La fortuna di Gentile in Italia
Ricostruendo le incidenze dell’attualismo sulla cultura dell’Italia contemporanea, Antimo Negri (1975, p. 1) ha esteso alla filosofia di Gentile un giudizio che Eugenio Garin (Introduzione a G. Gentile, Storia della filosofia italiana, a cura di E. Garin, 1° vol., 1969, pp. XIII-LI) aveva pronunciato a proposito della sua storiografia: tanto l’una quanto l’altra sono state capaci «di penetrare dovunque», «nei luoghi più impensati, presso gli avversari più acerbi, raggiungendo sottilmente un’egemonia non ancora esaurita» (p. LI). Negri e Garin concordano nel riconoscere al pensiero gentiliano un ruolo di rilievo nella storia della cultura italiana e un’influenza che si estende ben al di là della cerchia dei discepoli e degli scolari, coinvolgendo critici e detrattori. Nel presente saggio si propone una selezione di autori e problemi basata su un duplice criterio: in primo luogo, si privilegeranno quegli interlocutori di Gentile la cui formazione e i cui orientamenti non sono o sono soltanto in parte riconducibili alla matrice attualistica; tra questi, si prediligeranno, in secondo luogo, quelli il cui pensiero è o comincia a essere oggetto di dibattito e interpretazione.
Il dialogo di Adolfo Omodeo con Gentile verte sui fondamenti filosofici della storiografia. Si situa, sin dall’inizio, nella tensione fra l’aspirazione a rigorizzare l’attualismo in uno dei suoi punti più controversi – il rapporto con l’oggettività storica – e le precoci manifestazioni di insofferenza nei confronti della ‘retorica dell’atto’ (cfr. lettera a Eva Zona del 12 nov. 1912, in A. Omodeo, Lettere. 1910-1946, a cura di E. Omodeo Zona, P. Serini, 1963, pp. 40-41). Se ne ravvisano tracce consistenti nel saggio Res gestae e historia rerum gestarum («Annuario della Biblioteca filosofica», 1913, 1, poi in Scritti storici, politici e civili. Una diuturna polemica, a cura di M. Rascaglia, 1998, pp. 277-91), la cui redazione è motivata dall’esigenza di superare il residuo oggettivistico annidato nella distinzione crociana di «storia» e «cronaca», ritenuto in contrasto con la tesi della contemporaneità della storia (lettera a Gentile, senza data, ma probabilmente scritta nel primo trimestre del 1913, in Lettere, cit., p. 58). Omodeo estende pertanto la critica gentiliana del naturalismo all’oggettivismo storiografico, denunciando come fallace e illusoria, per i suoi esiti scettici o contemplativi, la pretesa di «un puro oggetto» al quale si possa risalire «a traverso la serie storica» e al quale si possa «adeguare dal di fuori [...] la nostra conoscenza» (Res gestae, cit., p. 277). L’oggettività storica non è esterna né estranea al pensiero, perché si costituisce entro l’atto con cui il soggetto la conosce; dunque, entro un giudizio, una valutazione o una testimonianza. L’unità di historia rerum gestarum e res gestae, guadagnata sul fondamento dell’identità attualistica di conoscere e fare, non è tuttavia per Omodeo un punto d’arrivo, bensì un punto di partenza: quella che, dal punto di vista della sintesi, è un’unità inscindibile, sul piano dell’astrazione si presenta differenziata in due momenti, la trasvalutazione del passato (historia) e la produzione di storia nuova (res). In altri termini, Omodeo traspone nell’identità di res gestae e historia rerum gestarum l’esigenza che la comprensione storica diventi «valore» e «norma interiore» dell’azione nuova, coscienza e consapevolezza di sé e del proprio processo che lo spirito acquista nell’atto di prodursi in un nuovo fare, giusta e necessaria «risoluzione del passato» nel «concreto conoscere ed operare dello spirito» (pp. 279-80). Si prospetta, di conseguenza, la necessità di conciliare il piano empirico della successione (delle historiae, delle testimonianze, dei giudizi) e il piano trascendentale dell’atto puro, assoluto e «senza tempo», che è garanzia della sintesi, dell’unità e della pensabilità della storia. Il saggio, lungi dal conseguire l’unificazione di questi due piani, sancisce in più punti la loro separazione. Nelle pagine centrali, che valorizzano la categoria gentiliana dell’«autocoscienza» nella critica del concetto naturalistico di causa, il tentativo di strutturare il rapporto tra personaggio storico e storiografo come rapporto tra autocoscienza e autocoscienza riconferma la scissione fra il piano empirico, su cui si colloca l’«uomo creatore della storia», solidale con l’«unità fluente» del processo storico, e il piano dell’atto assoluto ed eterno, che rende possibile la sintesi entro cui l’oggetto «fiorisce e vive come germoglio vitale» (p. 283). Nelle pagine seguenti, la ricerca dell’unità si presenta come tentativo di conciliare (p. 286) la definitività del giudizio, che rinvia alla chiusura del processo storico, con la serialità, la quale rinvia invece a un molteplice non dissimile da quello del tempo ordinario, ripetutamente criticato come «caldaia del Caos» (pp. 282 e 287). Infine, nelle pagine conclusive, Omodeo pone la sintesi come presupposto e risultato dell’indagine storica, ma attinge, tuttavia, non l’identità della sintesi, bensì la differenza tra la sintesi come pregiudizio e la sintesi come giudizio trascendentale. Tali complicazioni testimoniano la difficoltà di congiungere storicismo e attualismo.
Non meno problematico è il rapporto tra storiografia e attualismo instaurato in Gesù (1920), primo volume della Storia delle origini cristiane (3 voll., 1920-1923). Nella seconda parte, Omodeo ricorre alla categoria di ‘mito’ nel tentativo di collocare il messaggio cristiano in un rapporto di continuità e di innovazione con la problematica religiosa giudaica. Il ‘mito’ definisce il processo di rifusione e trasfigurazione dell’escatologia giudaica nella predicazione di Gesù; il porsi della sua coscienza messianica come inedita mediazione fra uomo e Dio; il rovesciamento dell’assoluta trascendenza del Regno di Dio in imminenza e prossimità, della fede vacillante in volontà fattiva, del fantasticare apocalittico in speranza operosa (pp. 103-09). Il ‘mito’ cristiano congiunge pertanto due elementi: l’annuncio escatologico e la rivelazione dell’attualità della fede nella moralità del cristiano. Allo stesso tempo, sembra risolvere il primo elemento nel secondo, in quanto esige l’anticipazione del Regno nella coscienza del cristiano, perché l’attesa si converta in azione. Lo schema delle «due rivelazioni» (pp. 186-88) risponde all’esigenza speculativa di individuare nella figura del Nazareno, negatore dell’assoluta trascendenza (pp. 151-54), il ‘precursore’ dell’immanentismo moderno. D’altronde, se il ‘mito’ costituisce una configurazione storica del rapporto tra umano e divino, se il variare di queste configurazioni scandisce il processo storico, il raggiungimento dell’assoluta immanenza, la totale risoluzione del divino nell’interiorità dell’uomo non possono che presentarsi come conclusione della storia (Mustè 1990, pp. 177-78).
Sebbene ancora nella prolusione del 1923 all’Università di Napoli (Il valore umano della storia cristiana, «Giornale critico della filosofia italiana», 1923, 4, poi in Tradizioni morali e disciplina storica, 1929, pp. 9-41) Omodeo evochi Gentile come «maestro di storicismo» (p. 10) e delinei una rappresentazione della storia universale ispirata alle tre epoche del rapporto spirito-natura (cfr. la prolusione di Gentile del 1914 all’Università di Pisa, L’esperienza pura e la realtà storica, pubblicata nel 1915, poi in La riforma della dialettica hegeliana, 1954, pp. 233-62, in partic. pp. 237-40), gli anni Venti vedono maturare il suo distacco dall’attualismo, concomitante con una revisione delle nozioni di ‘soggetto’ e di ‘mito’. Omodeo abbandona l’istanza di un soggetto assoluto, codificato in una libertà metafisica, insistendo piuttosto sulla feconda e inesauribile tensione tra l’autonomia del fatto storico e la sintesi operata dallo storiografo, fra il retaggio della tradizione e l’esigenza di una libertà costruttiva e responsabile (Storicismo e azione, «Leonardo», 20 dicembre 1928, poi in ll senso della storia, a cura di L. Russo, 1955, pp. 598-603, in partic. pp. 601-02). Parallelamente, al mito viene ascritta non solo la «perenne insufficienza speculativa», ma anche quella peculiare «corpulenza» che gli permette di operare come «braccio della storia» (Trentacinque anni di lavoro storico, «Mercurio», 1945, 13, poi in Il senso della storia, cit., p. 12): esso è in definitiva «forma concreta d’un’esperienza spirituale», «categoria vivente [...] che irrompe nell’azione» (Storia delle origini cristiane, cit., 3° vol., Paolo di Tarso, 1922, 2000, p. 193) e orienta l’uomo nel suo sforzo di introdurre il nuovo nella storia. Queste acquisizioni non compromettono – nel periodo di massima distanza dall’attualismo – le radici gentiliane dello storicismo di Omodeo: l’accentramento della storicità nella coscienza e nel soggetto, quantunque si tratti ora di un soggetto e di una coscienza finiti, e l’interesse per le epoche di rinnovamento spirituale ed etico-politico, per le «età creatrici» e per le «primavere del genere umano» (pp. 12-13).
Rodolfo Mondolfo si propone di riscattare la filosofia della praxis di Karl Marx dalle accuse gentiliane di dualismo, di sincretismo e di materialismo inconseguente (cfr. G. Gentile, La filosofia di Marx. Studi critici, 1899, 1962, pp. 163-65). Nel far ciò, tuttavia, accetta i termini imposti da Gentile con la propria traduzione, strumentale e filosoficamente orientata – era stata inserita nella citata Filosofia di Marx –, delle Thesen über Feuerbach, scritte da Marx nel 1845 (ma pubblicate postume nel 1888). Mondolfo (in La filosofia del Feuerbach e le critiche del Marx, «La Cultura filosofica», 1909, 3, poi, con il titolo Feuerbach e Marx, in Umanismo di Marx. Studi filosofici 1908-1966, a cura di N. Bobbio, 1968, pp. 8-78, in partic. pp. 10-11) non mette infatti in discussione la controversa scelta di rendere «umwälzende praxis» con «praxis rovesciata» o «praxis che si rovescia», attraverso la quale Gentile aveva identificato la praxis marxiana con l’«attività originaria» e «creatrice» del soggetto, riconducendola nell’alveo della tradizione idealistica e dichiarandone l’incompatibilità con il materialismo (La filosofia di Marx, cit., pp. 82-86). La sua strategia consiste nel superare la riduzione materialistica del pensiero di Ludwig Andreas Feuerbach. A tal fine, Mondolfo proietta sul reale Humanismus feuerbachiano l’identità gentiliana di praxis e soggetto, leggendo ‘attività’ là dove Feuerbach scrive ‘coscienza’ e interpretando ripetutamente il rapporto soggetto-oggetto come un rapporto pratico-dialettico (La filosofia del Feuerbach, cit., pp. 23-25). Di conseguenza, per Mondolfo, la praxis è già nel pensiero feuerbachiano: è l’attività attraverso la quale l’uomo oltrepassa i limiti che la natura gli oppone nel soddisfacimento dei propri bisogni. Il progresso compiuto da Marx nei confronti di Feuerbach non consiste allora nel tentativo incongruente di «applicare» alla materia i caratteri che l’idealismo attribuisce allo spirito, quanto nella trasposizione del plesso praxis-bisogno dal piano dell’individuo generico a quello della società, dal mondo della natura al mondo della storia (p. 60). In Marx, il «rovesciamento della praxis» non designa più il rapporto dell’umanità generica con la natura, quanto piuttosto il processo di perenne e incessante conversione dei risultati della pregressa attività pratica dell’uomo in condizionamenti da negare e superare con l’attività nuova:
Dove il Feuerbach, che si colloca ad un angolo visuale naturalistico, pone un rapporto fra l’uomo e il mondo esterno, il Marx e l’Engels, che si collocano ad un angolo visuale storico, pongono il rapporto della attività successiva di fronte ai risultati dell’attività precedente: il rapporto della praxis che si rovescia (pp. 94-95).
Mondolfo, dunque, stabilisce un pieno isomorfismo tra la dialettica della praxis tratteggiata da Gentile, la dialettica del bisogno trovata in Feuerbach e il «rovesciamento della praxis» attribuito a Marx. Il tratto comune è costituito dalla funzione assegnata all’autocoscienza (che, nel Marx di Mondolfo, è autocoscienza di grandi soggettività collettive, di gruppi e classi sociali), la quale soltanto può riconoscere nel condizionamento oggettivo, oltre che un risultato, un presupposto dell’azione nuova, e dunque commisurare alla consapevolezza del limite i fini di tale azione. Il tratto distintivo della filosofia della praxis di Marx è costituito invece dall’introduzione della storicità, che per Mondolfo coincide con la temporalità ordinaria (precedente/successivo).
Nel corso del 1919, in un periodo nel quale i tratti essenziali del marxismo mondolfiano sono ormai definiti, il giovane Palmiro Togliatti accoglie e discute alcuni motivi gentiliani nelle pagine del settimanale socialista torinese «L’Ordine nuovo»: a catalizzare la sua attenzione sono l’identità di filosofia e politica e l’affermazione dell’immanenza dello Stato nella coscienza e nella volontà etica degli individui. Dal primo motivo scaturisce il rifiuto di ogni atteggiamento dottrinario, intellettualistico e contemplativo; dal secondo, deriva la vigorosa affermazione della storicità degli istituti politici (“Guerra e fede” e “Politica e filosofia” di Giovanni Gentile, «L’Ordine nuovo», 1° maggio 1919, poi in La politica nel pensiero e nell’azione. Scritti e discorsi 1917-1964, a cura di M. Ciliberto, G. Vacca, 2014, pp. 1183-87, in partic. pp. 1885-86) e la critica di quelle istituzioni, come lo Stato liberale italiano, la cui esistenza non trae alimento dalla «coscienza etica e religiosa di una collettività» (“Dopo Caporetto” di Giuseppe Prezzolini, «L’Ordine nuovo», 18 ottobre 1919, poi in La politica, cit., p. 1937). Nella ricezione dell’identità gentiliana di filosofia e politica si riflette l’urgenza di radicare l’elaborazione culturale del gruppo ordinovista e la concezione socialista del mondo nell’esperienza storico-politica dei Consigli di fabbrica: la ricerca, in definitiva, di un nesso tra teoria e pratica. Il ricorso alla concezione gentiliana dello Stato è invece motivato dalla necessità di ribadire, contro gli anarchici, il significato etico dello Stato proletario, il suo legame non soltanto con le esigenze della gestione diretta della produzione, ma anche con la coscienza etico-politica maturata dalla classe operaia. In altri termini, Togliatti rivendica per le maestranze torinesi impegnate nelle occupazioni delle fabbriche il diritto all’istituzione di forme politiche che siano espressione organica della loro volontà collettiva (La costituzione dei Soviet in Italia. Dal progetto Bombacci all’elezione dei Consigli di fabbrica, «L’Ordine nuovo», 14 febbraio e 13 marzo 1920, poi in L’Ordine nuovo, 1966, pp. 291 e 315). Il confronto con l’idealismo attuale lascia un’impronta duratura e indelebile nella formazione intellettuale di Togliatti, il quale, ancora pochi anni dopo, afferma di essere pervenuto al marxismo percorrendo la stessa «via seguita da Carlo Marx» (La nostra ideologia, «L’Unità», 2 settembre 1925, poi in La politica, cit., p. 1972), sebbene sia ormai persuaso del fallimento di quelle élites intellettuali che avevano cercato di rinnovare la cultura italiana sulla scorta della rinascita dell’idealismo e dell’insegnamento di Croce e Gentile.
Sin dall’apparire del secondo volume (1923) del Sistema di logica come teoria del conoscere (2 voll., 1917-1923) di Gentile, non sono mancati interpreti che ne hanno sottolineato la discontinuità rispetto alla Teoria generale dello spirito come atto puro (1916): tra questi, Gustavo Bontadini. A suo avviso, la Teoria generale deduceva l’Io trascendentale dalla relazione gnoseologica tra soggetto e oggetto empirici con un procedimento aporetico: l’Io trascendentale doveva costituire a sua volta l’oggetto di una ulteriore istanza conoscitiva, decadendo a ‘fatto’ e innescando un regressus ad infinitum, oppure essere collocato al di là dell’esperienza e risultare inconoscibile. Il Sistema di logica abbandona tale procedimento e interpreta l’Io trascendentale come la «considerazione riflessa» o «mediata» dell’empirico, come il «conoscere in quanto tale» (Le polemiche dell’idealismo, II, Polemiche interne, «Rivista di filosofia neoscolastica», 1925, 17, 6, poi in Studi sull’idealismo, 1995, p. 31). Il significato speculativo dell’attualismo, per Bontadini, consiste dunque non nella delineazione di una dialettica originaria e costitutiva del reale, ma nell’affermazione dell’«identità formale» del soggetto in quanto puro conoscere con l’«oggetto in quanto oggetto» nell’«Unità dell’esperienza» (p. 34). Inizialmente, Bontadini definisce l’Unità dell’esperienza come la «totalità delle cose che si pensano in quanto si pensano» (La critica negativa dell’immanenza, «Rivista di filosofia neoscolastica», 1926, 5-6, poi in Studi, cit., p. 59) o che sono «conosciute in quanto conosciute» (La posizione del problema teologico, «Rivista di filosofia neoscolastica», 1927, 4-5, poi in Studi, cit., p. 187), identifica il problema dell’immanenza (o la trascendenza) dell’Assoluto all’Unità dell’esperienza con quello dell’immanenza (o la trascendenza) dell’essere al pensare, e argomenta che il concetto di Unità dell’esperienza non esclude l’esistenza di una realtà (l’Assoluto) la quale, «non essendo neppure immaginata», esista «oltre il pensare considerato in qualsiasi sua forma» (p. 190). Tale concetto intrattiene allora una relazione duplice con la metafisica: una negativa, in quanto non pregiudica la trascendenza, salvo porsi esso stesso come concetto teologico (come identità con l’Assoluto), ma soltanto ne esibisce il carattere problematico; e una positiva, in quanto contribuisce a una preliminare discriminazione degli aspetti fenomenologici di una possibile indagine sull’essere.
In seguito, Bontadini perviene ad affermare, in primo luogo, che una trascendenza concepita naturalisticamente, come distinzione dell’essere dal pensiero, è agevolmente neutralizzata dall’argomento idealistico dell’intrascendibilità del pensiero; in secondo luogo, che tale argomento risolve nel pensiero l’alterità presupposta dell’essere, non l’essere come tale, e che pertanto l’immanenza dell’essere al pensiero, lungi dal contrastare con il realismo classico, deve essere identificata con l’intenzionalità del pensiero all’essere (Idealismo e immanentismo, «Rivista di filosofia neoscolastica», 1936, 3, poi in Conversazioni di metafisica, 1° vol., 1971, pp. 11-14). L’Unità dell’esperienza, definita ora come totalità dei dati della coscienza, come presenza o apparire fenomenologico dell’essere, perde la sua originaria connotazione idealistica e diventa momento di indistinzione fra idealismo e realismo (Idealismo e realismo, in Relazioni e comunicazioni presentate al X Congresso nazionale di filosofia, supplemento al 27° vol. della «Rivista di filosofia neoscolastica», 1935, poi in Studi, cit., pp. 275-79). Riassumendo, idealismo e realismo convergono su due punti: la posizione dell’immediatezza gnoseologica (o Unità dell’esperienza), che è premessa metodologica di ogni ulteriore determinazione metafisica dell’Assoluto, e la negazione della trascendenza naturalistica dell’essere. L’idealismo, d’altronde, si discosta dal realismo in quanto, per poter esperire la pura dialetticità del pensare, il puro mediare, deve reintrodurre una forma di trascendenza gnoseologica (l’Assoluto come non-ancora-noto, come indeterminato), risolta la quale esso consegue il «conguagliamento di essere e pensiero» (pp. 286-87). Tale esito conferma, anziché sminuire, l’autentico significato storico-teoretico dell’attualismo: in primo luogo, esso ha ricondotto l’essere nel dominio del pensiero, non per negarlo, ma per riaffermarlo come oggetto di una possibile scienza; in secondo luogo, ha mostrato la problematicità del contenuto del pensiero (la presenza fenomenologica), ponendo l’esigenza di una metafisica che trasformi quel contenuto «da problema in teorema» (Gentile e noi, «Giornale critico della filosofia italiana», 1947, 1-2, poi in Dal problematicismo alla metafisica. Nuovi studi sulla filosofia contemporanea italiana, 1952, pp. 15-16).
Concorde con Bontadini nel rilevare una cesura fra la Teoria generale e il Sistema di logica, Armando Carlini, in tre articoli apparsi sul «Giornale critico della filosofia italiana» (Considerazioni su la logica del concreto di Giovanni Gentile, Dialettica e filosofia e Idealismo e spiritualismo, 1924, 1, 2 e 4, poi, con il titolo generale Per una interpretazione critica della dialettica dell’attualismo, in Studi gentiliani, 1958, pp. 289-347), ne rovescia il giudizio e individua il nucleo teoretico originale dell’attualismo negli scritti gentiliani del periodo 1911-16, in particolare nel concetto dell’immanenza intesa come risoluzione della realtà nell’atto concreto del pensare e come identità della filosofia con l’atto puro stesso, onde l’attualismo costituisce non già una filosofia dell’atto, ma una filosofia in atto (pp. 298-300). Ripercorrendo la genesi del pensiero gentiliano, Carlini vi scopre tuttavia un ulteriore aspetto, che si presenta come un residuo della metafisica spaventiana, là dove il primo costituiva il punto di distinzione di Gentile da Bertrando Spaventa. In sintesi, mentre per Spaventa l’atto del pensare è ancora atto del conoscersi di un soggetto che si realizza nel conoscere un oggetto, Gentile, con la sua riforma della dialettica hegeliana, ha interpretato l’atto del pensare come l’atto del pensarsi, come l’autocreazione del soggetto, e ha affermato la coincidenza dell’atto con «la personalità o individualità spirituale che in esso si realizza liberamente» (p. 302). Gentile segue d’altronde Spaventa nel considerare l’atto come Mente o pensiero puro, nel riproporre il dualismo soggetto-oggetto. I due motivi, personalistico e gnoseologistico, appaiono intrecciati nel pensiero gentiliano, «ma non sì che non sia possibile distinguerli, talora in una stessa pagina» (p. 305). A questa dualità di motivi teoretici corrisponde una duplice formulazione della dialettica, come ritmo creatore della soggettività e come logica del conoscere: la seconda prevale nel Sistema di logica, con la conseguenza di vincolare il soggetto all’oggetto, di privilegiare l’estraniazione dell’atto nel mondo delle cose piuttosto che la sua dimensione di interiore spiritualità, di riaffermare il dualismo gnoseologico a scapito dell’unità ideale (p. 346). Se, d’altro canto, l’atto è innanzitutto un’unità che si autoproblematizza, conoscenza non di oggetti esterni, ma di se stesso come soggetto, e realizzazione pratica del proprio valore nel mondo storico, l’autentica dialettica attualistica non è fra soggetto e oggetto, ma tra soggetto e soggetto: dialettica non dell’astrazione dal concreto, ma della differenza di concreto e concreto (pp. 316 e 318). Nei suoi scritti successivi (Dall’immanenza alla trascendenza dell’atto in sé, «Giornale critico della filosofia italiana», 1947, 1-2; Quel ch’io debbo a Gentile, «Giornale di metafisica», 1955, 1; Poscritto, 1955; tutti poi in Studi gentiliani, cit., pp. 37-45, 25-36 e 46-64), Carlini ha sostenuto che queste due istanze – sinteticità dell’atto, dialettica del soggetto (o della persona) – sono riemerse, per «contraccolpo» rispetto alle conclusioni del Sistema di logica, nelle opere più tarde di Gentile: nella Filosofia dell’arte (1931) e in Genesi e struttura della società. Saggio di filosofia pratica (scritto nel 1943 e pubblicato postumo nel 1946). Ma ha anche riconosciuto che, nella propria lettura dell’attualismo, agivano preoccupazioni estranee all’orizzonte gentiliano: la prima era di portare la distinzione crociana entro l’atto stesso, a significarne l’intrinseca e insopprimibile problematicità; la seconda, di considerare la concreta individualità spirituale non solo come esperienza conoscitiva del mondo fisico, ma come esperienza pratica nel mondo storico; la terza, di concepire Dio non come oggettività assoluta, bensì come assoluta soggettività, come «ideale-inattuale» che l’individualità scopre in se stessa nell’atto di ritrarsi dal mondo esteriore (delle cose e delle persone, della scienza e della storia) e di volgersi alla propria interiorità: in definitiva, come trascendenza e spiritualità interna all’atto, da riaffermare di contro a ogni sua immanentizzazione nella molteplicità dell’esperienza.
Fra gli anni Quaranta e Cinquanta, Gentile è l’interlocutore privilegiato di Mario Dal Pra e di Andrea Vasa nel loro tentativo di recuperare alcune istanze del neoidealismo, sottraendole nel contempo alla torsione metafisica che esse avevano subito nei sistemi dello Spirito e dell’Atto puro. Il loro punto di partenza è costituito dalla critica del teoricismo: dalla denuncia, cioè, della tendenza della filosofia tradizionale a stabilire «una volta per tutte il valore dell’essere facendolo coincidere con un dato conoscitivo» e a «fondare la validità di quel dato sulla validità assoluta del processo conoscitivo che ad esso conduce» (M. Dal Pra, Logica teorica e logica pratica nella storiografia filosofica, «Rivista critica di storia della filosofia», 1951, 6, 3, poi in Problemi di storiografia filosofica, a cura di A. Banfi, 1951, p. 33). Alla circolarità viziosa del teoricismo, Dal Pra e Vasa oppongono l’affermazione della radice pratica dell’essere, della sua modificabilità secondo istanze di universalità e valore non prescritte dalla struttura di ciò che è, e dunque liberamente fissate e perseguite. La loro attitudine nei confronti del pensiero gentiliano consiste nel rilevarvi due motivi contrastanti, corrispondenti all’antinomia tra teoreticità e praticità dell’universale. Infatti Gentile, da un lato, si è opposto alla presupposizione di una «realtà ab aeterno determinata» (La riforma della dialettica hegeliana, cit., p. 6), misura della verità cui il pensiero dovesse adeguarsi, e ha «legato il senso di ogni possibile universale teoretico a quello di un valore del pensare attuale» (A. Vasa, Memoria di Giovanni Gentile, «Giornale critico della filosofia italiana», 1964, 4, poi in Logica, religione e filosofia. Saggi filosofici, 1953-1980, introduzione di M. Dal Pra, 1983, p. 108); d’altro canto, ha codificato la verità immanente al pensiero in una «situazione trascendentale» (p. 109), in un «modulo definitivo [...] dell’essere» (M. Dal Pra, L’identità di teoria e prassi nell’attualismo gentiliano, «Rivista critica di storia della filosofia», 1951, 1, pp. 9-10). Da un lato, quindi, ha formulato una logica della realizzazione pratico-possibile dell’universale; dall’altro, l’ha subordinata a una logica speculativa che conosce la verità del pensiero come già e per sempre realizzata, e il suo valore come necessariamente ed eternamente conseguito.
A questo punto i giudizi dei due studiosi divergono. Vasa individua il motivo qualificante dell’attualismo nell’istanza antinaturalistica, nella riapertura del reale a «intenzionalità pratiche radicali» e a «possibilità di pensiero e d’azione» che non risultano «immanentemente attuali» (Memoria, cit., p. 129). Tale istanza non si risolve mai del tutto nella coincidenza assoluta di essere e pensare, e può anzi essere sviluppata nella direzione di un ‘razionalismo della prassi’: nella direzione, cioè, dell’apertura di un orizzonte di possibilità pratico-astrattive, liberamente realizzabili perché trascendenti ogni pretesa di assolutezza conoscitiva (pp. 113-14). Secondo Dal Pra, invece, l’aspetto teoricistico prevale sulla componente praticistica e condiziona la formulazione e il significato dell’attualismo. Questa prevalenza non viene meno, a suo giudizio, nell’ultimo Gentile, malgrado l’insistenza di questi sul concetto di ‘autoctisi’ e sull’unità di ‘teorico’ e ‘pratico’: se è vero che l’autoctisi è libertà e moralità, è anche vero che si tratta di una libertà e di una moralità metafisicamente codificate, alle quali, come Gentile stesso ammette, non ci si può sottrarre (Genesi e struttura della società, 1987, p. 7). Di conseguenza, Dal Pra collega il proprio ‘trascendentalismo della prassi’ alla metodologia storiografica di Gentile, piuttosto che alla sua speculazione. Egli è infatti persuaso che il ‘circolo’ gentiliano di filosofia e storia della filosofia, se affermato nel quadro di una concezione teoricistica del filosofare, comporti o la riconduzione del molteplice storico a un’unità presupposta alla storia (e pertanto indifferente alla temporalità) o la sua riduzione a pura accidentalità (Logica teorica, cit., pp. 47-49). Una dimensione di effettiva storicità può essere riguadagnata dal trascendentalismo della prassi che, criticando ogni presupposizione conoscitiva e ontologica del significato della storia e respingendo l’assolutizzazione del punto di vista dello storiografo, affida la sintesi storiografica a un’iniziativa interpretativa liberamente assunta e non confortata da alcuna evidenza metafisica (pp. 50 e 52).
Nella critica dalpraiana del ‘circolo’ deve ravvisarsi un’influenza di Guido Calogero, il quale fin dal 1934, in un suo saggio (pubblicato prima in traduzione inglese, con il titolo On the so-called identity of history and philosophy, in Philosophy and history. Essays presented to Ernst Cassirer, ed. R. Klibansky, H.J. Paton, 1936, poi in italiano, con il titolo Intorno alla cosiddetta identità di storia e filosofia, in La conclusione della filosofia del conoscere, 1938, pp. 117-40), aveva suggerito di risolverne le aporie sul piano di una filosofia dello spirito pratico: di una filosofia, cioè, che considerasse il soggetto non come conoscenza assoluta di ciò che è stato e di ciò che sarà, ma come sintesi e consapevolezza di ciò che ha fatto e di ciò che potrà fare (pp. 120-21). Con la differenza che, mentre per Calogero la ricostruzione storiografica del passato è accertamento di una situazione in sé incontrovertibile, immodificabile e indifferente all’istanza di valore, di contro al futuro che è libera e radicale apertura al possibile e alla prassi, per Dal Pra è essa stessa libera realizzazione dell’unità della storia, possibile investimento di significato non prescritto dalla struttura di ciò che è stato; non conoscenza teoretico-pura di un dato, ma continua interrogazione del passato e messa in discussione del suo senso. Ne consegue l’insistenza sulla possibilità, sulla molteplicità e sulla non definitività delle sintesi storiografiche, sorgenti da un dialogo inesauribile tra il presente e il passato, tra lo storiografo e le filosofie precedenti (Logica teorica, cit., p. 60), l’aspirazione a un concetto della filosofia che sia compatibile con la concreta storicità e l’articolazione di un circolo di filosofia e storia della filosofia che risulti di sussidio, non di ostacolo, al lavoro dello storiografo.
A partire dalla metà degli anni Quaranta, Garin è protagonista di un confronto con Gentile che investe sia il piano filosofico sia quello storiografico. A Gentile filosofo sono dedicate le pagine conclusive del capitolo “La filosofia italiana” della Storia della filosofia (1945), dalle quali traspare la persuasione che la «speculazione gentiliana», con la sua «ardente esaltazione della concretezza dell’atto spirituale» di contro alle «solidificazioni dell’astratto» (2011, p. 586), appartenga alla «filosofia della libertà», ossia a quell’atmosfera spirituale che si era diffusa in Europa nel primo Novecento e che, su impulso degli spiritualisti francesi (Maurice Blondel, Henri Bergson), aveva affrontato il problema della libertà «come problema della concreta vita spirituale» (p. 545).
Il concomitante interesse di Garin per il Gentile storico della filosofia è testimoniato invece da due saggi aventi lo stesso titolo, Giovanni Gentile interprete del Rinascimento («La Rinascita», 1944, 35, pp. 63-70; «Giornale critico della filosofia italiana», 1947, 1, pp. 117-28). Essi conferiscono a Gentile una posizione di rilievo nella storia degli studi rinascimentali; riconoscono la correttezza e la fecondità dei suoi giudizi storiografici sull’ispirazione non pagana, bensì religiosa, «profondamente cristiana», dell’Umanesimo e del Rinascimento e sul legame profondo tra pensiero umanistico e rinascimentale (1944, pp. 67 e 69; 1947, pp. 119 e 126-27); infine, esprimono riserve sulla formulazione dei rapporti tra tarda Scolastica e primo Umanesimo nei termini di una «netta opposizione», corrispondente all’antitesi tra trascendenza e immanenza, nonché sulla contrazione della filologia umanistica entro limiti estetico-letterari (1944, pp. 67-68; 1947, pp. 121 e 123). Diversamente articolata è, nei due saggi, la critica dell’interpretazione gentiliana della veritas filia temporis: nel primo, Garin contesta con fermezza l’attribuzione alla filosofia del Rinascimento di una «visione dello spirito come storia che tutto in sé risolve», riconoscendo tuttavia a Gentile il merito di aver colto «l’intimo profondo ottimismo della Rinascita», la sua celebrazione dell’opera umana «chiusa al dramma del peccato» (1944, p. 69); nel secondo, pur confermando le riserve, osserva che la riconquista umanistica del passato, «se partiva da un motivo antistorico, sboccava veramente nel senso della storia», dando in parte ragione a Gentile (1947, pp. 125-26).
I successivi interventi di Garin, da un lato, confermano l’interesse per Gentile storico della filosofia italiana; dall’altro, introducono il problema dei rapporti fra metodo e prassi storiografica. Garin, nello specifico, insiste nel collocare l’opera storiografica gentiliana nel periodo tra la conclusione degli studi universitari e la vigilia della grande guerra: dunque, nel far coincidere la conclusione del lavoro storiografico con la formulazione del metodo, con il prevalere dell’impegno teoretico, con l’emergere di un determinato concetto della filosofia e del filosofare (Introduzione, cit., pp. XLVIII-XLIX e LI; Gentile storico della filosofia, «Giornale critico della filosofia italiana», 1975, 3, pp. 330-41, in partic. pp. 333-34). Ma è proprio sul significato di questa coincidenza che il giudizio di Garin muta sensibilmente fra l’Introduzione del 1969 e il saggio del 1975. Inizialmente, Garin sostiene che il lavoro storico di Gentile sia pienamente conforme a quanto da lui teorizzato sul versante metodologico, nella prolusione palermitana del 1907 (Il concetto della storia della filosofia, «Rivista filosofica», 1908, 10, pp. 421-64) e nel saggio Il circolo della filosofia e della storia della filosofia («La Critica», 1909, 7, poi in La riforma della dialettica hegeliana, 1954, pp. 138-49), e che il metodo debba essere interpretato a partire dai risultati storiografici. Il metodo rispecchia ciò che Gentile ha fatto come storiografo: indagare la storia della filosofia italiana come una «storia degli intellettuali», obbedendo alla «logica egemonica del proprio tempo» (Introduzione, cit., p. XLIX). In una fase ulteriore, Garin afferma invece che il valore dell’opera storiografica di Gentile risiede nell’aver trasceso «con felice incongruenza» (Gentile storico, cit., p. 338) i limiti del metodo, e in particolare nell’essersi sottratta a quella riduzione della storicità alla logicità che il metodo prescriveva. Tale giudizio – peraltro coerente con la critica del metodo storiografico idealista che Garin svolge a partire dagli anni Cinquanta, nel segno di un’integrale storicizzazione del filosofare – non implica che la storiografia gentiliana perda i suoi legami con la teoresi: essa si presenta come ‘propedeutica’, come approfondimento, ricognizione e presa di coscienza dei problemi non solo speculativi, ma politico-culturali, che la successiva operosità filosofica avrebbe cercato di risolvere. Né compromette la valutazione complessivamente positiva formulata da Garin sul lascito storiografico di Gentile, sul «geniale affresco della storia dell’ideologia italiana» in cui risiede «il meglio dell’opera sua» (p. 338).
Nella sua autobiografia, Emanuele Severino ha rievocato il confronto critico con l’idealismo attuale come un passaggio cruciale della propria formazione filosofica (Il mio ricordo degli eterni. Autobiografia, 2011, pp. 17-19). A una prima fase – sensibilmente influenzata dal magistero di Bontadini e dalla sua interpretazione dell’attualismo come conclusione del ciclo gnoseologico moderno – appartengono il saggio Lineamenti di una fenomenologia dell’Atto («Rivista rosminiana», 1950, 4, poi in Heidegger e la metafisica, 1994, pp. 451-71) e la raccolta Note sul problematicismo italiano (1950, poi, in edizione ridotta, in Heidegger e la metafisica, cit., pp. 355-477). Nei Lineamenti, Severino aderisce all’interpretazione bontadiniana dell’Atto puro gentiliano come Unità dell’esperienza, ossia come totalità del reale pensato, come presenza fenomenologica dell’essere al pensiero, affermata in «base alla semplice constatazione di ciò che ci circonda» (p. 453), recependone la «funzione metodologica», il significato di premessa per una possibile futura metafisica. Tuttavia, l’indagine che Severino conduce ha per oggetto non le determinazioni dell’Assoluto, bensì l’Atto stesso, e si propone di mettere in discussione l’identità di Atto e autocoscienza (pp. 461-62). Nelle Note, Severino si ricollega alla definizione del problematicismo contemporaneo come prosecuzione e svolgimento dell’idealismo attuale; come riconoscimento del carattere antinomico dell’identità di essere e pensiero nell’Atto; come esplicitazione della problematicità dell’autocoscienza, della sua coincidenza con la situazione di domanda che solo la metafisica può appagare (cfr. G. Bontadini, Gentile e noi, cit., p. 20). Diversamente da Bontadini, Severino individua nella filosofia di Ugo Spirito non la categorizzazione della problematicità come «legge del pensiero», strutturalmente preclusa a una risoluzione metafisica, bensì la «posizione rigorosa e fondata» della «situazione psicologica iniziale d’ogni ricerca del vero e dell’Assoluto» (Note, cit., p. 358).
Nella fase ulteriore del pensiero severiniano, caratterizzata dall’affermazione dell’eternità degli essenti e dalla negazione del divenire in quanto annichilimento delle cose, il giudizio sull’attualismo muta radicalmente. Nel saggio Il sentiero del giorno («Giornale critico della filosofia italiana», 1967, 1, poi in Essenza del nichilismo, 1972, 19822, pp. 145-93) Severino riconosce a Gentile il merito di aver colto il carattere trascendentale dell’apparire, di aver definito l’orizzonte nel quale l’essere si manifesta parzialmente e nel quale appare il divenire. Tuttavia, Gentile ha inteso l’apparire come atto puro, «nel quale soltanto ogni cosa può esistere» (p. 186), identificando il non-essere-manifesto con l’essere-nulla. Nel saggio del 1987 Nietzsche e Gentile (in Nietzsche und Italien. Akten des deutsch-italienischen Nietzsche-Kolloquiums, Tübingen, 27.-28. November 1987, 1990, poi in Oltre il linguaggio, 1992, pp. 77-98) l’orientamento nichilistico dell’attualismo è posto in evidenza attraverso un confronto con la nietzscheana volontà di potenza: rifiutando la presupposizione della realtà al pensiero, Gentile ha «salvato il divenire» da ogni immutabile che potesse minacciarlo (pp. 96-97). Il giudizio conclusivo sull’attualismo come forma estrema del nichilismo non esclude che il confronto con Gentile prosegua su altri livelli, segnalati dal lessico (de Giovanni 2013, p. 12): per es., dall’impiego delle categorie di «concreto» e «astratto» nell’articolazione della «struttura originaria della verità dell’essere» – ossia della relazione fra l’«impossibilità che l’essere non sia» e la «necessità che l’essere appaia» (E. Severino, La struttura originaria, 1958, 19814, pp. 18-19) – e, dunque, nella definizione della differenza tra l’essere come totalità dell’immutabile e l’essere «astrattamente manifesto» (Ritornare a Parmenide (Poscritto), «Rivista di filosofia neoscolastica», 1965, 5, poi in Essenza del nichilismo, cit., pp. 63-133, in partic. pp. 100-02 e 105). Il rapporto che lega il Tutto alla Parte, il fondamento originario a ciascuna delle sue determinazioni, è un rapporto di «concreto» e «astratto»: quando ciascuna determinazione è considerata nella sua distinzione e nella sua necessaria e originaria correlazione al Tutto si perviene al «concetto concreto dell’astratto»; quando, viceversa, la Parte è considerata non quale è, ma quale appare, separata, e non soltanto distinta, dal Tutto, si ha un «concetto astratto dell’astratto», che spalanca le porte all’interpretazione nichilistica del divenire (La struttura originaria, cit., pp. 19-20, 42 e 47).
I quattro saggi dedicati da Augusto Del Noce alla figura e al pensiero di Gentile delineano un’interpretazione unitaria basata su tre tesi fondamentali: la considerazione dell’attualismo come rigorosa e radicale filosofia del divenire; la comprensione del pensiero gentiliano come tentativo di riforma religiosa, per la sua aspirazione a congiungere filosofia e teologia e a definire un peculiare cattolicesimo privo di elementi mitologici; l’affermazione della coincidenza fra l’attualismo e l’ideologia del fascismo, da cui discende la valutazione della scelta politica di Gentile quale approdo necessario e coerente della sua speculazione.
La prima tesi è formulata e svolta nel saggio Appunti sul primo Gentile e la genesi dell’attualismo («Giornale critico della filosofia italiana», 1964, 4, poi, con alcune modifiche e con il titolo Genesi e significato dell’attualismo, in Giovanni Gentile. Per una interpretazione filosofica della storia contemporanea, 1990, pp. 17-122), che individua l’origine della problematica speculativa gentiliana nella critica dell’intuizione quale era stata enunciata da Donato Jaja nel suo scritto più tardo, la memoria L’intuito nella conoscenza («Atti della Reale Accademia delle scienze morali e politiche di Napoli», 1894, 26, pp. 483-526). Il carattere distintivo dell’attualismo risiede nel compimento e nella radicalizzazione di quella critica, nel rifiuto della conoscenza intesa come adequatio e nel dissolvimento di ogni presupposto o datità, cui Gentile attribuisce un significato non solo, o non tanto, gnoseologico, ma anche e soprattutto teologico: identificando, infatti, il pensiero pensante e autocreativo con l’Assoluto, ritrovando il divino nello Spirito inteso come puro divenire, Gentile intende prospettare la sua filosofia dell’immanenza come autentica teologia, di contro alla teologia dei teologi, che conosce, o meglio presuppone, Dio come oggetto (Genesi, cit., pp. 30-44).
La contraddizione fra la vocazione teologica dell’attualismo e il suo carattere immanentistico – derivanti dal precoce confronto di Gentile con la filosofia italiana del Risorgimento e con Marx (p. 93) – è approfondita nei saggi L’idea di Risorgimento come categoria filosofica in Gentile («Giornale critico della filosofia italiana», 1968, 2, poi in Giovanni Gentile, cit., pp. 123-94) e Gentile e la poligonia giobertiana («Giornale critico della filosofia italiana», 1969, 2, poi in Giovanni Gentile, cit., pp. 195-282). L’idea di Risorgimento mostra come il tentativo di inverare il risorgimentalismo cattolico italiano in una filosofia religiosa dell’interiorizzazione del divino sia destinato non solo a uno scacco teoretico – non conciliandosi il richiamo alla tradizione con una filosofia che afferma il primato dell’azione e che pertanto richiede la dissacrazione di tutti gli assoluti e il ripudio del passato (pp. 188-89) – ma anche a una condizione di isolamento, non potendo essere ‘proseguito’ né dalla Sinistra gentiliana, che vede compromesso il carattere laico dell’immanentismo moderno, né dalla Destra, che non accetta la riduzione della rivelazione a mito (pp. 184-85). Gentile e la poligonia giobertiana mette in rilievo l’importanza dell’opera postuma di Vincenzo Gioberti La riforma cattolica (1856) – in particolare dell’affermazione giobertiana secondo cui esistono «tanti cattolicismi quanti gli spiriti umani» (cit. in Gentile e la poligonia giobertiana, cit., p. 195) – per la comprensione dello stretto rapporto tra speculazione filosofica e riforma del cattolicesimo, ma sottolinea anche l’esito eretico dello sforzo gentiliano di elaborare una teologia che, mentre si pretende autenticamente cattolica, nega tutti gli elementi essenziali del cattolicesimo: la trascendenza e la personalità del divino, la grazia e la rivelazione, la creazione divina e l’immortalità dell’anima individuale (pp. 278-79).
Alla critica della tesi sulla subalternità del filosofo al regime fascista, è infine dedicato il quarto saggio, apparso postumo (L’incontro con Mussolini, in Giovanni Gentile, cit., pp. 283-417), nel quale Del Noce evidenzia i motivi politici della convergenza fra Gentile e Benito Mussolini – la critica del liberalismo e del socialismo, l’aspirazione all’unificazione spirituale del popolo italiano e l’affermazione del carattere etico dello Stato – e quelli di carattere ideale: in particolare, l’accordo sulla rilettura di Marx in chiave attivistica, conseguita attraverso itinerari differenti e indipendenti. L’ultimo saggio afferma pertanto la convergenza di attualismo e fascismo nell’esprimere, filosoficamente e politicamente, una delle vie, quella dell’attivismo radicale, attraverso le quali la civiltà moderna è pervenuta alla negazione di ogni ordine eterno. In breve, per Del Noce l’attualismo è momento essenziale di una crisi di civiltà: le sue aporie testimoniano, sul versante filosofico, l’autocritica della modernità in quanto processo di secolarizzazione, di eversione dei valori e di chiusura al senso del trascendente e dell’immutabile.
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