La formazione professionale tra filantropia e istituzioni
Il contributo della filantropia: uno sguardo d’insieme
Dagli inizi dell’Ottocento alla prima metà del Novecento l’istruzione professionale in Italia risulta caratterizzata dal ruolo centrale avuto dalla filantropia nella fondazione e nell’organizzazione di istituzioni destinate alla formazione di tecnici e operai. In molti casi, infatti, queste scuole sorsero in virtù di iniziative spontanee, promosse ‘dal basso’ e su scala locale, da singole figure di benefattori o di industriali, da movimenti religiosi o da gruppi di scienziati, tecnici e industriali coadiuvati da Camere di commercio, associazioni di produttori o società operaie di mutuo soccorso, in grado di coagulare risorse e di ottenere il riconoscimento e l’appoggio delle amministrazioni locali e governative. Sia prima sia dopo l’Unità d’Italia, questi istituti funzionarono in primo luogo grazie all’impegno e al contributo di una schiera di individui dai nomi più o meno noti, impegnati a interrogarsi e a dare una risposta a temi ancora oggi attuali, quali il rapporto tra istruzione, lavoro e sviluppo economico o la ricerca di un giusto equilibrio tra teoria e applicazione nella formazione professionale; una pluralità di voci e di problemi che rende lo studio di questo settore dell’istruzione particolarmente interessante.
La comune cornice legislativa della legge Casati del 1859, che ridefiniva l’intero sistema scolastico assegnando all’istruzione tecnica (suddivisa in scuole tecniche e istituti tecnici) una propria autonomia e organicità, rappresentò un importante passo avanti rispetto alla legislazione precedente. Ciononostante, essa si occupò soltanto marginalmente dell’istruzione al lavoro, lasciando agli enti locali il compito di promuovere e gestire le numerose scuole professionali sorte capillarmente in tutta Italia, in particolare nelle regioni centro-settentrionali, prima e, soprattutto, dopo l’Unità.
Il panorama stratificato, mutevole e complesso di scuole civiche, private o religiose, gabinetti di chimica, società d’incoraggiamento d’arti e mestieri, scuole di disegno applicato alle arti, corsi serali o domenicali, istituti industriali e laboratori annessi alle officine, fondati parallelamente agli istituti tecnici statali, fu quindi soprattutto espressione delle richieste e delle esigenze dei diversi territori su scala regionale e, più di frequente, cittadina.
Le storie di queste istituzioni e dei loro promotori raccontano di specifici contesti e stili produttivi, animati da interessi economici o da motivazioni sociali e filantropiche peculiari, su cui la letteratura secondaria è oggi consistente, soprattutto se riferita ad alcuni casi di studio, come quelli di Milano, Torino e Bologna. All’insegna della varietà e della disomogeneità dei curricula formativi collegati ai diversi tessuti produttivi – agricoli, commerciali, manifatturieri o industriali – queste scuole erano dedicate all’insegnamento delle arti applicate, del disegno, della meccanica o della chimica ed erano destinate alla formazione di manodopera specializzata: disegnatori, tipografi, incisori, capiofficina, falegnami, decoratori, fabbri, macchinisti, elettrotecnici, tornitori. Particolare attenzione fu riservata all’istruzione professionale femminile, con l’istituzione di peculiari percorsi formativi.
Nonostante la riforma Gentile del 1923 cercasse successivamente di introdurre un maggiore controllo e una maggiore uniformità tra le diverse realtà della penisola, fino a Novecento inoltrato ci si affidò soprattutto all’iniziativa locale per rispondere alle esigenze della formazione tecnico-professionale, creando un arcipelago complesso e frastagliato che obbliga a contestualizzare e a calare il discorso storiografico all’interno delle reti e delle sinergie tra gli attori dei diversi territori.
Sullo sfondo di politiche nazionali poco incisive e spesso insufficienti, il ruolo della spinta filantropica, intesa in senso ampio, fu a lungo fondamentale per questo settore dell’istruzione, anche se nel corso degli anni lo Stato cercò più volte di intervenire a sostegno di tali iniziative attraverso provvedimenti legislativi mirati. Ne sono un esempio la circolare emanata dal ministro Benedetto Cairoli il 7 ottobre 1879 volta a incentivare le iniziative di comuni, province e Camere di commercio per la fondazione di scuole d’arti e mestieri attraverso un contributo statale, o l’istituzione di corsi speciali di perfezionamento per giovani operai già occupati nelle industrie nei comuni più importanti dal punto di vista industriale, in concomitanza con il primo conflitto mondiale.
Le attività avviate da amministrazioni cittadine, società operaie di mutuo soccorso, associazioni di produttori, Camere di commercio e privati cittadini convergevano su progetti condivisi che rispondevano ai bisogni dei diversi territori, come avvenne a Foggia, nel 1872, quando, su iniziativa della locale Camera di commercio, si aprì la Scuola per arti meccaniche e fabbrili per operai, intitolata al pittore Saverio Altamura. Godendo a lungo di ampie autonomie, queste scuole funzionarono grazie all’impegno e al contributo di figure di scienziati di alto profilo, come Carlo Ignazio Giulio (1803-1859) nella Torino cavouriana degli anni Quaranta dell’Ottocento, Giuseppe Colombo (1836-1921) nella Milano industriale del Regio Istituto tecnico superiore, oggi Politecnico, Jacopo Benetti (1842-1910) nella Bologna fin de siècle in via di industrializzazione, o Ugo Pizzoli (1863-1934) nella Modena del primo dopoguerra.
Per comprendere il variegato scenario nazionale è necessario prendere in considerazione realtà locali anche molto diverse tra loro, incardinate in specifici contesti socioeconomici e animate da personalità in grado di promuovere, spesso in maniera efficace e originale, l’istruzione tecnico-professionale. Il caso di una piccola e meritoria realtà come quella della Scuola di arti e mestieri G. e M. Montani di Fermo si differenzia, per es., da quelli di due città industriali, diverse, ma sotto molti aspetti simili, come Torino e Milano, dove vi fu la compresenza di più istituzioni private e pubbliche fondate in diversi momenti storici e destinate a vari gradi della formazione professionale. Nel corso dell’Ottocento e del Novecento nel capoluogo lombardo operarono contemporaneamente la Società d’incoraggiamento d’arti e mestieri, fondata nel 1838, l’Istituto tecnico Carlo Cattaneo, inaugurato nel 1841, il Politecnico, avviato nel 1863, l’Istituto tecnico industriale Giacomo Feltrinelli, fondato nel 1908, e le numerose scuole e i laboratori della Società Umanitaria, sorta nel 1893.
Per la riuscita di queste iniziative fu decisivo il contributo apportato da privati e singoli cittadini, imprenditori e filantropi, che spesso si fecero portavoci di scopi e interessi di gruppi più ampi. Al matematico e ingegnere Francesco Brioschi (1824-1897) si deve la fondazione del Politecnico; al filantropo mantovano Prospero Moisè Loria (1814-1892) si deve il lascito alla base della nascita della Società Umanitaria, che aveva tra le sue finalità quella di promuovere e aiutare le scuole d’arti e mestieri; a Carlo Feltrinelli (1881-1935), imprenditore sensibile ai vari aspetti della formazione tecnico-scientifica e ai suoi riflessi in campo economico-industriale, si deve dal 1913 il sostegno, anche finanziario, alla Scuola industriale milanese avviata qualche anno prima dall’architetto Camillo Arpesani (1862-1931).
Nella maggior parte dei casi le istituzioni sorte prima dell’Unità, in un contesto sociale e produttivo ben diverso da quello postunitario, confluirono nel nuovo Regno e poi nella Repubblica, trasformandosi, cambiando nome, dialogando con i nuovi interlocutori e i nuovi inquadramenti ministeriali.
Per Milano è esemplare il caso della Società d’incoraggiamento, che avviò le attività nei primi anni Quaranta dell’Ottocento con lo scopo di favorire il perfezionamento tecnico-produttivo delle manifatture lombarde. Sorta per impulso della Camera di commercio, arti e manifatture con il sostegno di alcuni dei maggiori esponenti degli ambienti economici e culturali lombardi – tra i quali il banchiere e imprenditore tessile di origini tedesche Heinrich Mylius (1769-1854), il chimico Giovanni Antonio von Kramer (1806-1853), l’economista Michele Battaglia (1800-1870) e il geologo Giulio Curioni (1796-1878), vedendo tra l’altro il concorso di un personaggio chiave di quegli anni come Carlo Cattaneo (1801-1869) – la Società fu tra i protagonisti della formazione tecnico-professionale anche nella Milano postunitaria, rappresentando un modello per le altre istituzioni italiane.
Stessa sorte seguirono l’Istituto G. e M. Montani di Fermo, sorto nel 1854 come Opera Pia grazie a un lascito dei coniugi, i conti Girolamo (1774-1849) e Margherita Montani, trasformato dopo l’Unità in una prestigiosa Scuola di arti e mestieri a opera dell’allora sindaco di Fermo, Giuseppe Ignazio Trevisani (1817-1893), dell’architetto Giovan Battista Carducci (1806-1878) e degli ingegneri francesi Hippolyte Langlois (1831-1895) ed Ernest Hallié, allievi del generale Arthur Morin (1795-1880) al Conservatoire des arts et des métiers di Parigi; e la Scuola di disegno applicato alle arti Aldini-Valeriani di Bologna, avviata nei primi anni Quaranta dell’Ottocento grazie all’accettazione da parte del comune di Bologna dei lasciti dell’economista e giurista Luigi Valeriani (1758-1828) e del fisico sperimentale Giovanni Aldini (1762-1834), riformata negli anni Settanta come scuola-officina per l’insegnamento del disegno, della fisica e della chimica applicate, sul modello degli istituti d’arte e mestieri di Milano e di Fermo.
Se l’istituto promosso a Biella fin dal 1839 dalla locale Società di avanzamento delle arti, dei mestieri e dell’agricoltura diventò una trentina di anni dopo una scuola professionale, anche grazie all’impegno di una figura chiave delle politiche della ricerca nell’Italia liberale come l’ingegnere Quintino Sella (1827-1884), in Toscana l’Istituto tecnico di Firenze, creato nel 1850 dal granduca Leopoldo II come sviluppo del Conservatorio di arti e mestieri istituito nel 1809 all’interno dell’Accademia di belle arti, confluì con l’Unità sotto il controllo della provincia e del comune.
In questo complesso panorama non si deve dimenticare l’opera pionieristica e benefica, destinata soprattutto ai ceti meno abbienti, avviata da alcune congregazioni religiose maschili a partire dall’Ottocento, come i salesiani di don Giovanni Bosco (1815-1888), gli artigianelli di Giovanni Battista Piamarta (1841-1913), i servi della Carità di don Luigi Guanella (1842-1915) o la Piccola opera della Divina Provvidenza di don Luigi Orione (1872-1940), che promossero numerosi programmi a sostegno della formazione professionale di operai e artigiani.
Una questione aperta: il dibattito sull’istruzione professionale
Anche in Italia, come nel resto d’Europa, i dibattiti sull’istruzione tecnico-scientifica, sulla formazione di manodopera specializzata e sull’avviamento alla professione – temi fondamentali per il decollo dell’industria e lo sviluppo dell’economia – attraversarono in un crescendo l’Ottocento e la prima metà del Novecento. Il fenomeno è dimostrato dalla consistente pubblicistica prodotta in quegli anni: opuscoli, relazioni, commemorazioni, celebrazioni, presentazioni, a firma dei comitati promotori, dei fondatori o del personale delle scuole.
Significative, per la mole di dati e informazioni contenute, sono anche le numerose inchieste governative finalizzate a migliorare e a riformare questo settore dell’istruzione, insieme ai censimenti, spesso promossi in occasione di Esposizioni nazionali e universali, avviati dal ministero di Agricoltura, Industria e Commercio (MAIC) – come Gli istituti tecnici in Italia (1869) – o dal ministero della Pubblica Istruzione (MPI) – come Gli istituti tecnici e le scuole tecniche in Italia (1900), volume curato in occasione dell’Esposizione universale di Parigi del 1900 dal matematico Giuseppe Bardelli, a lungo direttore dell’Istituto Carlo Cattaneo di Milano, e dall’insegnante di materie tecniche Nicola Moreschi, che nel capoluogo lombardo proprio in quegli anni fondò una scuola tecnica d’indirizzo economico in sinergia con altri attori locali, solo in seguito riconosciuta dal ministero (Gobbo, Priano, in La leva della conoscenza, 2009).
In questo tipo di letteratura una grande attenzione era riservata all’esame di quanto si era fatto e si stava facendo nel resto d’Europa, soprattutto in Francia, Germania e Gran Bretagna. Numerosi accenni alle esperienze estere si ritrovano, per es., nelle inchieste ministeriali, come quella affidata al corposo volume L’istruzione tecnica in Italia (1875) del segretario generale del MAIC Emilio Morpurgo (1836-1885).
Molti dei protagonisti dell’istruzione professionale in Italia avevano una conoscenza diretta della situazione europea o per aver compiuto viaggi di studio nei laboratori, nelle scuole e nelle industrie del vecchio continente – come quello del 1818 di Aldini in Francia e in Inghilterra, o quello del 1867 di Colombo, in visita all’Esposizione universale di Parigi – o per aver conseguito il proprio percorso di studi all’estero come Sella, che si formò all’École des mines di Parigi, mettendo a frutto la propria esperienza una volta tornato a Torino.
La competenza in materia d’istruzione tecnica e industriale passò nel corso degli anni dal MAIC, che se ne occupò tra il 1861 e il 1878, al MPI, incaricato di occuparsi degli istituti tecnici fino al 1923, quando diventarono di competenza del ministero dell’Economia nazionale per poi tornare all’Educazione nel 1928, anno in cui furono create anche le scuole secondarie di avviamento al lavoro.
Soppresso per pochi mesi tra il 1877 e il 1878, al momento della sua ricostituzione il MAIC dovette occuparsi delle scuole professionali, suddivise grosso modo in scuole d’arti e mestieri, sorte per iniziativa di enti locali, opere pie e privati, con corsi diurni, serali, feriali o domenicali, finalizzati a dare agli operai di diverse età nozioni di scienza applicata per scopi industriali; in scuole di arte applicata all’industria come quelle di Firenze, Milano, Napoli, Roma e Palermo, incentrate su insegnamenti artistici e decorativi, volti a diffondere tra le classi operaie il sentimento estetico; e nelle cosiddette scuole speciali, destinate all’apprendimento di specifici mestieri, come quella per la tintoria della lana di Prato e quella di Roma per la preparazione degli agenti delle strade ferrate. In tutti i casi si trattava di un tipo di istruzione pratico e applicativo, che richiedeva la presenza di officine e laboratori.
Su queste scuole, riformate con la legge nr. 854 del 1912, lo Stato esercitò a lungo soprattutto una funzione di vigilanza, lasciando un ampio margine di autonomia alle eterogenee realtà locali, almeno fino alla promulgazione della riforma Gentile, che segnò tra l’altro la nascita dei licei scientifici (Tonelli 1964; Hazon 1991).
In un panorama istituzionale complesso e instabile, segnato da continue riforme e cambiamenti a livello legislativo, risultati significativi furono raggiunti grazie all’impegno di filantropi, industriali e scienziati sensibili al progetto. Nel corso della seconda metà dell’Ottocento, infatti, da più parti si levarono voci critiche nei confronti degli scarsi investimenti e dei programmi troppo generali e poco applicativi degli istituti tecnici e industriali governativi, che a dire dei molti detrattori fallivano l’obiettivo di avviare a un mestiere in maniera efficace.
Ne era convinto il senatore e industriale tessile veneto Alessandro Rossi (1819-1898), il quale, nel 1878, con il sostegno della provincia e del comune, fondò a Vicenza una scuola-officina collegata ai suoi stabilimenti di Schio per la lavorazione della lana, sul modello dell’Istituto di Fermo. Gli istituti governativi risultavano a suo dire carenti perché privi delle strutture necessarie: nelle loro aule si impartivano nozioni di agronomia senza avere accesso agli orti botanici, di chimica senza il sussidio dei laboratori, di disegno senza l’uso di modelli, di meccanica senza l’impiego delle officine, e di fisica senza l’apporto di gabinetti sperimentali. Avendo visitato di persona la scuola marchigiana ed essendo in contatto personale con l’ingegnere francese Langlois a cui era stato affidato il compito di riformarla, Rossi si era convinto che fosse quello il modello da seguire, come scrisse nel 1877 nella sua Proposta per la istituzione di una Scuola industriale a Vicenza ai suoi colleghi del Consiglio provinciale.
Il panorama preunitario: da Carlo Cattaneo a Carlo Ignazio Giulio
Poco prima di morire, in un discorso tenuto il 27 maggio 1861 nel neonato Parlamento italiano, Cavour metteva in relazione l’incremento dell’industria con l’investimento nella formazione tecnico-professionale, da quella ‘bassa’ rivolta alla manodopera operaia e artigiana a quella ‘alta’ rivolta agli ingegneri, evidenziando quell’intreccio fondamentale tra formazione, lavoro, economia e benessere, al centro di ogni dibattito sull’istruzione professionale di quegli anni.
Già all’inizio dell’Ottocento, dopo la stagione delle riforme illuministe di metà Settecento, mentre il processo d’industrializzazione muoveva i primi passi, nei diversi Stati preunitari della penisola, dal Lombardo-Veneto al Regno di Sardegna, si avvertiva l’esigenza di dotarsi di strutture adeguate per la formazione tecnico-professionale, che avrebbero permesso di incrementare l’industria e il settore manifatturiero alla luce dei recenti sviluppi tecnologici.
Non sempre le riforme e i progetti poterono essere attuati. A fronte degli sporadici interventi governativi – tra cui si segnalano la fondazione nel 1841 di due scuole tecniche triennali a Milano e Venezia, e l’attivazione dei corsi dell’Istituto tecnico toscano di Firenze da parte di Leopoldo II – furono decisive le iniziative promosse con uno spirito filantropico-religioso proto-ottocentesco da singoli cittadini, municipalità, istituzioni locali, élites della cultura e del tessuto produttivo locale. Le scuole d’arti e mestieri, sorte all’insegna dell’‘incivilmento’ à la Romagnosi prima dell’unificazione e dotate di laboratori, sale prove e collezioni di macchine e strumenti, diedero un contributo fondamentale alla diffusione della cultura tecnica e applicativa.
Nel 1841, Cattaneo, recensendo su «Il Politecnico» da lui fondato il lavoro dell’economista tedesco Friedrich List, Das nationale System der politischen Oekonomie (1841), nel riferirsi al primato dell’Inghilterra, scriveva che la promozione dell’industria non era un privilegio naturale delle nazioni più avanzate:
L’istruzione degli operaj può propagarsi dovunque; dovunque possono aprirsi scuole di chimica e di mecanica; dovunque possono raccogliersi machine e modelli; dovunque con onori e ricchezze si possono ritrarre le menti dalle inezie contemplative alle realtà della vita e agli interessi dello Stato (C. Cattaneo, Sistema nazionale d’economia politica di F. List, «Il Politecnico», 1841, 6, 33, p. 311).
Come Cavour, anche Cattaneo sottolineava l’importanza che scuole e laboratori avevano per la promozione della cultura tecnica e dell’industria, così come era incarnata dall’esperienza positiva intrapresa in quegli anni dalla Società d’incoraggiamento d’arti e mestieri (SIAM) di Milano, di cui lo stesso Cattaneo fu nominato segretario nel 1845. La SIAM aveva avviato dal 1841 la scuola di chimica industriale (affidata a von Kramer), dal 1845 i corsi di fisica industriale (con il fisico Luigi Magrini), di geometria meccanica (assegnati all’ingegnere ferroviario Giulio Sarti), di tessitura serica (con il capofabbrica Angelo Piazza), e, dal 1857, una scuola di meccanica con corsi di geometria descrittiva applicata alle arti, meccanica industriale e disegno di macchine, affidati al brillante neolaureato Colombo.
Negli stessi anni in cui Cattaneo scriveva quelle righe sul «Politecnico», in Piemonte Giulio, economista, matematico e professore di meccanica all’Università di Torino, era impegnato a sostenere l’istruzione nel campo delle arti «meccaniche, manuali o fabbrili» attraverso l’istituzione di alcune scuole di meccanica e di chimica. Nominato senatore del Regno di Sardegna nel 1848, fu socio dell’Accademia delle scienze di Torino e membro di numerose commissioni scientifiche. Nel 1845, un anno dopo la quarta Esposizione d’industria e di belle arti di Torino, che aveva creato le condizioni per una riflessione organica sul ruolo dell’industria manifatturiera e sulle strategie per il suo incremento nel Regno sabaudo, Giulio riuscì ad avviare, anche grazie all’appoggio del re Carlo Alberto, le Scuole di meccanica e di chimica applicate alle arti, che nel 1852 confluirono nel Regio Istituto tecnico di Torino, istituito dal ministero e arricchito da un Museo mineralogico ordinato da Sella.
Come aveva già fatto nel lungo resoconto a stampa della quarta Esposizione, nella lezione proemiale Per l’apertura delle Scuole di meccanica e di chimica applicate alle arti (1845), Giulio tornava a perorare la causa dell’industria nazionale e dell’istruzione popolare tecnico-scientifica, ricollegandosi al dibattito allora in corso tra chi chiedeva un maggiore sostegno all’industria e chi invece voleva privilegiare l’agricoltura, tra chi vedeva nella prima una fonte irrinunciabile per il benessere economico e il miglioramento delle condizioni di vita e della società, e chi invece attribuiva al lavoro nelle officine la causa del peggioramento dei costumi. Nelle parole di Giulio questa nuova scuola aveva il compito di fornire, con un linguaggio rigoroso, ma chiaro, un’istruzione scientifica di carattere pratico ed elementare, finalizzata ai bisogni dell’industria e della produzione manifatturiera, cercando più in generale di colmare un vuoto del sistema scolastico.
Nella Relazione sul primo anno di corso nella R. Scuola di meccanica applicata alle arti del 1846, Giulio si soffermava infatti su una «verità, ingrata a dirsi, spiacevole a sentirsi, ma utile a conoscersi»:
Gli operai, i fabbricanti, gli industriali insomma, non sono fra noi i soli la cui istruzione lasci molto a desiderare; l’insegnamento de’ collegi, limitato com’è quasi assolutamente alle lingue italiana e latina (e non sempre insegnate nel modo più logico e più proficuo), non solamente lascia molta parte della società priva delle più utili cognizioni, ma rende, quel ch’è peggio, troppo ristretti quegli abiti di raziocinio e di severo studio, che sono condizione indispensabile perché un popolo si sollevi a un alto grado di cultura intellettuale, e possegga i necessari elementi di ogni robusta industria (pp. X-XI).
Tra gli anni Trenta e Quaranta dell’Ottocento, personaggi come Cattaneo e Giulio si fecero portavoce dell’esigenza di investire nella cultura e nella formazione tecnico-scientifica e industriale, impegnandosi in prima persona nell’organizzazione di scuole e corsi. Con motivazioni diverse rispetto a quelle filantropico-religiose del conte Montani di Fermo o a quelle ‘illuminate’ e riformiste dei governi preunitari, il dibattito su queste forme d’istruzione sarebbe continuato a lungo anche dopo l’Unità, in un contesto sociale e industriale in rapida evoluzione, soprattutto in alcune aree del Paese.
Scenari postunitari: Giuseppe Colombo e il boom delle scuole-officina
In una Milano in via di industrializzazione operò uno dei principali protagonisti della formazione professionale dell’Italia liberale: l’ingegnere Colombo. Come altri studiosi, tra cui lo stesso Giulio – che oltre che nelle Scuole di meccanica e chimica insegnò anche all’Università –, Colombo era impegnato su più livelli della formazione, da quella professionale a quella secondaria fino a quella universitaria. Fu infatti docente alla Società d’incoraggiamento dal 1857 al 1883, insegnante di meccanica industriale all’Istituto tecnico Carlo Cattaneo dal 1861, e professore di meccanica industriale al Politecnico dal 1865, dove fu il fautore dell’innovativa sezione per ingegneri meccanici, acquisendo la direzione del Politecnico dopo la morte del fondatore Brioschi, avvenuta nel 1897; senza dimenticare il suo ruolo attivo di conferenziere e divulgatore scientifico e la sua attività politica a favore dell’istruzione tecnica e industriale, non solo a Milano in qualità di consigliere comunale, ma anche a livello nazionale, nelle vesti di parlamentare, senatore e ministro delle Finanze (1891-1892) e del Tesoro (1896).
Esponente di punta della nuova classe dirigente dell’industria e della finanza italiana, Colombo si impegnò a fondo per rispondere ai bisogni della formazione professionale, dando conto di un progetto organico e sul lungo periodo incentrato sul rapporto tra scuola e lavoro, istruzione e industria. Come affermava il suo maestro Brioschi il giorno dell’inaugurazione del Politecnico, il 29 novembre 1863, per adempiere alla loro missione le istituzioni scolastiche dovevano infatti rispondere ai nuovi bisogni della scienza e alle mutate condizioni della società.
Nel 1867, di ritorno dall’Esposizione universale di Parigi, Colombo si era convinto che per recuperare il divario con le altre nazioni l’Italia doveva investire su un «vasto e organico» sistema d’istruzione tecnica e di tirocinio professionale, capace di dare solide basi alla nascente industria, anche grazie a un intervento significativo dello Stato. Le sorti di questi due mondi, quello della scuola e quello del lavoro, erano quindi strettamente intrecciate tra loro. In un discorso del 1883, pronunciato in occasione della distribuzione dei premi agli allievi della SIAM, egli ribadiva questi concetti e di fronte al boom delle scuole-officina toccava un tema molto dibattuto in quegli anni: qual era il giusto equilibrio tra scuola e officina, tra teoria e pratica? Quali i metodi e le caratteristiche di un insegnamento come quello professionale, legato all’apprendimento di un mestiere e al lavoro manuale? Colombo spiegava che
solamente l’operaio pratico del suo mestiere può approfittare davvero dell’insegnamento. La sua mente, già conscia di quanto gli può giovare, afferra immediatamente la ragione delle cose, apprezza l’importanza di ciò che gli si insegna, lo assorbe, e lo assimila con una facilità e con un entusiasmo straordinari (G. Colombo, Industria e politica nella storia d’Italia. Scritti scelti, 1861-1916, a cura di C.G. Lacaita, 1985, p. 264).
Il mestiere non si impara sui banchi di scuola, ma in officina con il tirocinio delle macchine. Per Colombo l’istruzione aveva il compito di rendere gli operai consapevoli del proprio lavoro, fornendo loro nozioni di base di disegno, fisica, chimica e meccanica. In questo senso, particolarmente proficue erano le scuole serali o domenicali per operai, come quelle organizzate dalla SIAM.
Membro di numerose commissioni, Colombo sostenne la formazione professionale anche in Parlamento. Il 17 giugno 1887, mentre alla Camera dei deputati (di cui sul finire del secolo fu anche presidente e vicepresidente) si discutevano i provvedimenti finanziari per il risanamento del bilancio presentati dal ministro Agostino Magliani, Colombo denunciava la situazione di difficoltà e di confusione in cui si trovava il settore dell’istruzione professionale, diviso tra il ministero di Agricoltura, Industria e Commercio e il ministero della Pubblica Istruzione. Riassumendo il dibattito in corso all’epoca, per l’ingegnere milanese il governo doveva dare uno sviluppo coordinato a tali questioni, che non potevano essere delegate esclusivamente all’iniziativa locale:
L’insegnamento industriale ha per l’Italia una importanza di prim’ordine. Come debba essere ordinato, è una questione controversa da per tutto; tanto controversa che la vera forma, il vero tipo delle scuole industriali non è ancora trovato. Ci sono i partigiani della scuola officina, e ci sono i partigiani della scuola senza officina. Ci sono coloro che credono che l’insegnamento veramente utile sia quello che comprende i principii generali suscettibili di applicazione; e ci sono gli altri che credono che bisogna insegnare il mestiere. Il fatto è che ci sono scuole che vanno bene avendo l’officina, ed altre che vanno pure bene senza l’officina, e ve ne sono dell’uno e dell’altro sistema che vanno male. Tutto dipende dal modo come la scuola è organizzata (G. Colombo, Industria e politica nella storia d’Italia. Scritti scelti 1861-1916, cit., pp. 309-10).
In quegli anni, Colombo non fu l’unico a interrogarsi sulla direzione che si doveva imprimere alla formazione professionale. Mentre da più parti si levavano critiche nei confronti degli scarsi investimenti, in molti discutevano i pregi e i difetti del modello francese della scuola-officina, a cui s’ispiravano istituti come quello Montani di Fermo. Nel tentativo di eliminare il solco tra scuola e mondo produttivo, vi era chi proponeva soluzioni incentrate sulla collaborazione tra industrie e scuole, costruendo queste ultime in vicinanza dei complessi industriali. In questo modo si sarebbe ovviato al problema dell’ammodernamento delle officine scolastiche, che per stare al passo con un’innovazione tecnologica in rapida evoluzione avrebbero dovuto investire ingenti somme nell’acquisto di nuovi macchinari.
Nel 1875, il segretario del MAIC, Morpurgo, aveva scritto che le scuole tecniche non dovevano insegnare un mestiere o una professione, ma predisporre all’attitudine per il loro apprendimento. Pochi anni dopo anche l’ingegnere Benetti, docente di meccanica alla Scuola d’applicazione per ingegneri di Bologna, a cui nel 1881 era stata affidata la direzione dell’Istituto Aldini-Valeriani nella stessa città, appoggiava queste idee. Nella Relazione finale dell’anno scolastico 1881-82, conservata all’Archivio di Stato di Bologna, notava, infatti, che
l’Istituto non pretende di fare operai distinti ma solo fornire l’attitudine per diventarlo in breve tempo. Per tale perfezionamento non v’è scuola che possa sostituire l’officina industriale, cioè l’organizzazione del lavoro, il rapporto costi-produttività, costi-uso economico del materiale, l’importanza dei capitali e delle macchine. Nell’Istituto si apprende la grammatica del lavoro manuale (in Curti 1997, p. 811).
Tra la fine dell’Ottocento e i primi decenni del Novecento, il tema della formazione al lavoro e dell’istruzione professionale non interessò solo ingegneri e industriali, preoccupati per il versante produttivo e le ricadute economiche, ma anche medici, pedagogisti e psicologi, intenzionati a rispondere in maniera nuova e sperimentale alle esigenze dell’orientamento professionale e della psicologia del lavoro; aspetti che contribuirono a complicare ulteriormente il discorso novecentesco su questo tipo di formazione.
Tra le due guerre mondiali: Ugo Pizzoli e la psicologia del lavoro
A più di mezzo secolo dall’Unità d’Italia, il panorama dell’istruzione professionale risultava ancora molto eterogeneo e non sviluppato in maniera adeguata. Nel 1918, all’indomani della fine della Prima guerra mondiale, un’inchiesta promossa dalla Società Umanitaria di Milano, impegnata sia sul versante dell’istruzione sia su quello dell’orientamento professionale, tracciava un quadro poco lusinghiero della situazione, mettendo ancora una volta in risalto il ruolo giocato fino a quel momento dall’iniziativa individuale:
Il problema dell’insegnamento professionale è uno dei più urgenti. Finora si è molto discusso e si è molto operato. Abbiamo alcune libere iniziative lodevolissime, ma esse non possono costituire che uno stimolo ed un esempio. Azione organica e generale manca assolutamente. Sino a pochi anni or sono può dirsi che l’istruzione professionale si limitava in Italia ad insegnamenti parziali, che si potevano riaddurre a due categorie di istituti: scuole di disegno e scuole professionali di arti e mestieri (Società Umanitaria, L’istruzione professionale nel dopo guerra, 1918, p. 16).
Contrariamente a quanto aveva auspicato Colombo nel lontano 1867, le politiche governative si limitavano ancora a esercitare un controllo per lo più amministrativo, anche se la legge nr. 854 del 1912 (la prima in tema di istruzione professionale, che istituiva la «scuola popolare operaia per arti e mestieri di primo grado» rivolta ai bambini appena usciti dalle elementari) e lo scoppio del conflitto mondiale (che aveva fatto emergere l’importanza di avere maestranze efficienti e istruite nelle industrie, attivando corsi speciali di perfezionamento per operai già occupati nelle industrie dei comuni più importanti del settore) avevano contribuito a portare alla ribalta le ragioni della formazione professionale.
In questo scenario di rinnovato interesse, nel 1919 entrò in funzione a Roma il primo Istituto di istruzione professionale della capitale, la cui istituzione risaliva al 1912. La direzione fu affidata all’ingegnere Luigi Andreoni, autore di un corposo volume pubblicato nel 1914, L’educazione professionale e l’istituto industriale delle Calabrie, che allargava lo sguardo alla realtà dell’Italia meridionale, ben diversa da quella del Centro e del Nord. A fronte delle iniziative statali, continuò in questi anni il fenomeno della fondazione di scuole professionali da parte di privati cittadini, in sinergia con le istituzioni locali e il mondo dell’industria. Ne sono un esempio le già citate esperienze della Scuola industriale di Milano, sostenuta dalla famiglia Feltrinelli e quella dell’Istituto Fermo Corni di Modena, voluto all’indomani della Prima guerra mondiale da un industriale della zona e affidato alla direzione non più di un ingegnere, ma del medico, psicologo e pedagogista Pizzoli.
La scuola modenese rispondeva alla doppia esigenza di investire sulla formazione professionale e di valutare in maniera scientifica le inclinazioni personali e le difficoltà psicologiche dei futuri operai e delle future maestranze. Sul finire dell’Ottocento, mentre l’industria cresceva e portava con sé nuovi problemi sociali, in Italia, come nel resto d’Europa, si erano diffusi laboratori e gabinetti di psicologia e pedagogia sperimentale per l’esame psicologico e attitudinale dei giovani, appartenenti soprattutto ai ceti più disagiati, da avviare ai diversi mestieri (Passione 2012, pp. 193-229). In molti casi queste iniziative venivano da singoli scienziati, sostenuti da imprenditori ‘illuminati’ e da amministrazioni locali, portando a collaborazioni fruttuose, anche se fragili, con il mondo della scuola e dell’industria. Non fu un caso, quindi, se all’inizio del Novecento psicologi sperimentali di primo piano come Giulio Cesare Ferrari, occupandosi di orientamento professionale e di psicologia del lavoro, guardassero con attenzione a quanto si andava facendo in istituti industriali come l’Aldini-Valeriani di Bologna.
In un clima di crescente contrasto sociale e di disagio psicologico della classe operaia, la regia Scuola popolare per arti e mestieri per la formazione di manodopera specializzata di Modena fu istituita nel 1918 e inaugurata nel 1921 con il sostegno degli enti locali e dello Stato, oltre che dell’industriale Fermo Corni (1853-1934), principale artefice dell’iniziativa. Erano gli anni in cui anche la Società Umanitaria di Milano prestava molta attenzione al rapporto tra psicologia e lavoro, orientamento e formazione professionale, svolgendo tra l’altro indagini psicologiche negli stabilimenti industriali, come quella condotta nel 1921 dal direttore del Laboratorio di psicologia del Manicomio provinciale di Milano in Mombello, Giuseppe Corberi (1881-1951), dal titolo Appunti sulla ricerca delle attitudini professionali.
Presidente della Camera di commercio di Modena, attivo nel settore della meccanica e proprietario della Fabbrica italiana Serrature Corni & C., Corni affidò la direzione del neonato istituto professionale a Pizzoli, di cui aveva già sostenuto la fondazione, sempre a Modena, della Scuola normale maschile.
Psicologo e pedagogista esperto, Pizzoli godeva di una lunga esperienza sul campo. Già nel 1901, infatti, aveva avviato a Crevalcore, una cittadina dell’Emilia, il Laboratorio di pedagogia scientifica, poi trasferitosi a Milano. Sulla spinta della legge nr. 854 del 1912, la Scuola Fermo Corni nacque guardando ai modelli offerti dagli istituti industriali e professionali che l’avevano preceduta, dall’Istituto Alessandro Rossi di Vicenza all’Istituto Giuseppe Omar di Novara, sorto nel 1895 per formare maestranze per le arti meccaniche e falegnami modellisti. Ma a differenza di queste, Corni intendeva impiantare una scuola organizzata secondo i più avanzati canoni della pedagogia scientifica e rivolta ai giovani usciti dalla quarta elementare che vi avrebbero frequentato tre anni di corsi per imparare uno dei mestieri praticati nel territorio. Per questo, non vi erano solo laboratori per l’apprendimento della falegnameria, della meccanica e dell’economia domestica, ma anche un laboratorio di lavoro manuale con attività che gli allievi potevano scegliere liberamente, seguendo le loro inclinazioni. Pizzoli cercava di stimolare senza indottrinare l’allievo, dando una propria originale risposta al problema della formazione professionale che aveva percorso tutta la seconda metà dell’Ottocento.
Pur mirando a un aumento della produttività attraverso la formazione di manodopera specializzata, l’Istituto Fermo Corni cercava di rispondere ai bisogni psicologici del lavoratore in quanto uomo completo e autonomo. L’opera educativa della scuola non era quindi intesa come un insegnamento professionale in senso stretto, ma come uno studio psicoattitudinale delle vocazioni degli alunni, che avrebbero reso di più se indirizzati verso un mestiere a loro congeniale. A tale scopo, Pizzoli organizzò all’interno dell’istituto un moderno laboratorio di indagine psicotecnica, il Gabinetto Menafoglio, reso possibile grazie all’aiuto di un altro industriale ‘illuminato’ della zona, il marchese Francesco Menafoglio.L’esperienza della direzione Pizzoli fu però breve. Egli fu congedato dal suo incarico nel 1924, anno in cui venne chiuso anche il Gabinetto Menafoglio, in linea con i dettami della riforma Gentile. Questa introdusse un generale principio di controllo e di uniformazione tra le diverse realtà scolastiche della penisola, subordinando le scuole professionali alle esigenze specifiche e di breve periodo dell’industria e del mondo del lavoro. Si perse così lo slancio riformatore e la tensione sperimentale mostrata da esperienze come quella di Pizzoli.
Mentre nel 1928 fecero la loro apparizione le scuole secondarie di avviamento al lavoro, molte delle scuole di cui si è parlato si trasformarono in istituti tecnici, industriali e commerciali governativi, come l’Aldini-Valeriani di Bologna, che nel 1932 diventò un istituto tecnico per periti industriali, o quello di Firenze, che nel 1933 si trasformò in un istituto tecnico commerciale e per geometri. Nel nome di molte di queste istituzioni sopravvive ancora oggi la memoria di quei fondatori e sostenitori, filantropi e benefattori, che con la loro opera e iniziativa diedero un importante contributo all’organizzazione della formazione professionale in Italia.
Opere
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C.I. Giulio, Relazione sul primo anno di corso nella R. Scuola di meccanica applicata alle arti, Torino 1846.
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