Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
L’attore teatrale del Novecento fonda il senso della propria identità artistica e della propria pratica nel contesto di una profonda revisione del concetto di mimesi o di rappresentazione, indotto dallo sviluppo delle nuove scienze (in particolare la psicanalisi) e delle nuove arti (il cinema). Al canone tradizionale, centrato sull’interpretazione e sull’incarnazione del personaggio e dei suoi affetti, si oppone l’idea della costruzione del personaggio e, implicitamente o esplicitamente, il riconoscimento della qualità essenzialmente compositiva e fittizia di ogni identità scenica. Il lavoro dell’attore si lega così a un percorso di esperienza che attinge a pratiche e saperi diversi, teatrali e non teatrali, non necessariamente finalizzati a un risultato estetico compiuto quanto piuttosto a un ideale di formazione dell’individuo attore come soggetto umano.
Eleonora Duse, Loie Fuller e la demistificazione del personaggio di Ubu Re
Visto dalla parte dell’attore, il Novecento teatrale è un secolo lungo. Ancor prima infatti che la regia teorizzi esplicitamente l’autonomia della messinscena come principio estetico, alcuni originali artisti annunciano la rivoluzione teatrale a venire. Serve qui ricordare due donne e una marionetta: Eleonora Duse, ultima attrice della grande tradizione italiana e insieme prima attrice del nuovo secolo, e Loie Fuller, danzatrice che può essere considerata una vera performer. La Fuller, americana, inventa un tipo di spettacolo con forti aspetti di ritualità e basato sulla metamorfosi in scena: danzando assume forme mutevoli, grazie all’artificio di un elaborato costume e al sapiente uso delle fonti luminose. È la prima a mostrare davvero come la nuova tecnologia elettrica cambierà il lavoro in teatro e condizionato la percezione del corpo dell’attore in scena. Infine la marionetta è Ubu Re, partorito nel 1888 dalla fantasia ancora pericolosamente infantile di alcuni liceali, e assurto a forma letteraria grazie a uno di loro, Alfred Jarry. Ubu rappresenta il preannuncio di quella demistificazione del personaggio, da identità poetico-letteraria a maschera o marionetta, che attraverserà l’esperienza del teatro contemporaneo.
La rivoluzione del Novecento teatrale, preannunciata da Nietzsche nella Nascita della Tragedia (1872), consiste nell’affermazione paradossale della natura antirappresentativa del teatro: con essa, la scena viene sottratta al compito di mimesi della realtà di cui l’aveva investita la cultura borghese a partire dal Settecento. L’arte della Duse, frutto della sua complessa personalità artistica e umana, è governata da un criterio di composizione: nel testo della parte ella crea dei vuoti, delle sospensioni, delle ripetizioni, che squarciano il velo della rappresentazione e illuminano in scena la vita reale dell’io-personaggio. Se la Duse fa violenza all’unità letteraria del personaggio, componendolo secondo le pieghe più nascoste del proprio io, senza per questo assimilarlo a sé, Loie Fuller e Ubu/Jarry sono anch’essi portatori di mutazioni profonde che investono il soggetto attorico: la prima riducendo il proprio io-corpo a forma di pura scrittura scenica, il secondo abbandonando il personaggio a un io informe e pulsionale, e amplificandone il destino scatologico.
Alla luce di questi destini di "attori" si potrebbe leggere l’intera storia della regia del Novecento, e con essa l’affermazione del regista quale figura dominante, come un ritorno in gloria al governo del soggetto pensante: la scrittura scenica della regia avrebbe catturato, rendendoli, se non innocui, socialmente comunicabili gli elementi di regressione o le vere e proprie derive verso quella corporeità pulsionale e afasica emersa nelle esperienze più trasgressive di fine secolo. Non a caso, il concetto di regressione faceva la sua comparsa proprio nel 1900 con L’interpretazione dei sogni di Freud. Insomma il teatro di regia potrebbe apparire, al pari della psicanalisi e del sogno, come uno scenario immaginario in cui riposizionare, ricomporre, o semplicemente studiare e comprendere un’identità soggettiva altrimenti inafferrabile, o almeno fortemente inquietante.
Di fatto nell’orizzonte della regia, prima, e nella successiva elaborazione del pensiero postregistico, questa identità impossibile ha percorso e caratterizzato la cultura teatrale novecentesca. La Duse, la Loie e Ubu/Jarry hanno avuto diversi eredi, sia in singole personalità artistiche di allievi più o meno dichiarati – alla Duse si possono far risalire direttamente o indirettamente gli eccentrici del teatro di prosa italiano del XX secolo, come Memo Benassi e Carmelo Bene –, sia nell’ambito delle avanguardie che perseguono in varie forme la metamorfosi del corpo, e infine in ogni periodica effrazione, sempre violentemente antimetafisica, prodotta da pratiche attoriali individuali e di gruppo, che hanno esplorato i confini della rappresentazione – Artaud con il suo Teatro Alfred Jarry e poi con il Teatro della Crudeltà, negli anni dal 1926 al 1935, il Living Theatre o, per restare in Italia, ancora Carmelo Bene e Leo de Berardinis, negli anni Sessanta, e più recentemente gli ex Magazzini Criminali.
Con gli anni Settanta, in un contesto di riemergenza del teatro d’attore o del teatro di gruppo e di creazione collettiva, la scena è tornata a essere quell’area di rischio e di crudeltà in cui rimettere in gioco l’unità e l’integrità del proprio io. Il corpo dell’attore ipervisibile e frammentario, il corpo confrontato alla propria opacità e iscritto nello spazio aperto della nuova tecnologia multimediale, quello parlato dal disagio psichico o dall’emarginazione, o quello ostentato nella sua materialità carnale e vivente come recesso misterioso di una identità eteronoma, abitano la scena della nuova regia di fine secolo in esperienze che vanno da Wilson a Kantor, e per l’Italia dalla Compagnia della Fortezza alla Socìetas Raffaello Sanzio o a Pippo Delbono. Ciò non starebbe a dimostrare che la scrittura scenica può fare a meno di un pensiero registico ma indicherebbe piuttosto che questo pensiero ha accettato la sfida del corpo parlante, aprendosi al rischio di costituire per esso uno spazio socialmente significante senza ricomporlo in una identità scenica fittizia.
L’attore fra ritualità e scientismo
Esplorando il terreno dell’attore novecentesco vediamo che esso è stato attraversato da una pluralità di saperi (talvolta, di vere e proprie scienze) e di pratiche altre dal teatro. Si può anzi affermare, assieme ai teorici della performance come Richard Schechner, che la categoria teatro nella sua forma storica-moderna-occidentale sia largamente insufficiente e dovrebbe essere dilatata per rendere conto di tutte le trasformazioni avvenute nel corso del secolo passato.
Si è già accennato alla scoperta freudiana della psicologia del profondo: questa è stata la prima e la più radicalmente nuova delle scienze che hanno allargato l’esperienza dell’attore contemporaneo. A essa si deve aggiungere la scienza antropologica nata alla fine dell’Ottocento, la quale, riconoscendo l’esistenza di una cultura primitiva, si dedica a studiare l’organizzazione delle società non civilizzate. Il teatro occidentale aveva da tempo familiarità con pratiche magico-rituali e uso delle maschere, e questo interesse era stato rinnovato tramite il primitivismo diffusosi come gusto estetico nelle arti figurative e nella scena (in specie nel balletto) di inizio secolo. I riti di possessione con i loro aspetti teatrali, il mana e le tecniche psicocorporee della trance, aprono invece nuovi orizzonti nell’immaginario di molti uomini di teatro, a cominciare da Antonin Artaud, che nel 1936 compì un viaggio in Messico alla scoperta dei riti del peyotl, praticati dagli indiani Tarahumara.
Più tardi, negli Stati Uniti degli anni Sessanta, la performance ha riproposto in chiave contemporanea la contrapposizione tra rituale e teatro, attribuendo al primo il valore di una creazione efficace dal punto di vista simbolico e collettivo, all’altro l’obiettivo dell’intrattenimento legato alla creatività dei soli attori. Il più celebre dei gruppi americani di quegli anni, il Living Theatre di Julian Beck e Judith Malina, nelle sue creazioni collettive ispirate a un ideale di rivoluzione anarchica e non-violenta (vedi, in particolare, Paradise Now, 1968), assunse le pratiche rituali come lievito di una identità gruppale e dionisiaca, con lo scopo di coinvolgere attori e spettatori all’unisono. Ma anche nell’esperienza degli attori di Jerzy Grotowski, o ancor prima in quelle condotte dal geniale e isolato Alessandro Fersen, lo studio della trance ebbe una parte importante per la comprensione dei limiti fisici e psichici dell’attore.
Di possessione in senso antropologico-rituale si è parlato anche a proposito dell’arte scenica di Carmelo Bene. La figura dell’antropologo come mediatore della conoscenza e delle testimonianze dell’altro è stata assunta dagli attori di Peter Brook che furono gli Iks nell’omonimo spettacolo del 1975. Eugenio Barba e gli attori dell’Odin Teatret, portando il loro lavoro tra i pastori della Barbagia e poi in Salento (1974), si ispirarono invece ad alcune forme di scambio studiate da Mauss e Malinowski. Barba ha poi successivamente sviluppato con l’ISTA (International School of Theatre Anthropology, fondata nel 1979) il contesto della pratica multiculturale (cross-cultural) dell’attore. L’antropologia teatrale (non una scienza, ma un insieme di saperi utili all’attore) ricerca le tecniche extra-quotidiane e le basi pre-espressive, comuni a culture diverse, che regolano il comportamento dell’attore sulla scena; esse definiscono una fisiologia dell’attore contrapposta alla psicotecnica tradizionale, centrata sul concetto di interpretazione, sulla sfera psicologica e sul rapporto con il personaggio.
Ancora un’altra scienza, la pedagogia moderna, è stata messa a profitto: il gioco infantile, come esperienza creativa e fondante per il soggetto umano, è all’origine della formazione dell’attore secondo Jacques Copeau e Suzanne Bing nella Scuola del Vieux-Colombier. Terreni di sperimentazione pedagogica rilevanti per l’attore sono, in particolare, la pratica del rapporto ludico con qualunque tipo di oggetto o di accessorio, lo studio della mimica e del movimento infantile nel gioco, la risposta infantile alle sollecitazioni ritmiche e musicali, a partire dalla ginnastica ritmica, introdotta agli inizi del secolo dal musicista e pedagogo ginevrino Émile Jaques-Dalcroze.
Il pensiero dei pionieri della moderna cultura del corpo è stato trasversale a vari metodi di formazione: oltre al citato Dalcroze, si devono ricordare il precursore François Delsarte, con la sua filosofia del movimento, e l’ungherese Rudolf Laban, creatore della danza libera moderna. Le moderne teorie scientifiche del movimento e le pratiche fisiche altre dal teatro, come lo sport (dalla scherma, già ammessa nella formazione tradizionale, alla corsa o alla boxe), l’acrobatica, il gioco regolato e la ginnastica moderna, sono state utilizzate per l’allenamento psico-fisico dell’attore. Particolarmente scientista è l’approccio del più inventivo tra gli attori-registi della Russia rivoluzionaria, Vsevolod E. Mejerchol’d: negli anni Venti egli applica anche al teatro i moduli del costruttivismo, elaborando i principi e gli esercizi di una pedagogia teatrale, la Biomeccanica, ispirata al mondo della produzione industriale. L’attore ginnasta, che manovra con ritmo meccanico e con intelligenza plastica i "congegni" del proprio corpo addestrato, deve sostituire l’attore dell’interiorità, la cui arte è inquinata dal bisogno di interpretare e di incarnarsi.
Anche Brecht, alla metà degli anni Venti, comincia a interessarsi allo spettacolo sportivo e nel 1926 pubblica un celebre articolo il cui titolo rappresenta già un programma di teatro epico: Come applicare al teatro i principi di una buona gara sportiva (1926). Queste pratiche psicofisiche non solo rispondono alla necessità di creare per l’attore un corpo libero dalle tensioni e consenziente all’attività creativa, ma addirittura, come nella Biomeccanica di Mejerchol’d, nelle ricerche della scuola di Copeau, nella "pantomima non pervertita" teorizzata da Artaud, o nel mimo corporeo di Decroux, forniscono le basi di una lingua teatrale nuova, in cui l’espressione visibile e corporea (corpo, gesto, movimento, ritmo) sia parola essa stessa, non rappresentazione di altro da sé (pensiero o affetto).
Non irrilevante, in questa ottica dell’attore come corifeo della necessaria ricongiunzione corpo-mente, il portato delle discipline esoteriche. L’occultismo, l’alchimia, i Rosacroce, la gnosi o la cabbala, filtrati dalla cultura romantica e simbolista, si diffusero in teatro attraverso mistici, decadenti, teosofi, in quel periodo di anarchia estetica e di pensiero sintetico che preparò le avanguardie novecentesche. Anche l’antroposofia di Rudolf Steiner e lo spiritualismo di Georges Ivanovič Gurdjieff hanno innervato il pensiero di molti ricercatori, registi o attori, del teatro contemporaneo, a cominciare da Antonin Artaud fino a Brook e a Grotowski.
La nuova scienza attoriale di Craig e le fascinazioni orientali nel teatro del Novecento
Edward Gordon Craig per primo ha aperto la formazione dell’attore del Novecento alla sintesi di tradizioni e di saperi diversi. Sin dal 1905, con la pubblicazione del saggio L’arte del teatro, egli ha messo in campo una affermazione della cui radicalità il Novecento teatrale gli è debitore: l’assoluta preminenza della scrittura scenica e del processo artistico che ne è a fondamento, e insieme la fine di ogni compromesso con i concetti di rappresentazione e di interpretazione, così come il teatro borghese li aveva intesi. Craig finirà poi con l’estromettere l’attore in carne e ossa da questa scena liberata dalla mimesi e aperta al gioco dell’immaginario, considerando il corpo, il viso e la voce umani come materiali votati a una imitazione al contempo servile e imprecisa; e all’attore opporrà la perfezione dinamica della marionetta (si veda il celebre saggio L’attore e la super-marionetta, del 1908). Con le sue tesi estreme, Craig ha creato la frattura epistemologica necessaria alla nascita e allo sviluppo di una scienza attoriale completamente nuova, quella che lui stesso non è stato in pratica capace di costruire pur avendola resa possibile, e ha aperto un inesplorato terreno di sperimentazione e di recupero delle tradizioni e dei linguaggi.
Culture teatrali lontane nel tempo e nello spazio sono state infatti messe a profitto nella formazione dell’attore contemporaneo. Gli studi sul teatro Nō, che vedono la luce agli inizi del secolo, grazie a Fenollosa e a Pound, sono alla base delle prime esplorazioni sul Nō di Craig, di Yeats e di Copeau. I viaggi di attori e danzatori orientali in Occidente permettono contatti "folgoranti" in vari contesti. Si pensi alle tournée mondiali della troupe giapponese di Sada Yacco e della danzatrice giapponese Hanako, organizzate da Loie Fuller. Non si tratta certo di una proposta filologica di generi antichi (Nō o Kabuki), ma i loro spettacoli suscitano nondimeno ovunque un’impressione intensa e servono a imporre all’attenzione una cultura teatrale diversa. Di altro tipo sono le influenze provenienti da veri attori o danzatori di tradizione. Si può ricordare lo choc di Artaud quando vede le danze balinesi, all’Esposizione Coloniale parigina del 1931. Agli spettacoli moscoviti della troupe Kabuki diretta da Ichikawa Sadanji nel 1928 e dell’attore cinese Mei Lanfang, assistono Stanislavskij, Mejerchol’d, Tairov, Ejzenstejn e Brecht. Ne traggono materiali di lavoro e spunti teorici che poi rielaboreranno a vari livelli. Mei Lanfang dà diversi saggi della sua arte, fatta di canto, danza, acrobazia, interpretazione di ruoli femminili. Brecht viene fortemente impressionato da quel mestiere che sapeva riunire in sé "spontaneità e astratta precisione" e vi si ispira per il concetto di straniamento.
I teatri orientali, nel loro insieme, impongono all’attenzione un teatro di danza, in cui l’energia, il fascino e il mestiere dell’attore sono essenziali, e in cui il costume rappresenta una sorta di secondo corpo immaginario e insieme una scenografia, mentre la scenografia vera e propria, nel senso diffuso in Occidente, come ambientazione referenziale dell’azione drammatica, è inesistente. Fortissima è la loro influenza anche nelle pratiche di training adottate a partire dagli anni Settanta, sia come suggello di composizioni fascinose e spettacolari – al Théâtre du Soleil di Ariane Mnouchkine –, sia nella definizione del profilo antropologico e filosofico dell’attore. Vi è poi da considerare l’apporto diretto che alle esperienze occidentali hanno dato negli ultimi anni del Novecento personalità di attori/danzatori come i giapponesi Yoshi Oida e Kazuo Ohno.
La Commedia dell’Arte ha contribuito alla cultura dell’attore novecentesco attraverso due importanti pratiche di drammaturgia e di training d’attore: l’improvvisazione e l’uso della maschera. Queste tecniche sono state riprese nell’ambito di esperienze estremamente innovative: sia come lavoro di gruppo (ad esempio, i Copiaus dal 1925 al 1929, e la troupe di Mnouchkine con l’Age d’Or, 1975), sia come percorso individuale di attori d’eccezione. Si devono ricordare almeno lo straordinario Marcello Moretti, nello strehleriano Arlecchino servitore di due padroni (1947), e la geniale ricreazione dell’Arte che Dario Fo ha portato in tutto il mondo. Moretti, attore tendenzialmente interiorizzato e di composizione, conferisce "allo schema della maschera un che di primitivo e patetico che arricchiva di nuove risonanze segrete la storia consunta del personaggio" (Strehler); Fo, mimo straordinario, creatore di una sintesi attorica sapiente e raffinata, ha saputo ritrovare l’energia e la precisione dell’antica lingua dei comici basata sulla unità corpo-mente. Negli anni Settanta la tradizione dell’Arte è stata assimilata dai gruppi teatrali grazie a personalità di pedagoghi come l’Arlecchino Ferruccio Soleri e la famiglia dei Sartori, artisti e artigiani delle maschere. E infine, a riprova della versatilità e della universalità antropologica dell’Arte che il Novecento teatrale ha scoperto e valorizzato, si deve citare l’Arlecchino nero del ravennate Teatro delle Albe, creazione di Mor Awa Niang nel 1993.
L’attore protagonista nella commistione dei generi
Anche altre forme spettacolari sono entrate nella ricerca e nella pratica teatrale, sia perché forgiavano l’attore alla costrizione formale di precisi codici espressivi, sia per il gusto spiccato che la regia ha in generale coltivato per il teatro teatrale. Il riferimento è qui ai generi cosiddetti minori quali il teatro popolare e dialettale, il mimo o la pantomima, il cabaret o il varietà, l’operetta, l’avanspettacolo, la rivista o il music-hall, ma anche a forme spettacolari diverse, reinventate radicalmente nel XX secolo, come il balletto e la danza, o elaborate e divenute popolarissime nel corso dell’Ottocento quali il circo. Uomini e donne di teatro italiani, e non certo fra i meno importanti del Novecento – Ettore Petrolini, Eduardo De Filippo, Totò, Dario Fo e Franca Rame, Franca Valeri e, più recentemente i cosiddetti "nuovi comici", a partire dagli anni Settanta –, si sono formati nel grande serbatoio culturale del teatro dialettale e dei generi minori. In generale, la sintesi dei saperi teatrali e il recupero creativo di antiche tradizioni e tecniche spettacolari sono stati, in Italia, più l’opera di questi attori di genio che dei registi.
Diverso è stato il modo in cui le avanguardie novecentesche (compresi i futuristi italiani) e la regia teatrale, europea e internazionalizzata, hanno invece praticato la scienza della convenzione teatrale e manipolato il sincretismo o piuttosto la sintesi o il dialogismo dei vari linguaggi, associandoli all’idea di un attore costruito nel laboratorio degli esperimenti scenici, degli studi e delle scuole – si pensi alla sintesi di Mejerchol’d con il suo teatro della convenzione, al sincretismo di un Bragaglia o di un Tairov, o all’eclettismo di Brecht drammaturgo e regista.
Il mitico Charlie Chaplin, transitato magicamente dai generi minori al cinema, ha rappresentato un esempio straordinario di sintesi delle arti teatrali e spettacolari: pantomima, mimo, melodramma, music-hall, danza, circo. In questa veste di attore translinguistico è stato esaltato sia dalle avanguardie artistiche – Charlot è l’eroe del poema Dieiade, 1920, di Yvan Goll (1891-1950), della poesia Cinecontagio, 1923, di Majakovskij, del Ballet Mécanique di Léger, 1925 –, che dai padri fondatori della regia – Craig e Copeau – e da registi attori e mimi come Jean-Louis Barrault.
Le istituzioni per la formazione dell’attore
La regia diventa con Craig, e lo resterà per molti decenni, con poche e significative voci dissonanti, il luogo scientifico e l’istituzione in cui elaborare i nuovi saperi del teatro, e in cui riattivare il serbatoio vitale di memoria e tradizione. È stata la fondazione di questo luogo scientifico che ha permesso a molti uomini di teatro del Novecento, spesso attori loro stessi, di definirsi registi e di assumere una responsabilità di guida spirituale, di pedagogia attiva e di leadership nei confronti di altri attori. A partire dal 1912, anno di fondazione del Primo Studio di Konstantin Stanislavskij e di Leopol’d Sulerzickij, scuole e laboratori si sono succeduti non solo come luoghi di formazione per nuovi attori ma soprattutto come luoghi di generazione dell’attore nuovo, in una visione che, prendendo le distanze dallo spettacolo come prodotto, si concentra sul processo creativo individuale e collettivo di crescita verso lo spettacolo e sulle sue ricadute etiche.
La scuola di Craig, fondata a Firenze nel 1913 resta poco più di un progetto e viene chiusa durante la guerra. Contemporanea è la scuola in cui confluiscono i saperi di Adolphe Appia e di Jaques-Dalcroze, aperta nel 1911 a Hellerau e poi trasferita a Ginevra durante la guerra. Di poco successiva la celebre scuola di Copeau presso il Théâtre du Vieux Colombier (1920-1924), culla di una lunga e fortunata progenie di registi pedagoghi – da Michel Saint-Denis al nostro Orazio Costa –, di registi, attori e mimi – Jean Dasté, Étienne Decroux, Jacques Lecoq –, e modello per molte istituzioni – non ultimi la nostra Accademia d’Arte Drammatica, creata da Silvio D’Amico nel 1935, e il Piccolo Teatro di Milano, fondato da Paolo Grassi e Giorgio Strehler nel 1947, con la scuola dove insegnarono Decroux e Lecoq. Ma già nel 1913 la compagnia di Copeau è stato il primo nucleo dell’attività pedagogica: da essa partono due grandi attori che in quella compagnia erano cresciuti, per seguire a loro volta una vocazione di registi e pedagoghi – Louis Jouvet, che rifonda la tradizione di insegnamento al Conservatoire National d’Art Dramatique di Parigi, e Charles Dullin che nel suo teatro-scuola dell’Atelier fu maestro di Artaud, di Barrault e di Marcel Marceau.
La lunga scia di pratiche e di istituzioni pedagogiche che a Stanislavskij si ispirano non si esaurisce nella pur gloriosa vicenda del teatro di ricerca russo (il Secondo Studio di Mosca, lo Studio Vachtangov, lo Studio Cechov). Il cosiddetto sistema Stanislavskij ha costituito il principale riferimento per la formazione dell’attore nella cultura teatrale occidentale del Novecento: esso è stato adottato negli Istituti teatrali nell’ex URSS e nell’ex blocco sovietico, in Europa e negli Stati Uniti. Nel celebre Actors Studio creato a New York nel 1947, e dal 1950 diretto da Lee Strasberg al cui nome resta associato, si formano personalità d’eccezione che dal teatro rapidamente approdano al cinema, tra gli altri, Marlon Brando e James Dean.
Per Stanislavskij il lavoro dell’attore è lavoro creativo (artigianato e arte insieme): basandosi sull’intuizione e sull’immaginazione dell’attore, il regista-pedagogo enfatizza in un primo tempo le funzioni della concentrazione e della memoria emotiva, per approdare in seguito alla individuazione e alla messa a punto di una complessa tecnica psicofisica (il metodo delle azioni fisiche). Grazie a questo metodo, l’attore sviluppa insieme la linea spirituale e la linea fisica della parte e fa emergere il suo stato creativo al controllo della volontà cosciente, a quella condizione di piena assunzione a se stesso e al personaggio che si definisce come l’io sono: “Dove c’è l’io sono, c’è la natura e il suo inconscio”. Così Stanislavskij scriveva nel 1937, quando il suo lungo e tormentato itinerario di ricerca poteva dirsi compiuto.
L’arte del teatro pretende, a giusto titolo, di riprogettare il principium individuationis, non tanto quello riconoscibile dell’attore restituito al personaggio teatrale, quanto quello più difficilmente conoscibile del soggetto umano che si fa attore. L’attore, identità che inizialmente conosce se stessa per niente o appena, approda al riconoscimento e allo sviluppo della propria unità psicofisica. Questo processo creativo investe e condiziona tutta la realtà esteriore: l’insieme dei significanti (azioni e parole) che l’attore produce in relazione al lavoro scenico, le relazioni interpersonali umane e affettive che lo legano a chi lo circonda (il gruppo degli attori e il pubblico), l’agire teatrale nel suo insieme (l’azione reale iscritta nella finzione), la rete delle relazioni spaziali in cui il lavoro dell’attore avviene (condizionata dal luogo prescelto o assegnato o anche semplicemente trovato).
Da questa prospettiva sul soggetto attore si deduce anche che tutto ciò che riguarda la forma esterna di uno spettacolo (scenari, costumi, attrezzature e accessori) ha diritto di entrata nello spazio della rappresentazione solo in quanto promuove la creatività dell’attore e l’espressione necessaria della sua azione in scena. La via alla povertà della scena, al niente di superfluo se non ciò che serve all’attore, era già stato il principio di Copeau (che limitava addirittura il "diritto di entrata" dell’accessorio); sulla scorta del metodo di Stanislavskij, Grotowski ne farà il cardine del suo teatro povero, trasmettendone il senso a gran parte delle esperienze successive (da Brook all’Odin, a molte altre).
L’attore senza maschera
La formazione dell’attore indipendente dagli spettacoli e vista come crescita individuale nel processo creativo, che investe le relazioni tra individui, all’interno del gruppo teatrale, e all’esterno nei confronti degli spettatori, viene enormemente sviluppata da Jerzy Grotowski nel laboratorio teatrale di Wroclaw nel corso degli anni Sessanta. Il concetto e la pratica di un training, come preparazione fisica al mestiere ma anche come crescita personale dell’attore oltre il livello professionale, si diffonde grazie a lui rapidamente in tutte le esperienze delle avanguardie teatrali successive. Nel pensiero e nel lavoro di Grotowski ha trovato infatti la sua espressione più alta, e pressoché assoluta, la centralità dell’attore affermata da Stanislavskij. Si tratta in un certo senso di una espressione definitiva perché essa ha siglato il percorso dell’attore novecentesco nel teatro di regia con due spettacoli memorabili, Il principe costante (1965) e Apocalypsis cum figuris (1968), dopo i quali quel percorso apparve epistemologicamente chiuso: la scienza del teatro di regia aveva dato all’attore tutto quello che poteva dargli e lo stava già traghettando verso altri territori (il Teatro delle Fonti e poi l’Arte come veicolo, dello stesso Grotowski, e l’Antropologia Teatrale di Barba).
Il protagonista di quelle due memorabili esperienze è Ryszard Cieslak, che più di ogni altro ha rappresentato l’attore Icaro del Novecento in tutte le sue forme più alte: la trasparenza dell’io creativo (Stanislavskij), l’ombra e l’icona (la black figure della scena modello di Craig), l’eroe sacrificale di Artaud e l’attore santo di Grotowski. È infatti un attore che riunisce in sé i due principi, quello dell’estremo rigore e quello del dono in sé (o del dono di sé all’altro), la tecnica e il mistero della vita. Le ultime tre grandi incarnazioni di Cieslak, il martire che rifiuta di sottomersi alle leggi che non accetta (il Principe), l’idiota del villaggio confuso ed enigmatico (l’Oscuro di Apocalypsis), il vecchio Re cieco e disorientato che i figli hanno rovinato (Dhritarashtra nel Mahabharata di Brook, 1985) sono tutte attraversate dalle metafore della cecità e dell’esclusione. Si possono leggere sia come passaggio fuori del teatro-rappresentazione, sia come contrappasso dell’illuminazione cui l’Attore-Icaro si era esposto, o anche come amplificazione vertiginosa della vista interiore. Non è certo un caso che Pasolini abbia chiamato un altro grande Icaro del Novecento teatrale, Julian Beck, a interpretare il vecchio re cieco nel suo film Edipo Re (1967). Il pubblico, che alla fine dell’Ottocento aveva trovato in Ubu il suo ignobile e scatologico doppio, aveva ora davanti a sé l’attore senza maschera ma nella cui visione non poteva più rispecchiarsi, il simbolo stesso delle speranze che si andavano bruciando nell’ultimo ventennio del "secolo breve" (1914-1991) e l’emblema della massima distanza tra la visione dell’attore e quella dello spettatore.