LA FONTAINE, Jean de
Nacque a Château-Thierry (Champagne) l'8 luglio 1612 e morì a Parigi il 14 aprile 1695. A voler seguire la volontà del padre, ch'era "maître des eaux et forêts", e della madre, nella cui famiglia si tramandavano le cariche municipali, La F. si sarebbe assicurata un'esistenza agiata e onorifica, degna di un buon borghese, non ignaro di lettere e di leggi, sollecito delle cure familiari, della vita civica, della sorte del proprio patrimonio. E invece La F. se ne tenne lontano, senza ribellioni e senza travagli, ma per spontanea riluttanza del suo temperamento: per lui era naturale studiare senza scopi, svagarsi nelle letture poetiche e romanzesche, disdegnare gli studî teologici e i collegi, dove non fece buona prova; ed era altrettanto irriflesso e insopprimibile il desiderio di oziare, di correre da Reims a Parigi, per conversare con gli amici letterati, dai traduttori A. Pintrel e F. Maucroix ai grammatici e accademici A. Furetière e P. Pellisson. Sicché, quando il padre lo chiamò al suo ufficio - privilegio che altri gli avrebbero invidiato - e gli diede per moglie la quindicenne Marie Héricart (1647), fornita d'una buona dote, ma che si rivelò d'indole vanitosa e disordinata, La F. non pensò affatto a correggere e disciplinare l'oziosa volubilità del suo costume; tanto che finì col piantare l'impiego, la moglie, il figlio appena nato, per stabilirsi definitivamente a Parigi, dove gli arrideva la vita letteraria (1653). Gli venne incontro il sovrintendente Fouquet - a cui era stato presentato da un suo zio - con schietta amicizia e una buona pensione (1656), aggregandolo a quella cerchia di dotti e poeti ch'egli amava proteggere per il lustro della sua potenza. La F., che già aveva prodotto qualche timido tentativo (la riduzione, del resto molto riuscita, dell'Eunuque di Terenzio è del 1654), continuò a far versi per il suo mecenate e per "Madame la surintendante", nel metro della ballata, dell'ode, del l'épître, de virelai, alla maniera di Cl. Marot, e in parte di F. Malherbe e di V. Voiture, con quella grazia tra confidenziale e smaliziata e quel prezioso disinteresse per il contenuto, che fa d'ogni tema, per quanto tenue e breve, materia di facile e saporita poesia. Anche al protettore era dedicato l'Adonis (1658), poema che egli classificava nel genere "eroico", ed è invece preziosamente idillico, al pari di certi frammenti di squisita rarità formale, dove si esaltano le mirabili bellezze naturali del castello di Vaux, che il Fouquet s'era costruito presso Melun con regale magnificenza (Fragments du songe de Vaux, del 1659-60, editi nel 1669). Ma se La F. alternava al tono piacevole e madrigalesco i colori paesistici, fioriti, lussureggianti, di sensibilità ovidiana e un po' forzati da intemperanze stilistiche, seppe anche trovare le mezze tinte della malinconia e del rimpianto, quando il sovrintendente cadde in disgrazia e venne arrestato: l'Élégie aux nymphes de Vaux (1662; edita in Recueil de poësies chrestiennes, III, 1671), perché esse implorino la grazia di Luigi XIV, non è soltanto una bella testimonianza di fedeltà da parte del poeta che visse di protezioni e di munificenza con distratta e obliosa leggerezza, ma è pure la sua migliore lirica sentimentale, anche perché serba la prima nota accorata dopo tanta raffinatezza di gusto. Di ritorno dal Limosino, dove aveva seguito nell'estate del 1663 lo zio esiliato in seguito all'affare Fouquet - e le impressioni del viaggio furono affidate alla prosa arguta di sei lettere (edite postume, con altri componimenti, nel 1696), indirizzate alla moglie, con la quale, nonostante la separazione dei beni (1658), non ci fu mai una rottura completa -, La F. pubblicava le prime Nouvelles en vers (1665), a cui seguivano altre raccolte di Contes et Nouvelles (1666, 1671, 1674), mentre attendeva anche alle Fables (Fables choisies, 1668: contengono i primi sei libri, ma già qualche favola girava manoscritta tra gli amici del poeta; Fables nouvelles et autres poësies, 1671). Vi concorrevano nuove e diverse esperienze letterarie e anche una più concreta visione della realtà, che tendeva a liberarsi dalla maniera svagata e un po' arcadica delle prime opere, dove l'interesse umano era frammentario e subordinato a un atteggiamento di puro esteta, per sostituirvi un avido bisogno di motivi, di fatti, di tipi, in cui agissero direttamente gli uomini, i sentimenti, le cose, e vi si rispecchiasse la natura schietta, essenziale, istintiva. Ne ebbe una coscienza dapprima incerta, poi sempre più operosa, alla quale contribuì non poco l'esperienza del teatro di Molière - che, già a Parigi dal 1658, aveva rappresentato i Fâcheux al teatro di Vaux (1661) - e, un po' più tardi, anche l'amicizia con il Boileau, specie per quella certa conformità, forse più teorica e apparente che sostanziale, nell'intendere l'arte con concezione naturalistica. Ma l'atteggiamento morale rimaneva sempre il consueto, senza passioni e senza ambizioni, o meglio con tutte le passioni e le ambizioni delle nature istintive e genuine, in cui l'una è superata dall'incalzare dell'altra, tutte dominate e risolte nell'opera della fantasia. E mentre la posizione dell'uomo rispetto alla vita - della quale egli non sentiva le esigenze etiche e sociali, perché non le avvertiva o perché non le accettava - può apparire, e qualche volta è in realtà, egoista in quel suo totale difetto di volontà, mediocre per l'assenza completa d'ogni energia, e perfino astratta, priva com'è di senso morale, la condizione del poeta è invece unitaria, multiforme, assorbente. Egli, perciò, poteva vivere, una volta mancatagli la prima protezione, a spese della duchessa vedova d'Orléans (1664-1672), e passare dalla lunga ospitalità di Madame de la Sablière (1672-1692), l'unica che egli amò con tenerezza, a quella di casa d'Hervart, senza mai dubitare della legittimità di una tale esistenza. La giustificava e anzi la esigeva il suo poetico oziare, che in nessun artista fu così assoluto e oblioso come in La F.; ma è anche vero che soltanto pochi poterono raggiungere e mantenere una misura spirituale come la sua e quella stessa lucidità intellettuale di tempra veramente classica. Ne è rappresentazione ideale, degna d'una calda fantasia del Rinascimento, il prologo a Les amours de Psyché et de Cupidon (novella in prosa tratta dall'Asino d'oro d'Apuleio, edita nel 1671), nel quale, sotto i nomi di Polyphile, Acanthe, Ariste, e Gélaste, il poeta stesso, con i grandi amici Racine, Boileau e Molière, conversa platonicamente, intorno al tragico e al comico, lungo il cammino da Parigi a Versailles. Quando nel 1684 fu eletto all'Académie française - e Luigi XIV ne aveva ritardato di un anno l'approvazione in attesa dell'elezione di Boileau - La F. aveva già compiuto altri cinque libri di Fables (1678-1679), dedicati dal VII al X alla marchesa di Montespan, favorita del re, e l'undecimo alla sua signora de La Sablière. La sua arte s'era di già maturata e conchiusa e la sua stessa vita dava qualche segno di stanchezza, o per lo meno si ripeteva senza rinnovarsi (come nei poemetti: Philémon et Baucis; Les filles de Miné, 1685) o si abbandonava a malinconie religiose o comunque dottrinarie - debole eco delle inquietudini del tempo - che subito si palesavano provvisorie e difformi al suo temperamento (il poema cristiano della Captivité de Saint Malc è un infelice tentativo del 1673; l'altro del Quinquina è del 1682). La professione di fede che egli fece nel 1692, durante una malattia, e la pubblica disapprovazione dei suoi Contes licenziosi, furono entrambe sincere ma non profonde. In complesso l'ultimo periodo è fiacco; né al poeta riusciva più d'organizzare un'opera con la serrata chiarezza d'una volta: le commedie Ragotin (1684: riprende alcune scene del Roman comique di Scarron), Le Florentin (1685), La coupe enchantée (1688: derivata dall'abile contaminazione di due Contes, uno omonimo e l'altro Les oyes de frère Philippe), Je vous prens sans verd (1693; banale), rappresentate alla Comédie française come opera dell'attore Champmeslé, portano effettivamente ancora qualche tocco felice dell'arte di La F.; e sono anche sue le due tragedie musicali: Galatée (1683) e Astrée (1691), che attestano l'assiduo gusto per il teatro, per la poesia mimetica e sonora, per l'arte che abbia un suo pubblico da divertire e da interessare, per quanto ormai d'ispirazione lenta e distratta. Invece gli estremi guizzi del suo ingegno alacre, scintillano ancora nell'ultimo libro delle Fables (le XII livre, 1692; mentre l'edizione definitiva di tutte è del 1694), che egli raccomandava a Luigi, duca di Borgogna, come modesto e tardo esempio di quell'ampia materia esopiana che abbraccia ogni sorta di avvenimenti e di caratteri".
E, infatti, nella libera e articolata varietà delle Fables, La F. dispiegava la contemplativa saggezza della sua esperienza umana e l'inesauribile agilità della sua tecnica poetica. Mentre nella lirica galante, idillica, rarefatta, prevalevano gli schemi letterarî, e spesso non si accordava la forma mitica e bucolica con l'esiguità convenzionale di certi toni cortigianeschi ed encomiastici, né rispondeva all'unità trasparente e musicale di certe strutture metriche, ancora di sapore arcaico, quel suo linguaggio troppo maturo e troppo scaltrito; nelle favole, invece, la realtà si atteggia senza modelli esterni e senza dissonanze stilistiche, poiché in esse la parola e il ritmo sono continuamente fluenti, multiformi, cangianti, secondo l'infinita molteplicità del contenuto. Il mondo mitologico e pastorale di Ovidio e di Virgilio, al quale si adeguava la giovinezza di La F., portava una sua impronta psicologica e sociale che difficilmente poteva adattarsi e camuffarsi nella società francese del Seicento; e, d'altra parte, il novellare di Apuleio, del Boccaccio e dell'Ariosto, a cui attingeva La F. per la sua arte narrativa, aveva un suo movimento drammatico, troppo serio e travagliato, anche se sensuale e anche se comico, di fronte al quale la rielaborazione dei Contes e delle Nouvelles, per quanto viva e originale, lasciava intravvedere un difetto di atteggiamento morale e, a lungo andare, un'aridità di psicologia, per quel continuo travestimento scettico e libertino. Tuttavia già vi s'imprimeva il sigillo di uno stile personale, snello, agilissimo, tutto evidenza, che pareva ricollegarsi allo spirito gaulois degli antichi fabliaux e riprendere, sebbene più di rado, la grazia lieve e appena accennata di certi vecchi lais. Se alcuni racconti, come Joconde, derivato dall'Ariosto, o Richard Minutolo e La fiancée du roi Garbe, tratti dal Decameron, hanno il gusto del licenzioso e troppo scetticismo gettano sull'onestà delle donne, altri rivelano una sensibilità gentile, tenera, aderente agli affetti e alla malinconia del cuore umano, come Belfégor, desunto dalla novella omonima del Machiavelli, La matrone d'Ephèse e, specie, Le faucon, attinto alle delicatissime pagine del Boccaccio. La lingua, in cui egli disnoda questo suo facile novellare, è di estrema semplicità e di meravigliosa efficacia, tanto da sembrare un prodigio di naturalezza a Boileau, il primo a scoprire il talento narrativo dello scrittore, e a Madame de Sévigné, che ne aveva finissima esperienza. C'è il fascino dell'espressione concreta, quasi parlata, che nulla dissimula e nulla finge, in piena misura con le cose che vi si narrano, con gl'intrecci che vi si svolgono, con le figure tratteggiate. La F. possiede il dono di dire con istintiva freschezza quello che un periodare più abbondante e una sintassi più complicata renderebbero oscuro e avvizzito. Nello stile si rispecchia, appunto, quella sua particolare natura primitiva e ingenua, in cui le amicizie, gli amori, le ambizioni, i desiderî, non appena gli si presentano dalla vita, perdono la torbida complicatezza che vi hanno impresso le passioni degli uomini e l'azione della società. Non è semplicismo morale né atonia sentimentale, ma una superiore intuizione della vita, che chiarifica lo spettacolo ch'essa gli offre e rende essenziali i bisogni, le aspirazioni, i tormenti, le angustie che essa perennemente ordisce. Poeta privo di filosofia, senza preconcetti etici né teorie estetiche, ma profondamente radicato nella cultura del suo secolo a tendenze naturalistiche con acute preoccupazioni psicologiche, sociali e anche pedagogiche, La F. ne risentiva gli svariati interessi, ma senza programmatica consapevolezza; sicché mentre il contenuto della sua arte - e s'intende quella delle Fables dove egli è poeta universale - è attinto con vigile prudenza dalla realtà più obiettiva, quotidiana e minuziosa, egli lo sollevava e lo idealizzava nella metafora della favola, lo astraeva dalla storia empirica per proiettarlo nella forma del mito letterario. E così quelle fisionomie, con i loro gesti e le loro parole - sebbene siano ritratte con assoluta veridicità, ciascuna plasmata dal proprio ambiente - si trasformano, invece, nella veste degli animali, in tipi della più pura fantasia. Il suo linguaggio appare perciò realistico e leggendario insieme. E lo stesso mondo - ch'egli rappresenta in tutti gli aspetti, soprattutto in quelli più legati al senso pratico della vita, e in tutti i sentimenti, specie in quelli che maggiormente riflettono l'educazione, la professione, la particolare esperienza dell'individuo - pur essendo tutto concreto di riferimenti positivi e sociali e di affetti tenacemente interessati, quasi sempre egoistici, smaliziati e troppo esperti, è tuttavia trasferito nel regno dell'immaginazione e della natura, dove più liberamente il poeta poteva inseguire quella sua sensibilità nativa, libera, di puro istinto, che voleva sognare nella realtà e vivere le proprie passioni e le sue confessate volubilità nella poesia (è celebre per la sorridente e dolce franchezza il Discours in versi letto all'Académie il giorno del suo ingresso).
Da ciò l'interesse umano e lirico delle Fables, che parlano con la freschezza del bimbo alla matura sapienza del vecchio e trattano le miserie, le insidie, le grige esperienze della vita affettiva e sociale con lieve ritmo spirituale. C'è una duplice poesia: quella della folla umana che si agita secondo gl'istinti e le riflessioni che la pratica quotidiana suscita e affina, e quella della natura solitaria, pittoresca, sobria, che copre di colori luminosi e di ombre pudiche le azioni e i sentimenti degl'innumerevoli attori. Ogni favola è una rappresentazione conchiusa in cui si esplica un piccolo dramma e vive la sua breve esistenza un piccolo essere; ma l'uno e l'altro stanno a significare la vasta scena del mondo umano, osservato e penetrato da uno sguardo pronto, rapido, sempre sorridente d'indulgente malizia e di scaltra bonomia, senza illusioni e senza mistificazioni. E se il poeta riprende la sua arte dai favolisti antichi e recenti, la visione che egli ha della vita è personalissima, acquisita nell'esercizio immediato della realtà, con quel lirismo multisono, eppure pudico, che egli solo ne sa sprigionare. Così, al pari di Esopo e Fedro che impersonano il genere della favola nelle letterature classiche e in quella medievale, La F. rappresenta il favolista dei tempi moderni.
Ediz.: Øuvres complètes, ed. di Ch. Marty-Laveaux, nella Bibl. Elzévirienne, Parigi 1863-77, voll. 5; e nella Coll. dei Grands écriv. de la France, Parigi 1883-1893, voll. 11, a cura di H. Régnier, con biografia di P. Mesnard. Cfr. l'ediz. recente, Fables, Contes et Nouvelles, a cura di E. Pilon, R. Groos e J. . Schiffrin, Parigi 1933.
Bibl.: H. Taine, L. F. et ses fables, Parigi 1853; 23ª ed., 1922; lo studio tuttora più vivo: Ch.-A. Sainte-Beuve, Portraits littér., I; id., Lundis, VII, X XIII; F. Brunetière, in Études critiques, s. 7ª, Parigi 1880-1907; G. Lafenestre, J. L. F., Parigi 1895; Comte de Rochambeau, Bibl. des øuvres de J. de La F., Parigi 1911; É. Faguet, L. F., Parigi 1913; L. Roche, La vie di J. de L. F., Parigi 1913; G. Michaut, L. F., voll. 2, Parigi 1913-14; K. Vossler, L. F. und seien Fabelwerk, Heidelberg 1919; F. Boillot, Les impressions sensorielles chez L. F., Parigi 1926; Franc-Nohain, La vie amoureuse de J. de L. F., Parigi 1928. Cfr. anche F. Neri, Gli studi franco-italiani, ecc., Roma 1928, pp. 155-157.