La forma-codice: metamorfosi e polemiche novecentesche
La storia del diritto italiano è nata non soltanto in concomitanza cronologica con l’affermarsi del movimento risorgimentale, ma verosimilmente in forza di esso, per affermarne una ‘invenzione’ costitutiva, ossia quella «unità fondamentale della storia italiana» che veniva ancora invocata nel 1926 da Arrigo Solmi nel suo Discorso inaugurale della XV riunione della Società italiana per il progresso delle scienze, tenuto nella sala dell'Archiginnasio di Bologna (L’unità fondamentale della storia italiana, 1927).
La scelta dei temi d’indagine, dopo l’oscillazione iniziale tra approccio universalistico e diritto ‘patrio’, fu conseguente e si concentrò principalmente, a partire dal Medioevo, nella ricerca retrospettiva e accumulativa degli elementi costitutivi dell’identità nazionale, fino al punto di svolta dell’identificazione calassiana del diritto comune come «il fatto centrale e fondamentale, nella cui storia si risolve sostanzialmente quella che siamo soliti considerare come storia del diritto italiano» (Spinosa 2012, pp. 41-42). Uno spazio autonomo per lo sviluppo di una tematica specialistica che assuma a oggetto la ‘storia delle codificazioni’, dopo qualche importante anticipazione (Viora 1967), comincia ad aprirsi a partire dagli anni Sessanta (Aquarone1960; Ungari 1967; Astuti 1970-1973), e può consolidarsi soprattutto a seguito della legittimazione – che inizia a operarsi a partire dagli anni Settanta, con le riviste di riferimento: in particolare i «Materiali» di Giovanni Tarello e i «Quaderni fiorentini» di Paolo Grossi – della storia del diritto e del pensiero giuridico moderno.
Da questo momento la storiografia giuridica si fa carico in modo assai più sistematico che nelle fasi precedenti dello scavo e dell’indagine , dando luogo a una vera e propria fioritura di interventi di alto livello (Tarello 1976; Ghisalberti 1985; Padoa-Schioppa 1994; Cavanna 2001; Petronio 2002; Solimano 2003; Ferrante 2006; Cazzetta 2011). Tuttavia, come era da attendersi, e anche inevitabile, l’attenzione si concentra in prima istanza sulle codificazioni ottocentesche. La scansione temporale dell’impegno di ricerca produce come effetto collaterale, per dir così, che la ricostruzione storiografica della vicenda della codificazione italiana novecentesca resti fino a tempi recentissimi in larga parte monopolio dei giuristi di diritto positivo. Le implicazioni, anche con riferimento alla delicatezza della contestualizzazione – il rapporto codificazione/regime fascista – sono molteplici e coinvolgono, tra l’altro, la questione della continuità/rottura con la fase liberale della stessa configurazione della forma-codice.
Fin da subito si afferma, quasi ‘naturalmente’, al posto di un tentativo di restituire complessivamente lo ‘spirito del tempo’, un'interpretazione che tende a separare le ‘responsabilità’; si dà cioè per scontato, in relazione alla polemica immediatamente e variamente innestatasi alla caduta del regime sulla «abolizione o riforma dei Codici», che vada nettamente differenziata la risposta da dare alla «lunga vicenda del penale autoritario» (Sbriccoli 2009, 1° vol., pp. 37-39). Per dirla con le parole partecipi di un giurista pratico appartenente all’avvocatura,
nell'euforia fittizia del 25 luglio '43 la questione dei codici fascisti fu tra le prime poste sul tappeto. Abolirli proclamavano gli uni; riformarli suggerivano gli altri. Il guardasigilli badoglianonominò una Commissione (una delle solite...) per risolvere il problema. Su di noi del settentrione calò poi la nebbia fitta della dominazione: la linea gotica e le armate combattenti furono barriera alle comunicazioni fra i due monconi della patria martoriata, e dei codici non si seppe più nulla. Ma né la liberazione e neppure il successivo tardo ritorno ad unità di governo ci hanno portato notizie sicure al riguardo. [...] Quasi che non si trattasse di un problema fondamentale: del primo, del più urgente dei problemi che un governo – anche in attesa della costituente – doveva affrontare e risolvere.
Ma, appunto, replicando agli 'abolizionisti', in modo alla fine nettamente differenziato tra codificazione penale e civile:
È vero – come principio – che la codificazione risente del clima politico di uno Stato e di un governo e ciò soprattutto in un regime totalitario; è verissimo che le tanto deprecabili ‘relazioni’ accompagnanti i nuovi codici hanno proclamato in tutti i toni la permeazione della dottrina fascista nella legislazione; ma se si escluda il codice penale, ed il suo gemello di procedura penale, i quali, sia per la materia, sia per la paternità (Rocco) sono da considerarsi i figli primogeniti e prediletti del fascismo, gli altri codici non possono essere considerati a questa stregua. Una prima conclusione: necessità di codici penali e di proc. penale completamente rinnovati, nonostante non si possa escludere il pregio tecnico del c. penale, di avere armonizzato i principi della scuola classica con quelli della scuola positiva. E di questa necessità di rinnovazione sembra si sia reso conto il Governo col decreto legislativo 14 settembre 1944, n. 288 che inizia, art.1: "fino a quando non siano pubblicati i nuovi codici penale e di procedura penale". Ci auguriamo che l’attesa non sia lunga! (G. Nappi, Abolizione o riforma dei codici?, «Monitore dei Tribunali», s. IV, 1946, 86, 1, p. 29, col. 2).
Come sappiamo, le cose andarono molto diversamente – e già in questo testo emerge la ‘riserva’ sul «pregio tecnico» che diverrà poi un leitmotiv decisivo – , ma in ogni caso si apriva così lo spazio ermeneutico nel quale definitivamente inserire la valutazione del codice civile del 1942 . Valutazione che si innesta lungo un filone interpretativo che aveva trovato insigni rappresentanti tra alcuni dei principali giuristi partecipanti a vario titolo alla codificazione (P. Calamandrei, Sulla riforma dei codici, 1945; G. Ferri, Del codice civile, della codificazione e di altre cose meno commendevoli, 1944-1946; F. Vassalli, Motivi e caratteri della codificazione civile, 1947; S. Pugliatti, La giurisprudenza come scienza pratica, 1950), e che viene oggi ribadito, facendone emergere con chiarezza la ‘preoccupazione istitutiva’, ovvero l’esigenza di tenere in ogni modo indenne la scienza giuridica italiana dell’epoca da ogni responsabilità di tipo ‘politico’, da ogni riaffiorare del sospetto di trahison des clercs:
A cinquanta anni di distanza dai fatti di cui ci siamo brevemente occupati, osservando e valutando tutto il lavoro svolto, durante il periodo della riforma dei codici, con quella serenità e quel distacco che il tempo sempre concede, possiamo ribadire, con Pietro Rescigno, che i chierici non tradirono; che riuscirono, nonostante i tempi e le condizioni politiche, in cui si svolse il loro lavoro, a restare fedeli a quella missione di “maestri di ragione e di giustizia”, come aveva sempre auspicato Filippo Vassalli […] (G.B. Ferri 1996, p. 633).
Tale filone interpretativo introduce indubbiamente nel dibattito raffinate tecniche di analisi – fedele del resto alla celebre formulazione pugliattiana (consonante con il noto giudizio crociano sul fascismo come ‘parentesi’ nella vita della nazione) secondo la quale i ‘veri’ giuristi , i ‘giuristi-puri’, lungi dall’aderire a «una irrazionale e incontrollata apologetica, vana e monotona, che traduceva in termini diversi la retorica dei dirigenti politici», si erano trincerati in un ‘formalismo salvifico’, in «una rarefatta geometria di forme concettuali legate in un elaborato sistema, capace, almeno in apparenza, di accogliere qualsiasi contenuto», e
codesta seconda tendenza – la sola che meriti di essere presa in considerazione – consentì ai cultori della scienza giuridica di opporre una barriera formale ai reiterati e sempre più insistenti tentativi di sopraffazione da parte dei neofiti entusiasti dell’altra maniera; e nel contempo costituì una remora e un freno in ordine all’applicazione dei nuovi principi e delle nuove norme [...]. Non sembri paradossale: il primo compito che i giuristi di tale tendenza si addossarono e riuscirono ad attuare fu, rispetto al risultato finale, più importante del secondo, perché con quello si realizzava l'autodifesa della scienza giuridica, con questo si reagiva solo ad una legislazione contigente [...] (S. Pugliatti, La giurisprudenza come scienza pratica, «Rivista italiana per le scienze giuridiche», 1950, 4, pp. 50-51).
Ma tali tecniche di analisi, e il presupposto interpretativo soggiacente, che è caratterizzato da quello che è stato colto come uno strato profondo della cultura giuridica italiana dell’Ottocento, ovvero il ‘canone eclettico’ (Lacchè 2010), danno luogo a una spesso illusoria metodologia di autoimmunizzazione, in fondo improntata a una visione elitistica e aristocratizzante della separatezza della scienza, che poteva senza difficoltà accomunare sia, appunto, i rappresentanti della corrente crociana o più in generale dell'immanentismo idealistico, sia gli esponenti del ‘formalismo democratico’, spostando tutta la tenuta del discorso sul piano della contrapposizione fascismo/antifascismo (o meglio afascismo). Punto che, ai fini del discorso – e non solo perché ripropone la troppo semplicistica tesi che la «cultura fascista può ritenersi al più, o solo cultura, o solo fascismo» (cfr. G.B. Ferri 2008, pp. 37, 45) –, risulta spesso sterile.
Così, partendo da una valutazione positiva e apolitica del legame di collaborazione tra Dino Grandi e Filippo Vassalli, ritenuto vero padre del codice del 1942 (Grossi 1998; G.B. Ferri 2008), il quale «aveva un grande ascendente sul Guardasigilli, come quest'ultimo testimonia» (G.B. Ferri 1996, p. 608 nota 45); dopo aver sottolineato la paternità del libro I (contenente l’art.1, 3° co. sulle limitazioni di capacità giuridica derivanti dall’appartenenza a determinate razze con rinvio alle leggi speciali, «da cui discendeva l'insieme dei riferimenti razziali», entrato già in vigore nel luglio del 1938) ‘soltanto’ in capo all’allora guardasigilli Arrigo Solmi, si può agevolmente pervenire alla conclusione ‘minimizzante’:
Insomma le idee corporative e le idee razziste, la cui più incisiva presenza veniva da alcuni propugnata rimasero (soprattutto la normativa antisemita) una dolorosa presenza (per altro, sostanzialmente trovata da Filippo Vassalli e da suoi collaboratori), ma una presenza del tutto superficiale (G.B. Ferri 1996, p. 622).
Ma le ‘ricadute’ dei riferimenti razziali si trovano, ed è lo stesso autore a indicarle (in nota), ben al di là del libro I, e quindi non sono solo ‘trovate’ , ma anche ‘introdotte’ ex novo:
Così, ad esempio, quello contenuto nell’art. 2196 c.c., n. 1, che stabiliva come per iscriversi all’impresa si dovesse indicare anche la razza; così, l’art. 2295, n. 1 c.c., dettato in tema di società in nome collettivo, che prevedeva che nell’atto costitutivo della società si dovesse indicare anche la razza (di tenore analogo erano gli artt. 2328, n. 1, 2475, n. 1, 2518 n.1 c.c.) (G.B. Ferri 1996, p. 622, nota 79).
Siamo in sostanza sulla lunghezza d’onda che fin da subito caratterizzava la scelta di un Piero Calamandrei, quando propugnava nel 1945 una ‘disinfezione provvisoria’ o, piuttosto, di limitata ampiezza, visto che solo superficiali sarebbero stati gli innesti di regime (oltre a quelli razziali, il nostro pensava particolarmente agli artt. 145, 155, 1175 c.c., con la famosa «solidarietà corporativa», e inoltre all’art. 16 del c.p.p.), estirpabili come nocivi parassiti dell’opera legislativa.
Certamente era necessario cancellare subito dai codici alcune più repugnanti sconcezze, che, per ragioni diciamo così di decenza, non si potevano lasciare in vigore un giorno di più dopo la caduta del fascismo: alludo a tutte quelle disposizioni, isolate o facilmente isolabili, che erano state inserite alla superficie dei codici per dare ad essi il colore del regime, e che si son potute cancellare senza per questo alterare menomamente la struttura giuridica degli istituti entro i quali avevano preso stanza. Gran parte di queste disposizioni sono già state cacciate via coi provvedimenti d'urgenza dei mesi scorsi, come bestioline parassite che si estirpano con le pinzette e si buttano nella spazzatura (P. Calamandrei, Sulla riforma dei codici, 1945, in Id., Costruire la democrazia. Premesse alla Costituente, con un saggio introduttivo di P. Barile, 1995, pp. 57-58).
La risposta nell’immediatezza dei fatti degli antiabolizionisti, la defascistizzazione controllata di codici comunque mantenuti in vigore, diventano insomma il modello esplicativo retroattivo del rapporto tra scienza giuridica e regime: a una defascistizzazione del codice civile dopo la caduta del quale si accompagna ora, sviluppando lo spunto di Pugliatti, come categoria storiografica, la ‘defascistizzazione del codice civile durante i lavori di riforma’. Non è tanto importante insistere sulla tenuta di tale categoria, che viene proposta come provocazione, ancorché non paradossale, e sulla cui ‘documentabilità’ emergono dubbi già in sede di formulazione:
Desidero subito chiarire che per defascistizzazione, con riguardo al periodo di tempo indicato, io non intendo alludere ad un'attività o un impegno particolarmente eroici; intendo invece riferirmi a tutta quell’oscura e, in gran parte sconosciuta attività di contenimento dell’interferenze, nei lavori delle commissioni, da parte del potere politico. Di questa attività non abbiamo tracce evidenti, ma solo labili indizi; e, rispetto a questa attività, i ruoli dei vari protagonisti non sono ben delineati o chiariti. Mentre […] che quest’opera di contenimento vi sia stata, non appare dubbio; basta andarsi a rileggere ciò che si disse e scrisse del codice civile, dopo la caduta del fascismo, pur tra un infuriare di polemiche (G.B. Ferri 1996, pp. 610-11).
Si tratta invece di osservare come tale impostazione induca quasi necessariamente, per giustificarne il salvataggio, a minimizzare non solo gli elementi di novità dei contenuti del codice, ma anche della sua ‘forma’ o, nella migliore delle ipotesi a decontestualizzarli, reputando che ciò fu fatto ‘durante, ma non a causa’, rendendo, tra l’altro, inintelligibile la questione del corporativismo.
Anche questa mossa era già stata lucidamente anticipata nel dopo caduta del regime, se Giuseppe Ferri così poteva esprimersi nel 1945, richiamandosi a una concezione di codificazione come dichiarativa del diritto nazionale e non mero frutto della volontà politica del legislatore e di un rapporto codice/legge speciale, che si era affermata in forza di un fragile storicismo eclettico nel corso dell’Ottocento (Cazzetta 2011, pp. 37 e segg.):
A favore del mantenimento dei codici in vigore, naturalmente con i necessari ritocchi ed emendamenti, sta anzitutto che un codice non è mai creazione di un regime o di una fazione politica. Il codice è un complesso organico di principî consolidati attraverso decenni e talora attraverso secoli di esperienze, di principî cioè che solo raramente traggono alimento dall’ambiente politico nel quale i codici sono pubblicati. Tutto ciò che è contingente o immediato esula dalla materia di un codice per trovare la sua sede più adatta nella legislazione speciale (G. Ferri, La riforma dei codici, 1945, in Id., Scritti giuridici, 1° vol., 1990, p. 20).
Quello che allora in generale non viene centrato è il difficile tema del «rapporto tra intellettualità fascista e la tradizione o le tradizioni prefasciste» che non può essere risolto in via ‘analitica’, non potendosi
ridurre un’operazione culturale e ideologico politica alla somma delle sue eterogenee componenti, pena l’incomprensione della sua cifra specifica e della sua storica determinatezza e innegabile incisività (Costa 1996, p. 574).
Così, e non è un mero esempio, l’importante tematica dell’unificazione del diritto civile e commerciale, che rappresenta uno dei punti decisivi di distacco dalla tradizione codicistica liberale verso un sia pure non completato «controllo totalitario dell’economia» (Teti 1990, p. 208), non può essere ridotta a una vicenda di più o meno perplessa continuità con le prime proposte vivantiane del 1888, poi com’è noto proprio nell’ultimo periodo ritirate; né a questione «di limitata importanza perché […] si riduceva […] ad un problema di collocazione, che non poteva intaccare la sostanza delle cose» (G. Ferri, L'unificazione legislativa del codice civile e del codice di commercio, 1940, in Id., Scritti giuridici. 1° vol., 1990, pp. 16-19) – dato tra l'altro che, come ormai sappiamo, per ottenere, insieme ad altri, il 'rovesciamento politico' del Codice di commercio, Carlo Costamagna giunge a «rinunciare ad un "codice della produzione" formalmente tale» (Rondinone 2003, p. 386) –; né, tantomeno, volendo contrastare una ricostruzione 'ingenua' della vicenda dell’unificazione «impostata nel senso che l’unificazione dei codici rappresentasse una scelta corporativa e, dunque, fascista, mentre il mantenimento del sistema binario equivalesse ad una scelta anticorporativa e dunque antifascista» (G.B. Ferri 1996, p. 606), descritta riduttivamente come mera risposta di tecnica legislativa:
Vero è che, frutto di una certa ingenuità sarebbe quello di credere che l'unificazione o la separazione del diritto privato abbiano (in sé e per sé considerate) una specifica, ed univoca valenza ideologica. Le scelte di dar vita al Libro V, altro, invece, non furono (e vogliamo ribadirlo, anche alla luce dell’esperienza dei più dei cinquanta anni trascorsi), che scelte, pur se per varie ragioni, imperfette (per lo schema quasi perfetto e il contenuto non corrispondente alla perfezione dello schema) ma grandemente opportune e d’indole squisitamente tecnica (di arte legislativa più che di vita). Furono scelte che costituirono, in pratica, soltanto, una questione sostanzialmente operante sul piano della topografia legislativa, come notò Filippo Vassalli» (G.B. Ferri 1996, pp. 608-10; Caprioli 2008).
In realtà era stato proprio Vassalli tra i primi – a seguito della svolta epocale segnata dalla Prima guerra mondiale e dalla legislazione relativa, vero «corpus juris della guerra», giusta l’espressione del guardasigilli del primo governo ch’ebbe a gestirla (Vittorio Emanuele Orlando), un’«opera nel suo complesso immane, che ora ha dovuto mettersi contro le tradizioni, ora da ogni tradizione prescindere» (Teti 2011, p. 545) – a comprendere che con il ferro e con il fuoco si inaugurava un tempo nel quale il problema fondamentale era ormai quello del «governo delle grandi masse» (F. Vassalli, Motivi e caratteri della codificazione civile, 1947, in Id., Studi giuridici, 3° vol., t. 2, 1960, p. 623).
Infatti, avendo la guerra «attuato silenziosamente una grande rivoluzione», non si poteva che prendere atto che «la vita economica si va subordinando tutta interamente alla vita politica e alle finalità dei complessi politici»: di trovarsi insomma in un’epoca nella quale ormai «non sono chiari i confini fra diritto pubblico e privato», così «che non v’è istituto il quale per sua particolare natura abbia ad essere piuttosto di diritto privato che di diritto pubblico: la distinzione è puramente di diritto positivo», conformemente alle nuove esigenze dell’economia contemporanea, della quale l’elemento più caratteristico è «il crescente processo di assorbimento dell’individuo in maggiori complessi, processo che tende a sostituire rapporti economici fra associazioni ai rapporti fra individui». Lucidamente ne vengono intuiti e descritti gli svolgimenti:
Un tale processo di concentrazione, come in genere si denomina, cioè di addensamento di uomini e di funzioni, determina nuovi atteggiamenti del diritto. Per un duplice riflesso. Ai rapporti individualistici e atomistici dell’inizio del regime storico di libera concorrenza si sostituiscono rapporti fra associazioni, fra grandi organismi del lavoro e del capitale. Una vittoria del sindacalismo non potrebbe non recare una rivoluzione profonda negli ordinamenti giuridici. Nella legislazione che consideriamo si avverte, invece il moto opposto, verso il collettivismo di Stato. La formazione di complessi sistemi di imprese coordinate e gerarchizzate, mentre finisce per condizionare tutta la politica economica, eccita l’interesse dello Stato anche da un punto di vista più strettamente politico, quello della sua difesa all’interno e dal di fuori.
Fin da questa prolusione del 1919 (Della legislazione di guerra e dei nuovi confini del diritto privato), e Vassalli non arretra rispetto alle conseguenze della sua analisi – che, a nostro avviso coerentemente e ‘politicamente’, lo porteranno a diventare codificatore, nonostante, anzi portando con sé come strumento ulteriore d’innovazione, la sua non predilezione per la forma-codice intesa in senso ottocentesco (Grossi 1998) –, è dunque chiara l’insufficienza ormai radicale del modello codicistico-individualistico: «I nostri codici di diritto privato ignorano questi aspetti più recenti dell’economia capitalistica. Essi disciplinano essenzialmente rapporti che si svolgono in un’economia individualistica» (F. Vassalli, Della legislazione di guerra e dei nuovi confini del diritto privato, 1919, in Id., Studi giuridici, 2° vol., 1960, pp. 339, 341, 346, 357-58).
Una diagnosi che non lo porta molto distante dalle affermazioni di Sergio Panunzio che, discorrendo nel 1936 di Corporazioni in atto e de Il problema dei codici e i limiti della codificazione, prende le distanze dall’ideologia dei codici, sottendendo una precisa critica all’originarietà e assolutezza dello Stato (Costa 1996, p. 577), ovvero quella «dei codici perfetti, immutabili ed immortali», che recava indelebili le tracce del giusnaturalismo, del demoliberalismo ed era in sostanza eredità napoleonica (S. Panunzio, Motivi e caratteri della codificazione fascista, 1943, passim; S. Panunzio, Il fondamento giuridico del fascismo, 1987, p. 292).
Ora è innegabile che la riflessione che più da vicino riprese non solo la tematica (gerarchia, centralità del ruolo dell’impresa, concentrazione e superamento dell’ individualismo nel funzionalismo dei ruoli tecnico-sociali, ovvero nel rapporto dal basso, sociale e non classista, capitale lavoro), ma le stesse inflessioni delle considerazioni vassalliane dell’immediato dopoguerra, fu quella corporativista. Ce lo ricorda da vicino uno dei principali testimoni, come vedremo, anche del fallimento di quella prospettiva, l’ingiustamente e interessatamente squalificato come fazioso o, da Grandi stesso, come «confusionario» (Rondinone 2003, p. 598 nota 28), Lorenzo Mossa: «L’ambizione del regime per il diritto delle obbligazioni e del lavoro, per il codice dell’Economia, fu dunque di dare un ordine nuovo che assestato in Italia si imponesse come modello per altri paesi di Europa. Ambizione, anche se sproporzionata alla statura spirituale e morale dei rappresentanti del regime, non dispregevole e che perciò fu considerata anche dai giuristi liberi che guardano sempre alla sostanza delle cose e non a nomi vani» (Verità sul codice civile fascista, «Monitore dei Tribunali», s. IV, 1947, 2, 4, p. 53, col. 3).
E certamente Vassalli a quella categoria apparteneva, pur ribadendo da codificatore – visto che a lui, a Nicolò e Asquini, con l’appoggio di Grandi, fu dovuta la prevalenza dell’idea di scrivere un codice civile che nel libro V contenesse la disciplina dell’impresa, e di conseguenza la decisione dell’unificazione (Teti 1990, p. 217); e che, inoltre, il saggio sui Motivi e caratteri della codificazione civile (1947) rappresenta uno sviluppo modificato di un discorso tenuto nel maggio del 1942, pubblicato con il diverso titolo Il nuovo codice civile nel giugno 1942 – la nuova coerente impostazione, che conferma, ancora con riferimento alla guerra presente, il superamento dell’innegabile astrazione dell’individuo ‘soggetto di diritti’:
Il codice odierno, prospettando nella famiglia, nel lavoro, nell’impresa le forze motrici della vita civile, nella proprietà, nelle obbligazioni, nelle successioni i momenti della vicenda economica, mira a dare della vita stessa una disciplina integrale, nella quale i diritti subiettivi s’inseriscono come un elemento nel quadro più complesso e assumono quella figura che meglio ne rivela la riduzione a funzione. Con che siamo a veder configurata nella legge fondamentale del vivere civile una concezione del diritto soggettivo che si distacca nettamente da quella che caratterizza i codici dell’ottocento (F. Vassalli, Motivi e caratteri della codificazione civile, cit., p. 621).
La 'funzionalizzazione' dell’individuo, risulta coerente con il movimento, ben inserito nelle dinamiche intellettuali del tempo, di apertura di una via verso un diritto professionale di soggetti qualificati e disciplinati corporativamente, portatori di interessi privati, nel senso di diversi da quelli pubblici, ma in verità, come rigorosamente si esprimeva un Cesarini Sforza, «più che privati», nel senso di una appartenenza dei singoli a ‘categorie’ funzionali, cioè adatte a un ordinamento sul tipo dell’'economia regolata', costruita da «stati professionali» (Cappellini 1999, pp. 200-07):
Il Codice civile cessato e in generale i Codici dell'Ottocento presentavano ancora la disciplina dei rapporti atomistici, tra individui in regime di libera concorrenza, conforme al concetto che l'interesse generale coincida col libero esercizio dei diritti individuali e che il compito della legge sia quello di garantirne l'esercizio concorrente. Questo supposto liberale, il quale forse faceva troppo credito alle qualità degli uomini, si è comunque manifestato in pratica meno adatto alle necessità di governo di grandi masse, quali presentano gli Stati moderni, e alle necessità connesse con le tragiche competizioni degli Stati stessi nel campo dell'economia e della guerra amata. Il diritto soggettivo figura ancora nel codice: un intero libro, il sesto, ne reca nell'intitolazione la nozione, raggruppando una serie d'istituti attraverso i quali i diritti, particolarmente nei rapporti di ordine patrimoniale, conseguono il loro presidio e la realizzazione in caso di contrasto; ma lo spirito della legge è mutato. I fini ai quali l'attività umana si volge e per cui chiede protezione sono tutti minutamente valutati dal legislatore e, quando la sua previsione non basti, affidati al controllo di autorità politiche e giudiziarie; la gerarchia dei fini è fissata dalla legge o è da dedursi dai principî fondamentali della Carta del lavoro. Al criterio del bonus pater familias si affianca e si sovrappone quello dell'amministratore pubblico, del giudice, del dirigente sindacale (F. Vassalli, Il nuovo codice civile, «La nuova antologia», 1942, 77, p. 165).
Il filo conduttore che lega insieme queste valutazioni – ancora una volta non per caso connesse a una guerra mondiale e alla sua forza ‘trasvalutativa’ («Il metodo incandescente che fluirà dalla fornace di questa guerra, in cui tutti i valori umani dovranno trovare la loro revisione, saggerà le giunture di questa legge che si è apprestata nel tumulto delle armi, e ne costituirà la formidabile prova», p. 167) – deve essere tuttavia decifrato. Non è sufficiente, infatti sottolineare che la ‘lotta contro il diritto soggettivo’ non è casuale, ma necessario presupposto dell'unificazione, che sappiamo bene Vassalli rivendicherà a suo merito precipuo. In questa decifrazione ci è d’aiuto la troppo trascurata disamina, nel 1949, sulla scia di James Burnham («nella società dei managers la politica e l'economia sono fuse l'una con l'altra in modo diretto»), del regime fascista, e in particolare del suo versante corporativista – alla lunga tuttavia sconfitto dal finale predominare della componente statalista – come la 'via italiana' alla «rivoluzione dei managers», messa in campo da uno dei fondatori della sociologia italiana postbellica, ma anche, in precedenza, dei principali esponenti dello stesso corporativismo, Camillo Pellizzi. Egli infatti lucidamente notava il nesso di prosecuzione che la componente corporativista del regime aveva tematizzato:
La nostra conclusione è che la guerra moderna è già un fenomeno, almeno embrionalmente, corporativo. Prevalgono in essa i due fattori della collaborazione volonterosa e della gerarchia tecnica, che sono caratteri distintivi della società corporativa; due caratteri senza i quali tale società non è possibile (Pellizzi 1949, rist. 2009, p. 245).
Certamente il fascismo declinò questo suo nucleo in modo ambiguo e alla fine contraddittorio:
La popolarità di cui godette il fascismo in Italia, soprattutto in certe sue fasi, fu dovuta in parte ai suoi caratteri manageriali, che rispondevano all’esigenza dei tempi, ma in parte anche alla sua stessa 'debolezza' come oligarchia di managers (pp. 144-45).
Se è possibile interpretare, almeno in parte, alla luce di queste intuizioni la dialettica interna alla formazione del codice del 1942; se cioè sullo sfondo si faceva «strada in forma sempre più chiara il concetto di una vera e propria 'rivoluzione dei tecnici'», ma se, al contempo,
nell’ordinamento corporativo, quale fu consacrato dalle leggi e dalla stessa Carta del Lavoro, questo concetto risolutivo delle antinomie, del lavoro come tecnica (in tutte le forme), e della tecnica come alfa ed omega della vita organica di una società, appare tutt’al più vagamente implicito, non mai chiaramente espresso (Pellizzi 1949, rist. 2009, p. 93),
a causa della incompiutezza della correlativa rivoluzione sociale; se, dunque, è formulabile la tesi
che ci fu, per così dire, la prima metà di una vera e propria rivoluzione sociale; ma non si ebbe poi la chiarezza, la volontà, il coraggio o la possibilità, di procedere alla seconda parte. L’ordinamento corporativo fu un compromesso teorico e pratico insieme, a metà via tra la prima e la seconda parte di questa 'rivoluzione' (pp. 93-94);
se, infine, in forza di quell’abbozzo «il complesso della vita economica del paese usciva ‘sprivatizzato’» (p. 94), e quindi il nuovo ordinamento veniva ‘pubblicizzato’, restando però nell’ambito dell’«astratto dualismo, – eredità tanto dell’economia classica e liberale quanto della tradizione socialista, – fra capitale e lavoro» (pp. 95-96), in modo tale che residuava «un dualismo altrettanto astratto fra ordinamento economico corporativo da un lato e, dall’altro lato, lo stato (concretamente manifesto nelle decisioni dei massimi organi di governo, e specialmente del capo di governo medesimo)» (p. 96); se il problema , anche successivo alla sconfitta della insufficiente risposta del regime, resta «perché l’organizzazione industriale di per sé richiede un sistema gerarchico fondato sulla competenza e sulla tecnica» (p. 39); allora forse il codice del 1942 può, e potrà, essere (anche stratigraficamente, per usare diversamente una felice espressione di Severino Caprioli) letto come un (il) primo tentativo di risposta a questa tematica propriamente novecentesca.
Codice di seconda generazione, certamente, perché si stacca dal modello napoleonico, inserendo – appunto in forza dei dibattiti fra novatori e statalisti («Il ministro Guardasigilli Grandi dichiarò solennemente che “il magistrato attua il comando della legge, e la sua sensibilità politica deve portarlo talvolta oltre i limiti formali della norma giuridica per obbedire allo spirito e alla sostanza rinnovatrice della legge”», G.G. Rubbiani, Le disposizioni sulla applicazione delle leggi in generale e il diritto delle persone nel nuovo Codice civile italiano, 1940, p. XXXIII) – «al suo interno alcune norme – comunemente dette ‘clausole generali’ – che, dettando regole generali ed elastiche per la valutazione dei comportamenti umani, consentono ai giudici – come si suol dire – di correggere lo strictum ius, senza con ciò sottrarsi al vincolo costituzionale»; codice di seconda generazione, lo abbiamo visto, perché «elimina la precedente divisione di materie – comune ai principali sistemi giuridici europei – tra codice civile e codice di commercio, assorbendo i contenuti essenziali di quest’ultimo in un codice civile unificato»; ancora perché «si cimenta in uno sforzo di contemperamento (e di conseguente superamento) dei due modelli europei di codice civile, il già menzionato Code Napoléon e il BGB entrato in vigore in Germania all’inizio del secolo scorso»; e non ultimo perché «introduce norme, ignote ai suddetti modelli, suggerite dall’evolversi della realtà sociale – come il diritto al nome, il diritto all’immagine, il diritto a disporre del proprio corpo, l’inefficacia delle clausole ‘vessatorie’ non ‘specificamente approvate per scritto’ a tutela di quello che oggi va sotto il nome di ‘contraente debole’ etc. – e destinate a rappresentare una base ‘pionieristica’ per l’auspicata edificazione di un diritto europeo» (Busnelli 2004, pp. 3-10).
Ma codice che, in forza della sua vicenda genetica, e delle sue ambiguità, reca appunto anche le tracce di un'importante ‘relativizzazione’ della forma-codice rispetto al modello ‘assolutistico’ ottocentesco, che ne rafforza la novità: si può anzi dire che principalmente (nel senso di ‘consapevolmente’, di ‘inauguralmente’) per esso valga la felicissima intuizione di Paolo Ungari che vedeva, forse non per caso nei primi anni Settanta, un nesso tra «codificazione e pianificazione» (Ungari 1972, pp. 216 e segg.; cfr. di G. Ferri, Piano economico e impresa pubblica, 1963, e Statuto dell’impresa e programmazione economica, 1980).
Anche a questo proposito è presente l’oscillazione fra ‘statalismo’ e ‘corporativismo preso sul serio’ (Stolzi 2007, pp. 268 e segg.) cui accennavamo in precedenza. Così un codificatore ‘di lungo corso’, ma di esperienze culturali diverse rispetto alle vassalliane, Mariano D’Amelio (che pure, sintomaticamente, riferendosi alla trasformazione del concetto di proprietà in relazione all’attuazione della norma VII della Carta del lavoro sull’iniziativa privata come lo strumento più efficace e più utile nel campo della produzione e della norma II che riconosceva il carattere unitario del complesso della produzione, i cui obiettivi sono il benessere dei singoli e lo sviluppo della potenza nazionale, poteva ‘confessare’: «sotto questo punto di vista possiamo anche ammettere che la codificazione abbia fatto una sterzata a sinistra») chiudeva la sua conferenza del 21 marzo 1942 su La codificazione italiana e la sua evoluzione storica con una riflessione che sembrava sottolineare come prevalente la dimensione e la prospettiva statalitistico-autoritaria:
La maggiore deduzione, che si può trarre dalla disposizione di questo codice è il pericolo di morte che sovrasta il diritto privato. È proprio questa la nota di maggiore interesse che presenta l’insieme del nuovo codice di diritto civile. Chi scorre attentamente le sue disposizioni vedrà come siano scarse quelle che non siano d’ordine pubblico o di pubblico interesse. Norme derogabili vi sono, ma costituiscono piccole isole nell’oceano di norme pubblicistiche. È lo Stato autoritario che si afferma sempre di più e fissa la disciplina degli istituti. Oggi vi è quasi un’esitazione a nominare soltanto il diritto privato (Rondinone 2003, pp. 595-96).
Eppure la lettura, quasi a evidenziare un carattere ‘aperto’ o ‘relativo’ di quella forma, poteva anche avvicinarsi molto più ai toni ‘precorritori’ e ‘costituzionalistici’ delle posizioni panunziane, volte a individuare «i limiti della codificazione» rispetto al «diritto vivente» e alla plasticità tipica del diritto commerciale (la ‘commercializzazione’ vista come modello atto a «far uscire dalle maglie strette dei codici»; alludendo a quello che era, a suo avviso, il punto chiave, ovvero «al problema delle fonti del diritto e della pluralità di esse di fronte all’unicità del vecchio potere legislativo. È qui che il problema della codificazione fa uno con il problema della riforma costituzionale ossia con il problema della posizione del nuovo potere legislativo dello Stato, che è e rimane sempre uno e unitario, ma non unico, nella varia pluralità e gerarchia delle sue fonti, dai contratti collettivi, dalle norme corporative, dai decreti del Governo, dalle leggi ordinarie, fino alle leggi costituzionali che stanno in cima alla scala delle norme giuridiche», S. Panunzio, Il fondamento giuridico del fascismo, cit., pp. 296-97).
Un Vassalli infatti, che certo statalista non era (F. Vassalli, Superamento dello Stato nazionale e della sovranità statale, 1946; F. Vassalli, Estrastatualità del diritto civile, 1951) e che aveva sempre visto l’aspetto storicamente ‘negativo’ del codice (sotto questo profilo allora quasi scostato da sé con distacco: «È che poi io non riguardo il codice gran che di più – per tante materie – che un mediocre trattato o una silloge di massime») nel fatto di aver sottratto un ruolo attivo alla scienza giuridica, ponendo del tutto il diritto civile nelle mani dello Stato, proprio questo Vassalli leggeva (perché riteneva di aver ‘costruito’) il codice del 1942 come codice ‘complementare’, come codice ‘aperto’ che abbandonava la pretesa giusnaturalistica di completezza, che allargava le sue maglie, appunto, senza l’arroganza di chiudervi tutto il diritto civile. Un codice di ‘complementarità multiple ’ – e non è un caso che la sua più celebre, perché definitiva, formulazione sia immediatamente preceduta dall’affermazione di una connessa (rivoluzionaria?) complementarità («È chiaro che nel nuovo quadro della politica economica il diritto patrimoniale dei privati assume una funzione del tutto complementare rispetto al regolamento amministrativo o corporativo dell'economia») –:
Né, del resto, è dal codice civile che si può desumere la visione integrale di un dato ordinamento. Il codice civile, come sanno lo storico e il sociologo, difficilmente dà l’immagine esatta dell’ordinamento della società politica nella quale vige: più spesso rappresenta un mondo ch'è stato o un mondo com'è prospettato o desiderato. Lo studioso dell’aspetto politico deve considerare le norme del codice nel quadro di tutte le norme, spesso assai più importanti nella vita, che sono al di fuori di esso e dentro le quali o subordinatamente alle quali le norme del codice devono trovare la loro applicazione. Le norme del codice, malgrado il prestigio della presentazione, sono più spesso – e soprattutto quelle che hanno attinenza con l'attività economica – delle norme complementari (F. Vassalli, Motivi e caratteri della codificazione civile, 1947, in Id., Studi giuridici, 3° vol., t. 2, 1960, pp. 622-23).
Gli anni Sessanta e Settanta proporranno, nell’approfondimento di tematiche talora espresse, talora implicite nei dibattiti precedenti, rinnovate letture in prospettiva costituzionale del (stavolta ascarelliano) diritto vivente, e, soprattutto con Stefano Rodotà e Natalino Irti, la codificazione per principi e la ridefinizione del rapporto codice/leggi speciali che va sotto l’onomaturgia, appunto irtiana, di ‘decodificazione’ (Irti 1979). Poi i fasti della globalizzazione ci presentano sempre nuove figure di pretese ‘ricodificazioni’, che spesso nascono dall’esigenza di un recupero del valore simbolico della forma-codice, che spesso non trova conforto nelle varie forme di codificazione a diritto costante o di settore (Cappellini 2010; Rodotà 2002). Ma qui sarebbe necessaria maggiore consapevolezza dell’anfibologia della terminologia presa a prestito (Grossi 2005). In attesa forse che l’Europa decida di costituirsi: con o senza codice (Legrand 1997; G.B. Ferri 2008; Macario, Lo Buono 2010); ma, almeno, pienamente con sé stessa.
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