La forza delle relazioni informali nella vita collettiva: riflessioni sul Mezzogiorno
Questo saggio è frutto di un lavoro di riflessione sulle relazioni informali di parentela, amicizia, conoscenza e vicinato che sono state al centro di gran parte delle ricerche che ho svolto nel Mezzogiorno. Sono relazioni informali particolaristiche che, nel quadro delle dicotomie analitiche della teoria sociale classica e, in particolare, della teoria della modernizzazione, a lungo sono state etichettate come sinonimo di arretratezza e sottosviluppo. Anche la versione più articolata e duttile delle variabili strutturali, elaborata dal sociologo statunitense Talcott Parsons (1902-1979), non supera la visione dicotomica.
Da tempo questa impostazione è stata criticata e superata da diverse angolature disciplinari. Da una parte, gli studi sui processi di sviluppo economico, non solo nella Terza Italia, ma in vari Paesi del mondo, hanno dimostrato come, pur nella variabilità dei percorsi, i rapporti e i valori ‘tradizionali’, particolaristici, variamente riaffermati e reinterpretati a seconda dei diversi contesti storico-sociali, coesistono e si intrecciano in maniera dinamica con i rapporti universalistici di tipo moderno. Dall’altra parte, la network analysis e, in maniera ancor più decisa e convincente, l’approccio basato sul concetto di capitale sociale hanno ampiamente documentato e dimostrato la persistenza e l’importanza, nella società contemporanea, dei legami personali, a livello sia individuale sia collettivo. Le reti di interazione informale non solo sono cruciali nella sfera privata per il sostegno e il benessere personale ma, nelle loro proiezioni esterne, possono giocare un ruolo importante nel favorire lo sviluppo economico e la partecipazione democratica. Creano un clima diffuso di fiducia e cooperazione che stimola la crescita delle attività innovative, sia nei distretti tradizionali sia in quelli ad alta tecnologia; promuovono le reti di impegno civico e partecipazione diffusa che tanta parte hanno nel salvaguardare la salute delle istituzioni democratiche.
Questi argomenti sembrano perdere tutta la loro rilevanza quando il ‘discorso pubblico’ considera il Mezzogiorno, per il persistere di chiavi di lettura ideologiche unilaterali e onnicomprensive, ancora largamente dominato da stereotipi. Le relazioni informali assumono, di nuovo, tutta la carica negativa tradizionalmente associata alla categoria del particolarismo, declinato in quelle che sono generalmente considerate le sue principali manifestazioni nella realtà meridionale: il familismo, un orientamento esclusivamente volto a favorire la cerchia familiare più stretta che impedisce qualunque forma di organizzazione e di cooperazione più ampia; il clientelismo – lo scambio diretto di risorse contro il sostegno politico – che si rivela invariabilmente una difesa dello status quo e un ostacolo insormontabile a percorsi di sviluppo autonomo dei territori; l’appropriazione privata di beni pubblici attraverso la manipolazione di reti particolaristiche da parte di individui, gruppi e comitati di affari più o meno legali, che si riflette nella inefficienza delle amministrazioni e nella carenza di servizi essenziali e di beni collettivi. Non basta ad attutire lo stereotipo la considerazione che, soprattutto nel Mezzogiorno, le reti di solidarietà interpersonale costituiscono un valido aiuto per le famiglie, chiamate a svolgere ruoli e funzioni di cura e assistenza che altrove sono di competenza delle istituzioni pubbliche.
Le reti di interazione personale, infatti, secondo una rappresentazione collettiva ancora largamente condivisa, sono tramite soprattutto di pratiche clientelari, collusive, opportunistiche che incorporano solo gli aspetti negativi del capitale sociale: favoriscono l’interesse egoistico a scapito di quello generale; promuovono l’appartenenza anziché la competenza e il merito professionale; favoriscono le rendite di posizione e ostacolano lo sviluppo economico perché scoraggiano gli investimenti produttivi e la realizzazione di innovazioni nel rispetto della legalità e delle ordinarie dinamiche di mercato. Non solo: alimentano comportamenti trasgressivi che mortificano l’etica pubblica e la civicness; inquinano le istituzioni, incentivano la corruzione, gli sprechi e le attività dannose per l’ambiente e il territorio (si pensi solo all’abusivismo), causando pesanti e durature ricadute sulla sicurezza sociale e sulle condizioni di vita dei cittadini.
Si può senz’altro obiettare che la manipolazione delle reti particolaristiche a fini puramente egoistici, corporativi o affaristico-clientelari, come le cronache quotidiane dimostrano, non è certo fenomeno esclusivo del Mezzogiorno. Probabilmente al Sud, per la debolezza del tessuto produttivo, la scarsità di risorse, la forte dipendenza dalla spesa pubblica e la maggiore pervasività delle relazioni ‘pericolose’, il fenomeno assume valenze più macroscopiche. E tuttavia sarebbe un grave errore generalizzare. Come è stato ripetutamente dimostrato da innumerevoli verifiche empiriche, esistono significative differenze interne al contesto meridionale, e varie esperienze di sviluppo locale e regionale, dinamiche e innovative, di cui è doveroso tenere conto (Mutti 1998; Cersosimo, Donzelli 2000; Mezzogiorno dei distretti, 2000; Remare controcorrente, 2010; Faraoni 2010). Nonostante ciò, nozioni ideologiche e stereotipate sul particolarismo meridionale, nelle sue versioni più collaudate, vengono continuamente riproposte non solo nel discorso pubblico, soprattutto all’interno del dibattito e della polemica politica (sistematicamente rinvigorita dalla componente razzista della Lega Nord nei confronti del Mezzogiorno), ma anche in quelle conversazioni spontanee che si intrattengono con amici e colleghi, attraverso cui filtrano alcune nozioni radicate e persistenti del senso comune diffuso.
Il presente saggio intende seguire le tracce delle relazioni particolaristiche ‘virtuose’. L’obiettivo è dimostrare che, al di fuori delle logiche aprioristiche e delle insidie che gli stereotipi ricorrenti tendono continuamente sul cammino del ricercatore, anche al Sud le relazioni informali, particolaristiche, possono svolgere importanti funzioni positive – oltre che nella sfera privata – anche nella vita collettiva. Esse non indicano, cioè, modelli di azione e aspettative di ruolo basate sempre sull’egoismo e sul perseguimento di interessi di parte disfunzionali dal punto di vista collettivo, ma possono anche essere tramite di comportamenti cooperativi finalizzati al bene comune, promuovere esperienze di reciprocità che favoriscono la crescita economica, sostenere norme e reti di impegno civico che scoraggiano i comportamenti opportunistici e trasgressivi. In altre parole queste relazioni non creano sempre arretratezza, chiusura nel privato, mancanza di civicness e capitale sociale. Non solo. Al di là delle pratiche e delle strategie quotidiane, le relazioni particolaristiche familiari, di parentela e di vicinato sono tenacemente sedimentate nella memoria collettiva come le prime e più forti aggregazioni che hanno sostenuto, negli anni bellici e postbellici, le straordinarie mobilitazioni e le lotte per le occupazioni delle terre nel Mezzogiorno.
In primo luogo, in una prospettiva world economy, il fenomeno del particolarismo meridionale è visto nel più ampio quadro dei rapporti centro-periferia, fuori dal quale esso non può assumere il suo vero significato. In secondo luogo, sulla base di esperienze concrete, viene preso in esame il potenziale di azione cooperativa delle reti informali in diversi contesti e sfere di interazione: iniziativa economica e innovazione, lotte di classe per l’occupazione delle terre, associazionismo. Gli ultimi due paragrafi sono dedicati alle innumerevoli forme di interconnessione spontanea che hanno stimolato capacità e dinamiche di autogoverno e auto-organizzazione sociale durante la grande emergenza dei rifiuti a Napoli e in Campania e sono alla base del successo della raccolta differenziata in vari comuni della Campania e in alcuni quartieri di Napoli. Infine, alcune considerazioni conclusive evidenziano i principali risultati dell’analisi e la relazione tra Mezzogiorno e particolarismo.
La mobilitazione delle relazioni particolaristiche è stata, nelle regioni meridionali, una potente strategia di contrasto alla periferizzazione (Arrighi, Piselli 1987). È ormai ampiamente documentato che la società meridionale, dall’inizio del Novecento e fino a tutti gli anni Cinquanta, era tutt’altro che disgregata, ma caratterizzata da una fitta trama di solidarietà e lealtà che andavano ben oltre la famiglia nucleare immaginata e teorizzata da Edward C. Banfield (Piselli 1981; Gribaudi 1993; Meloni 1997). Individui e famiglie erano inseriti in una fitta rete di legami di parentela, amicizia, vicinato, comparaggio che costituivano risorse, cioè capitale sociale, per una varietà di scopi: per consentire alle piccole unità produttive di sopravvivere e riprodursi, per dare stabilità alle attività economiche; per creare e rafforzare i rapporti di clientela commerciale; per allargare la sfera degli affari; per dare forza e coesione all’aggregazione di classe; per sostenere l’emigrazione oltreoceano che richiedeva strategie parentali complesse e così via.
Tali reti di relazione, che si aggregavano intorno alle attività riproduttive e di scambio, in connessione alle profonde trasformazioni vissute dal Sud a partire dal secondo dopoguerra, si sono rivelate strutture altamente flessibili in grado di scomporsi e ricomporsi intorno a nuove funzioni: in particolare, all’interno dei partiti politici, intorno alla funzione redistributiva di un reddito prodotto sempre più socialmente. Gli individui, cioè, hanno usato i loro network di relazioni in modi diversi che si possono schematizzare in tre punti fondamentali.
1) In primo luogo, in relazione al processo di sempre più intensa interpenetrazione delle strutture sociali del Mezzogiorno con le istituzioni politiche, gli individui hanno cercato status, profitti e sussistenza in una più stretta relazione con lo Stato: si sono insediati nei partiti, attraverso complesse strategie particolaristiche, per controllare le catene della redistribuzione politica (sussidi, pensioni, posti di lavoro, appalti, ecc.).
2) I network sociali sono diventati non solo risorse per l’azione individuale ma anche per l’azione collettiva. In particolare, quelli strutturati sulle aggregazioni di residenza hanno dato vita alle rivolte urbane degli anni Settanta (Reggio Calabria in primo luogo) volte principalmente alla redistribuzione, da parte dello Stato, di risorse finanziarie in generale e impiego pubblico in particolare. Il governo centrale, minacciato da una generale perdita di legittimazione, ha cercato di riguadagnarla attraverso un aumento delle risorse economiche direttamente o indirettamente incanalate nel Mezzogiorno. Queste misure redistributive hanno offerto ai migranti, o potenziali migranti, fonti alternative di reddito nelle loro regioni di origine. 3) I network sociali sono stati una risorsa per ottenere un miglioramento delle opportunità di lavoro e di guadagno non solo al Sud, ma anche al Nord: hanno sostenuto l’emigrazione di massa al Nord, a partire dagli anni Sessanta, e le lotte operaie degli anni 1968-69 (di cui i meridionali sono stati le avanguardie), volte principalmente, sebbene non esclusivamente, a ridurre gli orari di lavoro e a migliorarne le condizioni.
I meridionali, insomma, hanno sfruttato le reti sociali in cui erano inseriti per cercare di avere una vita meno dura sia al Sud sia al Nord. Non sono stati strumenti passivi e inerti di una loro presunta cultura della sfiducia e della rassegnazione. Le loro strategie e i loro movimenti di protesta sono stati una risposta alla periferizzazione e a ogni tipo di sfruttamento. Non si può negare che abbiano conseguito importanti risultati: hanno indotto misure redistributive eccezionali che hanno notevolmente accresciuto il loro reddito pro capite e i loro livelli di consumo. Infatti, se lo sviluppo è ‘ricchezza’ (cioè comando assoluto e relativo dei residenti di un territorio sulle risorse economiche) le strategie messe in atto hanno contribuito a crearla.
Tutto ciò è stato possibile perché le regioni meridionali fanno parte di uno Stato che include entro i suoi confini nazionali importanti regioni centrali. Questo fatto non ha impedito, anzi può avere favorito, la periferizzazione, anche se con dinamiche e intensità diverse nelle varie realtà regionali. Tuttavia, lo status di cittadini italiani ha dato ai meridionali almeno tre importanti vantaggi nei confronti delle popolazioni di molte altre regioni periferiche della ‘economia-mondo’. Non solo ha consentito l’accesso privilegiato al mercato del lavoro nelle regioni centrali e maggiore libertà nel condurre le lotte industriali di quanto sia consentito agli immigrati da altri Paesi, ma ha reso possibile rivendicare i propri diritti sulle risorse controllate dalle regioni centrali. Anche se queste misure non hanno eliminato la perifericità, hanno sicuramente migliorato le prospettive di status e sussistenza della popolazione.
Dopo questa breve esplorazione dall’alto della prospettiva world-economy, ci soffermeremo ora sulla vita quotidiana, per analizzare come le relazioni particolaristiche si materializzano in strategie di cooperazione orizzontale e verticale, positivamente orientate verso lo sviluppo. Se lo sviluppo, cioè, in una accezione diversa da quella precedente, è la capacità di generare reddito in maniera autonoma, senza dipendere da meccanismi redistributivi, le strategie messe in atto si sono tradotte in risorse per sostenerlo.
Consideriamo un caso specifico: i mastri ebanisti che costituiscono uno dei vanti dell’artigianato napoletano. Da tempo immemorabile sono localizzati in un’area precisa: il quartiere di Chiaia. È stato chiesto a cinque artigiani (due di loro sono padre e figlio) di descrivere minuziosamente la loro giornata lavorativa, le loro tecniche di fabbricazione, i loro prodotti, l’uso e il mercato a cui sono destinati, i risultati che se ne attendono, gli aspetti e le condizioni di lavoro, i rapporti con i dipendenti, i fornitori, i clienti. Sono stati ricostruiti i loro percorsi professionali, il loro ambiente familiare, i loro spazi sociali. Si sono così disegnati luoghi della socialità, reti sociali e istituzionali, identità familiari e di mestiere, traiettorie professionali o di mobilità (Piselli 1996). È emerso un comportamento di gruppo per il quale, pur con declinazioni diverse, le reti di rapporti informali costituiscono il più importante ingrediente dell’integrazione e della prosperità economica.
In primo luogo, famiglia, amicizia, territorio e mestiere appaiono strettamente intrecciati. Il mestiere si trasmette di generazione in generazione: i maschi lo apprendono dal padre – il quale, in quanto più anziano e più esperto, svolge un compito di addestramento e direzione – oppure vengono messi a bottega, come apprendisti non pagati o con condizioni simili a quelle stabilite da un contratto di apprendistato, da un mastro artigiano, amico di famiglia, che ha la sua bottega nel vicinato.
In secondo luogo, la collaborazione interna al nucleo familiare emerge come elemento importante nella produzione e gestione dell’attività artigiana. Figli, padri, fratelli e sorelle collaborano in modo organico o entrando direttamente nella produzione e gestione (occupandosi, per es., della contabilità) o facendo da tramite con enti esterni (procurando commesse importanti). Di solito solo uno dei figli continua l’attività del padre, mentre i fratelli si indirizzano verso le professioni e si aprono a reti e forme di identità sociale nuove. Anzi, in alcuni casi, è proprio la possibilità di contare su prestazioni e competenze differenziate che aumenta il successo economico e il prestigio dell’attività artigiana.
In terzo luogo, i legami personali si incrociano e sovrappongono ai legami istituzionali e di lavoro. Tutti i dipendenti sono stati assunti per via di conoscenza o amicizia, diretta o indiretta. La bottega è organizzata gerarchicamente per necessità della produzione: il padrone dà ordini cui gli altri devono ubbidire. I lavoratori sono differenziati secondo le funzioni: dal ragazzo addetto a imballare e far commissioni, a spazzare i locali e la strada, al lavoratore già padrone del mestiere che entra a pieno titolo nella produzione. Ma all’interno della bottega si sviluppano modi di interazione che modificano l’organizzazione e la stratificazione gerarchica e influiscono sugli stessi compiti produttivi. I rapporti tra datori di lavoro e dipendenti sono molto confidenziali e non tendono a sottolineare distinzioni di status e di livello professionale. Spesso i lavoratori utilizzano il laboratorio per lavori che svolgono per proprio conto in orari extralavorativi. Qualche volta chiedono una giornata libera o anticipazioni sulla paga che vengono sempre concesse. In tal modo la bottega assume un volto più intimo e familiare, ma naturalmente crea una serie di vincoli e obblighi reciproci tra padroni e dipendenti che condiziona i loro rapporti. Infine, e questo è l’elemento più importante, emerge un’alleanza di gruppo tra gli artigiani che si basa su una solidarietà generazionale e di mestiere e che si manifesta in un flusso di scambi di vario tipo. Due di loro hanno imparato insieme il mestiere alla scuola dello stesso artigiano, il più noto nella zona che non aveva figli e ha fatto da padre e maestro a molti di loro. L’apprendistato ha costituito in tal modo uno dei principali mezzi per rinsaldare i loro legami e percepire il senso della vita in comune, di un mestiere condiviso.
La solidarietà di gruppo si basa, in parte, anche sulla differenziazione produttiva. Gli artigiani non sono in competizione l’uno con l’altro per offrire merci simili al prezzo più basso compatibile con i costi (come sostiene la teoria economica), perché esiste una domanda di lavoro tale da consentire a tutti i laboratori di lavorare a pieno ritmo. E tuttavia anch’essi tendono a differenziare anziché uniformare i loro prodotti, per occupare un posto distinto nel mercato: alcuni sono specializzati in uno stile anziché in un altro, oppure nel restauro più che nella produzione di pezzi nuovi. Una fitta rete di scambi unisce le botteghe. Tutti gli artigiani sono direttamente legati tra loro da relazioni multiple: si scambiano quotidianamente informazioni, opinioni e anche pettegolezzi, svolgendo l’uno per l’altro vari servizi, sia in relazione a compiti di lavoro sia a livello personale. Per es., si prestano attrezzi e strumenti; inviano qualcuno dei propri dipendenti ad aiutare un collega che deve far fronte a situazioni di emergenza; si rendono scambievolmente disponibile l’uso del bagno, del telefono, del fax, e così via.
Emerge dunque un quadro dove l’attività artigiana non acquista senso se non quando venga inserita nell’insieme delle relazioni sociali che la orientano e definiscono. Gli artigiani costituiscono un gruppo dotato di continuità, nonostante cambino le configurazioni, profondamente radicato nel territorio, che si identifica con una cerchia familiare e sociale specifica. Devono il loro successo non solo alla perizia professionale e al rigore della disciplina di lavoro, ma anche al fatto che si sostengono a vicenda, ripartendosi i compiti e offrendo ciascuno un prodotto unico nel suo genere, secondo un modello prevalente di cooperazione e solidarietà orizzontali.
Spostiamo ora il campo di osservazione e prendiamo in esame le piccole e medie imprese che operano nel Mezzogiorno, sia in settori tecnologicamente maturi sia in settori innovativi, da ora rispettivamente indicati come old economy e new economy. Sono stati intervistati, nel 2002, 62 titolari di imprese metalmeccaniche nell’area di Nocera Inferiore e 68 titolari di imprese che producono tecnologia informatica a Catania. Si tratta di imprese dinamiche che, nonostante le pressioni competitive dell’economia globale e pur operando in contesti ambientali difficili, riescono a innovare e competere sui mercati con le proprie risorse, nel rispetto delle regole e della legalità.
Ebbene, le relazioni familiari, comprensive di quelle di parentela di ogni ordine e grado, sia pure con intensità e modalità diverse nella old e nella new economy, hanno costituito una risorsa importante in tutti gli aspetti e nelle varie fasi della carriera imprenditoriale per oltre la metà dei nostri testimoni (Piselli 2006). Hanno sostenuto e promosso l’esordio dell’attività; in un caso su dieci l’impresa old economy è una tradizione di famiglia che i titolari hanno ereditato dai genitori; in due casi su dieci, secondo un principio di solidarietà e di collaborazione orizzontale, gli imprenditori di nuova generazione hanno fondato l’azienda insieme ad altri familiari (fratelli, cugini, cognati).
Consideriamo il momento di costituzione dell’azienda da un altro punto di vista: quello del finanziamento. Oltre il 60% degli imprenditori ha avuto bisogno di capitali iniziali che nella metà dei casi (concentrati soprattutto nella old economy) sono stati messi a disposizione da familiari e parenti. Se il ricorso ai capitali di famiglia, pur relativamente diffuso, resta una emergenza cui probabilmente si attinge dopo aver percorso altre strade (banche, istituti finanziari, finanziamenti pubblici, ecc.), ben più praticabile appare il ricorso alla fiducia che il gruppo familiare può ispirare. In un terzo dei casi, inoltre, per poter accedere a un finanziamento, ai nostri testimoni sono state richieste fideiussioni o garanzie bancarie che sono state fornite in buona parte da familiari e parenti, sia nella old sia nella new economy.
Se analizziamo le strategie che la famiglia mette in atto all’interno dell’impresa, vediamo che nella old economy oltre l’80% degli imprenditori può contare su genitori, coniugi, figli, figlie, zii, cugini e anche parenti più lontani, all’interno dell’organizzazione della parentela, per fornire i quadri della loro azienda, raggiungendo un numero medio di collaboratori familiari impiegati in azienda superiore a due unità (presenza pressoché simile a quella registrata, dalla stessa ricerca, nella Terza Italia). Diverse appaiono le logiche all’interno della new economy. La percentuale di imprenditori che impiega componenti della sua famiglia è solo del 38%, con un numero medio di familiari e parenti impiegati di 1,46 unità. Rispetto ai comparti tradizionali, la new economy si muove verso forme diverse di organizzazione e reclutamento; occupa un numero minore di operai e un maggior numero di specialisti altamente qualificati e istruiti, che devono continuamente aggiornarsi tecnologicamente e hanno radici e contatti negli ambienti accademici e nei centri di ricerca, con frequenti passaggi e collaborazioni (formali e informali) fra gli uni e gli altri.
Consideriamo ora le forme di organizzazione che la famiglia mette in atto all’esterno dell’impresa. Scopriamo altre modalità di associazione, basate sulla parentela, che comportano talvolta un rapporto più stretto e permanente di quello che esiste all’interno della unità produttiva. La forma più interessante è costituita dalla titolarità multipla di aziende nell’ambito dello stesso nucleo familiare. L’imprenditore e/o i suoi familiari possiedono o amministrano altre aziende (diverse da quella per cui l’intervistato è stato selezionato), nel 18% dei casi nella old economy e nel 40% dei casi nella new economy. Se dunque la famiglia vede diminuire la sua autorità e importanza all’interno dell’azienda new economy, continua a mantenere tutto il suo potere e la sua influenza nel favorirne le possibilità di espansione e di organizzazione in rete.
Veniamo, infine, al punto cruciale del nostro argomento: la presenza dei familiari nel network strumentale, cioè effettivamente attivato dai soggetti intervistati in relazione a un episodio critico del passato e al momento dell’intervista, cioè il vero e proprio capitale sociale dell’imprenditore. In entrambi i settori la presenza di familiari, in valore assoluto, tende ad aumentare nel tempo. Nella old economy, su un network che oscilla fra le 3 e 4 unità, almeno un componente appartiene alla cerchia familiare. La stessa presenza si rileva nella new economy dove, tuttavia, su un network più ampio, di 5-6 persone, il peso relativo della componente familiare risulta inferiore.
In conclusione, le relazioni familiari e di parentela significano sicurezza e fanno stabilmente parte della vita dell’impresa. Sono un punto di forza soprattutto per gli imprenditori che operano nella old economy. E tuttavia, in forme nuove e diverse, pesano in modo ‘virtuoso’ anche nel settore più dinamico e innovativo della new economy, dimostrando che famiglia e parentela anche nel Sud (come nella Terza Italia) sono in grado di costruire solidarietà stabili e innovazione economica.
Entriamo, infine, nelle dinamiche specifiche dell’innovazione e concentriamo l’attenzione sugli inventori e le invenzioni, segnalate dai brevetti (concessi dall’European patent office tra il 1995 e il 2004), di cui essi sono protagonisti. Per quanto affascinante ed eroica possa delinearsi l’immagine dell’inventore, per quanto le intuizioni da cui prendono le mosse le invenzioni siano riconducibili ai singoli individui, il lavoro da cui scaturisce il brevetto è sempre un processo di costruzione sociale, che non può prescindere dall’apporto professionale e tecnico di altri attori. E, come vedremo osservando in particolare alcuni casi specifici, anche in questo ambito la dimensione relazionale informale risulta spesso decisiva per il successo e la realizzazione della scoperta (Brancaccio, Piselli 2010).
Giovanni S., di Sammichele di Bari, titolare di una officina meccanica, da sempre, con inalterabile costanza, è impegnato nel tentativo di risolvere i problemi legati alla pesca, il suo hobby preferito. Tutte le sue invenzioni sono nate per caso: andava a pesca e quando sorgeva qualche problema si sforzava di risolverlo. Quando tornava a casa si chiudeva nella sua officina alla ricerca di materiale che potesse rispondere ai suoi bisogni. Per lui sembra proprio valere il detto che «gli uomini molto abili hanno bisogno di poco, oltre alla loro cassetta degli attrezzi» (R. Sennet, The corrosion of character, 1998, trad. it. 1999, L’uomo flessibile, 20013, p. 39). Giovanni S. ha così conseguito, nel corso degli anni Novanta, tre brevetti che riguardano dispositivi per la pesca e l’ultimo, che è sempre relativo alla pesca, può essere applicato anche al settore domestico (mollette antivento). Nel suo network di collaboratori compaiono il figlio, che da poco ha associato alle sue invenzioni, e l’ingegnere cui si è rivolto per le formalità relative al brevetto: un professionista del posto col quale intrattiene da tempo un rapporto di completa fiducia e confidenza.
Nicola C. è un macellaio di Martina Franca, che ha fatto ogni sforzo, dalla fine degli anni Novanta, per sopravvivere e tenere alto il prestigio del suo esercizio di fronte alla concorrenza anonima e invadente della grande distribuzione organizzata. Per trovare una via di uscita ha impiegato tutte le sue energie e la sua creatività, specializzandosi nella preparazione di pizze di carne già pronte.
La messa a punto di questa nuova proposta ha avuto successo. Il sogno di un rapido colpo di fortuna pareva finalmente realizzarsi al punto che presto, non essendo più in grado di soddisfare da solo le richieste della clientela, Nicola pensò di assumere un dipendente. La preparazione manuale della pizza di carne richiedeva infatti troppo tempo, e una macchina sarebbe stata risolutiva. Si rivolse così a un giovane ingegnere del posto, che aveva lavorato per l’ufficio brevetti di Milano, e insieme concepirono il progetto di una macchina capace, con una sola stoccata, di stendere e distribuire la carne sul vassoio. Nicola e l’ingegnere portarono quindi i disegni da un fabbro e tutti e tre insieme, nel corso dei primi anni Duemila, riuscirono a realizzarla e a farla brevettare. Da allora Nicola ha fatto una trentina di macchine e ha cominciato a venderle, trasformando la propria attività di macellaio in quella di costruttore di macchine. È andato in tutte le più importanti fiere di meccanica, in Italia e all’estero (Polonia e Germania). La sua invenzione ha avuto apprezzamenti e consensi dovunque, ma anche un generale appunto da parte di tutti relativamente ai costi troppo elevati. Per abbassarli e avviare una produzione in serie, e quindi più economica, dovrebbe utilizzare un materiale diverso (alluminio invece di ferro) e per fare ciò avrebbe bisogno di un partner (che ancora non ha trovato) disposto a fare grossi investimenti. Nella sua rete di collaboratori, invece, compaiono ancora lo stesso ingegnere che ha progettato la macchina e il fabbro che l’ha eseguita, un piccolo gruppo di ‘cospiratori’ legati a doppio filo dal segreto della scoperta e, soprattutto, da un rapporto di fiducia assoluta.
Gaetano C. di Avellino è padrone di un maglificio che ha gestito prima con le sorelle e adesso con i figli. Da sempre coltiva la passione dei motori e da una decina di anni ha coinvolto i figli in veri e propri esperimenti. Hanno brevettato un motore a scoppio, realizzato a livello amatoriale, che consentirebbe notevole risparmio energetico. Hanno costruito un banco di prova per testare la loro scoperta, ma, non essendo riusciti a raggiungere l’obiettivo che si erano dati, si sono rivolti al Dipartimento di ingegneria dell’Università di Fisciano e a un professore di ingegneria dell’Università di Napoli.
Quello che noi abbiamo fatto – spiega Gaetano - non è solo il brevetto, noi abbiamo realizzato anche un prototipo, per cui le nostre idee le abbiamo messe in pratica e bisognava portare avanti questo discorso facendone un motore a livello industriale, ma per fare questo non basta più solo la passione in quanto servono fondi, la ricerca scientifica (Brancaccio, Piselli 2010, p. 143).
A dire il vero, l’Università di Fisciano, per portare avanti questo progetto, aveva proposto la costituzione di una S.p.A., stanziando ciascuno dei due partner il 50%. Ma a quel punto è subentrata l’esitazione, la consapevolezza, come dice Gaetano, di «non essere pronti a fare un salto del genere», per cui il progetto di una possibile utilizzazione commerciale del prodotto non ha avuto seguito. Si tratta di un brevetto di famiglia: nel network compaiono due figli e una figlia, oltre ai due contatti esterni, il direttore del Dipartimento di ingegneria meccanica di Fisciano e il professore di ingegneria di Napoli.
Dopo questi casi di ‘artigiani creativi’ che per vari motivi non sono arrivati allo sfruttamento commerciale dei loro brevetti, consideriamo altri inventori che sono riusciti a collocare con successo i prodotti delle loro ‘scoperte’ sul mercato. Anche nelle loro reti di collaboratori, ben più complesse, che coinvolgono sempre varie istituzioni e soggetti esterni, procurati più o meno di recente sul mercato nazionale e internazionale, compaiono sempre, in primo piano, parenti e dipendenti di cui ci si fida.
Antonio L. di Altamura ha una grossa società di commercializzazione di prodotti di uso domestico, con varie aziende satelliti e 5000-6000 agenti donne incaricate delle vendite in tutta Italia, con una rete in Spagna che dovrebbe estendersi presto anche negli Stati Uniti. Dotato di intuito e di quell’esperienza che proviene dalla strada, ha viaggiato molto, sempre attento a migliorare i suoi sistemi di organizzazione, a innovare i suoi canali di distribuzione. E proprio la spinta a trovare nuove strade, nuovi prodotti da commercializzare ha portato Antonio, nella seconda metà degli anni Novanta, alla scoperta e al brevetto di un nuovo prodotto, lo scracchio (in inglese super cloth), una fibra poliuretanica che veniva utilizzata in altri settori (calzature, arredamento, ecc.) e che, con alcune modifiche, Antonio ha impiegato con successo nelle pulizie, segnando una vera svolta in questo settore. Se per pulire i vetri o i mobili si dovevano usare diversi prodotti lo scracchio invece, con una unica passata, senz’acqua e senza detersivi, lava, pulisce, lucida e spolvera. Antonio ha l’esclusiva della commercializzazione di questo prodotto che ha venduto e continua a vendere in milioni di pezzi all’anno perché, come dice con soddisfazione, «è uno dei pochi prodotti che mantiene totalmente la parola» (Brancaccio, Piselli 2010, p. 144).
Nel network delle persone che hanno contribuito all’invenzione, oltre a tecnici di laboratori del Nord Italia, compaiono tre fidati collaboratori (venditori dell’azienda) e un gruppo di affezionati clienti che si sono offerti per testare il prodotto.
Carmelo G. di Capo d’Orlando in Sicilia ha cominciato a lavorare fin da ragazzo nella piccola azienda di famiglia. Oggi è alla guida di un gruppo che, oltre a piccole società satelliti, comprende due importanti società in Sicilia (di una è socio di maggioranza la sorella), una società in Spagna, una in Messico e una negli Stati Uniti. L’azienda da tanti anni è presente più all’estero che in Italia. La produzione è rappresentata da materiali per irrigazione, con specializzazione nella microirrigazione rivolta al settore professionale agricolo. Oltre al brevetto europeo (oggetto dell’indagine specifica), Carmelo ha al suo attivo altri 6-7 brevetti. L’obiettivo di innovazione dell’azienda si è costantemente coniugato con la necessità di migliorare i processi di produzione dei prodotti, per rispondere alle esigenze dei clienti, ma soprattutto «per dare delle soluzioni a problematiche che i clienti non vedono» (Brancaccio, Piselli 2010, pp. 145-46).
Il brevetto a cui si riferisce, infatti, ha consentito di realizzare i tubi di irrigazione in modo diverso, con abbattimento dei costi e miglioramento delle prestazioni, rispetto ai concorrenti. Si è trattato, in altre parole, di realizzare dei tubi per irrigazione usa e getta, economici e leggeri, facili da esportare. Nel network di collaboratori, che riflette la dimensione internazionale dell’azienda (con vari partner e interlocutori italiani e stranieri), compaiono due lavoratori interni, esperti disegnatori, e un tecnico elettronico, parente dell’imprenditore, che lavora con lui da trent’anni.
In conclusione, familiari, parenti e professionisti di cui ci si fida sono riferimenti imprescindibili anche nei processi generativi dell’invenzione attraverso cui l’intuizione prende forma e il progetto si realizza.
Ci soffermeremo ora sul Crotonese, in Calabria, dove alla vigilia della Seconda guerra mondiale la situazione sociale era esplosiva: da una parte il latifondista autocrate che esercitava il duplice monopolio sull’utilizzo delle risorse della terra e sull’uso territoriale della violenza; dall’altra, la massa dei terraggeristi (piccoli affittuari) e dei braccianti, disoccupati per la maggior parte dell’anno, che vivevano ai limiti della sopravvivenza (Piselli, Arrighi 1985; Arrighi, Piselli 1987).
I grandi proprietari erano stati in grado di prevenire fino a quel momento la coalescenza della solidarietà di classe attraverso due strategie correlate. In primo luogo, favorivano un’immigrazione di lavoro stagionale, non proletarizzata o semiproletarizzata – dai territori confinanti del Cosentino e della Piana di Gioia Tauro – più cospicua di quanto fosse strettamente necessario per colmare la differenza tra domanda e offerta locale. Data la maggiore competitività delle forze di lavoro esterne, anche nei periodi di punta del lavoro agricolo, questa politica manteneva tra il proletariato locale condizioni di disoccupazione che inducevano mobilità e alimentavano la concorrenza interna. I braccianti locali lavoravano per pochi mesi all’anno e vivevano nell’incertezza di non avere assicurati neppure quelli; erano costretti, pertanto, nella ricerca di un’occupazione, ad attivare vincoli parentali e di dipendenza clientelare. Un altro importante fattore di concorrenzialità e divisione tra i lavoratori era costituito dalla stratificazione della forza lavoro, che seguiva precise linee di aggregazione residenziale: i pastori e i bovari, per es., lavoratori stabili del latifondo, provenivano tutti, rispettivamente, da particolari comunità della cintura silana.
L’altra strategia perseguita dai grandi proprietari era lo sviluppo di un apparato repressivo interno che fece assumere al latifondo capitalistico il duplice carattere di organizzazione economica e al tempo stesso militare. Molti dei lavoratori salariati impiegati su base stabile (guardiani, guardiacaccia, soprastanti) erano guardie armate che svolgevano il duplice ruolo di polizia privata e supervisori del processo lavorativo. Applicavano gli ordini dei loro padroni ai lavoratori, minacciavano e, se necessario, eseguivano severe sanzioni contro i trasgressori, garantendo la sicurezza di persone e proprietà nelle tenute. La riproduzione del monopolio dei proprietari terrieri sull’utilizzo delle risorse della terra andò così di pari passo con il rafforzamento del monopolio territoriale sull’uso della violenza.
Questo doppio monopolio, naturalmente, poteva essere esercitato solo con la connivenza e, in ultima istanza, con la protezione delle agenzie statali. Consci di questa dipendenza, i proprietari terrieri perseguivano una politica attiva di monopolizzazione del potere amministrativo e giudiziario locale, direttamente o attraverso relazioni parentali e clientelari. Solitamente questo apparato repressivo (integrato dall’intensa pressione concorrenziale a cui si faceva riferimento in precedenza) era in grado di mantenere l’antagonismo del proletariato rurale sotto controllo. A ogni modo, nel momento in cui il potere statale si incrinò, ovvero quando i legami organici che collegavano il capitale agrario allo Stato vennero meno, ciò che si verificò sia alla fine della Prima guerra mondiale sia alla fine della Seconda, il Crotonese fu scosso dall’improvvisa esplosione del conflitto di classe in un modo che non ebbe eguali in altre parti della Calabria. In quelle occasioni le occupazioni delle terre venivano accompagnate da manifestazioni di piazza, occupazioni di sedi del potere locale, scontri violenti con le forze dell’ordine dello Stato e con quelle dei latifondisti: una serie di eventi che, quantomeno, rappresentò una rottura temporanea del monopolio territoriale della violenza su cui si reggevano gli equilibri economici e sociali del latifondo capitalistico. Dopo la Prima guerra mondiale le lotte erano state violentemente represse dall’avvento del fascismo, ma ripresero con maggiore intensità ed estensione durante e dopo la Seconda guerra mondiale, finché i partiti al governo furono indotti a varare la riforma agraria. L’attuazione della riforma iniziò nel 1950, e in pochi anni la redistribuzione delle terre dissolse il latifondo capitalistico, che si disgregò con grande rapidità senza lasciare nessuna traccia delle sue potenti strutture organizzative.
Analizziamo ora le vicende di una delle tipiche contrade latifondistiche del Crotonese: Isola Capo Rizzuto. I primi movimenti di occupazione delle terre erano qui scoppiati nel 1944, in seguito alle proteste che avevano coinvolto numerosi comuni limitrofi l’anno precedente; si protrassero poi, con punte massime negli anni 1946-49, fino al 1950, anno delle prime misure di riforma agraria che si conclusero con l’assegnazione di terre ai contadini e segnarono il definitivo riflusso delle lotte. Debolezze, defezioni, compromessi non mancarono, soprattutto all’inizio, ma via via la struttura della protesta si sviluppò in un movimento di classe sempre più potente e organizzato, capace di mostrare la propria forza. Nuove aggregazioni si imponevano, come la cooperativa e dietro a questa il Partito comunista, che organizzavano ed esprimevano la nuova realtà che si andava affermando. Un movimento di massa, politicamente e ideologicamente eterogeneo, ma potente e solidale, si mobilitò intorno a un obiettivo comune: il possesso della terra. Catturò anche il piccolo ceto medio (invero molto esiguo) e, pur se caratterizzato dall’assoluta prevalenza delle organizzazioni del Partito comunista, vide anche la partecipazione di altri gruppi politici. Non solo braccianti e contadini poveri furono protagonisti dei movimenti di occupazione delle terre, ma anche artigiani, piccoli proprietari, uomini e donne. Il paese, che si metteva in marcia compatto, diventava il fulcro dell’azione collettiva. Famiglia, parentela e vicinato costituivano così le prime e le più importanti trame dell’aggregazione solidaristica che, attraverso il codice dell’egualitarismo e nell’aspirazione a condizioni di vita migliori per tutti, innalzava la coscienza delle persone a nuovi livelli di consapevolezza e le univa nello stesso movimento di classe e di lotta. Emblematica è la testimonianza di un ex presidente della cooperativa e segretario della Camera del lavoro:
Al periodo delle occupazioni delle terre c’era tutto il paese: mille contadini, anche donne e bambini. C’era forte unità: non si guardava colore, non si guardava niente. Tutti a occupare le terre: Dc, Psi, tutti. Veniva anche il ceto medio alle occupazioni, a occupare le terre. Nella cooperativa noi li accettavamo. E anche all’artigiano noi davamo il suo pezzo di terra. Pure qualche guardiano veniva alle occupazioni e anche loro hanno avuto il suo pezzo di terra. Anche i massari venivano e avevano il suo pezzo di terra. Si dava la terra a tutti quelli che si iscrivevano alla cooperativa. Questo movimento di lotta aveva catturato anche il ceto medio (Piselli, Arrighi 1985, p. 422).
Così prosegue un altro lavoratore, protagonista delle occupazioni delle terre:
Tutto il paese partìa, anche di notte. Facìamu i gruppi. La Polizia non poteva prendere tracce; anche che trovava, scappava. Arma da fuoco, niente; non ne portava nessuno. Andà(v)amu, per esempio a V., dove ci riunìamu tutti; di li’ facìamu i gruppi di 20-30-50 persone, com’era la forza che ne partìamu di mattina, di sera; andà(v)amu a segnare i terreni, cioè a fare la croce e mettere la tabella, e poi tornà(v)amu tutti a V. I padroni restàunu indifferenti. E poi andava la Commissione degli occupanti in tribunale […] a Catanzaro o a Crotone e il giudice diceva se la terra si poteva o non si poteva prendere. Noi terreni incolti cercà(v)amu, e siccome èramu contadini lo sapìamu quali erano i terreni incolti […]. C’eranu migliaia di terreni incolti. Ne (ci) tenìano sotto torchio loro, i baronali (baroni) che dovevi pregare per fare una giornata (p. 422).
In questo processo, i tradizionali elementi di controllo e divisione delle forze di lavoro vennero integrati dall’aggregazione di classe, cui vennero a dare nuova forza e coesione. Non c’erano più all’interno del gruppo di lavoratori conflitti di interesse e lealtà, creati da vincoli familiari, clientelari e residenziali, che potessero impedire una contrapposizione netta nei confronti del comune nemico di classe. La famiglia, anziché elemento di divisione e differenziazione, diventava il punto di forza e di coesione intorno a cui si costruiva e si mobilitava la base sociale del movimento di classe. La parentela diventava l’esercito che in caso di necessità armava familiari e parenti, e andava a costituire una sorta di milizia privata contro le forze governative e i loro tentativi di normalizzazione e repressione. Va riportato almeno un episodio assai significativo. Il presidente della cooperativa di Isola Capo Rizzuto, nel 1947-48, era ricercato dai carabinieri, ma riuscì a sfuggire alle forze dell’ordine mobilitando in suo aiuto tutti i figli e parenti. Si era sposato due volte, aveva 21 figli, e poté chiedere l’aiuto di fratelli e cognati quasi altrettanto prolifici, riuscendo così a riunire un centinaio di giovani. Uno dei figli presenti racconta l’episodio in questo modo:
Quando mio padre faceva l’occupazione delle terre, la legge prendeva paura di mio padre se no l’avessero preso parecchie volte […]. Lu compare veterinario ci ha portato la staffetta […]; e anche il compare Don Giacinto, prete […]; è venuto di sera e ha detto: “Compà, datevi da fare perché i carabinieri di Catanzaro vi cercano. Venite a casa mia che là una perquisizione non la fanno”. Mio padre ha risposto: “State tranquillo, vi ringrazio della notizia, state tranquillo che vi posso assicurare che non mi arrestano. Prima la guerra dobbiamo fare”. Mio padre ha mobilitato tutti i figli, quelli che potevano fare il fronte e sparare: 10. Poi i figli della sorella; poi i cugini. Abbiamo fatto fino a cento giovanotti dei nostri, tutti cugini, e abbiamo circondato la casa dove era mio padre; dietro di noi c’era il cordone della legge [i carabinieri]. Un comandante ha detto di ritirarsi perché se no facìamu una carneficina. Allora abbiamo trasportato mio padre in un terreno dove c’era bestiame nostro. Ma anche là potevano fare una sparatoria. Abbiamo scappato a Crotone al partito (PCI), ma abbiamo detto “possono venire anche qua”. Al partito a Crotone l’hanno mandato, a mio padre, a Catanzaro, alla sede del partito (Piselli, Arrighi 1985, p. 423).
Così l’aggregazione residenziale, che era fortemente correlata con la stratificazione delle forze di lavoro, non era più elemento di divisione, ma riaffermazione su scala più vasta dell’unità di gruppo e degli interessi comuni dei lavoratori. Le occupazioni delle terre, infatti, acquistarono una dimensione territoriale sempre più ampia, giunsero a coinvolgere migliaia e migliaia di persone e si allargarono a macchia d’olio a decine e decine di comuni: Casabona, Belvedere Spinello, Rocca di Neto, Scandale, Santa Severina, Cutro, Carfizzi, Savelli, Cerenzia, ecc. fino a San Giovanni in Fiore e oltre: tutta la cintura ‘rossa’ dell’altopiano silano. Si spezzarono i vincoli clientelari e particolaristici e si rafforzarono invece i valori comuni dei lavoratori, al di sopra di ogni conflitto di interessi tra individui e gruppi. Analogamente il sistema del sorteggio (‘tirare a tocco’), che regolò la spartizione delle terre occupate tra i lavoratori, perse ogni caratteristica di concorrenzialità e competizione e – sul modello del sorteggio che regolava in passato l’assegnazione delle terre in affitto – divenne garanzia di equità e rispetto dei diritti di tutti.
Insomma, nel particolare campo di forze e di opposizioni sociologiche della società bellica e postbellica si sviluppò – attraverso le occupazioni delle terre – un potente movimento di classe. La coincidenza e la convergenza di lealtà e interessi, che in altri momenti e situazioni si presentavano come conflittuali, determinarono le più estese e intense ondate di conflitto della regione e divennero tramite di mutamenti radicali nella struttura economica e sociale. Le solidarietà di parentela, di clientela, di residenza non intersecavano la stratificazione gerarchica, non dividevano più i lavoratori, ma li tenevano insieme; anziché contrapporsi all’aggregazione di classe, vennero sussunte sotto questa e la rafforzarono.
Consideriamo ora come le relazioni informali, che sono alla base dei processi sociali di interazione interpersonale, possono diventare il punto di partenza per una vita pubblica più formale e organizzata. Fermiamo l’attenzione sulla Calabria, storicamente additata come la regione del Mezzogiorno in cui più radicale ed evidente sembra essere la mancanza di qualsiasi forma di impegno civico e di solidarietà collettiva (Putnam 1993, trad. it. p. 166). Uno sguardo d’insieme alla realtà associativa di alcune cittadine, come Palmi, Rosarno e Acri negli anni Settanta e Ottanta, rivela invece la presenza di una eterogeneità di iniziative, con finalità di impegno e partecipazione, che testimoniano uno scenario tutt’altro che sopraffatto dall’inerzia. Oltre agli attori collettivi tradizionali (partiti, interessi organizzati, ecc.), alle associazioni di matrice cattolica (ACLI, FUCI, Scout, Dame di San Vincenzo, ecc.), alle squadre locali di calcio, alle bande musicali comunali, ai cori in chiesa, ai comitati incaricati di organizzare le feste religiose, due sono i settori attorno ai quali si concentrano i maggiori interessi: lo sport e la cultura (letteraria, musicale, teatrale, cinematografica). Più ridotto, invece, è il peso delle organizzazioni collettive con finalità di stimolo e critica sia nei confronti degli amministratori pubblici sia a livello politico generale.
I singoli comuni sono un esempio concreto di come le relazioni interpersonali evolvono in forme organizzate e reti civiche. A Palmi, persone che hanno in comune interessi e passioni hanno dato vita al circolo dei sub, del tennis, a quello dei fotografi, continuano a iscriversi al circolo della caccia che vanta la più antica tradizione e annovera varie centinaia di soci, mentre le persone che contano si riuniscono nella locale sede del Rotary. A Rosarno piccole e dense reti di scambio sociale basate sulla parentela e l’amicizia hanno dato vita al Centro culturale, che è diventato il perno delle più importanti manifestazioni orientate alla crescita e alla valorizzazione delle risorse presenti nel tessuto sociale e nel territorio. Il Centro culturale, infatti, promuove incontri e organizza convegni su problemi locali (come la difesa e la valorizzazione delle tradizioni e dei beni culturali locali, tra cui l’ingente e prezioso patrimonio archeologico di Medma) o su questioni più generali (come lo sviluppo del turismo e dell’economia meridionale, la mafia, ecc.). Organizza concorsi di poesia e letteratura. Sostiene in vari modi l’eccellente compagnia teatrale, vero fiore all’occhiello dell’impegno culturale rosarnese, che porta con successo spettacoli anche fuori dal paese, ottenendo premi e riconoscimenti. Lo stesso gruppo che è stato tra i fondatori e anima il Centro culturale si sta mobilitando per la creazione di un museo civico cittadino che possa ospitare degnamente i preziosi reperti di Medma (sistemati provvisoriamente in un locale messo a disposizione dal Comune). Un chiaro esempio, secondo il sociologo statunitense James S. Coleman (1926-1995), di capitale sociale appropriabile, dal momento che un network di attori che si muove all’interno della società civile con uno scopo è pronto a mobilitarsi per raggiungerne un altro. L’esempio di Rosarno rappresenta, in altre parole, il terreno più favorevole per lo sviluppo di nuove forme di impegno civico.
Ad Acri, un gruppo informale di incontro e discussione, basato su profonda amicizia e assidua frequentazione, ha dato vita a un collettivo (formato dai militanti più attivi e di sinistra di un’associazione più vasta) che offre un canale alternativo di partecipazione politica ed esercita un attento controllo e un’azione critica sull’operato dell’amministrazione, non mancando di denunciarne pubblicamente eventuali illegittimità. Naturalmente una volta creati, tali comitati e associazioni attirano altri appassionati, militanti o simpatizzanti, allargando così i circuiti della partecipazione e dell’impegno civico. In piccole cittadine, come quelle prese in considerazione, dove tutti più o meno si conoscono, i motivi dell’adesione, oltre naturalmente all’interesse per le iniziative intraprese, sono riconducibili a rapporti diretti con i membri più attivi dei gruppi, o alle sollecitazioni della propria cerchia di amici e familiari.
Come si vede, ispirazioni e finalità diverse caratterizzano le forme organizzative esaminate. Alcune, come il Centro culturale di Rosarno e soprattutto il collettivo di Acri, sono chiaramente orientate verso un ruolo attivo di impegno e di influenza in ambito locale, mentre in altre, e in modo particolare nei circoli di Palmi, prevalgono motivazioni espressive, volte soprattutto a finalità di socializzazione ricreativa. Alcune, pur ricevendo un contributo pubblico, svolgono le loro attività in maniera relativamente autonoma dai partiti (Centro culturale a Rosarno); altre, che possono contare solo sulle quote di sottoscrizione dei soci (circoli sportivi di Palmi), sono completamente svincolate da qualsiasi forma di dipendenza politica; altre ancora, infine, come nel caso del collettivo di Acri, affermano la propria identità secondo modalità innovative e di rottura proprio nei confronti delle logiche clientelari del sistema politico locale.
In tutti i casi, ogni progetto, dibattito, incontro (anche se si tratta di pranzi o picnic con grigliate all’aria aperta) diventa occasione per comunicare ed esprimersi, per discutere animatamente e formarsi un’opinione sugli affari della comunità o su temi più generali, per inserirsi in reti di relazioni più ampie. Rappresenta (come direbbe Robert D. Putnam) un investimento in capitale sociale, sia dal punto di vista individuale che organizzativo. Non mancano, infine, comitati che nascono sotto la spinta di forme dirette di intervento sociale per qualche caso di emergenza. Ad Acri, un religioso e alcune persone impegnate in politica hanno promosso una colletta nel giro dei parenti, amici e conoscenti e hanno raccolto un cifra cospicua per consentire a un malato grave di sottoporsi a un intervento chirurgico in un centro specializzato all’estero.
Osserviamo ora la situazione a Napoli, dove si riscontra una realtà associativa straordinaria: nel 2010 risultano 118 associazioni iscritte nell’albo regionale, che operano naturalmente nei più svariati settori di intervento, senza contare una miriade di altre iniziative non ancora istituzionalizzate a livello regionale. Anche in questa grande realtà urbana, nel ripercorrere la storia di alcune associazioni, ritroviamo le stesse dinamiche. Poche persone impegnate e unite da valori comuni, amicizia e fiducia reciproca danno vita alle più svariate iniziative volontarie di solidarietà e impegno sociale. Emblematico è il caso della nascita dell’Associazione Quartieri spagnoli (AQS), una delle più conosciute e importanti a livello cittadino.
Alla fine degli anni Settanta, un piccolo gruppo di amici, legati ai Piccoli fratelli di Charles de Foucauld di Spello, entro un’esperienza di comunità cristiana di base, si aggrega intorno alla scelta di Anna Stanco di condividere pienamente la vita in strada delle donne dei Quartieri spagnoli. Lasciato l’insegnamento, Anna è andata a lavorare a metà tempo in un laboratorio di borse, per accogliere nella sua abitazione, un ‘basso’ che condivideva con la sorella e alcune collaboratrici, le persone che vivono in strada, nei pomeriggi e nelle serate. Il gruppo di amici, ben radicato nelle reti locali, è divenuto ben presto una piccola agenzia di sviluppo sociale del quartiere. Dal primo esperimento del laboratorio di pelletteria – autogestito con altri giovani, per tentare una via di uscita dal lavoro nero, molto diffuso nella zona – le attività dell’associazione (grazie ormai anche a donazioni e fondi pubblici) si sono moltiplicate e specializzate nell’azione di prevenzione, protezione e reinserimento sociale delle persone in difficoltà, attraverso l’offerta di servizi innovativi per famiglie, giovani e minori, anche immigrati. In rete, con analoghe esperienze realizzate a Napoli e in altre città europee, l’associazione ispira anche alcune delle più importanti azioni promosse dal comune nel settore delle politiche sociali: per es., nel piano per l’infanzia e l’adolescenza, i laboratori di educativa territoriale, il tutoraggio dei minori e i ‘nidi di mamme’ gestiti direttamente da madri in difficoltà. Essa rappresenta, inoltre, il terreno più propizio per lo sviluppo di nuove forme di impegno civico. Nel 2002 un gruppo di operatori, che per anni hanno lavorato per l’AQS, costituisce la cooperativa sociale Passaggi a r.l., che continua a collaborare con l’AQS: congiuntamente a questa ha ottenuto, nell’ambito del programma Fertilità promosso dall’agenzia Sviluppo Italia, l’affidamento di un progetto per il potenziamento dell’imprenditoria sociale.
Consideriamo ora la situazione a Scampia, quartiere di Napoli a forte rischio di esclusione sociale, ben noto alle cronache per la presenza incombente della camorra e lo spaccio di droga, spesso, anche a torto, assurto a simbolo del degrado cittadino. Ebbene, un censimento delle organizzazioni esistenti nel 2010, ne ha registrate 31 fra associazioni, cooperative sociali e società sportive (solo alcune delle quali, tuttavia, sono iscritte all’albo regionale). Alla base della loro costituzione troviamo ancora piccoli gruppi di volontariato che aggregano persone che si conoscono su base varia: amici, compagni di scuola, vicini, appartenenti alla stessa parrocchia, ecc.
Un caso emblematico è quello dell’associazione Dream team, una delle più innovative sul territorio. La presidente dell’associazione ha iniziato nel 2005 a lavorare in parrocchia insieme ad alcune amiche al progetto di recupero e svago per bambini Giocare leggendo. In seguito, con due compagne del volontariato, ha pensato di tenere impegnate anche le mamme che, mentre aspettano i bambini, non hanno nulla da fare. Nasce, così, il progetto Empowerment in biblioteca, che organizza un percorso di lettura studiato appositamente per le madri. Una specie di progetto di educazione per adulti, grazie al quale alcune mamme prendono il diploma di scuola media inferiore. L’iniziativa, che ha molto successo, ne stimola altre: le mamme, infatti, danno vita a un gruppo spontaneo che, oltre a organizzare l’aiuto reciproco nella cura dei figli, discute e si occupa di vari problemi, relativi in particolare all’ambiente e al territorio. Da queste cerchie di interesse tutte femminili è nato, come prosieguo naturale, un progetto che si concretizza nello Sportello donna (ascolto, consulenza, ecc.) situato nella piazza telematica di Scampia, che è diventato un incubatore di impresa. Infine, nel 2007, si è costituita l’associazione Dream team donne in rete per la rivitalizzazione urbana, che sostiene progetti di imprenditoria femminile nel quartiere (particolarmente interessante, fra questi, quello delle ‘Case della socialità’) e si attiva sui più svariati fronti del sociale.
Tutte queste esperienze mettono chiaramente in luce le dinamiche interattive e di gruppo che, fin dalle origini, caratterizzano le associazioni: nascono di solito come iniziative spontanee di volontariato per dare una risposta a bisogni immediati di persone e territori e, successivamente, si organizzano su basi più solide e iniziano un percorso di istituzionalizzazione. A ogni modo, costituiscono, sempre e dovunque, uno stimolo continuo per lo sviluppo di nuove forme di reciprocità e di impegno civico.
Consideriamo ora alcuni casi di mobilitazione nei quali le forme di interconnessione spontanea e di vita collettiva hanno stimolato capacità e dinamiche di autorganizzazione e autogestione sociale. In tutte le realtà urbane del Mezzogiorno sono numerosi gli esempi di impegno civico dei cittadini con finalità di stimolo, controllo o contrasto nei confronti dell’autorità pubblica. Vicinati e interi quartieri si sono mobilitati contro iniziative dell’amministrazione che avrebbero minato la loro sicurezza e i loro equilibri (Piselli, Burroni, Ramella 2012). Ma certamente nessun evento e nessuna congiuntura hanno suscitato manifestazioni così grandiose della persistenza e tenacia degli istinti vitali di sopravvivenza degli abitanti come la grande emergenza dei rifiuti a Napoli e in Campania, che ha toccato il suo culmine negli anni 2007 e 2008. Le testimonianze raccolte in questo paragrafo e in quello seguente sono frutto delle numerosissime ricerche svolte su questo tema dagli studenti del corso Modelli di città e politiche urbane (tenuto dall’autrice del presente saggio tra il 2007 e il 2012 presso la facoltà di Sociologia dell’Università di Napoli ‘Federico II’) per le loro tesi ed esercitazioni.
I cittadini hanno condotto un’accanita e interminabile lotta per la difesa del loro territorio, contro l’apertura o riapertura di una discarica. Hanno eretto barricate, predisposto presidi e bloccato le strade. Hanno organizzato cortei e dato vita a ogni tipo di manifestazione per sensibilizzare l’opinione pubblica, per gridare la loro rabbia, per denunciare, di fronte all’inerzia delle autorità pubbliche, le loro condizioni di vita insopportabili. Hanno preteso e chiesto informazioni, consultato esperti, contestato dati e analisi ufficiali, reclamando il diritto di esprimere la propria opinione e partecipare a ogni decisione relativa al loro territorio. Hanno dato vita a centri di informazione indipendente con l’obiettivo di offrire un contraltare all’informazione dei media, per i quali l’emergenza rifiuti è stato uno dei temi centrali e più spettacolari della comunicazione pubblica e che, troppo spesso, hanno fermato l’attenzione sugli episodi più estremi della protesta (scontri con la polizia, incendi, assalti ai camion della spazzatura, feriti, ecc.) e sulle frange più violente – infiltrati camorristi o le cosiddette ‘teste matte’ aspiranti tali – piuttosto che concentrare l’attenzione sulle virtù civili dell’indignazione e sulle ragioni civili della protesta.
In tutta questa drammatica vicenda, i cittadini hanno immediatamente percepito che il problema dei rifiuti era una questione da affrontare collettivamente. Le parole d’ordine, come emerge da tutte le testimonianze, sono state: uniamoci; l’unione fa la forza; solo se ci uniamo vinceremo la battaglia; aggreghiamoci. Alle prime avvisaglie del disastro ha cominciato a funzionare una solida e attiva rete di collegamenti tra coinquilini, amici, parenti, che dai vicinati di strada si è estesa con grande rapidità a interi quartieri e paesi, assumendo forme nuove e creative. Talvolta l’iniziativa è stata presa da singoli esponenti, di solito ‘personaggi pubblici’ come i gestori degli esercizi commerciali, anelli chiave nella rete di informazioni di un paese, che hanno visto la loro attività gravemente danneggiata dai cumuli di rifiuti per strada. Un giovane commerciante di Afragola, nel marzo del 2008, ha dapprima riunito nel suo negozio tutti gli altri esercenti e poi, munito di un megafono, ha mobilitato l’intero quartiere San Michele:
La mia salumeria è diventata una officina di scontro e confronto, noi commercianti ci riuniamo, qui da me, soprattutto verso ora di pranzo in cui i diversi commercianti vengono nel mio esercizio per acquistare il loro pranzo. E così cominciano le nostre lunghe chiacchierate, spesso decidiamo le scritte degli striscioni, gli slogan da cantare, ma soprattutto i giorni in cui dobbiamo manifestare, ed ognuno si prende l’impegno di diffondere la notizia a tutti i clienti del vicinato e ai commercianti vicini. Per dare una svolta alla situazione ho fatto una cosa un po’ insolita, il giorno 9 maggio 2008 ho deciso di comprare un megafono, ho urlato a squarciagola aiuto al mio vicinato. In poco più di 15 minuti è accorsa tanta gente, tra cui vecchiette e bambini. Da quel giorno il vicinato sembra essere cambiato: tutti sono più attenti alla salvaguardia dei marciapiedi.
Ma perfino un’anziana, battagliera signora ha riunito le vecchiette del vicinato che, come lei, a causa dei rifiuti, non potevano più recarsi a pregare presso la cupoletta della Madonna, per sottoscrivere una petizione da presentare al comune.
In tutte le realtà osservate gli studenti delle scuole di ogni ordine e grado hanno indetto assemblee e preso contatto con i colleghi degli altri istituti per organizzare cortei e sit-in di protesta davanti al comune. A Somma Vesuviana i ragazzi delle scuole superiori hanno realizzato dei video sul proprio ambiente nell’ambito del concorso I want to be clean. I video sono stati valutati da un delegato di Legambiente e sono stati tutti pubblicati su You Tube. Anche i più piccoli, grazie all’impegno dei loro insegnanti, hanno dato il loro contributo. Nelle scuole elementari, infatti, è stato realizzato il progetto Capitan Eco, per educare alla raccolta differenziata, mentre gli studenti di una scuola media inferiore di Afragola hanno realizzato il cortometraggio La mondezza nel dna dei napoletani. Dovunque, le associazioni presenti sul territorio si sono attivate in vari modi e hanno stretto tra loro legami più diretti e continui; un’infinità di nuovi comitati e associazioni spontanee sono inoltre sorti, nei mesi dell’emergenza più acuta, per denunciare lo scempio del territorio e i danni per la salute dei cittadini, per sensibilizzare la popolazione alla cultura del riciclo, per chiedere con forza agli amministratori l’avvio della raccolta differenziata.
A Chiaiano (quartiere simbolo della protesta contro l’emergenza rifiuti a Napoli), dal presidio permanente contro la discarica si è costituito, tra gli altri, il Comitato civico Rosa dei venti, punto di riferimento per i ricorsi all’autorità giudiziaria (denunce penali e ricorsi al TAR del Lazio, alla procura di Napoli e al Parlamento europeo). A Torre del Greco si è costituita l’Associazione Leopardi pulita che, insieme a tutte le altre associazioni e comitati di quartiere, ha condotto una dura battaglia per fermare l’iter relativo alla realizzazione dell’impianto per il trattamento e lo smaltimento dei rifiuti pericolosi a Villa Inglese, nell’omonima area. A Gragnano è nato il Comitato civico di volontariato Gragnano che vive che, fra le altre iniziative, al culmine dell’emergenza rifiuti, il 26 maggio 2007 ha organizzato una grande manifestazione di protesta contro le inadempienze e mancate promesse delle autorità pubbliche, cui hanno aderito la maggior parte delle numerose associazioni presenti nella cittadina. E a Pozzuoli, delle oltre 70 associazioni presenti, molte sono nate proprio a partire dal 2007 per coinvolgere i cittadini in vari tipi di azione collettiva volta a combattere e fronteggiare l’emergenza rifiuti.
Non sono mancate forme diverse di protesta civica, come quelle che si sono concretizzate nel Partito del non voto. A Marigliano, che con Nola e Acerra fa parte del ‘triangolo della morte’ (Iacuelli 2008), la popolazione ha condotto una dura lotta contro il piano del commissario straordinario Giovanni De Gennaro, che prevedeva l’apertura della discarica di Boscofangone. Oltre ai presìdi alla discarica e ai blocchi stradali, una delegazione di cittadini, esponenti dei comitati di protesta e delle associazioni ambientaliste presenti sul territorio, è andata a consegnare 1500 tessere elettorali (raccolte tra gennaio e aprile 2008) al protocollo generale del Quirinale, affinché arrivassero alla diretta attenzione del presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano; insieme è stata consegnata anche una lettera in cui si spiegavano le ragioni di fondo della protesta contro il sito di stoccaggio di Boscofangone e si chiedeva la rapida ed effettiva bonifica dei territori interessati. Un motivo ulteriore di protesta e rabbia da parte dei cittadini era che Marigliano già da anni aveva avviato la raccolta differenziata, che nel 2008 era arrivata al 55%. Come sintetizzava una studentessa di scienze politiche di 23 anni:
Realizzare la discarica a Marigliano significherebbe per i cittadini che vi abitano un brutto colpo. Noi, a differenza di altri comuni, eseguiamo la raccolta differenziata e non meritiamo un trattamento simile. Discarica è sinonimo di diossina, e quindi cancro e altre malattie, senza dimenticare che abbiamo già il triste primato di far parte del triangolo della morte.
Di fronte all’inerzia e alla latitanza degli amministratori «contro le istituzioni fantasma», contro «una politica distratta e disinteressata pronta a vendersi al migliore offerente» come da più parti si è dichiarato, i cittadini stessi, esasperati dalla situazione, attraverso iniziative singole o collettive, hanno dato l’avvio alla raccolta differenziata. Ad Afragola, due sorelle adolescenti, col sostegno del padre avvocato, hanno preso contatti con una società di Frosinone che ricava carrozzine per disabili grazie al riciclo dei tappi delle bottiglie di plastica: sono andate di casa in casa per cercare di sensibilizzare i vicini, e il loro appello ha avuto grande successo. Il Circolo Legambiente di Afragola (Aframbiente), fra le tante iniziative realizzate per sensibilizzare la popolazione, il 9 marzo 2008 ha offerto un biglietto gratis per il nuovo film di Carlo Verdone ai bambini e ragazzi che avessero portato almeno 12 bottiglie di plastica, invito raccolto con una partecipazione superiore alle aspettative. A Torre del Greco, il 17 maggio 2008, è partita la raccolta differenziata straordinaria organizzata dal Comitato di quartiere Rinascita che ha seguito il percorso dei materiali recuperati (vetro, carta, plastica, alluminio e banda stagnata) fino alle diverse aziende di riciclaggio.
A Frattamaggiore, le due principali associazioni Cantiere giovani e La periferica hanno realizzato la mostra Rifiuti preziosi nella villa comunale, dimostrando che dai rifiuti riciclabili (conferiti con entusiasmo dalla popolazione) si potevano realizzare sculture e varie opere d’arte. Con un’altra iniziativa hanno distribuito gratuitamente lampade a basso consumo energetico che erano state donate da una fabbrica. In una successiva manifestazione, dal titolo La musica che illumina l’ambiente, oltre alla distribuzione di lampade c’è stato anche un concerto e si è iniziata la collaborazione con un’associazione che fa capo alla Caritas per raccogliere, ancora una volta, i tappi di plastica delle bottiglie: in questo caso, a differenza di quello riportato in precedenza, il ricavato della vendita è stato inviato in Tanzania per la costruzione di pozzi idrici che possano rifornire i villaggi di acqua potabile. A Caserta, per dare una svolta risolutiva alla crisi dei rifiuti, sono state le parrocchie a prendere l’iniziativa. Con l’incessante impegno del Comitato Città viva e di moltissimi volontari (i ‘missionari ecologici’) e, soprattutto, con la impeccabile collaborazione dei cittadini, dal febbraio 2008 è stato messo in pratica un programma dimostrativo sulla raccolta e separazione dei rifiuti negli stessi cortili delle chiese. I ‘missionari ecologici’ hanno spiegato alla popolazione come separare i materiali e collocarli nei rispettivi contenitori. Hanno coinvolto aziende per il riciclo e superato difficili ostacoli burocratici, ma il risultato è stato sorprendente: 100 tonnellate di rifiuti raccolti e avviati direttamente a riciclo, per il 60% carta e cartone, il resto plastica, alluminio e banda stagnata; dimostrando che anche a Caserta si poteva realizzare con successo la raccolta differenziata, che secondo una stima di Legambiente era solo al 6,6%. Anche nel quartiere Cavalleggeri d’Aosta di Napoli, della circoscrizione di Fuorigrotta, sono state organizzate analoghe iniziative dalle parrocchie del quartiere.
Sotto la pressione di associazioni e comitati di cittadini esasperati, altre attività dello stesso segno sono state promosse e sostenute dalle amministrazioni. A Somma Vesuviana, la Cooperativa sociale Ottavia (associazione di disabili) ha dato vita al progetto INdifferenteMENTE che ha meritato anche l’attenzione della stampa nazionale. I disabili hanno prelevato dalle case i rifiuti ingombranti, per conto del comune, e gli oggetti ancora funzionanti sono stati esposti, dall’associazione, in un mercatino per l’usato. A San Giorgio a Cremano, durante i mesi di emergenza più forte, il comune ha avviato una raccolta differenziata straordinaria nelle piazze della città grazie all’impegno di volontari che la domenica si prestavano a raccogliere i rifiuti differenziati portati dalla cittadinanza, che ha risposto con prontezza e sollievo all’iniziativa. Dopodiché, da straordinaria, tale raccolta è diventata ordinaria grazie all’istituzione di ‘ecopiazzole’ su tutto il territorio comunale. E finalmente, con maggiore o minore tempestività ed efficienza, hanno preso il via, sia a Napoli sia in Campania, gli investimenti e le infrastrutture per la raccolta differenziata, vista come l’unica via d’uscita dall’emergenza.
In conclusione, la battaglia contro i rifiuti e per la difesa del proprio territorio è stato il collante motivazionale che, pur caratterizzato da un complicato gioco di interessi, di argomentazioni, di passioni, ha unito in un obiettivo di lotta comune i cittadini di ogni età, ceto sociale e ideologia. Ha dato vita a quelle forme di autogoverno e autogestione sociale che, come abbiamo visto, si sono concretizzate in una molteplicità di associazioni volontarie e comitati, impegnati in diverse forme di opposizione e/o proposta costruttiva. Le azioni collettive di protesta hanno generato solidarietà durature e hanno rafforzato l’identità condivisa dei partecipanti, molti dei quali fino a quel momento non avevano altro in comune che abitare la stessa porzione di territorio. Le persone hanno acquistato la consapevolezza di un destino comune e dell’importanza dello sforzo condiviso.
Prima di riprendere il filo conduttore di questa analisi è doveroso richiamare l’attenzione sui cosiddetti Comuni ricicloni che da tempo fanno la raccolta differenziata e hanno ottenuto speciali riconoscimenti e premi dal Ministero dell’Ambiente. Poco o nulla si è parlato di loro, come lamentano gli abitanti. Eppure in Campania i Comuni ricicloni sono numerosi. Solo per citare alcuni di quelli in cui si è approfondita la ricerca, Vico Equense, Santa Maria La Carità, Saviano (nella provincia di Napoli), e Castel Baronia, San Potito Ultra e Avella (in provincia di Avellino) hanno realizzato percentuali di raccolta differenziata anche superiori al 50%, ben al disopra della media non solo provinciale, ma anche nazionale, e hanno ottenuto negli anni numerosi premi dal concorso relativo ai Comuni ricicloni (istituito nel 1994 per iniziativa di Legambiente). Alcuni, come nel caso di Saviano, si sono attivati perché anche i comuni vicini avviassero lo stesso percorso, con un rafforzamento delle relazioni interistituzionali e quindi delle forme di capitale sociale organizzativo tra istituzioni contigue.
Si tratta di comuni piccoli o di medie dimensioni, dove naturalmente la gestione dei rifiuti è più facile, ma che, fin dalle passate emergenze, in particolare da quella del 2001, si sono prontamente attrezzati per prevenire nuovi disastri. E dove le amministrazioni, di concerto con le associazioni presenti, hanno organizzato forti momenti di sensibilizzazione della popolazione, hanno promosso percorsi formativi relativi all’inquinamento ambientale e ai rischi per la salute e vari progetti miranti all’acquisizione di conoscenze specifiche nel campo della raccolta differenziata e dello smaltimento dei rifiuti, coinvolgendo le scuole di ogni ordine e grado e soprattutto eseguendo controlli sistematici e infliggendo multe salate ai trasgressori.
Quelli citati sono stati i comuni ‘pionieri’, ma anche quelli che hanno iniziato successivamente hanno conseguito risultati significativi. A Gragnano la percentuale di raccolta differenziata, avviata nel gennaio 2008, ha raggiunto in novembre risultati positivamente inattesi, superando la percentuale del 50%; a San Giorgio a Cremano nell’aprile 2008 la raccolta differenziata ha raggiunto il 36% e a Somma Vesuviana, attivata nel marzo 2008, ha raggiunto a luglio la percentuale del 48%. Anche a Calvinazzo, nel giugno 2008, a un solo mese dall’avvio, la raccolta differenziata ha raggiunto il 15% (con l’obiettivo di arrivare al 25% entro dicembre dello stesso anno).
Un’attenzione particolare merita il servizio di raccolta differenziata ‘porta a porta’ avviato sperimentalmente, dal 2008, in varie zone di Napoli: i quartieri di Bagnoli, Ponticelli, San Giovanni a Teduccio, Chiaiano, Scampia e, inoltre, Colli Aminei e Rione Alto (circa il 15% della popolazione partenopea). I risultati di una ricerca indicano che la maggioranza dei cittadini è soddisfatta e svolge con grande impegno la differenziazione dei rifiuti (Soddisfazione del cittadino, 2012). Vanno infine evidenziati anche altri comuni che già da qualche tempo hanno intrapreso questo percorso virtuoso. A Marigliano, come accennato, nel gennaio 2008 la raccolta differenziata raggiungeva il 55% e a Pomigliano D’Arco, il servizio del ‘porta a porta’ introdotto progressivamente dal 2006, nel 2009 aveva già raggiunto il 63% dei residenti.
Certo ci sono difficoltà e non tutto procede alla perfezione. Anche i cittadini più volonterosi sono scoraggiati quando talvolta vedono che i loro rifiuti differenziati vengono dagli operatori ecologici assemblati tutti insieme. Non si può negare che alcuni cittadini siano negligenti e non collaborino; lo spazio domestico è insufficiente per custodire i recipienti necessari alla selezione; è difficile trattenere presso la propria abitazione una determinata categoria di rifiuto (in particolare l’organico) per più di un giorno e rispettare il calendario di deposito dei rifiuti; oppure – dove sono state istituite le isole ecologiche – è faticoso percorrere a piedi il lungo tratto che le separa dal centro del paese, se non si dispone di un mezzo privato di trasporto. E tuttavia negli anni i cittadini, diventati veri ‘esperti’ in materia di gestione dei rifiuti, hanno dimostrato di avere maturato la piena consapevolezza del compito che sono tenuti a svolgere e sono diventati i principali promotori della raccolta differenziata, cui hanno aderito con grande impegno ed entusiasmo, pronti ad accettare anche qualche sacrificio. Due intervistate, nell’esprimere il sentire comune, mostrano tutta la soddisfazione stimolata da un nuovo senso di responsabilità personale e anche il nuovo clima di fiducia nei confronti dell’amministrazione:
Mi piace! [la raccolta differenziata]. È bello sentirsi civili, è vero che ci siamo civilizzati solo nel 2008 ma l’importante è averlo fatto. La nostra differenziata poi è molto specifica e dettagliata, abbiamo messo molto tempo a capire dove va questo, dove va quello, ma alla fine credo che ci siamo riusciti. Il Comune è stato sempre vicino (casalinga di Gragnano). Da quando hanno messo quel punto di raccolta qua fuori e ho cominciato a differenziare, ho capito quanto in questi anni ho inquinato anche io la mia terra. Ti rendi conto che noi, una famiglia di quattro persone, in un giorno riempiamo una busta intera di cose di plastica? Se solo penso agli anni in cui mischiavo tutto, mi sento in colpa. Ma, pur volendo, dove andavo a buttarla? […] Sicuramente penso che se ci fosse stata da prima avrei partecipato alla raccolta differenziata […] Per me è comoda la stazione ecologica perché ho l’auto, e non esco mai a piedi, se non l’avessi avuta sarebbe stato un problema (impiegata di 45 anni di Varcaturo, frazione del Comune di Giuliano).
La corretta differenziazione dei rifiuti è un dovere che si acquisisce per abitudine, come dichiarano due intervistate di Vico Equense: «Basta avere tanta pazienza e tutto si risolve. Dividere la roba e ricordarsi quali sono i giorni stabiliti per il ritiro dei diversi materiali» (mamma quarantenne, impiegata); «All’inizio è stato un poco scocciante, sinceramente, poi invece una volta capito come funziona è sembrato tutto più semplice e automatico» (pensionata di 65 anni). Naturalmente cambiano le abitudini alimentari. Come affermano decise varie casalinghe «il pesce o le altre cose che puzzano» si cucinano solo il giorno che ritirano l’umido.
Ebbene, in tutti i comuni le relazioni informali sono state il tramite spontaneo dell’acquisizione ed esecuzione delle buone pratiche relative alla differenziazione dei rifiuti, prima di tutto in famiglia. Le mamme, come riferiscono varie intervistate, vigilano attentamente sulla corretta selezione dei rifiuti da parte di tutti i membri della famiglia. Giovani impegnati nella campagna di sensibilizzazione attraverso il volantinaggio, come uno studente di ginnasio di 15 anni di Portici, dichiarano di avere insistito con tutti i parenti affinché apprendessero ed eseguissero con cura le modalità di differenziazione dei rifiuti. L’affettuosa premura dei parenti, anche dei più piccoli, è fondamentale per aiutare quelli più impacciati o impossibilitati a muoversi. Una bambina di 9 anni in una frazione di Vico Equense, grazie a tutte le nozioni apprese a scuola, è ben felice di far da guida alla sua nonna «che sbaglia sempre e non sa mai dove buttare la spazzatura». A Varcaturo un signore si reca ogni settimana dallo zio invalido, assistito da una badante, per ritirare i suoi sacchetti di rifiuti e portarli in macchina all’isola ecologica. Ad Avella i parenti che vivono fianco a fianco si danno la voce per affrettarsi a mettere fuori, nell’ora stabilita, il sacchetto verde dell’umido legandolo alla ringhiera dei cancelli, in modo da sottrarli alle cattive intenzioni dei cani randagi; o per depositare in strada il contenitore del vetro quando sta arrivando il camion che ogni settimana lo raccoglie.
Le consuete relazioni di vicinato trovano espressione in nuove forme di aiuto reciproco e costituiscono un elemento fondamentale per il rispetto collettivo delle regole. A Castel Baronia, un piccolo paese dove tutti si conoscono, anche le persone anziane che hanno incontrato qualche problema a differenziare correttamente i rifiuti sono pienamente soddisfatte grazie all’aiuto dei vicini. Le relazioni di vicinato si rafforzano dunque nel comune compito che le persone si sentono obbligate a svolgere e incentivano nuove forme di organizzazione. Sono eloquenti in proposito le parole di un intervistato di Pomigliano D’Arco che abita in un condominio di case popolari, riuscito con successo a organizzare dei turni:
Tutti si sono resi conto che differenziare i rifiuti, e adeguare le proprie abitudini alimentari al calendario settimanale di raccolta, non richiede sacrifici immani e che questo piccolo sforzo consente di avere una grande ricompensa, quella di vivere in modo civile. Inoltre abbiamo cercato di ridurre al minimo il disagio che deriva dal dovere recarsi in strada ogni sera, dopo le 20, per depositare i sacchetti. Abbiamo stabilito dei turni, un meccanismo che consente a ogni famiglia del condominio di essere impegnata in questa operazione solo una volta a settimana (esclusa la domenica) e non più tutte le sere. Entro le 20.15, ogni famiglia provvede a riporre sul proprio pianerottolo, in prossimità della propria porta d’ingresso, il rifiuto giornaliero. Una delle sei famiglie, quella indicata dal nostro calendario interno, provvederà, mediante un proprio componente, a raccogliere i sacchetti di tutti gli altri condomini e a depositarli negli appositi contenitori. All’inizio ero molto scettico, non credevo potesse funzionare, poi ho piacevolmente constatato che l’idea di stabilire dei turni era risultata efficace, grazie alla effettiva praticità e ai vantaggi che derivano da essa. [...] Col tempo le persone hanno acquisito dimestichezza e volontà nel selezionare i rifiuti, grazie anche alle numerose esortazioni a cui solitamente venivano sottoposti durante le riunioni condominiali. Oggi posso dire che nel palazzo in cui abito tutti svolgono correttamente la raccolta differenziata.
Anche in una grande città come Napoli una nuova rete di doveri sociali e collaborazione si instaura tra le famiglie che vivono in contiguità, con forme di gestione condivisa e coordinata che si affermano spontaneamente. E che non solo rafforzano il processo di ‘socializzazione’ attraverso la raccolta differenziata, ma anche la rete di relazioni tra i residenti. Così, se nei grandi condomini che si affacciano su parchi o su grandi cortili le persone, dopo attenta consultazione, decidono di affidare a un addetto particolare tutte le operazioni relative alla pulizia dei contenitori carrellati e al conferimento dei rifiuti, con qualche onere economico, nei condomini più piccoli gli abitanti si organizzano bene da soli con opportuni accorgimenti e doveri reciproci. Per es., come dice un intervistato di Bagnoli: «il primo che scende a buttare il sacchetto la sera porta il bidone fuori; il primo che esce la mattina lo riporta dentro» (Soddisfazione del cittadino, 2012, p. 95). Naturalmente, dal momento che la questione dei rifiuti è diventata uno degli argomenti prioritari di discussione e confronto tra le persone, può rivelarsi anche motivo di frizione e accuse reciproche, talvolta alimentate da vecchi screzi tra vicini, soprattutto in considerazione del fatto che le sanzioni economiche sono a carico dell’intero condominio. Nella maggioranza dei casi, tuttavia, si raggiunge un accordo, oppure il controllo reciproco avviene in modo pacifico e confidenziale, e certo sortisce un effetto educativo molto più convincente.
È importante anche la funzione dei ‘personaggi pubblici’ che, come ci ricorda Jane Jacobs (1916-2006), grazie alla loro autorità e assidua presenza, esercitano un’azione di controllo continua. Infatti, un ruolo speciale assolvono, nei vicinati, i cosiddetti custodi della strada, per lo più persone anziane che, affacciate alle finestre e ai balconi delle loro abitazioni, rivolgono uno sguardo a quanto accade fuori, e vigilano attentamente affinché tutti eseguano con diligenza i sempre nuovi doveri da compiere. Emblematica è un’anziana, battagliera signora di Afragola che passa le sue giornate alla minuscola finestra che sporge sulla via ed è sempre pronta a litigare con tutti coloro che depositano i rifiuti in orari scorretti. È soprattutto contro gli ‘estranei’, che vengono a scaricare i loro rifiuti da altri paesi, che si rivolge la particolare attenzione di questi sorveglianti speciali, i primi difensori del loro territorio e in quanto tali pronti a intervenire contro ogni infrazione con tutta l’autorità di un tutore della legge. Esemplificativa la testimonianza di un signore, pensionato, che abita nel Parco Rosario di Gragnano e che i vicini odono spesso urlare contro ogni forma di abuso o incursione di forestieri:
Dico che tutti dovrebbero seguire il mio esempio. Non faccio altro che controllare la situazione nella nostra strada. Quelli che sbagliano non siamo noi ma gente che viene dai paesi sopra Gragnano e che passando lasciano i loro rifiuti, ma noi che siamo scemi? È logico che mi faccio sentire se vedo, e se loro non ascoltano prendo il numero di targa e lo comunico ai vigili. L’altra mattina due signori si misero a scaricare un furgone pieno di mobili vecchi, li vidi, dal balcone iniziai a gridare, loro niente, allora scesi ma ancora facevano finta di non capire, gli dissi che chiamavo i carabinieri, se ne scapparono. I mobili che riuscirono a depositare sono ancora lì, sotto le nostre case. Ho dovuto, io, chiamare al numero verde.
La stessa attenta sorveglianza esercitano i cittadini su tutti i compiti che gli operatori ecologici sono tenuti a svolgere, pronti a offrire numerose indicazioni per rendere più efficace il servizio, ma anche a rilevarne negligenze e ‘distrazioni’ per comunicare e denunciare, eventualmente, ogni forma di disservizio alle autorità competenti. Un anziano signore di Avella commenta scandalizzato: «Oggi [gli operatori ecologici] che dipendono dai consorzi privati vanno nella zona di loro competenza con l’auto e pretendono di fare il loro lavoro dalla vettura stessa. Non v’è mai capitato di vedere uno di questi con la scopa fuori dal finestrino lavorare in questo modo?». E tutti sono concordi nell’affermare che «andrebbero multati anche gli operatori negligenti». Non possiamo infine dimenticare, fra le ‘sentinelle’ della pulizia nelle strade, i gestori dei locali pubblici che hanno tutto l’interesse affinché venga svolta correttamente la differenziazione dei rifiuti e che spesso devono combattere contro avventori distratti o strafottenti. Così si sfoga un giovane barista di Moiano (frazione del Comune di Vico Equense), interrogato sulle difficoltà della raccolta differenziata:
È dura! Nonostante abbia attentamente diviso i vari contenitori con apposite scritte colorate e disegnini dei vari rifiuti, a fine giornata mi tocca rovistare nelle buste, perché forse qualcuno non sa leggere! Quindi devo dividere correttamente i rifiuti per evitare di ritrovarmi la busta fuori della porta, perché l’operatore ecologico non la ritira, vedendo che non è stata fatta correttamente e soprattutto evitare di incorrere in multe anche molto salate.
Migliore, anche se non esente da imprevisti, sembra la situazione del gestore di un bar edicola in una zona relativamente periferica di Pomigliano D’Arco. Egli esegue con scrupolo la separazione dei rifiuti, e la stessa disciplina è riuscito a imporre ai clienti abituali finché è diventata per tutti un’abitudine:
Confesso che quando quattro anni fa ci hanno imposto la raccolta differenziata, ho avuto molti disagi prima di abituarmi. La difficoltà era che nelle ore di maggiore affluenza dei clienti […] era impensabile provvedere contemporaneamente anche a collocare i diversi rifiuti nei diversi contenitori. Dapprima ho richiesto che sul marciapiedi, proprio fuori, sulla strada, fosse collocata una campana per il vetro, il più vicino possibile. Per fortuna, in pochi giorni, sono stato accontentato! Il problema più urgente erano le bottigliette, soprattutto per la grande quantità che ne vengono utilizzate giornalmente e per il fatto che sono particolarmente voluminose. Sono riuscito a fare in modo che la maggior parte dei clienti che ordinavano prodotti in vetro non lasciassero poi le bottigliette sul bancone, sui tavolini o davanti alla porta d’ingresso, ma le riponessero personalmente nella campana. Ovvio che questa regola vale per i clienti abituali, che poi sono la maggior parte della gente che entra qua dentro, i soli ai quali posso chiedere questo tipo di collaborazione. Per fortuna, la maggior parte delle persone che vengono qui sono persone educate e che quindi non protestano. Qualcuno all’inizio ha storto il naso per il fatto di dover uscire fuori a depositare il rifiuto, ma poi col tempo si sono abituati e adesso lo fanno automaticamente. Purtroppo capitano anche individui che, nonostante conoscano questa regola interna e nonostante siano stati più volte invitati ad osservarla, se ne fregano. Puntualmente trovo bottiglie vuote sul biliardo e sul davanzale della finestra. Sono convinto che lo facciano per dispetto, quasi per sfida o qualcosa del genere. Lascio perdere. Aspetto che vanno via e provvedo io a mettere in ordine.
Uno dei risultati di questa battaglia contro i rifiuti è un rapporto più diretto e proficuo dei cittadini con le amministrazioni che si sono più impegnate su questo fronte. I cittadini, come abbiamo visto, forniscono preziosi contributi in materia di segnalazioni, si fanno portavoce nel proprio condominio e nel proprio quartiere per l’attuazione di pratiche corrette, rivendicano il loro diritto a essere ascoltati e – come affermano vari assessori e responsabili del servizio ambiente – tempestano di telefonate e di mail il comune per acquisire tutte le informazioni e le attrezzature necessarie alla corretta differenziazione dei rifiuti. Le relazioni informali sono l’elemento fondamentale per il rispetto collettivo delle regole. Sostengono l’impegno individuale e quella rete di sorveglianza pubblica che assicura una corretta esecuzione delle pratiche e tiene sotto controllo i comportamenti devianti. Sono alla base delle norme e delle reti di impegno civico che hanno fatto sì che la raccolta differenziata diventasse non solo un obbligo quotidiano ma una vera e propria mentalità.
In primo luogo, le argomentazioni finora addotte offrono una prova ulteriore della necessità di ripensare criticamente le assunzioni relative ai legami particolaristici: non sono, di per sé, né una caratteristica di posizioni centrali né una caratteristica di posizioni periferiche; possono legarsi al circolo vizioso dell’arretratezza o a quelli virtuosi dello sviluppo; possono definire strategie di pura sussistenza o promuovere dinamiche di successo imprenditoriale. Certamente le reti particolaristiche si adattano ai contesti e alle circostanze che le condizionano e, quindi, vanno sempre interpretate non solo alla luce delle loro articolazioni e dei loro movimenti interni, ma anche alla luce delle dinamiche più ampie che le governano: le interrelazioni, come abbiamo visto, con le dinamiche della world economy e dello Stato-nazione di cui le regioni meridionali sono parte integrante. Da questo punto di vista, la manipolazione dei network sociali è stata una efficace strategia di resistenza alla periferizzazione e di integrazione nazionale.
In secondo luogo, si dimostra una volta di più l’infondatezza di ogni generalizzazione e schema interpretativo astratto e aprioristico quando venga messo a confronto con la prova dei fatti. Nel caso particolare, la fragilità o meglio inconsistenza delle rappresentazioni largamente ideologiche e stereotipate sul Mezzogiorno che, incorruttibili all’usura del tempo, nonostante le sistematiche smentite sul piano delle verifiche empiriche, continuano a plasmare e orientare il più diffuso senso comune e a offrire sempre nuovi argomenti al dibattito e alle polemiche politiche. Le relazioni informali, particolaristiche, come abbiamo visto, non solo sono importanti per il benessere delle persone perché, soprattutto nel Mezzogiorno, aiutano le famiglie a sopperire alle gravi carenze delle istituzioni pubbliche, non esprimono sempre una inclinazione esclusiva a favorire gli interessi egoistici di gruppi chiusi di amici personali e parenti, ma possono uscire dalla sfera privata e proiettarsi nello spazio pubblico per influenzare positivamente in vari modi la vita collettiva. I casi riportati ci danno un’idea concreta, anche nel Mezzogiorno, delle potenzialità ‘virtuose’ dei legami particolaristici.
Il successo e il prestigio dell’attività artigiana ha potuto prosperare sul fitto tessuto di reti di cooperazione e reciprocità che nascono dalla contiguità fisica, dalla condivisione di codici e linguaggi, da forme collettive di apprendimento e di esperienza e che, come tali, delineano il profilo particolare di un contesto produttivo locale, definendone l’identità. Le relazioni familiari e parentali hanno rappresentato una risorsa importante nel favorire e sostenere lo sviluppo dell’imprenditorialità, neutralizzando a volte gli svantaggi di una dotazione scarsa di capitale iniziale e hanno costituito una forma di capitale sociale appropriabile di cui l’imprenditore ha potuto giovarsi in varie occasioni, sia all’interno sia all’esterno della unità produttiva. L’attività creativa dell’inventore ha potuto concretizzarsi nei brevetti grazie alle competenze e all’impegno di parenti e collaboratori fidati.
Le relazioni familiari e di residenza hanno svolto un ruolo cruciale di solidarietà politica e di lotta al tempo delle occupazioni delle terre che, indubbiamente, hanno rappresentato uno dei momenti più alti del conflitto di classe nel Mezzogiorno. Rapporti operanti tra persone specifiche su base varia (stessa scuola, stesso quartiere, stessa parrocchia, ecc.) hanno costituito il nucleo di partenza di varie forme di partecipazione e impegno civico che si sono concretizzate in associazioni, circoli, comitati e iniziative analoghe. Le relazioni informali, di ogni ordine e grado, sono state alla base di quella attiva e solida rete di comunicazioni e collegamenti a largo raggio che ha trasmesso messaggi e allarmi di bocca in bocca e che ha unito i cittadini in un terreno comune di lotta nel corso della grande emergenza dei rifiuti a Napoli e in Campania. E sempre le relazioni particolaristiche hanno costituito l’elemento di controllo più efficace per il rispetto collettivo delle regole: familiari, parenti, vicini e conoscenti si sono adoprati con ostinazione e senza posa per obbligare tutti al corretto conferimento dei rifiuti e sono riusciti a smuovere anche l’inerzia dei più negligenti. Sono stati i vigili custodi del territorio pronti a collaborare con le autorità per sanzionare i comportamenti devianti. Insomma, le relazioni particolaristiche, nel Mezzogiorno, non sono sempre espressione di arretratezza, di egoismo sociale e politico, ma possono diventare tramite di strategie economiche innovative, di doveri condivisi, di fiducia, di comportamenti cooperativi, in altre parole di capitale sociale e senso civico.
I fatti riportati certamente delineano un quadro tutt’altro che completo e sono legati a contesti circoscritti; sono dispersi in tempi e luoghi distanti, non collegati tra loro, spesso ignorati o scarsamente visibili (come, per es., l’impegno dei cittadini campani e napoletani nella raccolta differenziata). Eppure, una volta di più, mostrano una fitta trama fatta di testimonianze vitali e forme di partecipazione e aggregazione sociale alternativa che, contro ogni stereotipo, devono essere comprese e integrate in ogni analisi e narrazione del Mezzogiorno. Sono, infatti, proprio le iniziative innovative e le esperienze di cittadinanza attiva a occupare e a produrre «lo spazio del possibile» (Donolo 2011, p. 133) presente negli interstizi del sistema, ma anche ad assumere peso e rilevanza, diventando massa critica e fattore propulsivo di mutamento. Esse costituiscono un grande potenziale di risorse da valorizzare e un patrimonio innovativo di virtù personali e civiche su cui far leva per avviare una politica di sviluppo che sia in grado di sciogliere quello che Carlo Trigilia (2011; 2012) chiama il nodo del Mezzogiorno e che consenta, finalmente, di tornare a parlare del Sud in chiave nazionale.
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Per il paragrafo sull’emergenza dei rifiuti a Napoli e per quello sulla raccolta differenziata si ringraziano in particolare: Marco Barone, Luana Caiazzo, Maria Caiazzo, Virginia Catalani, Anna Catapano, Sara Cimmaruta, Maria Grazia Cirillo, Luisa Coppola, Antonella Della Pia, Rossella De Martino, Sara De Robbio, Maria Rosaria De Rosa, Dalila Di Guglielmo,Vincenza Esposito, Carolina Falanga, Mario Faralli, Giulio Finotti, Anna Giovanniello, Domenico Guida, Mario Alessandro Iannone, Rosalia Iovino, Mirella Leonardo, Simona Lucarelli, Elisa Maggi, Francesca Marra, Maria Palmiero, Luigi Piccirillo, Feliciano Pipola, Maria Porzio, Gabriella Punziano, Chiara Orsi, Laura Regina, Felice Francesco Rescigno, Valentina Mariarosaria Rossi, Stefania Ruocco, Giovanna Russo, Giuseppina Salvati, Michele Sarnataro, Marco Signorelli, Marianna Verde.