e un massimo di ventiquattro mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto».
Ai fini della modulazione tra il minimo e il massimo, il giudice deve tenere conto, prioritariamente, dell’anzianità di servizio del lavoratore, nonché di altri criteri, che sono il numero dei dipendenti occupati dal datore di lavoro, le dimensioni dell’attività economica, il comportamento e le condizioni delle parti. Nel solo caso di licenziamento “oggettivo” ingiustificato, tra i fattori da soppesare figurano anche le iniziative assunte dal lavoratore per la ricerca di una nuova occupazione ed il comportamento delle parti nella procedura ex art. 7 l. n. 604/1966.
1.3 La tutela indennitaria ridotta
Nelle ipotesi di licenziamento unicamente affetto da vizi di forma o di procedura, cioè derivanti dalla violazione dell’obbligo di motivazione del licenziamento ex art. 2, co. 2, l. n. 604/1966, della procedura disciplinare ex art. 7 l. n. 300/1970, o di quella del licenziamento per motivo oggettivo ex art. 7 l. n. 604/1966, è riconosciuta (art. 18, co. 6), in luogo del precedente regime che trattava detti vizi alla stregua del difetto di giustificazione del licenziamento, una “tutela indennitaria ridotta” che (al di là della svista del legislatore, che ha continuato a parlare di “inefficacia” proprio mentre la nega6) lascia estinto il rapporto di lavoro, con attribuzione al lavoratore di un’indennità risarcitoria onnicomprensiva, determinata in una misura compresa, in relazione alla gravità della violazione formale o procedurale commessa, tra un minimo di 6 e un massimo di 12 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto7. Il tipo di tutela è il medesimo di cui all’art. 18, co. 5, ma con un importo ridotto.
Ciò a meno che il giudice, sulla base della domanda del lavoratore, accerti che vi è anche un difetto di giustificazione del licenziamento, nel qual caso applica, in luogo di quella qui illustrata (che non è cumulabile, pertanto, con quelle), le tutele previste per il caso di licenziamento ingiustificato.
Resta fuori da questo regime il licenziamento adottato in forma orale, per il quale, come già rilevato, trova applicazione la “tutela ripristinatoria piena” sub § 1.1.
1.4 Le altre novità in tema di licenziamenti individuali
Il “pacchetto” confezionato attorno all’art. 18 comprende anche altre norme in tema di licenziamenti individuali, finalizzate ad una maggiore coerenza complessiva del nuovo quadro disciplinare.
Viene in risalto, anzitutto, la regola per cui (v. il nuovo art. 2, co. 2, l. n. 604/1966, come sostituito dall’art. 1, co. 37) la comunicazione del licenziamento deve contenere la specificazione dei motivi che lo hanno determinato, in sostituzione del precedente meccanismo in virtù del quale il licenziamento poteva essere intimato senza una motivazione, divenendo obbligatoria, la comunicazione dei motivi, soltanto in caso di richiesta del lavoratore. La modifica si è resa opportuna sia perché è buona prassi che il licenziamento sia corredato, sin dall’inizio, da una motivazione (come già accade, di fatto, nella stragrande maggioranza dei casi), sia in correlazione all’accresciuta rilevanza del motivo del licenziamento ai fini della selezione del regime sanzionatorio applicabile.
La filosofia della riforma si è espressa anche nell’introduzione (v. art. 7 l. n. 604/1966, come sostituito dall’art. 1, co. 40, l. n. 92/2012) di una procedura preventiva all’irrogazione del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, da svolgersi dinanzi alla Direzione territoriale del lavoro, la quale è attivata da una comunicazione del datore di lavoro, contenente l’espressione dell’intenzione di procedere al licenziamento per motivo oggettivo e l’indicazione dei relativi motivi, nonché delle eventuali misure di assistenza alla ricollocazione del lavoratore interessato.
La procedura, da espletarsi entro un breve lasso di tempo (la convocazione deve essere trasmessa entro 7 giorni, e la procedura può protrarsi al massimo per i successivi 20 giorni, fatte salve proroghe concordate), ha lo scopo di esaminare, in spirito conciliativo, se vi siano soluzioni alternative al preannunciato recesso (per incoraggiare le quali è previsto che il lavoratore, che addivenga ad una risoluzione consensuale del rapporto, abbia titolo, pur figurando quale disoccupato “volontario”, al trattamento di disoccupazione di cui all’Assicurazione sociale per l’impiego).
In caso di mancato accordo, o comunque di decorso del termine massimo, il datore di lavoro può comunicare il licenziamento al lavoratore. Ma, al fine di evitare che il preannuncio del licenziamento induca il lavoratore a paralizzare il potere di recesso del datore di lavoro “mettendosi (come purtroppo suol dirsi) in malattia”, è prescritto (v. art. 1, co. 41) che gli effetti del licenziamento (anche, per coerenza, di quello disciplinare intimato all’esito del procedimento ex art. 7 l. n. 300/1970) retroagiscano alla data della comunicazione di avvio della procedura, fermo il diritto del lavoratore ad essere retribuito per i giorni di fatto lavorati nel frattempo, che si considerano di preavviso lavorato. Ciò con l’eccezione delle ipotesi in cui sopravvengano un infortunio sul lavoro o uno stato di maternità.
Infine, è stato ridotto, da 270 a 180 giorni (art. 1, co. 38), il termine di decadenza per la proposizione dell’azione giudiziale di impugnazione del licenziamento, che scatta una volta decorsi i 60 giorni consentiti per l’impugnazione stragiudiziale. Ciò nel quadro di una generale tensione della legge verso la riduzione dei tempi della giustizia.
Il quadro è completato dalla previsione (art. 2, co. 31), a carico del datore di lavoro, di un contributo dovuto in tutti i casi di licenziamento (anche individuale economico e disciplinare, e non soltanto collettivo), pari al 50% del trattamento mensile iniziale di Aspi, per ogni 12 mesi di anzianità aziendale negli ultimi 3 anni.
1.5 Il rito processuale speciale
Contestualmente alla riforma dell’art. 18, il legislatore (v. art. 1, co. 47-69) ha predisposto – proprio e soltanto per le controversie aventi ad oggetto l’impugnazione di licenziamenti nel campo di applicazione dell’art. 18, ancorché presuppongano la risoluzione di questioni relative alla qualificazione del rapporto di lavoro – un rito processuale speciale (v. Rito speciale per le controversie in tema di licenziamenti), il cui obiettivo è quello di garantire tempi di decisione più rapidi, con conseguente sdrammatizzazione, per entrambe le parti, dei rischi inerenti alla durata del processo. Il rito prevede una prima fase urgente, ma non tecnicamente cautelare (anche se si auspica che essa riassorba, nelle controversie in discorso, il ricorso all’art. 700 c.p.c.), che è instaurata con ricorso al tribunale in funzione di giudice del lavoro. L’udienza deve essere fissata non oltre 40 giorni dal deposito del ricorso, con notifica da effettuarsi non meno di 25 giorni prima dell’udienza, ed assegnazione al convenuto di un termine di costituzione non inferiore a 5 giorni antecedenti a tale data. Il procedimento è gestito dal giudice in modo deformalizzato (è previsto il compimento degli atti di istruzione «indispensabili» richiesti dalle parti o disposti d’ufficio nei limiti già previsti dall’art. 421 c.p.c.), ed è definito con ordinanza, la cui efficacia esecutiva non può essere sospesa fino alla pronuncia della sentenza che definisca l’eventuale giudizio di opposizione.
Avverso tale ordinanza può essere proposta, entro 30 giorni dalla notificazione della stessa, o dalla comunicazione se anteriore, opposizione dinanzi al medesimo tribunale. L’udienza deve essere fissata entro i successivi 60 giorni, ed i termini per la notificazione del ricorso e la costituzione del convenuto (con valenza delle preclusioni di cui all’art. 416 c.p.c.) sono quelli ordinari di 30 e 10 giorni dall’udienza.
Anche in questo caso il procedimento, pur lievemente più disteso, è relativamente deformalizzato (con esperimento degli atti istruttori «ammissibili e rilevanti» richiesti dalle parti o disposti d’ufficio).
Sono previsti, infine, il reclamo alla corte d’appello (da proporre entro 30 giorni dalla notificazione della sentenza, o dalla comunicazione se anteriore) e il ricorso per cassazione (entro il termine di 60 giorni, decorrenti come sopra).
Le novità del nuovo apparato sanzionatorio discendono tutte dall’articolazione di quattro diversi regimi, la cui applicazione viene a dipendere, come illustrato, dal tipo di vizio da cui è stato ravvisato affetto il licenziamento8.
Questo non comporta, tuttavia, la necessità di un’ulteriore e separata indagine da parte del giudice, bensì richiede, più semplicemente, una seconda valutazione giuridica dei fatti emersi nel processo, ovviamente a condizione che essi siano stati ritenuti dal giudice non tali da giustificare il licenziamento.
In sostanza, mentre nel vigore del precedente testo al giudice era semplicemente richiesto di accertare la sussistenza dei predetti vizi, da ciò scaturendo automaticamente l’applicazione di un unico regime sanzionatorio, adesso egli deve non soltanto stabilire che un vizio esiste, bensì anche inquadrarlo nelle tipologie previste, al fine di collegarvi le appropriate conseguenze.
Ed è nella logica di questo sistema che il giudice disponga anche del potere di riqualificare il motivo prospettato dal datore di lavoro9. Questo è previsto in modo esplicito soltanto per il licenziamento intimato per motivo oggettivo (art. 18, co. 7, ultimo periodo), stabilendosi che se, nel corso del giudizio, sulla base della domanda formulata dal lavoratore, il licenziamento risulti determinato da ragioni discriminatorie o disciplinari, trovano applicazione le relative tutele. Questa previsione è, peraltro, l’eredità di una prima versione del testo, ove era contemplata una netta diversità di tutela – che è stata poi riassorbita, facendo tendenzialmente venir meno l’interesse del lavoratore ad una riqualificazione in tali termini del motivo – tra il licenziamento disciplinare e quello economico. In ogni caso, il principio in questione dovrebbe valere anche all’inverso, consentendo una riqualificazione del licenziamento da soggettivo ad oggettivo.
Quanto al licenziamento discriminatorio, esso è sempre il frutto di una valutazione giudiziale che trascende, per confutarlo, il motivo formalmente dichiarato dal datore di lavoro10.
Ciò premesso, nel moltiplicare e ridisegnare i regimi sanzionatori, il legislatore si è mosso su terreni in parte già battuti, e in parte del tutto nuovi. Per il primo aspetto, esso si è ricollegato, per riprenderla o rivisitarne alcuni elementi, alla pregressa elaborazione giurisprudenziale, il che consente di riprendere il discorso da dove era stato lasciato e di stabilire una continuità col ricco dibattito del passato11. Per altri aspetti, invece, il legislatore ha adottato soluzioni innovative e di rottura.
2.1 La tutela ripristinatoria e la reintegrazione
L’analisi non può che prendere le mosse, anche per doveroso omaggio ad un vero e proprio totem del diritto del lavoro, da quello che nella struttura dell’art. 18 (sia nella versione originaria che nel testo novellato dalla l. 11.5.1990, n. 108) emergeva come il cuore della sentenza, vale a dire l’“ordine di reintegrazione”, rispetto al quale il ripristino del rapporto di lavoro, provocato dalla dichiarazione giudiziale di inefficacia o di nullità del recesso, o dall’annullamento di questo, sembravano derubricati a mero strumento.
Infatti, rivelando un’acuta sensibilità mediatica ante litteram, l’art. 18 aveva scelto di focalizzarsi, mediante l’evocazione quasi “fisica” del lavoratore restituito al suo precedente “posto di lavoro”, sulla dimensione attuativa, materiale, del rapporto contrattuale, mentre l’essenziale del dispositivo, e il vero stacco rispetto alla tutela “obbligatoria” ex art. 8 l. n. 604/1966, era il preliminare ripristino giuridico di tale rapporto, per effetto di quello che, nella comune percezione giuslavoristica (ma non in quella processualcivilistica12), è sempre stato vissuto come invalidazione, o comunque come declaratoria di inefficacia, del licenziamento.
In questo approccio si annidava, però, un’ambiguità di fondo, nella misura in cui il legislatore aveva utilizzato una norma tecnicamente di tutela (ergo, di “chirurgia” sulla patologia del rapporto) per far passare una misura che presupponeva che l’ordinamento reputasse meritevole l’interesse del lavoratore all’effettiva esecuzione della prestazione lavorativa, il che era, all’epoca, comunemente escluso.
Ma è proprio qui che, alla lunga, l’art. 18 ha vinto la sua battaglia, nella misura in cui, di concerto con la montante rilevanza giuridica del bene professionalità protetto dall’art. 2103 c.c., ha finito per condurre la giurisprudenza al riconoscimento di un diritto del lavoratore “a lavorare”13.
E se questo non ha fatto venir meno la strozzatura sul piano della tutela esecutiva (sino all’ironico paradosso di veder dichiarata inapplicabile proprio alle controversie di lavoro la misura coercitiva per l’attuazione degli obblighi di fare infungibili, di cui all’art. 614 bis c.p.c.), l’art. 18 ha comunque aperto la strada – a guisa di nemesi finale di un ordine giudiziale concepito in chiave anti-monetizzante – ad una tutela di tipo risarcitorio dell’inottemperanza all’ordine di reintegrazione, che confluisce in quella del danno alla professionalità.
Rispetto a questo assetto, la riforma non ha apportato novità, ovviamente però nei limiti in cui la reintegrazione non è stata sostituita da una compensazione economica.
Novità sono state introdotte, invece, sul fronte dell’indennità sostitutiva, essendosi stabilito, avverso il corrente indirizzo giurisprudenziale, che la mera richiesta dell’indennità sostitutiva (rectius, la sua ricezione da parte del datore) è sufficiente a determinare, a prescindere dall’effettivo pagamento14, la risoluzione del rapporto di lavoro; e che il licenziamento (al pari delle dimissioni: v. art. 4, co. 17-22) può essere revocato dal datore di lavoro, purché la revoca sia effettuata entro 15 giorni dalla ricezione dell’impugnazione del lavoratore, e sia garantito il diritto del lavoratore alla continuità retributiva (art. 18, co. 10). Il lavoratore può scegliere, ovviamente, di non ritornare in servizio, ma, in tale caso, egli non può impugnare il licenziamento per richiedere le 5 + 15 mensilità15, perde ovviamente il diritto alle retribuzioni maturate successivamente allo stesso, ed è trattato dall’ordinamento alla stregua di un dimissionario.
2.2 Le nuove logiche della tutela risarcitoria
La crescente centralità della tutela risarcitoria nel regime dell’art. 18 è andata facendosi sempre più evidente. A tale proposito, la scelta del legislatore statutario (così come di quello del 1990), non tanto di prevedere un minimo risarcitorio in funzione sanzionatoria, quanto di non prevedere un massimo, si è rivelata un fattore di rilevante innalzamento del costo economico del licenziamento illegittimo (e dunque anche del valore medio delle transazioni).
Tant’è che la giurisprudenza si è sentita in dovere di intervenire per cercare di contenere il potenziale impatto economico della tutela risarcitoria, e lo ha fatto in modo sistematicamente corretto, ossia tramite la riconduzione della tutela de qua nel quadro della responsabilità contrattuale.
Ciò le è servito sia per consolidare definitivamente, in omaggio al principio del danno effettivo, la deducibilità dell’aliunde perceptum (e persino, in varie sentenze, ex art. 1227, co. 2, c.c., dell’aliunde percipiendum), che per affermare, in alcune situazioni estreme di particolare buona fede nell’irrogazione del licenziamento (fondato, ad es., su un’attestazione medica dell’inidoneità fisica del lavoratore, successivamente disconosciuta sempre in sede medica o dal magistrato), l’esonero del datore di lavoro dall’obbligo risarcitorio (fatto salvo il minimo delle 5 mensilità).
Il nuovo art. 18 ha preso, del precedente sistema, alcune sollecitazioni, in particolare per quanto concerne il regime delle deduzioni, ma, a partire da quello, si è spinto in territori sinora inesplorati (nonché, per il comune sentire giuslavoristico, percorsi da barbari), sia per l’ipotesi in cui la tutela risarcitoria si accompagni a quella ripristinatoria, sia per quella in cui essa sia chiamata a vivere di vita propria, andando a coprire non tanto le conseguenze patrimoniali di un posto comunque restituito, secondo una logica di property rule, al suo precedente occupante, ma – in un’innovativa logica di liability rule – il costo della perdita di tale posto.
Per quanto concerne la prima di tali ipotesi (tutela risarcitoria come corollario del ripristino del rapporto), si segnala, anzitutto, la codificazione (sia nelle tutela risarcitoria piena che in quella attenuata: art. 18, co. 2 e 4) dell’evocato principio giurisprudenziale affermante la deducibilità dal risarcimento «di quanto percepito, nel periodo di estromissione, per lo svolgimento di altre attività lavorative».
La norma non si occupa, peraltro, del profilo probatorio, circa il quale rimane non risolto in modo soddisfacente il problema di stabilire quale estensione debba avere l’onere incombente sul datore di lavoro, cioè se esso si possa considerare soddisfatto con istanze (come quella di esibizione del Cud, o di richiesta di informazioni ai Centri per l’impiego) che talvolta la giurisprudenza tende a respingere come esplorative, mettendo la parte datoriale quasi nell’impossibilità di fornire la prova in questione.
È altresì normato, per la prima volta nel contesto, ad evidenziare la penetrazione in esso di una logica di workfare, il principio della deducibilità dell’aliunde percipiendum, cioè di quanto il lavoratore «avrebbe potuto percepire dedicandosi con diligenza alla ricerca di una nuova occupazione». Tale previsione figura, peraltro, soltanto nella tutela ripristinatoria attenuata (art. 18, co. 4), e non in quella piena, nella quale il disvalore sociale del licenziamento nullo ha indotto il legislatore a non inserire (e dunque, a contrario, ad escludere) l’applicazione di una regola che potrebbe essere interpretata come attenuazione di tale disvalore.
Tuttavia, nella tutela ripristinatoria attenuata, la previsione delle deduzioni va ad aggiungersi alla fissazione di un tetto massimo per il risarcimento di una particolare componente di danno, quella legata alle retribuzioni perdute nel periodo successivo al licenziamento. Tale danno, oltre ad essere passibile delle deduzioni di cui sopra, non può essere riconosciuto in misura superiore all’«ultima» (un riferimento, anche questo, innovativo, e che vale pure per la tutela risarcitoria piena) retribuzione globale di fatto percepita dal lavoratore.
Si tratta di una della grandi novità dell’art. 18 riformato, che risponde ad una logica indubbiamente estranea al suo spirito originario, in virtù della quale una dose consistente del rischio inerente alla durata del processo viene trasferita dal datore di lavoro al lavoratore.
La scelta legislativa si muove, semmai, su un’evidente linea di continuità con quella fatta, per l’ipotesi di conversione del contratto a tempo determinato illegittimo, dall’art. 32, co. 5, della l. 4.11.2010, n. 183 (del quale, per incidens, l’art. 1, co. 13, della l. n. 92/2012 ha fornito l’interpretazione autentica), che ha appunto fissato in 12 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto il risarcimento massimo cui può aspirare il lavoratore a termine il cui contratto sia stato trasformato per sentenza costitutiva del giudice.
Questo non significa che il lavoratore a tempo indeterminato licenziato illegittimamente sia trattato alla stessa stregua del lavoratore a termine, visto che per quest’ultimo l’indennità risarcitoria si muove in un range del quale le 12 mensilità sono soltanto il livello massimo, mentre quello minimo è di 2,5 mensilità. In pratica, in virtù di questo meccanismo, il lavoratore a termine riceve un trattamento migliore di quello (2,5/6 mensilità, ma alternative alla riassunzione) spettante al lavoratore mal licenziato da un datore di lavoro soggetto alla tutela “obbligatoria”, e che può giungere fino a coincidere con quello del lavoratore licenziato da un datore di lavoro rientrante nell’ambito di applicazione della tutela olim detta “reale”. Non è una mossa da poco nella direzione dell’equiparazione tra i due status normativi, anche se questa è realizzata peggiorando quello del lavoratore a tempo indeterminato.
Per quanto concerne, invece, il danno contributivo, le misure previste, tra le quali quella che comporta un’inedita trasposizione su tale piano della logica dell’aliunde perceptum, incidono sulla pretesa creditoria dell’ente previdenziale, ma non pregiudicano l’integrità della posizione contributiva del lavoratore.
Resta fuori da qualunque limitazione, a giudizio di chi scrive, anche il risarcimento degli eventuali danni non patrimoniali che il lavoratore dimostri essere conseguenza immediata e diretta del licenziamento. A tali danni, non predeterminabili dalla legge, se non al costo di disconoscere beni fondamentali del lavoratore, l’art. 18 continua a non far cenno, per cui essi non possono essere attratti sotto la copertura del massimale di 12 mensilità.
Ma dove la tutela risarcitoria segna, come già rilevato, una netta soluzione di continuità con il passato, è nella previsione di forme di tutela puramente indennitaria della perdita del posto di lavoro, con esclusione dell’effetto ripristinatorio da sempre caratteristico dell’art. 18 (e configurazione della relativa azione in termini non costitutivi, ma di accertamento, oltre che di condanna).
Anche in questo caso l’indennità è qualificata dalla legge come risarcitoria (e onnicomprensiva, fatti salvi, anche qui, gli eventuali danni non patrimoniali), ma ciò che viene risarcito, oltre ai pregiudizi patrimoniali già verificatisi, è il posto di lavoro, che peraltro viene fatto pagare in misura diversa a seconda che il vizio del licenziamento sia di natura sostanziale o formale/procedurale.
Quanto all’ipotesi di licenziamento ingiustificato, ove si consideri che nel vigore incontrastato della tutela ripristinatoria piena, il valore del posto di lavoro, nella prospettiva di accordi transattivi immediatamente successivi all’irrogazione del licenziamento, tendeva ad essere commisurato a 20 mensilità (5+15), il range dell’attuale indennità, oscillante tra 12 e 24 mensilità, si colloca su valori non dissimili, sin quando funga da parametro transattivo nell’immediatezza (o nella prospettiva, ad es. nella procedura ex art. 7 l. n. 604/1966) del licenziamento; su valori invece più bassi, ma nondimeno significativi (considerata anche l’ovvia non deducibilità dell’aliunde perceptum), nonché conformi ai parametri europei, ove ci si collochi nella prospettiva di una sentenza che giunga un certo tempo dopo il licenziamento.
Quanto alla scelta legislativa di sdrammatizzare i vizi formali e procedurali del licenziamento, essa non preclude al lavoratore di giocarsi, se crede (presumibilmente con la domanda proposta in via principale), la scommessa dell’impugnazione per vizi sostanziali, senza precludersi, anche in caso di esito negativo della stessa, la tutela economica ridotta.
I principali profili problematici posti dal nuovo testo dell’art. 18 riguardano: la delimitazione dell’ambito di applicazione delle due tutele previste nel caso di licenziamento ingiustificato, sulla quale si giocheranno i destini della normativa, perché è da tale delimitazione che dipenderà se la reintegrazione resterà la regola, o diverrà un’eccezione16; la puntualizzazione del regime risarcitorio previsto in caso della tutela ripristinatoria attenuata; gli ipotizzabili interrogativi di costituzionalità.
3.1 Le due tutele del licenziamento ingiustificato
La ricostruzione si presenta abbastanza agevole, per cominciare, per quanto concerne il licenziamento soggettivo, o disciplinare, non giustificato.
È da ritenere, anzitutto, che la formula dell’«insussistenza del fatto contestato», cui corrisponde la doverosa applicazione della tutela ripristinatoria attenuata, copra sia l’ipotesi in cui il fatto materiale è risultato insussistente in senso assoluto, sia quella in cui è emerso che il lavoratore non lo ha commesso o non è stata raggiunta, comunque, una sufficiente prova che l’abbia commesso. Si tratta, quindi, di una formula dal significato equivalente a quella per cui «il fatto non sussiste o il soggetto non lo ha commesso», che era stata scartata, a un certo punto del processo di elaborazione del testo, perché troppo “penalistica”17.
A questa fattispecie è riconducibile, a parere di chi scrive, anche l’ipotesi in cui il fatto contestato non è ritenuto tale da integrare gli estremi di un inadempimento o comunque da incidere sulla base fiduciaria del rapporto di lavoro.
L’altra ipotesi prefigurata dalla legge è quella in cui il licenziamento è stato reputato ingiustificato perché punibile con una sanzione conservativa sulla base delle previsioni dei contratti collettivi ovvero dei codici disciplinari applicabili. Il riferimento alternativo ai codici disciplinari unilaterali evoca il caso in cui il datore di lavoro non sia assoggettato ad un contratto collettivo18, perché altrimenti, a norma dell’art. 7, co. 1, l. n. 300/1970, il codice disciplinare deve tener conto del contratto collettivo.
Si tratta, insomma, di un licenziamento palesemente “sproporzionato” già in virtù della riconduzione del fatto che lo ha determinato ad una sanzione di tipo conservativo. Certamente, peraltro, la funzionalità del dispositivo presuppone che i codici disciplinari siano, se non esaustivi, sufficientemente completi, o che, comunque, possano essere resi utilizzabili, in via interpretativa, anche con riguardo a condotte non espressamente contemplate dai contratti collettivi.
In virtù di tale lettura, la principale tra le «altre ipotesi» di cui all’art. 18, co. 5, sembra essere quella19 in cui il licenziamento venga ritenuto “sproporzionato” dal giudice perché, malgrado il fatto sia punibile con un licenziamento sulla base delle tipizzazioni contrattuali, esso è ritenuto in concreto non così grave da meritare una sanzione espulsiva, in virtù di un’interpretazione delle causali di legge migliorativa rispetto al contratto collettivo (l’esempio che circola è quello del furto di bene di modico valore, per quella giurisprudenza che non lo ritiene assimilabile alle sottrazioni di beni aziendali cui la contrattazione collettiva riserva, di solito, il licenziamento), e/o di una valutazione (favorevole al lavoratore) dell’elemento soggettivo della condotta o comunque di altre circostanze del caso concreto che siano reputate rilevanti per giungere ad un giudizio di sproporzione.
Un’altra immaginabile ipotesi è quella in cui un licenziamento per giusta causa sia reputato ingiustificato, per difetto del requisito di immediatezza, che è un elemento della fattispecie sostanziale e non un requisito procedurale.
La riproposizione della medesima logica per il licenziamento oggettivo, o economico, non giustificato, è foriera di maggiori difficoltà. Anche qui il tentativo della norma è quello di isolare le ipotesi in cui il licenziamento in discorso integri un grave abuso del potere di recesso. Ciò in vista della creazione di un assetto sanzionatorio omogeneo con riguardo alle due principali tipologie di licenziamento, e dopo che, in un primo momento, per i licenziamenti economici ingiustificati era stata contemplata soltanto una tutela di tipo economico.
La formula adoperata a tal fine (v. art. 18, co. 7), che è stata al centro di intense discussioni politiche e sindacali, è quella della «manifesta insussistenza» del fatto materiale posto a base del licenziamento per motivi oggettivi (diversi, peraltro, dall’inidoneità fisica o psichica del lavoratore, giacché in tale caso deve applicarsi sempre la tutela ripristinatoria).
Ora, come è noto, il sindacato giudiziale sul licenziamento per motivo oggettivo si sviluppa, fondamentalmente, sopra i tre seguenti oggetti:
a) veridicità della ragione economica addotta come determinante del licenziamento (ad es., una soppressione di posto o una riorganizzazione);
b) sussistenza di un nesso di causalità tra la predetta ragione e il recesso;
c) impossibilità di utilizzazione del lavoratore in un’altra mansione disponibile nell’azienda (la cd. extrema ratio).
Ebbene, l’«insussistenza del fatto» sembra certamente da configurarsi allorquando difetti la prova degli elementi sub a) e b). Di contro, la mancata prova dell’inutilizzabilità aliunde del lavoratore dovrebbe ricadere in quelle «altre ipotesi» che sono incanalate verso la tutela economica.
Ma il passaggio resta problematico. Prendiamo il caso in cui il datore di lavoro abbia proceduto, entro un ridotto margine di tempo dal licenziamento (ad es., sei mesi) ad una nuova assunzione nella medesima mansione del lavoratore licenziato od in una strettamente assimilabile a quella. Questa circostanza è oggetto di indagine, di solito, nell’ambito della valutazione sull’extrema ratio, ma se ne può desumere, più propriamente, che la soppressione o la riorganizzazione addotte non erano reali, di modo che il difetto del requisito sub c) ridonda in quello dei requisiti sub a) e b), con conseguente ritorno alla tutela ripristinatoria in luogo di quella economica.
Invece, quando le nuove assunzioni siano avvenute in mansioni non assimilabili a quelle già svolte dal lavoratore licenziato, ma nelle quali egli avrebbe potuto essere recuperato, la situazione non è riconducibile all’«insussistenza del fatto», per cui trova applicazione la tutela economica20.
Lo stesso dovrebbe avvenire in quei casi nei quali il giudice, peraltro a mio avviso oltrepassando i confini del sindacato di merito, vada a dichiarare ingiustificato il licenziamento perché disposto per un “mero incremento dei profitti”; o, ritenendo applicabili anche al giustificato motivo oggettivo i criteri di scelta previsti per i licenziamenti collettivi, dichiari il recesso illegittimo per violazione di tali criteri.
Ma se già questa regolazione di confini è problematica, a renderla ulteriormente incerta, con proporzionale ampliamento della discrezionalità giudiziale, provvedono ulteriori sfumature del disposto legislativo.
Per un verso, infatti, la trasposizione dell’aggettivo «manifesta» dal piano della delibazione processuale a quello sostanziale suscita più di una perplessità, visto che l’«insussistenza», o è o non è. Per altro verso, l’anodina apparizione del verbo «può», non accompagnata da alcun criterio regolatore di tale discrezionalità, se realizza al fine il trapianto nell’ordinamento di un pezzo di “modello tedesco”, lascia perplessi in considerazione della sua eterogeneità alla logica di fondo del dispositivo sanzionatorio, che è incentrata sulla predeterminazione legislativa delle fattispecie cui è applicabile l’una o l’altra delle tutele. Per tacere della circostanza che l’ipotesi di un giudice che, pur potendo disporre il ripristino del rapporto, ripieghi sulla tutela economica appare, a dir poco (ed a meno che il lavoratore stesso abbia mostrato di gradirla), irrealistica.
3.2 Il regime patrimoniale in caso di tutela ripristinatoria
Il secondo profilo problematico che merita evidenziare riguarda le attribuzioni patrimoniali nel caso di tutela ripristinatoria. Occorre ricordare, a tale proposito, che la l. n. 108/1990 aveva modificato l’impianto originario dell’art. 18, qualificando come risarcitorie le somme da attribuire al lavoratore licenziato, non soltanto relativamente al periodo tra il licenziamento e la sentenza, ma anche successivamente a questa, ove ad essa non abbia fatto seguito l’effettiva reintegrazione del lavoratore, e sino al verificarsi di quest’ultima.
Il nuovo art. 18 ripropone tale formula, ma se essa non crea problemi – rectius, non ne crea di nuovi – nel caso della tutela ripristinatoria piena, li crea per quella attenuata, per via della previsione del tetto risarcitorio pari a 12 mensilità di retribuzione. Tale tetto, infatti, deve essere ragionevolmente circoscritto alle attribuzioni patrimoniali pregresse, e non a quelle che spettano in ragione del ripristino del rapporto disposto dalla sentenza, anche qualora ad essa non abbia corrisposto un’effettiva reintegrazione del lavoratore21.
Diversamente, il dispositivo si tradurrebbe in un vistoso incentivo al datore di lavoro a non ottemperare alla sentenza, anche se passata in giudicato, e sarebbe facilmente censurabile per più di un profilo di incostituzionalità.
Ne discendono la necessità e l’urgenza di una lettura correttiva, in virtù della quale si giunga a ricostituire l’originaria differenziazione tra la qualificazione delle somme attribuite per il periodo cd. intermedio come risarcitorie, e di quelle relative al periodo post-sentenza come retributive (dunque, è la maggiore implicazione pratica, senza deduzione dell’aliunde perceptum). Per tale periodo, infatti, la condanna deve essere configurata come una normale condanna all’adempimento dell’obbligazione retributiva derivante dal ripristino giuridico del rapporto di lavoro. La rettifica testuale, che questa lettura indubbiamente richiede, è giustificata dall’imperativo di scongiurare un’implicazione totalmente inaccettabile.
3.3 Gli interrogativi di costituzionalità
Lo scrutinio della costituzionalità del testo legislativo si indirizzerà probabilmente sui seguenti profili, a ciascuno dei quali dedicheremo una breve valutazione.
Per quanto concerne la tutela ripristinatoria attnuata, è presumibile che sia sottoposta a censura, anche per asserita lesione del diritto di azione in giudizio, la previsione del tetto di 12 mensilità. Sarebbe singolare, peraltro, se dopo aver affermato, con la sentenza 11.11.2011, n. 303 relativa al contratto di lavoro a termine, che la previsione di un meccanismo sanzionatorio analogo (del quale, anzi, le 12 mensilità rappresentano soltanto la punta) rientra nella discrezionalità legislativa, la Corte costituzionale giungesse, in questo caso, ad una conclusione diversa.
In secondo luogo, potrebbe essere censurata la scelta in sé di prevedere una tutela economica in luogo di una comportante il ripristino del rapporto e la reintegrazione. Una censura del genere presupporrebbe, peraltro, quella costituzionalizzazione del diritto alla reintegrazione nel posto di lavoro, che l’opinione ha, sino ad oggi, in maggioranza escluso22.
Ma la tutela economica potrebbe essere censurata, in terzo luogo, sotto il profilo della ragionevolezza ex art. 3, co. 1, Cost., per il diverso trattamento che essa comporta rispetto alle ipotesi di applicazione della tutela ripristinatoria pur attenuata. Qui la partita della costituzionalità si gioca, appunto, sul piano della tenuta – a mio parere ravvisabile – del criterio, adottato dalla legge, di distinguere tra casi di abuso più o meno grave del potere di licenziamento, e sulla pertinenza delle ipotesi dettate a tale riguardo.
Non sembra censurabile sotto il profilo in discorso neppure la previsione di un’indennità ridotta per quanto riguarda i vizi di forma e di procedura del licenziamento, posto che era semmai la sistematica equiparazione tra vizi formali e sostanziali a suscitare perplessità, e che il lavoratore mantiene la facoltà di far valere il difetto di giustificazione. Inoltre, il massimo dell’indennità attribuibile a tale titolo (12 mensilità di retribuzione) è anche il minimo previsto in caso di tutela economica.
Infine, non sembra che si possa dubitare dell’adeguatezza in sé di entrambi gli importi previsti (e dei criteri di modulazione indicati). Quello più importante (12/24 mensilità) è, segnatamente, in linea con gli standard della legislazione europea, che di solito contemplano come regola proprio la tutela economica, riservando la reintegrazione a ipotesi, di massima, eccezionali.
Per concludere, rimane soltanto da evocare un ulteriore problema che è stato aperto dalla riforma, che è giustificato evocare in questo paragrafo perché si gioca, in ultima analisi, nella dimensione della costituzionalità: quid del diritto vivente in tema di decorso della prescrizione dei crediti del lavoratore? Venendo meno l’equazione tra art. 18 e tutela “reale”, e soprattutto non potendosi più stabilire ex ante se un rapporto sia soggetto o no a tale tutela, che ne è della regola per cui l’applicazione o no dell’art. 18 segna il discrimine tra decorso della prescrizione alla cessazione o nella pendenza del rapporto di lavoro? Un pronunciamento legislativo sembra, al riguardo, indispensabile.
1 Per una critica alla tesi per cui la rigidità della disciplina dei licenziamenti inciderebbe negativamente sulla propensione all’assunzione di lavoratori stabili, v. Speziale, V., La riforma del licenziamento individuale tra diritto ed economia, in Riv. it. dir. lav., 2012, II, 521, qui 523 ss.
2 Un rilievo merita dedicarlo, peraltro, alle reazioni del mondo delle imprese, per le quali, mentre la stretta sui contratti flessibili è stata di impatto immediato o quanto meno tangibile, la modifica dell’art. 18 ha avuto un effetto comunicativo più ambiguo, posto che l’alleggerimento dei costi potenziali di un licenziamento illegittimo, che essa ha realizzato, si lascia cogliere non nella quotidiana dimensione gestionale, bensì in quella, tutto sommato “straordinaria”, di una controversia giudiziale con esito negativo per il datore di lavoro (anche se, evidentemente, i rischi inerenti a tale esito condizionano, a monte, la decisione datoriale circa il procedere o no ad un licenziamento).
3 L’intervento si è limitato scrupolosamente all’area della tutela “reale”, senza toccare, salvo che per un aspetto, quella della tutela “obbligatoria”.
4 A mio giudizio, nonostante l’ambigua formulazione dell’art. 1, co. 7, della l. n. 92/2012, è da ritenere che il nuovo art. 18 trovi sin d’ora applicazione, in quanto testo novellato, anche ai rapporti di lavoro con le amministrazioni pubbliche.
5 V., ex multis, Ichino, P., La riforma dei licenziamenti e i diritti fondamentali dei lavoratori, in www.pietroichino.it.
6 È ovviamente corretto il rilievo di Cester, C., Il progetto di riforma della disciplina dei licenziamenti: prime riflessioni, in Argomenti dir. lav., 2012, 547 ss., qui 580.
7 La previsione di questo regime rende ancor più irrazionale la discrasia – che esisteva però già prima della l. n. 92/2012 – con il trattamento previsto, nell’area della tutela “obbligatoria”, in caso di vizio di motivazione del licenziamento, che la giurisprudenza sanziona con l’inefficacia.
8 Per un esame delle critiche a tale scelta legislativa, ritenute, peraltro, non decisive, v. Cester, C., op. cit., 550-551.
9 Pare fuorviante, quindi, denunciare (v. Consolo, C.-Rizzardo, D.,Vere o presunte novità, sostanziali e processuali, sui licenziamenti individuali, in Corr. giur., 2012, 729, qui 730) l’istituzione di «un’area di libera recedibilità con penale accessibile dall’imprenditore grazie ad un fatto proprio», ad es. l’affermazione di un motivo oggettivo pretestuoso: a parte che, se tale pretesto viene smascherato, deve essere applicata, di massima, la reintegrazione, il giudice può ritenere che dietro il motivo dichiarato ve ne sia uno disciplinare ingiustificato.
10 Enfatizza al massimo il ruolo sistematico del licenziamento discriminatorio Carinci, M.T., Il rapporto di lavoro al tempo della crisi: modelli europei e flexicurity “all’italiana” a confronto, in Giorn. dir. lav. rel. ind., 2012, 527 ss., secondo cui il licenziamento, o è conforme alle uniche finalità ammesse dal sistema, o è discriminatorio, con una sostanziale identificazione fra licenziamento discriminatorio e ingiustificato, ed una corrispondente espansione della tutela ripristinatoria. Ma tale tesi, che presuppone la riconduzione del motivo del licenziamento alla causa negoziale, appare inficiata da un sovrappiù dogmatico e da una speculare indifferenza alla ratio, non soltanto dell’art. 18 (anche vecchio), ma dell’intera disciplina dei licenziamenti individuali. Per una critica, v. Speziale, V., op. cit., 544 ss.
11 Per un recente riepilogo del quale rimando a Del Punta, R., La stabilità reale nell’epoca dell’instabilità, in Diritti lavori mercati, 2010, 753 ss.
12 Secondo cui (v. ad es. Consolo, C., Oggetto del giudicato e principio dispositivo. II. Oggetto del giudizio ed impugnazione del licenziamento, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1991, 569) quella di “impugnazione” è in realtà un’azione di accertamento delle continuità del contratto di lavoro, previa declaratoria di inefficacia dell’atto di esercizio del potere di recesso. Per la riproposizione di tale prospettiva, anche alla luce della natura certamente di mero accertamento (e condanna) dell’azione del lavoratore rivolta all’applicazione della tutela indennitaria, v. Consolo, C.-Rizzardo, D., op. cit., 731 ss.
13 V., ad es., Cass., 15.9.2004, n. 18537: «Se l’art. 18 prevede l’ordine di reintegrazione, significa che il diritto del lavoratore alla esecuzione della prestazione che con tale ordine viene riconosciuto ed attuato, vi era già prima come componente del rapporto di lavoro e non come effetto del licenziamento illegittimo».
14 Sul quale si focalizzava, invece, la precedente giurisprudenza, sulla base della ricostruzione della fattispecie in chiave di obbligazione con facoltà alternativa del creditore: v., ad es., Cass., 16.3.2009, n. 6342.
15 Che gli erano riconosciute dalla giurisprudenza precedente: v., ad es., Cass., 13.6.2002, n. 8493.
16 Per l’opinione per cui dovrebbe essere applicata di più la tutela economica, v. Maresca, A., Il nuovo regime sanzionatorio del licenziamento illegittimo: le modifiche dell’art. 18 Statuto dei lavoratori, in Riv. it. dir. lav., 2012, I, 415, qui 437.
17 Nel senso del testo, v. Cester, C., op. cit., 569.
18 Si determinerebbe però un problema di equità se tali codici unilaterali fossero congegnati in modo da ricondurre al licenziamento anche fatti di lieve gravità, perché il giudice potrebbe sì qualificare illegittimo il licenziamento per sproporzione, ma dovrebbe poi applicare la tutela economica: v. l’importante riflessione di Cester, C., op. cit., 572.
19 Che sarebbe probabilmente rientrata tra quelle di applicazione della tutela ripristinatoria, se non fosse stato eliminato, in extremis, il riferimento alle previsioni “di legge”, che si prestava a ricomprendere anche la violazione del principio di proporzionalità ex art. 2106 c.c. Sulla questione, v. Maresca, op. cit., 444 ss.
20 Riconduce anche questa ipotesi alla tutela ripristinatoria, Speziale, V., op. cit., 563-564.
21 Nel senso del testo, v. Maresca, A., op. cit., 430.
22 Nel senso della non imprescindibilità della reintegrazione, v. Maresca, A., op. cit., 424-425, che evoca, a riprova, anche la famosa proposta di riforma della disciplina del licenziamento, elaborata nel 1985 dal Cnel.