La formazione dello stato patrizio
In molte zone dell'Europa fra Medioevo e Rinascimento quasi ogni città di una certa rilevanza costituì un insieme complesso e globale. Ciò fu particolarmente vero per quei centri che riuscirono ad affermare e preservare sufficientemente la loro autonomia: tanto più quando quest'ultima si rivelò una vera e propria indipendenza. A tali constatazioni non rispondono praticamente ed effettualmente neppure oggi i modi in cui si realizzano le capacità conoscitive e di analisi. Allargati ed approfonditi sempre più i vari campi del sapere, soprattutto quando appunto si tratta di fornire una visione organica su vasta scala, non si può far a meno di ricorrere ai rispettivi specialisti, ciascuno dei quali offre uno spaccato della complessiva vita urbana.
Simili considerazioni, confortate ormai da una prassi pressoché generale, potrebbero suonare superflue se il caso veneziano non presentasse delle esigenze contrastanti. Per numerosi e validi motivi la comprensione della città lagunare impone infatti un esame convergente ed articolato dei suoi diversi aspetti. Essa rappresentò infatti il fulcro ed il motore di attività certo molteplici ma fortemente coordinate e saldate fra loro. Nondimeno i curatori di questo volume si possono lusingare di non proporre soltanto una silloge di contributi contrapposti e nel migliore dei casi paralleli, bensì fra loro coerentemente coordinati. Il lettore ne usufruirà certo separatamente con profitto, ma non potrà avvicinarsi davvero agli intimi congegni della vita veneziana se non con una lettura dialetticamente integrata.
Questo non significa che i saggi compresi qui dicano l'ultima parola su tutti gli aspetti di questa singolare compagine urbana ed a suo modo statale: tanto meno che vi sia stato affrontato in modo esauriente ogni argomento possibile. È stata innanzitutto salvaguardata l'esigenza di uno dei caratteri più vistosi, ma non per questo meno reali, di questa comunità umana: quello della lunga durata. Anche se con maggiore o minore intensità e larghezza da un contributo all'altro, pressoché tutti gli autori hanno tenuto presente gli antecedenti di quanto stavano trattando: in più di un caso hanno indicato altresì gli approdi o i prolungamenti degli sviluppi o dei processi che analizzavano. Per quanto cioè il presente volume sia dedicato al secolo XIV, molto felicemente esso non suggerisce e tanto meno accentua uno stacco fra i fenomeni che esso tratta e quelli che li hanno preceduti o seguiti. È ormai più che largo e radicato il convincimento che, in primo luogo tra Medioevo ed Età moderna, praticamente non esistano nell'Europa centro-occidentale periodi che non veicolino ampiamente forme di vita e di organizzazione non precedentemente affermate o almeno assai nettamente accennate.
In una storia che è innanzitutto quella delle continuità si vengono ad iscrivere i cambiamenti, riducendo fortemente la rilevanza o per lo meno la perentorietà delle periodizzazioni. Queste ricercano ed identificano dei punti di riferimento, per i quali però occorrerebbero delle scale di misura ben più numerose dell'unica e cronologica di cui si dispone. Non solo quindi le più ampie suddivisioni - quella per esempio supposta tra Medioevo ed Età moderna - si rivelano poco consistenti ed ancor meno significative (in particolare per quanto riguarda una fase come quella del Trecento veneziano), ma anche quelle più puntuali o settoriali possiedono uno spessore del tutto relativo. Ben hanno operato insomma vari autori di questo volume indicando che questo o quel processo aveva avuto inizio assai prima del 1300 o si concludeva chiaramente al di là del 1400. Non conta meno così - e ciò non è appunto mai stato affermato qui - che il secolo XIV veneziano non è un blocco a sé stante né una fase inconfondibile, dalla fisionomia unicamente corrispondente agli anni che lo compongono.
Questo significa che la migliore comprensione del Trecento veneziano la si realizza situandolo nella traiettoria di questa città e di questo Stato, come uno dei suoi momenti indubbiamente essenziali, che prende appunto il senso più appropriato da simile contestualizzazione. Per una comunità che ha mantenuto almeno alcuni dei suoi caratteri essenziali lungo parecchi secoli, il periodo compreso fra il 1300 ed il 1400 all'incirca costituisce da un lato un tratto individuante e sotto certi rispetti anche uno snodo.
Da questo secondo punto di vista, anche se non è possibile liberarne il campo dell'analisi, una somma di studi relativamente recenti richiederebbe che si valutasse in quale misura la comunità veneziana fu investita effettivamente dalla crisi del XIV secolo. La risposta è di tale natura da indurre a non entrare in questa problematica, in quanto risulta in modo abbastanza limitato che Venezia vi sia stata coinvolta. Essa traversò allora una fase tutt'altro che tranquilla, ma non sembra proprio che le sue difficoltà ed i suoi innegabili problemi siano abbastanza largamente da ricondurre a quei fattori che avrebbero caratterizzato tale crisi. Ciò equivale a sostenere che, se in alcuni settori relativamente secondari vi fu senza dubbio crisi anche nella città lagunare, essa sostanzialmente proseguì il suo sviluppo politico, economico e culturale senza soprassalti o depressioni di notevole entità riconducibili a quella visuale storiografica.
Il piano sul quale sarebbe più agevole parlare di crisi del secolo XIV anche a Venezia appare quello demografico. Non solo il centro realtino non vi sfuggì ma fu colpito altresì nella seconda metà del Trecento da tutta una serie di epidemie le cui conseguenze furono lungi dall'esser riassorbite sino ai primi decenni del Quattrocento. Le loro ricadute non si limitarono alla fortemente diminuita consistenza della popolazione ma riguardarono in particolare la sfera finanziaria e fiscale nonché quella urbanistica. Così non stupisce che Elisabeth Crouzet-Pavan sia stata indotta ad individuare due fasi nettamente distinte lungo il secolo in materia d'interventi sull'ambiente e nel tessuto abitativo. Si deve rilevare nondimeno che l'autorevole studiosa non fa coincidere la frattura con il sopravvenire della Peste Nera ma la situa chiaramente alcuni anni prima (fra il 1342 ed il 1343). D'altra parte persino nell'ambito dell'assestamento edilizio, oltre che delle misure ambientali, non tutti gl'indizi concordano nel mettere in primo piano o nel far considerare dirimente il brusco calo della consistenza demografica: tanto meno nel farlo identificare con una crisi profonda in quel settore. Anche l'affermazione di Jean-Claude Hocquet che in seguito alla violenta epidemia la ricchezza venne a trovarsi concentrata in un gruppo ristretto di sopravvissuti è più che nettamente ridimensionata dall'assenza della peste dal robusto panorama ch'egli ha offerto dell'economia lagunare contemporanea.
Quando si è dunque proposta l'immagine del Trecento veneziano come quella di uno snodo, ci è parso legittimo non riferirci alla "crisi" ed alla Peste Nera ma ad una serie di altri fenomeni a nostro parere maggiormente caratterizzanti. Due riguardano prevalentemente la situazione interna: il progressivo accentramento governativo e l'assestamento dell'aristocrazia, mentre gli altri due concernono lo Stato da Mar in senso lato (i rapporti con Turchi e Genovesi e l'organizzazione dei traffici marittimi). Fra questi due gruppi si situa un quinto fattore e cioè la quistione dei rapporti con le zone a ridosso dell'Adriatico settentrionale.
Nell'affrontare l'analisi di quest'ultimo fenomeno, al quale egli ha saputo dare il dovuto rilievo, Gian Maria Varanini ha preferito l'impiego del termine "entroterra" a quello più tradizionale di terraferma. La sua scelta non manca certo di buone motivazioni, soprattutto per il periodo trecentesco in cui Venezia fu ancora assai lontana dall'essersi costituita quella vasta area continentale protettiva e quello Stato territoriale che saranno propri del secolo XV. Non è improbabile nondimeno che tutto sommato il vocabolo più usuale continui ad esser più largamente adoperato dalla storiografia (anche per la notevole forza d'inerzia che agisce nell'uso delle nozioni che a torto o a ragione hanno preso piede nel tempo).
Come ha quasi simmetricamente deciso di fare Bariša Krekić dal canto suo, includendo nel suo pregevole studio appunto l'esame delle vicende dalmate e balcaniche sino al ricupero veneziano del primo Quattrocento, Gian Maria Varanini ha ritenuto opportuno valicare la fine del Trecento per estendere la trattazione almeno sino alla conquista del Friuli da parte della Serenissima. Si è in presenza di uno di quei casi in cui la logica di un processo induce ad inquadrarne gli eventi entro ritmi alquanto diversi da quelli dell'assunto più generale. Abbastanza ovviamente appare comprensibile concordare con questi aggiustamenti cronologici ispirati dalla coerenza e dall'organicità. Sembra comunque non meno significativo sottolineare in proposito che la storiografia ha creato e continuato a dar vita ad un almeno parzialmente falso problema, separando la spinta veneziana verso l'entroterra da quella marittima ed arrivando pressoché ad opporre l'attaccamento allo Stato da Mar alla gravitazione sulla terraferma. Essa si è certo fondata sulle opposizioni interne che si verificarono in proposito in seno al patriziato fra un cosiddetto partito del mare ed una tendenza ad esso avversa.
Non si tratta certo di conciliare ad ogni costo i termini del preteso dilemma. È difficile non ammettere tuttavia che gli stessi commerci del centro lagunare sin da epoca remota non si svilupparono meno verso un retroterra assai ampio che verso l'Adriatico ed il Levante. Anche senza riferirsi esclusivamente alla difesa del monopolio del sale, la necessità di tutelare la sicurezza delle vie dei traffici terrestri fece quasi contemporaneamente da pendant alla ricerca dei punti d'appoggio lungo le vie marittime. Ed essa non tardò molto a congiungersi con l'esigenza di garantire i possessi fondiari nonché la percezione delle loro rendite. Le pagine dedicate ai rapporti con l'entroterra sul piano più specificamente territoriale si coniugano quindi strettamente con quelle consacrate altrove in questo volume agli scambi non solo con la pianura padana ma con le regioni germaniche e con le stesse Fiandre. Né l'afflusso dell'argento dall'Europa centrale o balcanica rimase estraneo allo sviluppo positivo dei commerci con il Levante ed il Mediterraneo orientale.
A proposito dei moduli dell'espansione veneziana in terraferma, Gian Maria Varanini ha sostenuto che nel corso del Trecento e nei primi decenni del Quattrocento essa non costituì l'approdo di una calcolata strategia bensì l'effetto di congiunture che vennero a verificarsi ma avrebbero potuto non presentarsi. Se però ci si volge a considerare l'oltremodo turbinoso ed imprevedibile succedersi nello stesso periodo delle varie congiunture proprie dei Balcani, del mar Nero e dell'Egeo nonché del Mediterraneo, non si dovrebbe attribuire ai Veneziani un disegno strategico vero e proprio neppure in quest'ampio settore. In realtà, al di là delle variabili e non orchestrabili vicende politico-militari proprie dei domini terrestri come di quelli marittimi, v'era un'abbastanza serrata logica geo-economica di cui i Veneziani tennero costantemente conto e di cui furono senz'altro consapevoli. La loro città costituiva un perno o per lo meno essi fecero di tutto per renderla tale su di un lunghissimo periodo e nel cuore di uno spazio sempre più vasto. Se è quindi più che giustificato sottolineare l'esistenza precoce di precisi interessi di Venezia nell'entroterra e di un loro stadio già maturo nel secolo XIII, non importa meno distinguere appunto fra le oscillazioni delle inopinate congiunture e l'unitario criterio di lungo periodo che presiedette alla condotta ed alle costanti preoccupazioni della comunità realtina. Malgrado l'esistenza di un più o meno consistente partito dei proprietari fondiari e lo scontro insopprimibile dei suoi interessi con quelli di uno schieramento diverso, non è affatto eccessivo attribuire al patriziato veneziano del Trecento la capacità di considerare globalmente le esigenze della città e di ponderare in modo sostanzialmente complementare, se non proprio superiore o del tutto equilibrato, le mire terrestri con quelle marittime.
Dopo esserci brevemente soffermati su tale quistione, che non ha soltanto un rilievo storiografico ma strutturale per la comunità veneziana, sarebbe opportuno mettere in risalto che se quest'ultima dovette rispondere alle sfide scaligere, carraresi ed asburgiche, non dovette fronteggiarne meno sui mari. Nel corso del secolo XIV gli avversari non furono soltanto i Genovesi ma altresì i Catalani ed ancor più i Turchi. In funzione di quanto la Serenissima dovette operare nel Quattrocento, mentre i Catalani si rivelarono un fattore più o meno effimero, per i Turchi si verificò proprio il contrario. In un certo senso sarebbe stato concepibile che alla progressiva minaccia dei loro potentati anatolici e poi del potere dei primi sultani ottomani venisse accordata un'attenzione almeno corrispondente a quella di cui sono state oggetto le formazioni politiche dell'entroterra italico. I domini turchi non sorsero infatti improvvisamente né in zone che non fossero nevralgiche per i più chiari interessi veneziani. Essi non occuparono prepotentemente la scena soltanto all'indomani del loro urto con le forze di Tamerlano, ma si vennero strutturando lungo tutto il Trecento riuscendo a realizzare in Levante e nei Balcani le basi di quella potenza che non avrebbe tardato a costituire l'incubo oltre che l'interlocutore obbligato della Serenissima.
Anche in questo settore non sembra che si possa dire che i Veneziani abbiano avuto sufficiente coscienza dell'insidia che i Turchi rappresentavano e tanto meno che di fronte a loro abbiano seguito una lineare e meditata strategia. Essi guardarono verosimilmente innanzitutto le mosse degli altri attori di quel vasto scacchiere piuttosto che quelle dei relativamente nuovi venuti. Già ben prima, ma comunque lungo tutto il Duecento, essi avevano avuto a che fare con i Bizantini ed i Genovesi, ai quali vennero ad aggiungersi nel secolo seguente gli incomodi ed irrequieti Catalani. A quanto risulterebbe, anche per concrete difficoltà finanziarie, la città lagunare poté reagire all'avanzata turca nei Balcani soltanto con iniziative sporadiche. Sul mare, d'altra parte, l'aggressività genovese fu tanto vistosa che la maggior parte delle forze navali dovette esser mobilitata per fronteggiarla. Del resto i Turchi non erano quasi ancora in grado di schierare vere e proprie flotte e le squadre veneziane - quando potevano essere inviate contro di loro - erano sicure di avere assai agevolmente la meglio. I Turchi erano dediti soprattutto alla pirateria, che provocava certo un notevole disturbo ma che da un lato era troppo costoso contrastare sistematicamente e dall'altro malagevole calcolare in modo adeguato nella sua incidenza economica.
Confrontata ad un tanto aggrovigliato insieme di problemi marittimi in Levante e nell'Adriatico medesimo, Venezia adottò nei riguardi dei Turchi una tattica oscillante fra la tacita intesa o il compromesso e la partecipazione alle piuttosto inefficaci iniziative crociate. Come lo fu a suo modo lo scacchiere terrestre in questo periodo, il versante delle contemporanee vicende turche costituì indubbiamente una palestra per i Veneziani. Essi non adottarono in merito un atteggiamento di intransigente ostilità. Basterebbe ricordare che nella prima metà del Trecento vennero stipulate varie intese e conclusi diversi trattati fra il reggimento di Creta ed i potentati anatolici soprattutto per favorire i reciproci scambi economici. Questa fase ebbe termine quando, intorno alla metà del secolo XIV, l'Occidente parve giungere alla realizzazione di nuove crociate contro gli Infedeli. Ma è significativo che all'indomani della battaglia di Kossovo tanto i Genovesi quanto i Veneziani facessero chiedere a Bajazet la conferma dei loro antichi privilegi in Levante.
In una temperie tanto agitata ed esposta agli esiti più inopinati per la presenza di un gran numero di protagonisti di cui non era facile misurare le potenzialità, la sfida genovese viene ad assumere storiograficamente un ruolo dominante. Di fatto, come ha sottolineato Michel Balard, si trattò di uno scontro panmediterraneo, tanto economico quanto navale e coloniale, in cui vennero ad intrecciarsi talora in forme quanto mai insidiose per Venezia non solo i Bizantini ed i Turchi ma gli Ungheresi oltre ai Catalani. Il Trecento costituì appunto la fase nella quale si era del tutto lontani da un assestamento e dalla possibilità di individuare i competitori vincenti. Inoltre le stesse due Repubbliche avversarie di Genova e di Venezia, se dimostrarono in quella fase di possedere forze sorprendenti e di aver la capacità di assestare colpi spettacolari, diedero altresì la prova di non poter decisamente trionfare l'una dell'altra. La guerra di Chioggia si concluse con una vittoria veneziana del tutto parziale e solo in prospettiva - alla luce cioè di quanto seguì poi nel corso del Quattrocento - essa costituì in Italia ed in Levante l'inizio del ritiro genovese e del trasferimento delle iniziative della Superba dal Mediterraneo orientale a quello occidentale.
Almeno in parte a torto si è concentrato l'interesse sull'organizzazione veneziana del commercio marittimo internazionale piuttosto che su quella propriamente navale e sulle misure che permisero di far fronte, malgrado ripetute sconfitte, alla più pericolosa sfida che la marina lagunare abbia mai subito. Comparativamente infatti gli Ottomani al massimo della loro potenza penetrarono in modo del tutto episodico e marginale nell'Adriatico ed i veri e propri scontri con loro, sino alla caduta della Repubblica, non andarono al di là di Corfù. Nel corso del Trecento invece non solo Genova contribuì a far perdere ai Veneziani il possesso della Dalmazia (cosa che i Turchi mai riuscirono a provocare) ma con le sue unità militari penetrò addirittura nella loro laguna e li batté seccamente all'altezza dell'Istria. Alla forza d'urto genovese corrispose un ripetuto sforzo di riscossa veneziano, che non è concepibile senza un'attrezzatura tecnica ed una capacità di mobilitazione a loro modo anch'esse eccezionali.
È stato affermato che fra Due e Trecento emerse un chiaro imperialismo talassocratico veneziano con un piano globale di espansione. Il succedersi delle singole congiunture navali suggerisce piuttosto che la comunità lagunare fece soprattutto fronte di volta in volta alle evenienze. Se ci fu, come ci fu, una continuità abbastanza meditata nell'organizzare le proprie forze sul mare, questa consistette e si basò sulla progressiva ed ininterrotta cura di apprestare le infrastrutture della costruzione navale e di assicurare un valido reclutamento degli equipaggi. Lo straordinario sviluppo dell'Arsenale non riassume del tutto tale imponente processo di allestimento ma ne costituisce il fulcro. E quindi il caso di rinviare il lettore a questo riguardo alla trattazione della costruzione navale e della leva marittima, nonché a quella degli argomenti affini, che è stata opportunamente presentata in quest'opera nel volume tematico intitolato Il Mare.
Non si negherà nondimeno che i Veneziani ebbero senza alcun dubbio già prima del Trecento e nel corso di quel secolo una visione lucida delle mosse da compiere a mano a mano per non farsi sopravanzare nel dominio delle rotte marittime. Almeno due elementi vanno sottolineati per comprendere meglio la loro capacità di fronteggiare innanzitutto la sfida genovese nonché quelle catalana e turca. Da un lato il fondamento della loro forza marittima risiedette nel nesso quanto mai stretto tra naviglio mercantile ed unità da combattimento. Proprio nel secolo XIV una buona parte dei traffici venne organizzata con unità non solo capaci di difendersi da attacchi corsari ma destinate in partenza sia a trasportare merci che a militare, quando ne fosse giunto l'ordine o la necessità, nella flotta da guerra. Parallelamente intervenne l'altro elemento costituito dalla formazione di buona parte dei comandanti, dei quadri e degli equipaggi allo scopo di assolvere sia le funzioni commerciali che quelle navali.
Gli uomini della comunità lagunare, in altri termini, largamente consapevoli dell'interdipendenza fra predominio navale e supremazia - o almeno largo successo - nei traffici, risultarono sufficientemente preparati a rispondere sul mare ad ambedue le esigenze e ad assolvere le corrispettive funzioni che in modo complementare ne derivavano. Né fu certo di poco conto che l'autorità del governo comunale si dimostrasse in grado di reggere e di dirigere su ambedue i versanti le sue forze marittime, mentre a Genova poteva accadere che le corrispondenti iniziative non venissero controllate con altrettanta coerenza e continuità.
In un modo in qualche maniera corrispondente a quanto venne compiuto in terraferma, mentre secondo ritmi propri ed autonomi si allargava nell'entroterra italiano la presa della comunità lagunare, questa riuscì - malgrado i conflitti che tanto la misero a repentaglio - a rafforzare il suo Stato da Mar. Colpisce su questo piano che la strategia veneziana, conscia senza dubbio dell'alea rappresentata dalla progressiva avanzata turca non solo sul mare ma nei Balcani, si orientasse già verso un'articolazione difensiva. Si cercò certamente di cedere il meno possibile gli avamposti e le posizioni più avanzate, ma è significativo che, proprio mentre ci si doveva rendere conto, all'indomani della guerra di Chioggia, che non si sarebbe riusciti a tenere la posizione chiave di Tenedo, all'imboccatura dei Dardanelli, apparisse conveniente attestarsi il meglio possibile nello Ionio ed in Grecia per costituire una salda continuità fra Adriatico ed Egeo. È infatti di appena qualche anno dopo l'insediamento veneziano a Durazzo, Scutari e Corfù (1386), seguito quasi subito da quello a Nauplia e ad Argo e dal rafforzamento nel 1390 delle posizioni acquisite a Negroponte.
Come ha ampiamente illustrato Bariša Krekić, tale processo venne ad integrarsi con la riuscita azione tesa a rioccupare le città dalmate, realizzando appunto nei primi due decenni del Quattrocento un'operazione parallela all'espansione territoriale e complementare nel Veneto e nel Friuli. Venezia aveva da tempo cominciato a trarre le conseguenze del declino del ruolo del mar Nero negli scambi internazionali, accentuato dall'avanzata turca nelle penisole anatolica e balcanica. Genova non avrebbe fatto altrimenti, ripiegando su alcune basi egee e sulla grande isola di Cipro ma soprattutto orientandosi sempre più verso l'area del Mediterraneo occidentale e verso la penisola iberica. In tal modo l'annoso ed asperrimo conflitto fra le due Repubbliche avrebbe veduto notevolmente ridursi e quasi svanire la materia del contendere. Per il nuovo spiegamento di forze che si stava disegnando all'indomani della guerra di Chioggia, tra la fine del Trecento ed il Quattrocento, i Veneziani affermarono la loro prevalenza nel Levante e nel Mediterraneo orientale, ai quali essi si sarebbero così come saldati, facendosene condizionare nella felice e poi nell'avversa sorte almeno sino alla fine del Seicento. In particolare per Venezia il Trecento si presentò quindi come uno snodo dei suoi destini, anche rispetto al periodo di talassocrazia che essa fu in grado di dispiegare nel secolo successivo. Essa fece già allora le sue scelte definitive tanto sullo scacchiere della terraferma che su quello marittimo.
Senza alcun dubbio, pur procedendo a tastoni in più di un caso e talora in interi settori, il Trecento rappresentò così per Venezia una fase nodale, essenziale tanto per la sua organizzazione politico-sociale interna che per l'impianto della sua potenza e delle fondamenta del suo futuro di Stato europeo. La città si trovò di fatto a dover gestire una serie di congiunture di cui non sarebbe stata agevolmente in grado di prevedere o calcolare gli esiti. Essa dovette la sua resistenza e finalmente il suo successo alla capacità di mobilitare e soprattutto di organizzare le proprie risorse per rispondere alle sfide che le vennero lanciate o in cui essa stessa decise di impegnarsi.
Si è accennato sinora alle difficoltà che le si opposero soprattutto dall'esterno e di cui non stupisce il susseguirsi per la fase di prolungato assestamento che caratterizzò pressoché il continente intero oltre all'area del Mediterraneo orientale e del mar Nero. La comunità veneziana era assai preparata da tempo ad inserirsi fruttuosamente nelle articolazioni degli scambi internazionali. Essa aveva innegabilmente acquisito altresì una larga esperienza nel gioco delle forze politiche mediterranee. Come ha ben mostrato Hannelore Zug Tucci, Venezia apparve invece abbastanza esitante nelle risposte da dare alle esigenze militari terrestri che le si presentarono piuttosto imperiosamente lungo tutto il secolo XIV. Ciò meraviglia tanto meno in quanto la città non aveva ancora all'inizio del Trecento dei veri e propri possessi territoriali, in un entroterra gremito peraltro di domini già insediati e di molteplici signorie.
È stato agevole sottolineare che sotto vari rispetti le regioni italiane a ridosso dell'Adriatico costituivano una delle principali aree di irradiamento commerciale ed insieme di approvvigionamento dell'emporio realtino. Venezia nondimeno aveva partecipato da secoli alle competizioni marittime ed era giunta almeno dall'inizio del Duecento a costituirsi un vero e proprio dominio d'oltremare mentre non si era praticamente ancora insediata in modo stabile ed organico nel retroterra della sua laguna. È stato d'altronde mostrato che, se essa aveva tutto un insieme di motivi di espandersi verso il Trevigiano, giunse a possederlo nella prima metà del secolo XIV soprattutto per le divisioni interne dei poteri insediati in quell'area. Non appena ebbe messo in tal modo il piede sulla terraferma, la città si trovò impigliata nel ginepraio delle lotte che la agitavano. Essa dovette allora preoccuparsi sempre più seriamente non solo di destreggiarvisi ma di prendervi parte attivamente.
È innegabile quindi che tali conflitti del secolo XIV e dell'inizio del XV allargarono in maniera considerevole il raggio delle operazioni terrestri. Non era più possibile allora affrontare gli avversari contando in larga misura sull'impiego dei mezzi marittimi o fluviali, in cui i combattenti lagunari erano maggiormente addestrati. Occorreva disporre di vere e proprie milizie e di un efficace sistema di reclutamento, proprio o forestiero. Venezia scelse di battere contemporaneamente ambedue le strade, cosciente dei propri limiti demografici e del fatto che i suoi uomini non erano molto inclini a prestare servizio militare di terra. All'interno del suo ceto dirigente vennero designati dei savi alla guerra, creati appositamente per l'organizzazione dell'esercito, mentre almeno dal 1328 l'arruolamento venne reso obbligatorio. Non era certo una leva di massa, in quanto venivano tirati a sorte i sestieri i cui uomini avrebbero preso le armi per primi. Nondimeno tutti furono tenuti a partecipare in un modo o in un altro alla mobilitazione, sia facendosi sostituire da altri sia con versamenti pecuniari a favore degli assoldati estratti a sorte.
Non si trattò di un esercito in senso moderno ma di un ricorso assai deciso alle proprie, oltre che alle altrui, risorse. Come nello Stato da Mar l'autorità centrale partì dal principio che i singoli domini costituissero una sorta di sistema unitario e contribuissero ciascuno alla difesa degli altri, ai primi domini dell'entroterra venne esteso dal 1342 l'obbligo, sempre a sorteggio, di fornire delle truppe. Non stupisce che, come già si era verificato all'interno della comunità lagunare, si curasse in particolare anche in terraferma il reclutamento dei balestrieri, appunto anche perché il loro corpo poteva essere opportunamente impiegato sui vascelli da combattimento e nelle operazioni da sbarco o fluviali. Sin dai primissimi anni del secolo XIV era stata creata in Istria una sorta di milizia (il paisanatico), integrata con soldati spediti dalla capitale ma le cui spese erano a carico delle singole terre. Analogamente a quanto avveniva a Venezia, l'onere finanziario del paisanatico venne trasferito anche su coloro che non venivano chiamati a prestare servizio.
Sia alla testa di quest'ultimo tipo di milizia sia a capo di ogni formazione dell'esercito, ed in particolare dei balestrieri, vennero regolarmente designati dei patrizi. Così, ad esempio, questi ultimi si trovarono nel 1345 al comando delle truppe terrestri nella campagna contro Zara, come poi tre anni dopo nella spedizione contro Capodistria nonché in quella inviata a Creta nel 1363. L'appello alle proprie forze disponibili fu quindi costante, di notevole impegno e di assai consistente entità. Esso peraltro rimase parziale, anche per i pressoché contemporanei, vasti ed impellenti bisogni navali. Né sfuggiva che una popolazione provvista soprattutto di esperienza marittima, oltre che alle operazioni sul mare, risultava particolarmente abile e adatta a guerreggiare sulle vie d'acqua, con pontoni mobili. Le campagne terrestri esigettero dunque che si ricorresse sia ai vassalli volontari costituiti da alcuni signori dell'entroterra sia e soprattutto a compagnie di mercenari o magari al condono della pena dei condannati al bando.
L'arruolamento dei soldati di ventura pose sovente delicati problemi di patteggiamento o ingaggio come di controllo, nonché di fedeltà e congiuntamente di diserzione. In particolare sulla scia della penetrazione delle compagnie inglesi nella Penisola, tuttavia, vennero acquisite altresì notevoli innovazioni militari, in particolare negli ultimi decenni del secolo XIV. Hannelore Zug Tucci ha attirato l'attenzione in questo campo sull'inserimento degli arcieri nell'esercito veneziano e sulla formazione di unità tattiche composte da cavalleria e da arcieri. Proprio lungo i decenni trecenteschi venne a profilarsi ed a realizzarsi un corpo di ufficiali di professione, in particolare di conestabili. Congiuntamente il comune, non senza intenti anche di stimolo al servizio e di esempio, introdusse dei provvedimenti a favore dei soldati di professione che avessero riportato ferite, si trovassero nell'indigenza o fossero ormai anziani. Sotto forma di prestiti, simili misure vennero estese pure ai loro congiunti.
Nell'attuale fase storiografica in cui i molteplici problemi della vita e dell'attività militare risultano indebitamente negletti o assai marginalizzati, è parso opportuno metterne in rilievo il ruolo essenziale oltre che la consapevolezza che se ne ebbe a Venezia. Non stupirà peraltro che nel grande centro lagunare si consacrasse ancor maggiore impegno alla milizia marittima. È innegabile d'altra parte che su questo piano i Veneziani seppero innovare in maniera ancora più decisa ed efficace, come richiedevano le successive sfide alle quali furono esposti. La risposta della loro comunità fu assai adeguata e costituì il fondamento del successivo e prospero dispiegarsi della sua potenza nel corso del Quattrocento.
È quasi superfluo ricordare, anche se tale ricorso divenne più sistematico ed organizzato proprio in questo periodo, che le galere vennero regolarmente destinate alla protezione delle relazioni marittime. Così fin dall'inizio del secolo XIV fu rinforzata e resa permanente la squadra del Golfo, incaricata altresì di sorvegliare le acque immediatamente al di là dell'Adriatico. Nei primi due decenni del Trecento si può parlare di ripresa nell'armamento navale, fondata su di una nuova normativa, sul progresso della carpenteria e sull'evoluzione delle tecniche di navigazione. Nel 1313 venne aperto l'Arsenale Nuovo, coordinato al riassetto degli arsenali del dominio: quello di Candia sin dal 1305, quello di Negroponte nel 1319 e quello della Canea nel 1325. Pressoché contemporaneamente si accrebbe il ruolo dei savi agli ordini, istituiti per sovrintendere alle quistioni marittime.
Nel Trecento l'armamento navale risultò dunque concepito come un insieme coerente, la sua forma polivalente essendo atta sia alla difesa degli interessi politico-militari che di quelli economici. Navi da guerra e mercantili agirono in modo convergente ed a reciproco sostegno, sotto l'egida dell'autorità centrale che allargò progressivamente il suo controllo sulla navigazione. Naturalmente la messa in servizio della cosiddetta galera grossa o da mercato rappresentò una vera e propria, anche se non rapida, risorsa nel dispiegamento della marina veneziana di questo periodo. Per quanto per tutto il secolo XIV l'armamento libero continuasse a rappresentare approssimativamente i due terzi delle unità mercantili, fu l'introduzione della navigazione di linea, e cioè dei convogli di galere da mercato, a caratterizzare sin dagl'inizi questa fase nodale.
Le galere grosse, tecnicamente ricavate da una trasformazione e da un adattamento ai traffici delle triremi da combattimento, ebbero dapprima una portata di circa 80 tonnellate ma già di più del doppio nel 1354. Questo risultato di un vero e proprio connubio offrì delle unità capaci di difendersi da sole dagli attacchi (grazie al loro numeroso equipaggio di circa centottanta uomini ed al presidio di una trentina di balestrieri) oltre che di trasportare le merci di maggior valore ed in genere di minor volume. Il contemporaneo sviluppo dell'artiglieria consentì d'installare delle bombarde nella corsia centrale di tali vascelli. Sul piano organizzativo l'innovazione veneziana consistette nella partecipazione del comune alla gestione dei convogli di queste galere da mercato. L'autorità governativa, esclusivamente composta dai membri dello stesso patriziato prevalentemente imprenditore, intervenne ad integrare le iniziative dei mercanti armatori, orientandone di volta in volta ed adattandone la prassi ai vincoli imposti dalle congiunture. Si realizzò insomma una saldatura fra garanzia della libertà d'iniziativa ed accettazione di un disciplinamento collettivo non scevro di restrizioni. A questo riguardo Bernard Doumerc ha potuto notare che mentre a Genova i lignaggi si regolavano sovente a discapito degli interessi della comunità in maniera anche vistosa, a Venezia il ruolo essenziale fu tenuto dalla complementarità delle parti - e cioè del pubblico e del privato - in reciproco rapporto.
Questa congiunzione di interessi non va affatto idealizzata, ma poté rivelarsi efficace anche perché nel patriziato la maggioranza era formata da soggetti di media ricchezza. Del resto, sin dall'epoca precedente gli operatori marittimi veneziani si erano assuefatti a forme di collaborazione, navigando appunto in carovana e in società. Nel Trecento gli imprenditori lasciarono tanto più volentieri al comune il diritto di proprietà delle galere da mercato in quanto in tal modo si affrancavano dall'onere di immobilizzi finanziari troppo pesanti e protratti. In compenso queste flotte potevano essere messe a disposizione dello Stato quando esso ne decidesse la requisizione. La nuova formula permetteva nondimeno di concentrare il capitale unicamente nell'impresa commerciale, con la prospettiva di un rendimento a breve termine e cioè al ritorno da ciascun viaggio. E quasi superfluo tuttavia sottolineare il carattere originale e peculiare di questa forma di associazione fra iniziativa privata e intervento dell'autorità pubblica, che si realizzava certo all'interno del medesimo ceto aristocratico, ma rappresentava una saldatura tipica dell'articolazione della classe dirigente veneziana.
Sul piano politico la classe dominante - come si vedrà in seguito - optò per la cogestione del potere da parte di un numero definito, anche se assai vasto, di famiglie. Sul piano economico si verificò sostanzialmente un fenomeno analogo ma tutt'altro che identico. La partecipazione attiva e lucrosa alle spedizioni dei convogli di galere da mercato, infatti, rimase aperta alle persone ed ai capitali di chi non era membro del patriziato ma godeva soltanto dei pieni privilegi della cittadinanza veneziana. Uno dei problemi chiave della società lagunare fu proprio quello, e non soltanto nel Trecento, dei rapporti fra cittadini e patrizi. Esso è stato affrontato ancora assai parzialmente anche perché la documentazione superstite accorda un ben più largo spazio all'azione dei membri dell'aristocrazia. Resta il fatto che nel sistema delle galere da mercato - la cui attribuzione si effettuava per pubblico incanto - soltanto i patrizi godevano del diritto di prenderle a nolo. Quantunque tutti i soci dell'operazione - detti "parcenevoli" o "caratarii" - potessero acquistarne una o più quote (carati), in pratica era il titolare nobile del contratto di nolo che deteneva la porzione maggioritaria. Così in ciascuna di queste imprese mercantili erano le società patrizie di tipo familiare a predominare, in primo luogo quelle significativamente dette "fraterne" per i legami di sangue che ne univano i partecipanti. Onde finanziare le operazioni descritte nei capitolari degli incanti e adempiere ai conseguenti impegni, gli operatori veneziani si riunirono infatti in società la cui durata corrispondeva a quella del viaggio in programma.
Come ha notato Bernard Doumerc, il consesso senatoriale, dal quale dipendevano le opzioni e la normativa in merito, tese a favorire un'assai larga partecipazione dei patrizi meno privilegiati a queste "mude". Allo stato attuale della ricerca non è agevole però agganciare coerentemente l'intervento di questi ultimi in tali operazioni marittime alla distribuzione del potere fra le diverse famiglie dell'aristocrazia. È comunque opportuno sottolineare che, malgrado l'incremento della navigazione di linea, o a "mude", per tutto il Trecento continuarono a convivere vari sistemi di impresa marittima, da quello più sciolto da vincoli pubblici a quello più controllato, offrendo soprattutto ai patrizi la possibilità di giocare fra l'uno e l'altro. Sappiamo poi, a titolo di esempio, che nei primi decenni del secolo nei traffici con i potentati turchi si distinsero i Giustiniani di Serifo, i Sanudo di Nasso, i Querini ed i Grimani di Stampalia. Quasi un impero commerciale fu quello dei fratelli Federico, Marco e Fantin Corner nel cuore del Trecento. A partire dalla base di Cipro essi quasi si accaparrarono il monopolio dell'esportazione isolana di zucchero, cotone e sale mentre nel 1358 Federico Corner si aggiudicò da solo l'incanto di tre galere da mercato. Si può osservare già ora che anche sul piano del prestigio e del potere politici tutti i lignaggi appena nominati appartenevano al gruppo delle venticinque casate "vecchie" dominanti nell'aristocrazia alla metà del secolo.
La grande prosperità degli affari commerciali nel mar Nero dalla fine del Duecento al 1350 circa spiega il successo della navigazione di linea diretta in quella zona come del resto quello dei vascelli che affluirono nella Piccola Armenia. Situato alla giunzione fra l'area siriana e quella anatolica, il porto di Laiazzo in Cilicia rappresentò allora il terminale della via proveniente da Tabriz e da Samarcanda, mentre i centri del commercio veneziano nel mar Nero furono la Tana e Trebisonda (a sua volta sbocco della via persiana). Proprio in questi settori la navigazione di Stato fece le prime armi, pur essendo notevole che fra il 1301 ed il 1344 le galere "di comun" furono soltanto ventisette contro le centosessantaquattro armate da privati. Analogamente nello stesso periodo le galere private dirette verso il Levante greco (Romània) risultarono poco meno di duecento rispetto a solo una decina "di comun". La linea della Piccola Armenia tramontò definitivamente dopo la guerra di Chioggia, ma sin dal 1345 aveva subito la sempre più forte concorrenza di quella di Alessandria (in seguito alla sospensione dell'embargo pontificio contro l'Egitto) nonché di quella successiva e complementare di Beirut. Agl'inizi del secolo XV i convogli veneziani di galere da mercato diretti a questi due porti costituivano oltre la metà (28% per Alessandria e 26% per Beirut) di tutti quelli in attività per ogni altro porto del Mediterraneo e dell'Atlantico.
Senza alcun dubbio uomini delle più varie estrazioni sociali parteciparono allo sviluppo dei traffici veneziani, dagli aristocratici ai popolani ed agli immigrati. Ma Venezia intese salvaguardare molto selettivamente gli affari dei suoi patrizi e della parte più privilegiata dei suoi cittadini rispetto alle iniziative degli stranieri e di chi non godeva di tutti i diritti per negoziare. Così nell'emporio realtino l'investimento dei capitali non poté prescindere dalla rigorosa distinzione tra chi godeva di certi privilegi e la maggioranza che ne era priva. Nondimeno su questo piano non vi era la stessa discriminazione che su quello politico, un buon numero di "cittadini" essendo in grado di consacrarsi senza remore ai commerci internazionali. I meno favoriti erano gli stranieri, anche per effetto di uno dei principi fondamentali dell'economia realtina. Questo consisteva nell'obbligo, al quale tutti avrebbero dovuto sottostare, di far transitare le mercanzie dal porto lagunare prima di dirigerle verso un'altra destinazione. Tale criterio rispondeva all'esigenza di rimpinguare le casse pubbliche con i relativi dazi di entrata e di uscita. Quando voleva inviare da Venezia merci in Levante, uno straniero doveva pagarvi dapprima i diritti di ingresso e poi venderle necessariamente ai Veneziani che avessero i requisiti per esercitare il commercio internazionale, essendone egli privo. Reciprocamente, quando voleva acquistare prodotti orientali sul mercato lagunare, il forestiero non poteva farlo se non tramite i cittadini che ne possedessero la prerogativa.
Questo sistema non era unicamente daziario o fiscale. Esso ridondava infatti a favore di un consistente strato di abitanti non patrizi, che si trovava in tal modo a partecipare fruttuosamente alle attività commerciali. Non erano d'altronde solo i negozianti popolani a trarne vantaggio ma tutto un insieme di sensali, di addetti e di piccoli operatori sussidiari, indispensabili per assicurare il completo funzionamento dell'emporio realtino. I mercanti e gli armatori aristocratici erano senza dubbio i più privilegiati in quanto il governo della città stava appunto nelle mani dei rappresentanti delle loro casate (che ovviamente accordavano la priorità agli interessi economici del loro ceto). Ma centinaia e centinaia di altri cittadini si trovavano associati ai traffici, gli scambi delle merci provenienti dal Mediterraneo o ad esso dirette essendo riservati anche a loro. Questa cointeressenza contribuì, e non soltanto nel Trecento, ad evitare scontri fra i due maggiori gruppi sociali e questa fu una delle caratteristiche di fondo della comunità veneziana.
Come ha messo in luce Jean-Claude Hocquet, precipuo obbiettivo del governo lagunare fu proprio quello di difendere ed espandere i mercati nonché di proteggere le vie dei commerci. Congiuntamente la sua politica monetaria e fiscale fu appunto volta ad orientare il capitale verso gli scambi internazionali. Questo però veniva sempre realizzato a primario beneficio della città dominante. In materia di commercio e di approvvigionamenti, alle colonie e ai domini veniva imposta una rigorosa subordinazione agli interessi della capitale (anche se le norme in materia non furono sempre di facile applicazione). Nello stesso tempo la discriminazione tra Veneziani ed operatori stranieri era sensibile soprattutto nella sfera delle tasse doganali imposte dal governo. Che però i forestieri trovassero un buon tornaconto a frequentare l'emporio realtino è attestato dall'affluenza di mercanti dell'Italia centro-settentrionale nonché dell'area germanica. Per quanto stretti, ad esempio, fossero i controlli sul fondaco dei Tedeschi (rinforzati d'altronde dal 1268), quest'ultimo venne ininterrottamente ed intensamente frequentato con reciproco vantaggio.
Nel corso del Trecento i traffici lungo le vie di terra, attraverso la parte settentrionale della Penisola ed i paesi transalpini, incontrarono difficoltà nel complesso più serie di quelli marittimi. La capacità veneziana almeno parziale di sorvegliare e proteggere le comunicazioni via mare contribuì senz'altro ad incrementarle. A questo concorreva altresì il sistema praticato per retribuire gli equipaggi. Per lo più infatti i marinai non percepivano un compenso ma godevano del diritto di disporre a bordo di uno spazio in cui sistemare le merci personali caricate in franchigia. Ognuno poteva così non solo venderle negli scali effettuati dal vascello, generalmente assai prolungati, ma acquistare altre mercanzie e continuare a negoziarle negli altri porti toccati successivamente.
Il meccanismo dei traffici non riguardava soltanto le transazioni pure e semplici e non si ripercuoteva unicamente sulla saldatura socio-politica fra patrizi e popolani provvisti dei diritti di cittadinanza. La rotazione dei capitali e delle merci investiva infatti quasi tutti gli altri settori della vita cittadina, contribuendo al suo complesso e sovente positivo funzionamento. In primo luogo gli operatori economici, a cominciare dai maggiori, non si limitavano alle attività di scambio ma curavano altresì quelle che vi erano connesse. Va da sé che essi s'interessassero all'industria armatoriale, che forniva appunto i navigli di cui avevano bisogno. L'investimento mercantile privilegiava altresì l'industria di lusso, volgendosi anche a quella tessile, poiché con i ricchi prodotti dell'Oriente si negoziavano con profitto i panni di lana e di seta.
Ai commerci internazionali era strettamente connesso inoltre il redditizio monopolio del sale nonché buona parte dell'approvvigionamento annonario. Ma lo stesso debito pubblico, capace di trasformare il denaro inerte in capitale, veniva finanziato con le tasse doganali oltre che con le imposte sugli affari e sul consumo. D'altra parte gli operatori, innanzitutto tedeschi, che facevano affluire a Venezia l'argento delle miniere europee, contribuivano a fare della piazza uno dei più importanti mercati dei metalli preziosi (tanto più che dall'Africa vi era portato l'oro sahariano). La monetazione non poteva che esserne assicurata ed incrementata, a parte i benefici che la Zecca realizzava per l'obbligo di venderle a prezzo di favore un quinto dell'oro e dell'argento importati. L'economia veneziana del Trecento non fu dunque caratterizzata solo dall'aumento degli investimenti nel commercio e dal reinvestimento dei loro profitti ma da fenomeni complementari come il lievitare delle rendite e l'immigrazione di manodopera specializzata. Con il perfezionamento dei traffici via mare, dovuto all'introduzione di nuovi tipi di mercantili, il numero e l'importanza delle imprese marittime assai probabilmente si accrebbe insieme a quello delle produzioni artigianali.
Jean-Claude Hocquet infine ha messo in rilievo il ruolo esercitato dai provveditori di San Marco nel rendere più stretti i legami fra gli interessi collettivi e quelli dei privati. Quella prestigiosa magistratura, cui fra l'altro era delegata l'amministrazione delle eredità dei minori o sotto tutela, aveva cura di investire i loro capitali al servizio della comunità degli affari nonché nel debito pubblico. Funzioni dei procuratori di San Marco erano così quelle di fornire allo Stato finanziamenti a buon mercato e di offrire agli imprenditori della piccola borghesia cittadina i crediti commerciali che occorrevano loro. Era infatti una caratteristica della gestione veneziana degli affari di far concorrere le magistrature, spesso congiuntamente, al contemporaneo soddisfacimento degli interessi privati e di quelli pubblici. Nel regime lagunare questi due versanti erano tanto strettamente connessi che non potevano essere facilmente scissi, intersecandosi ed interpenetrandosi in modo largo e continuo.
Quello veneziano non era infatti uno Stato che esistesse per conto proprio di fronte ad un insieme di governati. Tanto per magnificare il proprio regime secondo i parametri ritenuti ottimali a quell'epoca, vari suoi sostenitori proclamarono che esso conteneva in sé gli elementi positivi della monarchia e della democrazia, oltre a quelli dell'aristocrazia. Di essenzialmente monarchico o democratico, tuttavia, nel sistema veneziano del Trecento non vi era pressoché nulla. Simile constatazione emerge con evidenza dal semplice confronto con i poteri coevi a reggimento monarchico o relativamente democratico. Nei primi si affermava infatti l'autorità di una dinastia che si pretendeva indiscussa detentrice dell'autorità e che per conseguenza organizzava una propria amministrazione centralizzata, dalla Francia alla Castiglia e dall'Aragona all'Inghilterra. Nel secolo XIV il governo della città lagunare si situò pressoché agli antipodi di simile assetto politico-sociale. Nello stesso tempo però non ebbe praticamente nulla in comune con quelli - assai poco numerosi del resto - che accordavano i diritti politici a tutti coloro cui erano imponibili e costituivano la parte attiva della cittadinanza.
Lo Stato veneziano scelse una sua formula di governo proprio alle soglie del secolo XIV, non imitandone alcuna altra e senza che mai altrove essa potesse venir riprodotta o attecchire. Senza dubbio, per la condotta di certi organismi politici successivi, alcuni ritennero di potersi ispirare al modello lagunare: ma si trattò sempre di tentativi incongrui in quanto esso non poteva in alcun modo essere esportato. Né nel secolo XIV né in quelli successivi dell'Ancien Régime l'assetto politico veneziano venne adeguatamente compreso sia per la sua complessità che per le sue originali peculiarità storiche. Sempre politico-ideologiche e sostanzialmente poco consistenti furono dunque tutte le operazioni di preteso travaso o prestito che si cercasse di compiere, ritenendo di trasferire degli ordinamenti lagunari in altri ambienti sociali ed in altri contesti istituzionali.
Uno degli schermi che meno ha giovato alla comprensione del regime che si cominciò ad instaurare a Venezia alle soglie del secolo XIV è stato quello della sua asserita esemplarità. All'origine dell'innegabile e radicale equivoco fu il ceto dirigente aristocratico medesimo, operando mediaticamente per far apparire ben riuscito e pressoché ideale il tipo di reggimento che aveva deciso di darsi e per il quale esso aveva optato. Si trattava infatti di una formula politica inusitata e, rendendosi appunto conto della sua anomalia, alcuni esponenti del nuovo potere fecero il possibile per acclimatarlo nell'opinione estera e proporlo addirittura come valido riferimento. E nondimeno oltremodo chiaro che il solo modo di scorgerne il reale profilo è quello di liberarlo dai veli che hanno cercato di abbellirlo come dalle note di biasimo che pure hanno tentato di avvilupparlo o coinvolgerlo. Uno dei meriti di questo volume, e riteniamo non dei minori, è appunto quello di aver voluto prescindere sia dalle mitizzazioni che da negativi travisamenti.
Non è affatto dimostrabile e tanto meno augurabile che si consideri l'assetto aristocratico instaurato a Venezia nel Trecento come il risultato maggiore o supremo della vita lagunare di questo periodo. Nelle pagine precedenti si sono presentati per sommi capi i problemi militari, internazionali ed economici che caratterizzarono la vita veneziana. Lo si sarebbe dovuto fare in modo più ampio se questo volume non offrisse appunto delle singole ed autorevoli trattazioni di ognuno di essi. Riteniamo in ogni modo che sia sufficientemente apparso quanto vigorose ed in certo senso eccezionali siano state le manifestazioni delle energie collettive della comunità veneziana in quei decisivi settori. Le realizzazioni politiche non furono da meno, ma questo non autorizza a porle al di sopra delle altre né a considerarle più decisive. La vita della città lagunare costituì infatti un insieme organico di cui tutti furono protagonisti, pur operando di volta in volta in settori diversi o essendo addirittura esclusi dall'agire in alcuni di essi. Tale indissociabilità degli uni dagli altri rappresentò un fattore che fece la forza, oltre che la peculiarità, dell'organismo veneziano e costituì il vero elemento dei suoi successi oltre che il suo segreto.
Questo significa altresì che non vi fu solo un meccanismo dei traffici ma anche un congegno delle istituzioni, un concorso dei vari organi politico-sociali e religiosi oltre che una coerenza di comportamenti e d'iniziative artistico-culturali. Non lo si sottolinea certo per esaltare una mitica unità o un'ideale armonia fra i vari elementi che componevano la vita veneziana del Trecento. L'unità venne senza dubbio ricercata, ma in quel secolo venne anche molto duramente messa alla prova. In nessun altro periodo della storia successiva di Venezia si ordì ed attuò una pericolosa congiura contro il regime e tanto meno si ebbe a procedere all'esecuzione capitale di un doge. Il carattere del secolo XIV consistette nel fatto che una determinata unità venne sotto certi aspetti ereditata e sotto altri non meno rilevanti progressivamente costruita. In realtà si trattò di un processo di delicata, complessa ed insieme vasta saldatura oltre che di continuo rodaggio, di scompensi e di inadeguatezze. L'empirismo ed il pragmatismo si allearono ad una ferma volontà del ceto dirigente di far funzionare, oltre che mantenere, un regime che per vari rispetti non rompeva con quello precedente ma lo infletteva, tendendo a fissarlo entro un diverso ordinamento.
Tali considerazioni potrebbero almeno in parte apparire generiche in quanto applicabili anche allo sviluppo di altri grandi centri italiani o europei. La via dell'esame parallelo e comparato degli assetti della società veneziana da un lato e di quelli di altre città dall'altro non è stata molto battuta. La singolarità e le peculiarità lagunari potrebbero senza dubbio riuscirne meglio caratterizzate e ritracciate. Nondimeno, anche restando entro l'orizzonte della Penisola, non è chi non veda che i divari e le dissimiglianze tra Venezia e, ad esempio, Genova o Firenze prevalgono di gran lunga sulle analogie e sulle similitudini. Il metodo dell'analisi endogena, cioè della ricerca dei meccanismi interni e dello sviluppo proprio, appare intanto nettamente preferibile non solo sul piano dell'organizzazione militare ed economica, ma anche su quello dell'assetto politico e sociale.
In questa prospettiva è di grande rilievo sottolineare che una notevole parte dei consigli e degli uffici tipici della comunità lagunare, anche dei più rilevanti, erano già costituiti prima dell'inizio del secolo XIV. La Serrata del maggior consiglio (28 febbraio 1297) poi può bensì esser considerata come lo snodo tra un ordinamento ed un altro, ma si è abbastanza concordi nel convenire che di per sé si trattò assai più di una svolta che di una rottura. Il nuovo consiglio venne infatti a comprendere coloro che ne avevano fatto parte negli ultimi quattro anni, chi avesse un ascendente legittimo che ne fosse stato membro dal 1172 in poi nonché quelli che lo avevano composto nell'immediata precedenza. Senza dubbio si stabilì che altri non avrebbero più potuto entrarvi: ma tale norma, senza essere sistematicamente disattesa, non venne rigorosamente applicata ed occorse praticamente tutto il Trecento perché fosse perfezionato lo sbarramento fra patrizi e popolani. Il trapasso risultò quindi relativamente soffice e quasi graduale, dando appunto al secolo XIV l'aspetto di un assestamento. Secondo Stanley Chojnacki l'identità, l'ideologia e la cultura comuni della nobiltà in tal modo costituita si affermarono soltanto intorno al 1400. Il nuovo regime patrizio insomma trovò la sua primaria giustificazione nella continuità del suo legame con il passato, primo fattore della sua legittimazione. D'altra parte la sua base si trovò notevolmente allargata: i membri del maggior consiglio passarono da circa quattrocento nell'ultimo decennio del Duecento a millecento nel 1320. La spina dorsale della nobiltà, formata da centotrentacinque casate, rimase nondimeno sostanzialmente immutata tra la fine del secolo XIII e l'inizio del XV.
Non per questo le innovazioni politico-sociali che si verificarono nel corso del Trecento risultarono di minore rilievo. Il patriziato traversò allora una fase di continua evoluzione, nuove famiglie venendo progressivamente ad appartenere a pieno titolo alla classe dominante. Ma anche la distinzione fra cittadini originari (per quanto il concetto di "origine" rimanesse piuttosto impreciso) ed altri cittadini - de intus e de intus et de fora - prese forma durante il secolo XIV. Non stupisce che nel 1381 si definisse ancora una normativa generale per la concessione della cittadinanza: pressappoco contemporaneamente si fissavano infatti le regole dell'appartenenza alla nobiltà in forma più chiara e giuridica. Eppure addirittura dal 1256 era demandato di concedere la cittadinanza ad una ben identificata magistratura: i provveditori di comun. Così, come ha rilevato Mario Caravale, occorse praticamente tutto il Trecento per consolidare e precisare il monopolio della gestione della jurisdictio municipale unitaria da parte del patriziato. Fra l'inizio del secolo ed il 1328 vennero elaborate le norme - del resto poi rivedute - per l'elevazione di popolani al ceto aristocratico e nel 1319 fu istituito il registro nel quale iscrivere i giovani nobili maggiorenni (Balla d'Oro).
Cosa vi fu dunque di specifico nella forma veneziana di governo? Come si è già sottolineato, non vi si verificò un mutamento brusco tra secolo XIII e secolo XIV, malgrado l'intervento della Serrata proprio alla giunzione cronologica tra le due fasi. A differenza, ad esempio, di altri grandi comuni italiani, ove regnarono in genere delle consorterie rivali, nell'assetto lagunare si mirò ad una sorta di partecipazione paritetica delle maggiori famiglie alla gestione dell'autorità pubblica. Anche per questo non vi fu a Venezia una separazione dei poteri alla maniera moderna. Le numerose magistrature impegnavano nello stesso tempo molti patrizi, le funzioni essendo in genere collegiali e di breve durata. Ma essi prendevano parte anche ai vari consigli allo stesso titolo e senza riserve di competenza esclusiva, ciascun loro membro essendo abilitato all'esercizio dell'intero complesso di pubbliche potestà. Vari magistrati intervenivano contestualmente nella medesima materia, sia come membri della stessa magistratura sia come componenti di istanze differenti. A titolo di esempio, delle attività delle corporazioni si occupavano nel Trecento tanto i giudici della giustizia vecchia che i provveditori di comun ed il consiglio dei dieci.
Nel meccanismo di governo lagunare si effettuava in tal modo sia un concorso che un costante e continuo controllo reciproco tra i vari uffici e consigli. Ogni patrizio aveva la facoltà concreta di valutare l'intervento degli altri in ciascuna materia, riducendo - se non sempre eliminando - la possibilità di lesione o di accrescimento indebito dei diritti di ciascuno. D'altra parte i due consessi di spicco dei quali il maggior consiglio faceva le istanze superiori del potere - la quarantia ed il senato - non esprimevano gruppi sociali distinti né avevano in genere membri diversi. Invece che di istituzioni in competizione si trattava di articolazioni interne del medesimo consiglio, benché con equilibri di volta in volta diversi. Attraverso tale particolare articolazione nel corso del Trecento, al di là della molteplicità di queste ed altre istanze, si affermò la gestione della potestà unitaria dello Stato. Quest'ultima acquistò progressivamente una nuova importanza rispetto agli ordinamenti particolari ed agli interessi privati, aristocratici che fossero o meno: anzi divenne la potestà indispensabile alla loro organizzazione ed alla loro tutela.
In un organismo assai fermamente dominato dalla comune o molto largamente condivisa volontà di tutto un ceto di tenere nelle proprie mani l'esercizio esclusivo del potere, il maggiore problema poteva parere quello dei rapporti fra tale ceto e gli altri. A smorzare le tensioni ed a svuotarle in gran parte della loro carica conflittuale concorsero parecchi elementi. Innanzi tutto la prosperità economica della città dipendeva dall'esercizio del commercio marittimo. Come si è almeno in parte già visto questo, più che opporre, univa o comunque non contrapponeva e faceva in assai larga misura convergere in un unico vasto processo le energie di patrizi e di popolani, di marinai o di sensali e addetti di ogni tipo, non esclusi i magistrati che vi sovrintendevano. In secondo luogo, stretto e quasi inscindibile era il legame tra la produzione dei mestieri organizzati nelle Arti ed i traffici internazionali. Senza dubbio da questo secondo fenomeno risultava una sostanziale dipendenza di coloro che appartenevano alle corporazioni rispetto al governo dei patrizi (che a loro volta erano i primi a trarre profitto dagli scambi con l'estero). A questa associazione fra i due ceti trainanti, per quanto si traducesse in un rapporto di dipendenza dell'uno dall'altro, corrispondevano ordinamenti che ancora una volta ammettevano vari popolani all'esercizio di funzioni di prestigio (come cancellieri, notai, ecc.) ma imbrigliavano d'altro canto - sul piano politico come su quello economico - i movimenti e le iniziative dei loro nuclei più competitivi. La gradualità dei diritti di cittadinanza costituiva nello stesso tempo una gratificazione ed un filtro importante, i cittadini rappresentando quantitativamente un gruppo sociale non superiore a quello dei nobili. Si aggiunga che in un mondo largamente acquisito alla prospettiva di una naturale gerarchia non solo fra i singoli ma fra i ceti, tale assetto sociale doveva apparire convenientemente ripartito per quasi tutti i suoi componenti.
A differenza di quanto avveniva in altre comunità italiane ed estere, le corporazioni non costituivano a Venezia degli organismi autonomamente strutturati e sufficientemente rappresentativi. Esse riunivano soltanto i maestri di ciascun mestiere e gli stessi apprendisti rimanevano in posizione marginale: non si occupavano comunque dei contrasti che insorgessero fra lavoratori e maestri. Soprattutto la sfera della loro autorità e della loro giurisdizione per provvedere alla difesa dei diritti degli associati era del tutto limitata e come decurtata. Il rispetto delle norme statutarie nonché la soluzione delle vertenze di modesta entità dipendeva dal loro gastaldo, che era designato dal governo. I giudici della giustizia vecchia, che provvedevano alla sua nomina, avevano addirittura la facoltà d'introdurre norme nuove nello statuto di ciascuna Arte, oltre a definire gli emolumenti dovuti ai prestatori d'opera; erano essi, infine, a dirimere le controversie di maggiore rilevanza. Così il mondo del lavoro era non solo frazionato ma efficacemente controllato e subordinato tanto sul piano sociale che su quello politico oltre, evidentemente, che su quello economico.
I membri del patriziato, dal canto loro, erano ovunque, ciascuno operando attivamente nei diversi settori. Essi non si limitavano all'esercizio degli uffici ed a sedere nelle istanze superiori: erano proprietari immobiliari in città e fondiari in campagna, armatori, imprenditori, mercanti e banchieri, ispiratori della produzione letteraria ed artistica oltre che a stretto contatto con la produzione artigianale. Si è sottolineato il monopolio patrizio delle cariche pubbliche e si è calcolato, ad esempio, che nel giro di quattro anni - fra il 1349 ed il 1352 - i rispettivi uffici che vennero ricoperti furono quattromilasettantacinque. L'apparato statale era molto articolato e complesso e gli aristocratici ormai non ne lasciavano certo il funzionamento nelle mani dei popolani - a parte qualche settore sussidiario. Ma gli uni e gli altri non s'incontravano soltanto nella navigazione, nei traffici e nei negozi quotidiani. Essi convivevano nello stesso vicinato urbano, dato che a Venezia non vi erano praticamente zone residenziali di quasi esclusiva dimora patrizia. I nobili ed i popolani si affiancavano nelle numerose Scuole - tipiche associazioni di culto e di assistenza che riunivano quasi soltanto dei laici. Dai primi del resto dipendeva in gran parte la scelta del parroco, che faceva da tramite con il resto della popolazione.
Durante la maggior parte del secolo XIV i tratti distintivi del gruppo legittimamente dominante rimasero inoltre piuttosto fluidi. La nobiltà uscita dalla Serrata apparve una classe non proprio chiusa ma ancora soggetta ad una sorta di processo di formazione e di evoluzione. Certo, la dialettica per la preminenza non si instaurò più tra il ceto popolare e quello aristocratico ma all'interno del secondo, fra diversi gruppi di lignaggi, come alla ricerca di un assetto più soddisfacente e di un equilibrio più duraturo. Questo gioco non fu davvero privo di rilievo né fu rapidamente concluso. Per esempio è stato notato che dopo la Serrata ben un quinto di altre casate ebbe accesso per la prima volta all'attività di governo. La composizione dunque dei nuclei dominanti di nobili mutò nel corso del secolo XIV, pur rimanendo abbastanza costante la loro consistenza complessiva. Secondo Stanley Chojnacki intorno al 1350 l'élite politica sarebbe stata ancora costituita in larga misura dalle medesime famiglie che avevano dominato il consiglio ducale prima della Serrata. Per di più, fra la metà del Duecento e la metà del Trecento vi fu una continuità assai marcata ai massimi livelli dell'attività politica. Ma le ventisei casate maggiori non avrebbero formato un vero e proprio blocco di potere, non possedendo ciascuna ricchezze comparabili né avendo sovente interessi comuni - il che ingenerava delle competizioni nel suo interno. Del resto, calcolando su di una quarantina i lignaggi di maggiore spicco, intorno ad essi avrebbe ruotato un numero doppio di altre famiglie più o meno satelliti ma emergenti.
Può rimanere incerto se il problema della composizione del patriziato veneziano, del suo profilo come della sua identità nel corso del secolo XIV sia di maggiore o minore portata rispetto a quello del contemporaneo sviluppo delle istituzioni. Una risposta avrebbe potuto risultare più soddisfacente se si fosse fatta maggior luce sul peso specifico e sulle conseguenze della congiura del 1310, legata ai nomi delle famiglie Tiepolo e Querini, nonché degli eventi connessi con la decapitazione del doge Marin Falier nel 1355. Il culto pudico della propria riputazione da parte del ceto di governo, occultando parecchie tracce dei due eventi, non ha favorito le ricerche degli storici. Parallelamente costituirebbe un innegabile vantaggio possedere una più approfondita conoscenza dell'evoluzione del senato e della nuova magistratura del consiglio dei dieci nel corso del secolo XIV.
Lungo i decenni trecenteschi infatti il senato, che funzionava a Venezia dal 1255, emerse gradualmente come principale consiglio cittadino e come assemblea cui erano demandate le più importanti decisioni correnti. Quello che si è detto a proposito di esso e della quarantia - come istanze interpenetrantisi di patrizi - vale in certa misura anche per il più ristretto consiglio dei dieci, l'organo che sorge e si afferma proprio nel Trecento. Non sembra esservi dubbio che la sua precipua funzione consistette nella difesa della forma di governo affermatasi dopo la Serrata. D'altra parte è innegabile che anche i membri di esso si trovarono affiancati alla quarantia ed al senato in una pluralità di compiti (come del resto talune sue funzioni coesistettero con quelle degli avogadori di comun, dei signori di notte e dei cinque alla pace). Ciò non toglie che questa emergente magistratura dette un proprio tono al regime aristocratico a partire dalla sua istituzione e probabilmente in particolare nei decenni trecenteschi. Il consiglio dei dieci avrebbe tracciato una decisiva traiettoria di potere fra Quattro e Cinquecento e nondimeno essa qualificò l'assetto politico veneziano sin dalla sua apparizione.
Come ha ricordato Guido Ruggiero, al consiglio dei dieci, unico fra tutti gli organi pubblici veneziani, venne consentito di intervenire nelle più delicate quistioni in modo rapido e decisivo senza tener conto dei normali rituali del funzionamento della giustizia. Non si trattava soltanto di un problema di procedura inquisitoriale, giacché esso non doveva riferire a nessun altro consiglio sul modo in cui dirimeva al proprio interno i problemi di cui si attribuiva la competenza. I dieci - che poi numericamente giunsero ad una ventina - s'ispirarono al criterio di operare in nome della sovrana assemblea del maggior consiglio: con la conseguenza che neppure ad esso vennero a rendere conto. Nominalmente essi si sarebbero dovuti limitare alla tutela dell'ordine pubblico, ma in pratica interpretarono questo compito in modo oltremodo esteso. Così, quando un alto magistrato si abbandonò nell'isola di Creta a delle espressioni politicamente irriverenti o più o meno discutibili, il consiglio dei dieci lo convocò a Venezia affinché ne rendesse rigoroso conto dinanzi ai suoi membri. Sembrerebbe dunque che soprattutto nella seconda metà del secolo XIV vi fosse già uno scarto fra il peso specifico dell'esercizio delle cariche pubbliche da parte di famiglie piuttosto che di altre ed il nuovo potere dei dieci di sindacare ogni comportamento anche lontanamente rilevante sul piano della sicurezza dello Stato.
Essendo emerso con chiarezza che nel corso del Trecento l'autorità centrale dello Stato veneziano s'impose in modo sempre più deciso da un settore all'altro, non sembra possibile dubitare che l'azione progressiva del consiglio dei dieci abbia contribuito particolarmente ad affermarne l'esercizio. Va pur detto che almeno inizialmente questa magistratura si attenne in linea di massima ai suoi ardui compiti ed entrò ben poco nel disbrigo di altre rilevanti quistioni, a cominciare da quelle dei traffici. Non risulta neppure che essa abbia interferito in maniera sensibile nell'assetto urbanistico, anche perché un gran numero di opzioni in materia erano state prese prima che il consiglio dei dieci entrasse in funzione in modo regolare.
Elisabeth Crouzet-Pavan ha sottolineato al riguardo due fenomeni di rilievo. Da un lato, sin verso la fine del Duecento la formazione della città nel suo peculiare ambiente lagunare sfuggì in buona parte all'autorità civile, come frutto dell'empito delle iniziative private. Dall'altro, proprio quando i pubblici poteri assunsero il controllo delle bonifiche, guidandone e gestendone il movimento di espansione, la loro dinamica cominciò a rallentarsi in modo visibile. Dal 1283 nondimeno esistettero i giudici del piovego, incaricati della tutela del demanio tanto sul piano spaziale che giuridico, oltre che della custodia di tutti i beni comunali. Se già in precedenza alcuni interventi del maggior consiglio avevano avuto per oggetto l'attribuzione di determinati lotti in vari specchi d'acqua, ora al piovego fu demandato di agire al fine di disciplinare lo sviluppo coordinato della città. È ragionevole concludere che il completo controllo della crescita urbana da parte degli organi cittadini progredì con lentezza e che il comune si cimentò solo gradualmente nella gestione dello sviluppo dell'abitato.
Innegabilmente il progresso delle bonifiche procedette nel Trecento di pari passo con una serie di tentativi di organizzare lo spazio edificabile. Ciononostante le modifiche dell'ambiente rimasero sottoposte all'approvazione degli interessati, la consultazione di ciascun gruppo dei proprietari intervenendo a ogni stadio delle singole operazioni di assetto locale. In compenso, per i lavori di grande portata il comune venne a determinare gli assi geografici della progressione edilizia. Su questo piano non è di poco rilievo che l'autorità cercasse ormai di far trionfare tutto un insieme di criteri culturalmente significativi, da quello della regolarità (con la eliminazione delle enclaves) a quello della fluidità della circolazione. Un mito anche urbanistico di Venezia si delineò almeno dal Duecento e non poté che svilupparsi nel corso del Trecento. Esso ovviamente si accompagnava all'accresciuta esigenza di realizzare una città sempre più degna di essere contemplata, come d'altronde era avvenuto e stava accadendo in pressoché tutti i centri dell'Italia centro-settentrionale. Non stupisce affatto che il fulcro della ricercata magnificenza avesse teso da tempo a coincidere con lo spazio in cui veniva esercitato il potere nella sua duplice e inscindibile valenza politico-religiosa: la piazza, la basilica di San Marco e l'attigua sede del governo. Il secondo polo sul quale si era già concentrato l'impegno urbanistico non poteva non continuare ad essere - sia pur in tono minore - quello di Rialto, dove le trasformazioni trecentesche inquadrarono in particolare l'area di San Giacomo. Così, come ha messo in rilievo Elisabeth Crouzet-Pavan, i primi quattro decenni del secolo XIV rappresentarono un'ulteriore fase decisiva di adattamento delle opere edilizie alle strutture politiche ed alle ambizioni commerciali della città.
Non si dirà che a Venezia si credesse davvero che vi si stesse realizzando una città ideale e quasi celeste, per quanto da alcuni potessero venir evocati, più o meno propagandisticamente, motivi del genere. Che il sito la rendesse, oltre all'opera dell'uomo, singolarmente suggestiva non v'era dubbio e tale risultava vieppiù a mano a mano che se ne sistemavano ed ornavano gli spazi in cui si articolava. La sua fisionomia architettonico-ambientale costituì in tal modo sin dal secolo XIV, in quanto attrattiva di per sé peculiare ed inconfondibile, uno dei costanti riferimenti e supporti di un'immagine e di un mito deliberatamente coltivati ed intrattenuti. Le grandi dimore, le fabbriche e le chiese del Trecento che tuttora sono rimaste forniscono, oltre che la testimonianza, la prova che i Veneziani di quel secolo avevano ormai appreso in modo provetto a realizzare delle forme edilizie e degli assetti urbanistici ammirevoli: probabilmente non meno densi di acquisizioni singolari che il meccanismo dei loro traffici o quello del loro inedito sistema di governo. Si trattava di un progetto d'insieme, di cui è essenziale in primo luogo ricostituire e ripercorrere i nessi per giungere quanto possibile alla sua comprensione: quello della realizzazione di una città unitaria, nei limiti a Venezia assai ampi in cui ciò era umanamente consentito.
Anche nel piano di questo volume la trattazione dello sviluppo e dell'assetto della città è venuto a costituire il quasi naturale trapasso dall'analisi delle strutture economico-politiche ed istituzionali a quella delle forme della vita culturale e religiosa. Si è probabilmente inclini, del resto, a sorvolare quasi sul corpo costruito ed anch'esso vivente della comunità urbana, per appuntare l'attenzione sui modi organizzativi e sui comportamenti dei suoi membri, come se fosse ammissibile considerarli pressoché avulsi dal contesto da essi edificato ed a mano a mano plasmato.
A prima vista parrebbe che non possano emergere nessi necessari fra le congiunture o le sfide esaminate nella prima parte e le strutture alle quali è consacrata la seconda parte di questa trattazione. Non solo tuttavia ad una più attenta lettura apparirà che tali relazioni esistono, ma già dalle pagine precedenti è risultato a più riprese che le articolazioni della società civile veneziana si ricongiungevano le une alle altre ed assumevano un peculiare profilo d'insieme. Non stupisce quindi che esso appaia altresì nel gruppo di saggi che costituiscono l'ultima parte di questo insieme di contributi.
Senza dubbio per i fenomeni religiosi e culturali è ancor più vero che - al di là dei loro aspetti più occasionali - essi si vengono a situare nettamente sul piano della lunga durata. Sia la lingua della comunità che i tipi d'insegnamento e di apprendimento che vi si realizzarono non si rinserrano nei pur ampi limiti di un secolo, se pur la committenza o gli scritti storico-politici si susseguono in modo più aderente allo snodarsi degli eventi artistici e storici. Quanto alle forme della vita religiosa, di così rilevante interesse collettivo, non si può far a meno di segnalare che la Storia di Venezia ne ha previsto una trattazione specifica, organica ed autonoma, in uno dei suoi ulteriori volumi. Anche se poi la parte riservata al Trecento nella Storia della cultura veneta non ha riguardato prevalentemente le manifestazioni proprie dell'ambiente lagunare, alcuni saggi avevano già esaminato vari aspetti di esso.
Almeno fin dal secolo XIV l'atteggiamento delle autorità veneziane nei confronti delle gerarchie ecclesiastiche e persino della più alta istanza della Chiesa romana assunse un profilo di singolarità che non mancò di ripercuotersi sui rapporti fra il governo cittadino ed il clero locale. Con lucida coscienza i Veneziani del periodo precedente avevano già ben percepito che la sfera del sacro non si esauriva nelle manifestazioni considerate specificamente religiose ma investiva a suo modo anche fondamentali dimensioni della vita civile. Anche per questo le esigenze del potere laico si fecero sovente - e su certi piani permanentemente - sentire assai più che altrove. In modo corrispondente le creazioni artistiche si fecero oggetto di aperti interventi da parte del patriziato ed anche di forme di condizionamento e di controllo. Così sarà opportuno che il lettore si rifaccia in materia a quanto in quest'opera è già stato pubblicato sul Trecento nel primo dei volumi tematici dedicati all'Arte. Infine, mentre almeno un contributo del quarto volume della Storia di Venezia riguarda anche i problemi filosofico-letterari trecenteschi propri dell'ambiente lagunare, sempre nell'ambito di questa grande opera si attende la realizzazione di un volume consacrato alla cultura ed alla musica. Di fronte a tale molteplicità di presenze attuate o potenziali, appare dunque ragionevole non intraprenderne qui un ulteriore sorvolo. I saggi qui presenti valgono comunque ad attestare ampiamente, come si è già accennato, che in questo periodo la comunità veneziana segnò in modo significativo della sua impronta i vari domini spirituali nelle loro varie e più suggestive proiezioni.