La fotografia archeologica
La possibilità che la fotografia potesse, già dalla sua nascita, essere utilizzata nel settore archeologico e nel campo dell'arte, fu evidenziata dalla relazione scientifica che D.-F. Arago tenne nel 1839 all'Accademia di Francia. In quell'occasione egli affermò infatti che con il dagherrotipo (procedimento fotografico con il quale si otteneva un'immagine, in copia unica, sia positiva che negativa in base all'inclinazione della lastra), inventato da L.-J.-M. Daguerre, sarebbe stato possibile documentare i geroglifici dei templi egiziani in poco tempo, operazione che senza l'ausilio della fotografia avrebbe comportato l'utilizzo di legioni di disegnatori per una ventina d'anni. Nel novembre 1839 H. Vernet, durante un viaggio in Egitto, portò con sé il dagherrotipo, riuscendo a riprendere varie vedute delle piramidi. In seguito anche l'egittologo R. Lepsius utilizzò, durante le missioni in Egitto dal 1842 al 1845, l'attrezzatura per eseguire fotografie. Nel 1841 W.H. Fox Talbot inventò la calotipia, cioè un processo per la realizzazione di negativi su carta, non solo più veloce del dagherrotipo, ma che permetteva anche di avere più copie dell'originale. Tra il 1849 e il 1860 vennero pubblicati molti libri fotografici, opere di viaggiatori che avevano documentato i monumenti non da un punto di vista scientifico, ma con l'intento di realizzare un repertorio di vedute di siti e di edifici a prescindere da un'indagine conoscitiva su quello che riproducevano (H. Vernet, F. Gompil Fesquet, F. Teynard, E. Piot, A. Beato). È da citare in particolare il lavoro di M. du Camp, che riportò da un viaggio in Egitto e nel bacino del Mediterraneo una memorabile raccolta di negativi su carta, stampati a Parigi nel 1851 da B. Evrard: le immagini non solo furono una fedele documentazione del viaggio, ma rinnovarono radicalmente la documentazione iconografica del Vicino Oriente. Altro importante lavoro fu quello di A. Salzmann, inviato a Gerusalemme dall'Accademia delle Belle Arti francese non sicura dell'autenticità degli schizzi di alcuni monumenti eseguiti dall'archeologo L. Coignard de Saulcy; la necessità di documentare scientificamente gli edifici portò Salzmann a scegliere inquadrature e illuminazioni ardite per il gusto dell'epoca. Gli sviluppi delle tecniche fotografiche e la scoperta di nuovi supporti per la realizzazione dei negativi (l'era del collodio) nella seconda metà dell'Ottocento portarono a una maggiore diffusione del mezzo fotografico anche in campo archeologico. Molte missioni archeologiche francesi, tedesche, inglesi, cominciarono a utilizzare nella propria équipe un fotografo professionista. Ne sono esempi i lavori di E. Renan in Giudea e in Fenicia (1860-64), di G. Perrot in Asia Minore (1861), di Ch.-E. de Rougé in Egitto (1863-64), di Ch. Clermont- Ganneau in Palestina (1867). Ad Atene nel 1858 D. Constantinou fu il primo fotografo che lavorò per la Società Archeologica Greca. In Italia P. Rosa nel 1871-72 fece largo uso della fotografia nella relazione sugli scavi di Roma, mentre E. Brizio nel 1871 documentò con fotografie le scoperte archeologiche della città di Roma e della provincia. Fondamentale per lo sviluppo della fotografia come supporto all'indagine archeologica fu l'opera di G. Boni, che utilizzò la fotografia non solo come elemento di conoscenza artistica del monumento, ma anche come documento storico e critico, dal momento che la fotografia registra, insieme con le alterazioni del tempo, anche particolari che possono sfuggire a una percezione diretta del soggetto. La fotografia, quindi, cominciò ad essere considerata come uno strumento idoneo non solo alla documentazione, ma anche alla stessa tutela delle opere d'arte. Uno dei primi esempi di uso metodico della fotografia nel lavoro quotidiano di una missione archeologica si trova nell'opera di A. Conze, che nel 1875 diede inizio agli scavi di Samotracia con due architetti e un fotografo. Per la prima volta venne fatto uso di riferimenti metrici, come stadie centimetrate per le fotografie di scavo e metrini per i particolari architettonici, successivamente pubblicati insieme al relativo disegno. La diffusione e l'importanza della documentazione fotografica in archeologia è documentata anche dall'uscita nel 1879 del primo manuale di fotografia archeologica a cura di E. Trutat. L'aspetto più interessante è che, già alla fine dell'Ottocento, nell'esecuzione delle fotografie archeologiche venivano applicate le stesse regole della documentazione fotografica attuale: luce morbida e diffusa, massima chiarezza dei particolari, illuminazione uniforme degli oggetti. La diffusa popolarità del nuovo mezzo espressivo portò dunque alla creazione di famosi ateliers, come quello dei fratelli Alinari. Gli Alinari crearono uno stile che diventò uno stereotipo per le fotografie di opere d'arte rimasto valido fino ai nostri giorni: punto di ripresa scelto a circa 3 m d'altezza del monumento, in modo da eliminare le distorsioni prospettiche; luce diffusa per evidenziare tutti gli elementi architettonici; eliminazione di ogni elemento distraente; isolamento del monumento dal suo contesto urbano. A cavallo dei due secoli, per merito di J.H. Parker, Th. Ashby e E.B. van Deman, si realizzarono grandi archivi di fotografie archeologiche, che diedero un'impronta notevole allo stile e all'utilizzazione del mezzo fotografico nell'ambito della ricerca archeologica. La fotografia fu sistematicamente utilizzata per documentare sia gli scavi e gli enormi sterri eseguiti a Roma negli anni 1870-80, sia le prospezioni eseguite dagli archeologi nella Campagna Romana. L'imponente lavoro di documentazione fotografica di Parker, Ashby e van Deman, e in generale il lavoro di molti studiosi e fotografi che hanno operato in Italia tra la fine dell'Ottocento e gli inizi del Novecento, sono successivamente confluiti nei grandi archivi fotografici delle istituzioni pubbliche e private e costituiscono certamente la parte più importante e interessante delle attuali collezioni, fondamentali per lo studio della documentazione fotografica preesistente. Normalmente le raccolte sono costituite da fondi di archivio della fine dell'Ottocento, successivamente accresciuti con foto di documentazione di scavo, dei ritrovamenti e dei monumenti architettonici. La fotografia archeologica non è soltanto una scelta ragionata del materiale da utilizzare e una corretta conoscenza di tecnica fotografica per un'esatta esposizione del materiale sensibile, ma soprattutto un'adeguata e opportuna scelta del punto di vista, dell'inquadratura, dell'illuminazione più appropriata per la valorizzazione del soggetto. Innanzitutto è necessario visualizzare allo stesso modo della fotocamera: l'immagine fotografica è infatti piatta, bidimensionale e racchiusa in uno spazio definito dato dalle dimensioni del negativo; l'occhio umano ha invece una visione tridimensionale e spazia continuamente, mentre osserva la scena, su un ampio angolo di campo. I fattori che influiscono sull'esatta corrispondenza tra la visione umana e quella della fotocamera si possono sintetizzare in tre punti: la scelta del punto di vista, l'uso degli obiettivi e la scelta dell'illuminazione. Questi tre elementi sono fra loro indipendenti, ma anche strettamente correlati; infatti la giusta individuazione del punto di ripresa può essere inficiata da un uso esagerato dell'obiettivo grandangolare, oppure dalla scelta di un'illuminazione non idonea a evidenziare gli elementi strutturali che si vogliono documentare. Nella fase di elaborazione dell'immagine è importante controllare la prospettiva e le deformazioni. L'utilizzazione di obiettivi intercambiabili consente di intervenire sulla prospettiva e sulla grandezza del soggetto sul negativo. Infatti, se si fotografa un'area di scavo cambiando obiettivo e spostando il punto di ripresa della macchina fotografica, in modo tale da avere sempre la stessa dimensione del soggetto sul negativo, avremo tre prospettive differenti. Se invece, sempre cambiando le ottiche, non si sposta il punto di ripresa si avranno tre immagini, con il soggetto ripreso più o meno grande a seconda dell'ottica usata, ma con la stessa prospettiva. Infatti, se si stampassero i negativi delle tre riprese in modo da riprodurre l'immagine del soggetto alla stessa scala, le stampe sovrapposte coinciderebbero perfettamente. Un altro elemento fondamentale da controllare sono le deformazioni prospettiche, che sono molto più evidenti quando si fotografano gli alzati. Infatti, per poter includere nel fotogramma tutta la facciata di un tempio, alcune volte è necessario inclinare la macchina fotografica, quindi il piano focale; questa operazione determina una distorsione, poiché la parte più vicina del soggetto, la base dell'edificio, risulterà più grande dell'alzato e i lati appariranno convergenti verso l'alto. Non potendo utilizzare le macchine fotografiche a corpi mobili o gli obiettivi decentrabili, si useranno allora gli accorgimenti utilizzati già dall'atelier Alinari, posizionandosi circa a metà dell'altezza del soggetto da fotografare e mantenendo il piano della pellicola ortogonale al monumento. L'illuminazione è, infine, il fattore basilare che permette di cogliere in pieno il volume e il rilievo degli edifici: la giustapposizione di ombre e di luci dà infatti la sensazione della tridimensionalità a un'immagine bidimensionale. Non esiste in assoluto un'illuminazione ottimale, ma ogni situazione deve essere studiata e analizzata secondo le specifiche esigenze di documentazione. La facciata di un tempio, la cavea di un teatro, una situazione di scavo con molti particolari saranno ben documentate da una fotografia scattata con una luce diffusa, che offre un'immagine piatta e poco contrastata, la quale consentirà tuttavia una leggibilità generale del soggetto, soprattutto se molto articolato. Una fotografia d'insieme di uno scavo in pieno sole, ma con la fonte della luce alle spalle dell'operatore, con un angolo di circa 45° rispetto all'asse di ripresa, renderà un'immagine di profondità e di spazio. Una luce radente, invece, aiuterà a evidenziare la tecnica costruttiva e la struttura del materiale; mentre un'illuminazione frontale e controluce impediranno una lettura dettagliata del soggetto, poiché la prima appiattisce i piani e non permette di rilevare alcun particolare, la seconda crea ombre nette proprio sulle strutture frontali, quelle che il punto di ripresa considera più importanti. La scelta dell'illuminazione comporta una valutazione della qualità della luce con cui si lavora: infatti la luce non è sempre uguale, ma cambia durante il giorno in base alla diversa posizione del sole rispetto alla terra e alle condizioni atmosferiche. In una giornata tersa si avrà una luce molto intensa proveniente dal sole e in misura minore dal cielo, con un contrasto molto elevato tra le zone illuminate dal sole e quelle in ombra. La presenza di nuvole o di una leggera foschia aumenterà il peso del cielo nell'illuminazione con un contrasto più attenuato. Una giornata nuvolosa avrà una luce diffusa con una forte diminuzione del contrasto e con tutte le zone uniformemente illuminate dal riflesso del cielo. La documentazione degli oggetti, infine, esplica un ruolo primario nella ricerca e nello studio archeologico, poiché spesso l'analisi dei reperti non avviene direttamente dall'originale ma tramite la fotografia. È importante quindi che la documentazione dia il maggior numero di informazioni, evitando errori e deformazioni che possano trarre in inganno lo studioso. Un punto di ripresa troppo basso e l'uso dell'obiettivo grandangolare nei ritratti e nei busti comporta una distorsione dei contorni della testa, gonfiando le parti inferiori e mostrando parti del ritratto artisticamente non importanti, impedendo inoltre la comparazione con i ritratti presenti sulle monete. Un punto di ripresa della ceramica troppo dall'alto provoca una distorsione accentuata del vaso, poiché la prospettiva dall'alto tende a schiacciare l'oggetto, mostrando l'orlo e la spalla più grandi rispetto alla base del vaso. La luce radente nelle fotografie di lapidi ed epigrafi deve evidenziare sia gli incavi orizzontali che quelli verticali delle lettere. La direzione della luce dal basso anziché dall'alto per un oggetto cavo o in rilievo comporterà un effetto ottico diametralmente opposto e quello che ci appare come cavo risulterà in rilievo. Il requisito sostanziale della documentazione consiste, quindi, nella resa di un'accurata informazione sull'oggetto priva di deformazioni ed errori; ogni parte dell'oggetto deve ricevere la stessa quantità di luce; occorre evitare elementi di disturbo nella scelta del fondale, che deve tendere verso colori che non interferiscano con la leggibilità del reperto; occorre inoltre predisporre adeguati riferimenti metrici, correttamente posizionati, per ottenere un'esatta riproduzione in scala. L'esecuzione di una fotografia archeologica comporta, pertanto, la sintesi della conoscenza dei meccanismi che presiedono alla realizzazione dell'immagine e delle richieste dell'archeologo in merito alla documentazione da utilizzare per le proprie ricerche.
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