La fotografia degli artisti
Nell’ambito della storia della fotografia, il 21° sec. si è aperto con una novità: il superamento della distinzione tra fotografi puri e artisti che utilizzano la fotografia per le loro ricerche. Un’evoluzione iniziata già alla fine degli anni Ottanta del 20° sec., quando una serie di artisti internazionali cominciò a elaborare immagini a matrice fotografica allontanandosi dall’approccio documentaristico per sottolineare, invece, la capacità della fotografia di introdurre tematiche di carattere concettuale, e passare quindi dalla rappresentazione del reale alla sua interpretazione.
Grazie alla possibilità di porsi come strumento atto alla mediazione concettuale con il mondo, l’uso del mezzo fotografico permette agli artisti la partecipazione in presa diretta alla rapida e costante evoluzione della realtà circostante. Partecipazione che le tecniche artistiche tradizionali, come la pittura, non permettevano per la loro stessa natura di traduzione simbolica del reale, come sottolinea Rosalind Krauss: «Se si può dipingere un quadro a memoria o grazie alle risorse dell’immaginazione, la fotografia, in quanto traccia fotochimica, può essere condotta a buon fine solo in virtù di un legame iniziale con un referente materiale» (Le photographique. Pour une théorie des écarts, 1990; trad. it. Teoria e storia della fotografia, 1996, pp. 73-74). Tale caratteristica, ossia la necessità di una connessione diretta tra segno e referente riconosciuta anche dal filosofo Charles S. Peirce nei suoi studi di semiotica, a lungo considerata un limite strutturale della fotografia e un ostacolo alla dimensione immaginativa della pittura, si è trasformata, a partire dagli anni Sessanta del Novecento, in un efficace strumento di analisi del sociale a disposizione degli artisti concettuali statunitensi come Joseph Kosuth, Mel Bochner o Dan Graham.
Questi ultimi ponevano infatti al primo posto l’opera d’arte intesa non come oggetto, ma come idea, che poteva essere rappresentata anche con un’immagine fotografica. Se dunque il concettuale svincolava la fotografia dalla sua natura rappresentativa in senso strettamente tecnico, è stato l’avvento del postmoderno negli anni Ottanta a coglierne le molteplici potenzialità e a trasformarla nel più poliedrico linguaggio artistico del nostro tempo. «Il postmoderno – sottolinea Denys Riout – abbandona la ricerca delle specificità, ed esalta la pluralità, la contaminazione dei generi. È un concetto vago che raggruppa pratiche artistiche e posizioni estetiche dissimili» (2000; trad. it. 2002, p. 327). Ma non basta. Dal momento che il pensiero postmoderno indaga il ruolo sociale della rappresentazione, gli artisti cominciano a sottolineare la sua ambiguità all’interno della società dei consumi, rivelando da una parte il rapido e inevitabile scollamento tra immagine e realtà, e dall’altro sconfessando uno dei fondamenti tradizionali assegnati all’opera d’arte: l’originalità creativa. «Tutto è prelevabile e riutilizzabile in altro contesto, tutto è sullo stesso piano, su una superficie assoluta che non comporta ‘fuori’ né ‘profondità’» sottolinea Elio Grazioli (1998, p. 294). L’opera d’arte come puro simulacro, copia senza più originale, citazione senza più testo, immagine che ha sostituito completamente il reale: queste sono le caratteristiche dell’opera d’arte nell’epoca del postmodernismo secondo il critico francese Jean Baudrillard. Una logica secondo la quale la storia rappresenta un immenso deposito di immagini dal quale attingere con totale libertà anche, se non soprattutto, attraverso la riproduzione fotografica.
È il caso dell’artista statunitense Sherrie Levine (n. 1947), che riproduce in maniera identica opere di maestri della fotografia americana come Edward Weston e Walker Evans. Copie perfette, incorniciate in maniera semplice e convenzionale, che una volta esposte in una galleria d’arte mettono in gioco la capacità del visitatore di distinguerle dagli originali. «La fotografia postmoderna diventa allora ‘costruita’, rimessa in gioco dell’indecifrabilità tra reale e fittizio, tra verità e manipolazione, tra originale e copia» puntualizza Grazioli (1998, p. 298). La capacità della fotografia di entrare in contatto con altri settori della creatività, come il cinema, la moda, la pubblicità e i mass media, in genere le permette di allargare a dismisura il suo campo d’azione come strumento artistico di manipolazione del reale, rendendo possibili incursioni sempre più frequenti al di là dei luoghi deputati dell’arte, per entrare in contatto con un pubblico sempre più ampio. Così la pubblicità diventa materiale da reinterpretare in senso sociologico per l’artista statunitense Richard Prince (n. 1949) che trasforma le immagini dei cowboys tratte dalla campagna pubblicitaria di una nota marca di sigarette in un’allegoria della virilità contemporanea. In senso opposto, il fotografo Oliviero Toscani (n. 1942) scatta una serie di immagini volutamente scioccanti e impaginate in modo artistico per reclamizzare una famosa marca di abbigliamento, portando la pubblicità nell’arte.
Strategie dello sguardo
«Vorrei che la fotografia portasse a disprezzare la pittura finché qualcos’altro a sua volta renderà insopportabile la fotografia». Senza dubbio in una società dominata dalle immagini questa profezia espressa da Marcel Duchamp in una lettera (scritta il 27 maggio 1922) al fotografo Alfred Stieglitz sembra essersi avverata, e le fila degli artisti che utilizzano la fotografia come linguaggio espressivo si allargano in maniera costante, ma non inconsapevole. Ognuno si accosta all’obiettivo per elaborare una personale strategia dello sguardo, necessaria per esprimere il proprio pensiero attraverso un codice interpretativo preciso, legato all’esigenza di stabilire un rapporto di presa diretta con il mondo. Alla libertà di azione aperta dal postmodernismo si aggiunge così, nell’ultimo decennio del 20° sec., la necessità di partecipare alla produzione di criteri interpretativi di una realtà vissuta in presa diretta, resa possibile dalla particolare struttura dello strumento fotografico, materiale e concettuale insieme. È il desiderio di dare corpo a un racconto individuale prendendo spunto da frammenti di realtà quotidiana, rassicuranti nella loro dimensione oggettiva e inconfutabile. Questi materiali vengono però manipolati per esprimere contenuti altri, che trascendono anche la loro stessa rappresentazione con il fine di approfondire il messaggio trasmesso dall’immagine. «È sul piano del messaggio che gli artisti intervengono, ponendolo come problema e anzi problematizzando ogni elemento della comunicazione, i referenti, i destinatari, i mezzi» spiega Giorgio Verzotti (in Arte contemporanea, 2005, p. 227).
La fotografia assurge dunque a territorio privilegiato dell’analisi del reale, secondo parametri individuali che tendono a isolarne un singolo aspetto per amplificarne al massimo il potere evocativo. In un mondo sempre più complesso e contraddittorio, l’artista può servirsi della fotografia per mettere a fuoco la propria capacità di elaborare un suo codice semantico mediante alcune tipologie espressive che caratterizzano la scena artistica contemporanea.
Fotografia come memoria
Uno degli usi più frequenti della fotografia nel passato recente è legato all’idea di catalogazione e archiviazione della memoria, intesa sia in senso storico, scientifico, popolare, sia più semplicemente domesti-co. A partire dagli anni Sessanta, alcuni artisti hanno cominciato a raccogliere immagini fotografiche di diverse provenienze presentandole come un’opera unica che assume il proprio significato dal fatto di essere concepita come una elencazione di dati visivi. Esemplare a questo proposito è Atlas, un lavoro in progress del tedesco Gerhard Richter (n. 1932) che dal 1962 a oggi ha riunito più di 600 pannelli ordinati per sequenze cronologiche, in cui appaiono immagini di diversa matrice, dalle foto di cronaca a scatti tratti da riviste pornografiche, per comporre una sorta di racconto incompiuto tra cronaca e storia. L’artista francese Christian Boltanski (n. 1944) struttura le proprie opere come raccolte di ritratti di persone che hanno vissuto esperienze drammatiche, essendo state strappate ai loro nuclei familiari di origine nell’Europa del dopoguerra. Un insieme di microstorie presentate in una dimensione intima e malinconica, all’interno delle quali le immagini fotografiche si caricano del triste peso dell’assenza. Una modalità espositiva riscontrabile anche nelle opere di un’altra artista francese, Annette Messager (n. 1943), che propone fotografie di parti anatomiche di corpi anonimi presentate come ex voto contemporanei.
A partire dagli anni Novanta l’allargamento dei confini dell’arte verso una dimensione globale ha portato a una caratterizzazione in senso più propriamente sociopolitico del prodotto artistico, come nel caso di Yinka Shonibare (n. 1962), nato a Londra da genitori nigeriani, autore di una serie di opere fotografiche intitolata Diary of a victorian dandy (1998), che rappresenta diversi momenti della vita quotidiana di un gentiluomo britannico del Settecento, interpretato dall’artista stesso. Ispirate alle incisioni di William Hogarth, le immagini di Shonibare sono state affisse alle pareti della metropolitana di Londra, in modo da suggerire una riflessione sulla triste condizione dei neri nella storia britannica. Meno politica e più intima l’operazione condotta dall’indiana Mohini Chandra (n. 1964) che in Album pacifica (1997) raccoglie vecchi ritratti di parenti, deportati dall’India alle isole Figi e poi dispersi in varie parti del mondo. Al pubblico viene però presentato soltanto il retro delle immagini, con il timbro dello studio fotografico e alcuni appunti scritti a mano: «Se gli è negata la fotografia vera e propria, l’osservatore è comunque in grado di formarsi un paesaggio fotografico immaginario, in quanto l’opera evoca uno spazio in cui è possibile immaginare le storie e le esperienze dei personaggi ritratti» spiega l’artista (in Art and photography, 2003, p. 61). Una memoria fondata sull’assenza delle presenze umane è quella che traspare nelle immagini dell’artista indiana Dayanita Singh (n. 1961), scattate all’interno di ambienti tipici dell’epoca coloniale: hall di alberghi, palazzi di maragià, scuole ed edifici dove si respira ancora l’atmosfera dell’impero britannico. Rigorosamente in bianco e nero, le fotografie sono presentate in un formato quadrato che rimanda alle immagini che arredavano gli stessi edifici all’inizio del Novecento, mentre proprio l’assenza di persone rende gli ambienti irreali e metafisici, trasformandoli in un set nostalgico e paradossale.
L’intreccio tra storie collettive e individuali è la chiave di lettura della ricerca dell’artista francese Sophie Calle (n. 1953), che unisce l’intenzionalità creativa con la vita quotidiana, per suggerire possibili itinerari mentali capaci di creare inquietanti cortocircuiti tra memoria ed esperienza, attraverso delicati equilibri tra casualità e strategia espositiva. Nel suo lavoro, presentato nel padiglione francese dell’Esposizione internazionale d’arte di Venezia del 2007, Prenez soin de vous, l’artista ha chiesto a un folto gruppo di donne, che svolgevano professioni di vario tipo, di interpretare una lettera d’amore nei modi più diversi, trasformando un atto intimo e personale in un momento di partecipazione collettiva. Un dispositivo e, al contempo, un detonatore emotivo che trasforma la relazione sentimentale in un evento espositivo dove la presenza dei ritratti fotografici di ognuna delle persone coinvolte crea una trama di relazioni inattese tra l’artista e il pubblico. Quest’ultimo si trova così coinvolto in una situazione sospesa tra realtà e finzione, esibizionismo e voyeurismo.
Identità e mutazioni
Alla fine degli anni Settanta l’artista statunitense Cindy Sherman (n. 1954) ha cominciato a produrre una serie di autoritratti fotografici in bianco e nero, intitolata Untitled film stills, dove interpreta ogni volta una tipologia femminile differente, esplicitata attraverso pose, atteggiamenti e abiti che rimandano a fotogrammi estratti da film commerciali degli anni Cinquanta. Iniziato nel 1977 e terminato nel 1980, questo ciclo di opere costituisce un fondamentale precedente per un intero filone della fotografia contemporanea che riflette sul rapporto tra identità, citazione e metamorfosi: «Un’operazione che non ha mai il sapore del recupero auratico del passato, bensì quello della contaminazione trasversale del presente» sottolinea Claudio Marra (i999, p. 215). Un’attitudine non così sorprendente, se pensiamo che già nel lontano 1862 Alphonse Disderi, autore del trattato L’art de la photographie, pubblicato a Parigi nello stesso anno, scriveva: «L’apparecchio fotografico, anziché indurre i soggetti a mettere allo scoperto la propria personalità, sembra eccitare in loro, al contrario, l’impulso a nascondersi, a travestirsi, a deidentificarsi. Il modello, anziché cercare di definire la propria rassomiglianza, cerca di assomigliare a qualcun altro». (in Marra 1999, p. 237). Un’attitudine che caratterizza diversi artisti degli anni Novanta riuniti dal critico d’arte statunitense Jeffrey Deitch nella mostra collettiva Post human (1992), dove varie opere di matrice fotografica venivano indicate come possibili modelli per l’elaborazione di un nuovo concetto di Io, una nuova costruzione di ciò che significa essere persona.
Prendendo ispirazione dalla chirurgia estetica e dall’ingegneria genetica, alcuni artisti hanno realizzato immagini basate sulla contaminazione tra identità diverse, sospese tra fisica e tecnologia, natura e artificio, maschile e femminile. Un’estetica transgender che ha dato luogo agli autoritratti del giapponese Yasumasa Morimura (n. 1951) che si traveste da mitiche dive del cinema, o a quelli della francese Orlan (n. 1947) che si è sottoposta a decine di interventi chirurgici ripresi in diretta fino ad assumere l’aspetto di un corpo artificiale. Altrettanto inquietanti le opere dell’olandese Inez van Lamsweerde (n. 1963) che mostrano adolescenti con volti e corpi senza età, ambigui prodotti di manipolazioni virtuali sospesi tra innocenza infantile e sensualità adulta. Più velata, ma non per questo meno inquietante, appare la ricerca di un’altra artista olandese, Hellen van Meene (n. 1972), che fotografa ragazze e giovani donne in atteggiamenti apparentemente casuali, delle quali in realtà sottolinea la sensualità degli sguardi. Un maestro del sesso estremo è il giapponese Nobuyoshi Araki (n. 1940) che ritrae giovani prostitute in pose apertamente erotiche, legate alle pratiche sessuali del bondage. I suoi reportage a luci rosse rivelano l’anima più nascosta di una megalopoli come Tokyo, in cui l’obiettivo svela i lati più segreti di un popolo che vive la sessualità secondo rituali complessi e misteriosi. Una visione diametralmente opposta rispetto a quella di un’altra artista giapponese, Mariko Mori (n. 1967), che ha creato un mondo artificiale in cui unisce suggestioni religiose con icone provenienti da manga e videogiochi, per creare una connessione simbolica tra tradizione e contemporaneità. Le sue opere sono costruite come universi fantastici, dove l’artista, vestita con i costumi di un’antica divinità giapponese, volteggia tra creature alate, ispirate a personaggi dei videogame.
Decisamente più legata al mondo terreno è la ricerca dell’artista newyorkese Andres Serrano (n. 1950) basata sul rapporto tra sesso, religione, morte e perversione. Opere come The morgue (1992), in cui Serrano fotografa volti e dettagli di corpi di cadaveri nell’obitorio di New York abbinandoli a laconiche didascalie che descrivono in poche parole la causa del decesso, costituiscono un tentativo di affrontare un argomento complesso esasperandone il lato realistico, quasi a voler creare un’estetica della morte: «Mi ha sempre colpito il fatto che la gente non appare nella morte così come quando era in vita» spiega l’artista (in D. Paparoni, Il corpo parlante dell’arte, 1997, p. 161), impegnato qualche anno dopo a infrangere il tabù della perversione sessuale, con un altro ciclo di opere dai contenuti forti, History of sex (1996). Immagini che denunciano un forte coinvolgimento dell’autore, impegnato in una serie di situazioni che non lasciano nulla all’immaginazione, mantenendo però sempre una risoluzione formale ineccepibile. Questa partecipazione diretta dell’autore alla definizione sia concettuale sia visiva dell’opera è un elemento caratterizzante delle ricerche di tutti gli artisti di questa breve rassegna: «I temi dell’identità, del corpo e della sessualità non vengono mai affrontati dall’esterno bensì assunti in prima persona, come esito di una partecipazione diretta» puntualizza C. Marra (in Arte contemporanea, 2005, p. 271).
Tra urbano e quotidiano
Una delle principali caratteristiche dell’evoluzione della fotografia nell’arte contemporanea degli ultimi vent’anni è la dimensione narrativa presente nelle immagini, che tendono a mostrare situazioni tratte dalla vita quotidiana vissuta in un contesto prevalentemente urbano, offrendone però un’interpretazione di tipo metaforico. Una modalità che prende spunto dalle esperienze del reportage fotogiornalistico degli anni Sessanta e Settanta, unite con la necessità di intendere l’opera d’arte come contenitore di senso proveniente dall’Arte concettuale. Nel corso del decennio successivo, l’avvento della società postmoderna ha trasformato radicalmente lo scenario della città, non più intesa come territorio di conflitti politici e sociali, bensì come scenario ideale di una società capitalistica avanzata, dominata dall’evoluzione della tecnologia e dalle multinazionali. Per interpretare tale mutazione il linguaggio fotografico ha assunto un ruolo di protagonista, permettendo agli artisti di focalizzare l’attenzione sul significato dell’immagine intesa come momento interpretativo e non più soltanto descrittivo del tessuto urbano.
Il pioniere di questa volontà di attribuire alla fotografia il delicato compito di rappresentazione sociale del quotidiano è l’artista canadese Jeff Wall (n. 1946) che, a partire dagli anni Novanta, ha realizzato una serie di light boxes di grandi dimensioni dove il portato narrativo è concentrato su un’unica immagine, concepita come la scena culminante di un racconto. Ambientate negli spazi asettici e anonimi della città di Vancouver, le opere di Wall mantengono l’aspetto misterioso ed enigmatico di un’azione bloccata nel suo svolgersi e ambientata in un contesto sociale apparentemente banale, ma in realtà costruito nei minimi dettagli che rivelano una complessa trama di riferimenti, dalla pittura rinascimentale al cinema, dal reportage all’advertising pubblicitario. La relazione con la pubblicità viene enfatizzata dall’uso del light box, che aggiunge all’immagine fotografica una connotazione fisica. «Il light box non è esattamente una fotografia, ma neanche un dipinto, ma li suggerisce entrambi» sottolinea Charlotte Cotton (2004, p. 51). Un altro artista che esplora il vissuto urbano americano per fissarne le contraddizioni è Philip-Lorca diCorcia (n. 1951) che si concentra sui ritratti di determinate categorie sociali borderline, coniugando il reportage urbano con la dimensione simbolica del ritratto popolare. Ballerine di lap dance o ragazzi che si prostituiscono sulle strade di Hollywood costituiscono alcuni soggetti tipici delle opere dell’artista che, con un sapiente uso di pose ed effetti chiaroscurali, evidenzia l’ambiguità dei suoi modelli, in perenne bilico tra casualità e fiction. Una modalità vicina allo stile dell’inglese Sam Taylor-Wood (n. 1947), che concentra la sua attenzione sull’apparente banalità della vita di tutti i giorni attraverso opere costruite come sequenze fotografiche scattate negli interni londinesi, dove avvengono episodi domestici dai quali traspare l’alienante tensione della quotidianità colta dall’obiettivo di una candid camera. I protagonisti di questi storyboard privati sono scelti all’interno della cerchia familiare dell’artista, e il loro inserimento in contesti domestici volutamente banali rende le situazioni ancora più imprevedibili e spiazzanti.
Ma l’artista che ha aperto la strada a questa modalità di utilizzo della fotografia intesa come documentazione dell’esistenza è Nan Goldin (n. 1953) che per anni ha documentato la sua vita personale trascorsa nell’ambiente underground newyorkese degli anni Ottanta, un mondo popolato da travestiti, omosessuali, artisti ed esseri umani allo sbando. Immagini che raccontano, con un linguaggio oggettivo e apparentemente asettico che non risparmia però momenti di dolore e sofferenza, drammi come il dilagare dell’AIDS e la diffusione della droga attraverso centinaia di microeventi incentrati sul quotidiano dell’artista, dei suoi amici e dei suoi amanti. Qui la fotografia è intesa come modalità del vivere stesso, di uno stare al mondo dove lo sguardo dell’artista non è mai giudizio, ma semplice e dolorosa constatazione, senza però sottolineare una partecipazione emotiva. L’artista statunitense si pone come un osservatore la cui partecipazione è limitata al momento dello scatto dell’obiettivo, senza indugiare in facili sentimentalismi: «Fare una fotografia è un modo di toccare qualcuno, è una carezza, è accettazione, un desiderio di cogliere la verità e di accettarla, senza cercare di farne una versione personale» (in Grazioli 1998, p. 322). L’unica componente emotiva è affidata alle colonne sonore di musica pop che accompagnano i primi slide shows dell’artista, come The ballad of sexual dependency, presentato per la prima volta a New York nel 1979.
Un altro pioniere della fotografia intesa come diario del quotidiano è Larry Clark (n. 1943), il regista e fotografo statunitense che nel suo volume Tulsa, del 1971, ha raccontato le giornate di un gruppo di giovani americani persi in un vortice autodistruttivo di sesso, droga e violenza. Una realtà vissuta in prima persona da Clark, il quale ha proseguito la sua indagine autobiografica con pellicole dai contenuti forti come Kids (1995), dove il cinismo e la disperata volontà autodistruttiva degli adolescenti negli Stati Uniti assume toni quasi insopportabili. Un’intimità esplosiva e carica di tensione che ritroviamo nelle opere dell’inglese Richard Billingham (n. 1970), assurto alla fama internazionale con una serie di immagini della sua famiglia composta dai genitori, Ray e Liz, e dal fratello Jason. La cronaca delle giornate vissute dai Billingham, tipico esempio di lower class family assiepata in un modesto appartamento, è scandita dagli interminabili litigi tra i coniugi, mentre il figlio Jason, impassibile, trascorre ore al computer, totalmente indifferente alla realtà che lo circonda, dominata da un senso di profonda alienazione.
Lo stesso stile da album di famiglia, filtrato attraverso uno sguardo imparziale e asettico, caratterizza l’opera del tedesco Wolfgang Tillmans (n. 1968), considerato uno dei principali protagonisti dell’attuale scena dell’arte contemporanea internazionale. Con un occhio attento all’evoluzione della fashion photography e l’altro alla minuziosa descrizione della propria vita di giovane artista nella Germania degli anni Novanta, Tillmans ha saputo trasformare le sue giornate trascorse in maniera pigra e disincantata in compagnia di ragazzi, tra club, rave parties e feste trasgressive, in un repertorio di immagini che spazia dal ritratto al paesaggio, dalla natura morta ai momenti più intimi del quotidiano. Un itinerario visivo che si mostra in tutta la sua apparente casualità, ispirata alle vicissitudini di una memoria personale simile a quella degli adolescenti: un accostamento suggerito dall’artista attraverso gli allestimenti delle sue opere, presentate senza cornice e accostate l’una all’altra secondo un ordine del tutto soggettivo.
La dimensione caotica e disordinata del paesaggio metropolitano, che domina buona parte della produzione di Tillmans, rappresenta l’orizzonte creativo dello svizzero Beat Streuli (n. 1957), il quale riprende pose, atteggiamenti e attitudini degli abitanti delle città moderne, colti di sorpresa sul dinamico sfondo della street life. Quello che interessa Streuli è la capacità della fotografia di fissare l’attenzione dell’osservatore sulle diverse sfaccettature della realtà urbana contemporanea intesa nel suo flusso continuo, senza isolarne singoli aspetti come avviene invece nell’opera di Tillmans. Più cruda e drammatica è invece la ricerca dell’ucraino Boris Mikhailov (n. 1938) che nel progetto Case history (1999) ha documentato la realtà dei vagabondi della sua città natale, Harkov: un allucinante reportage di persone sradicate dai loro nuclei di origine a causa del cambiamento di regime nei Paesi dell’ex Unione Sovietica. Un campionario di esseri umani privi di assistenza sociale che si muovono allo sbando nel malinconico e deprimente paesaggio ucraino, in una condizione di emarginazione senza speranza. Un senso di disperazione che ritroviamo nei volti disfatti degli anziani residenti in un ospizio londinese, protagonisti del progetto Hide that can (2001) dell’artista irlandese Deirdre O’Callaghan (n. 1969), che per un periodo di quattro anni ha documentato con distaccata oggettività la vita quotidiana di irlandesi alla deriva, emigrati a Londra a partire dagli anni Cinquanta per cercare lavoro prima di sprofondare in un’esistenza buia e senza prospettive. Come quella dei contadini che abitano le zone rurali della Finlandia, ritratti da Esko Mannikko (n. 1959) all’interno delle loro isolate e modeste abitazioni intorno alla cittadina di Oulu. Un rigore compositivo che l’artista ha inteso sottolineare con una scelta di cornici di seconda mano per enfatizzare la modestia consapevole dei soggetti ritratti. Un’attenzione alla marginalità simile alla ricerca della danese Trine Søndergaard (n. 1972), che ha rivolto l’obiettivo verso i diversi aspetti della vita professionale delle prostitute in Danimarca, sottolineando il lato alienante e disumano del loro lavoro, senza mai calcare la mano su aspetti erotici o sessuali. Ma a differenza di Tillmans o Streuli, l’artista ha stabilito un rapporto di fiducia e di collaborazione con i suoi soggetti, e ciò le ha permesso di cogliere espressioni e atteggiamenti che lasciano trasparire gli aspetti più drammatici e angoscianti di questa difficile e rischiosa professione.
«Il fotografo saccheggia e insieme conserva, denuncia e insieme consacra» ha scritto Susan Sontag in un celebre saggio sulla fotografia (On photography, 1977; trad. it. 1978, p. 57). Un atteggiamento che ritroviamo nelle immagini del cinese Dinu Li (n. 1966) intitolate Secret shadows (2002) e scattate all’interno delle misere stanze abitate dagli immigrati cinesi illegali nel nord dell’Inghilterra. Ambienti squallidi e anonimi, dove gli unici segni di vita sono oggetti domestici di provenienza cinese, frammenti dell’identità disgregata e nomadica che caratterizza le condizioni degli immigrati extracomunitari nei Paesi europei. Ma si può essere immigrati anche nel proprio Paese, come suggeriscono le immagini dell’artista iraniana Shirana Shahbazi (n. 1974) scattate a Teherān durante i primi anni del Duemila, venticinque anni dopo l’avvento del regime khomeinista, che rivelano le enormi contraddizioni tra le rigidità di uno Stato teocratico e le necessità di un Paese moderno.
Luoghi e non luoghi
Un altro significativo orientamento che caratterizza la fotografia contemporanea è l’attenzione per lo spazio fisico, inteso come topos di immagini simboliche situate sull’ambiguo crinale tra realtà e rappresentazione. Un’attitudine che viene comunemente fatta risalire al lavoro degli artisti tedeschi Bernd e Hilla Becher (Bernhard 1931-2007, Hilla n. 1934). I Becher dal 1957 hanno condotto una ricerca legata alla schedatura delle diverse tipologie di edifici di archeologia industriale, dai silos ai gasometri, presenti sul territorio della Germania. Ogni edificio è stato ripreso con una visione frontale e rigorosamente in bianco e nero, attraverso una modalità oggettiva, che riduce al minimo l’interpretazione del fotografo, accentuandone così la vocazione concettuale. «Le immagini dei Becher obbediscono a un formalismo fondato su un uso convenzionale, privo di inflessioni, della macchina fotografica come mezzo descrittivo» puntualizza David Campany (Art and photography, 2003; trad. it. 2006, p. 24). L’attività di docente di B. Becher presso l’Accademia di belle arti di Düsseldorf negli anni Ottanta ha dato vita alla cosiddetta scuola di Düsseldorf della quale fanno parte alcuni suoi allievi, come Andreas Gursky, Thomas Struth, Candida Hofer e Thomas Ruff, oggi figure di primo piano del panorama artistico internazionale. Con uno sguardo freddo e oggettivo, questi artisti hanno concentrato le loro ricerche sulla complessa trama di relazioni tra l’essere umano e lo spazio che lo circonda, privilegiandone le implicazioni socioculturali e antropologiche.
Così, se le immagini degli edifici di archeologia industriale dei Becher sono ancora debitrici del Minimalismo, evidente nella scelta di dispositivi come la ripetizione seriale, l’interesse per le strutture architettoniche e l’eliminazione di ogni modalità espressiva, i loro allievi hanno invece elaborato strategie concettuali di matrice differente. Gursky (n. 1955) predilige immagini a colori di grande formato, in cui tende a far coincidere il punto di vista dello spettatore con quello del fotografo. L’artista tedesco punta l’obiettivo su situazioni legate al nuovo volto della massa globalizzata: concerti rock, edilizia intensiva nelle periferie delle megalopoli, sfilate militari, ma anche megastores e centri commerciali. Una massa anonima e frenetica, presentata nella sua dimensione più inquietante dall’obiettivo dell’artista che, grazie al suo uso della panoramica, richiama alla memoria la vocazione epica e narrativa della pittura paesaggistica del 19° secolo. Struth (n. 1954), invece, si concentra sulla messa a fuoco di alcune tipologie sociali, come il comportamento del pubblico all’interno dei grandi musei come il Prado, il Louvre o i Musei vaticani. Queste immagini, giocate sul confronto tra l’aura solenne e immutabile di capolavori come Las meninas (1656) di Diego Velázquez e gli atteggiamenti dei visitatori che affollano le sale del Prado, si propongono come una riflessione sulla funzione della rappresentazione e sul ruolo dell’artista nella società. La collocazione dell’opera d’arte all’interno di musei e prestigiose gallerie d’arte è il soggetto principale del lavoro di Louise Lawler (n. 1947). L’artista statunitense riflette infatti sul significato politico e culturale delle collezioni pubbliche e private attraverso accostamenti tra capolavori, suggerendo interpretazioni di carattere socioantropologico sulle regole che governano il sistema dell’arte contemporanea. Il museo rappresenta uno dei luoghi pubblici di fruizione culturale collettiva, insieme ai teatri e alle biblioteche, scelti da C. Hofer (n. 1944) come protagonisti di una ricerca che, a differenza di quella di Struth, si concentra sullo spazio museale come deposito di memorie inteso nella sua vuota nudità, priva di qualsiasi essere umano. I luoghi ripresi dalla Hofer sono fotografati come architetture caratterizzate dalla stratificazione quotidiana della cultura, che si manifesta nella dimensione di rappresentazione sociale del sapere. Ruff (n. 1958) spazia invece tra soggetti e soluzioni stilistiche diverse, che vanno da una serie di ritratti frontali e volutamente privi di espressione di persone anonime alle architetture razionaliste tedesche, fino a una serie di paesaggi naturali appositamente sgranati per mostrare la dimensione dei pixel, in modo da accentuare il carattere artificiale e tecnologico dell’immagine. Un aspetto che ha assunto un ruolo di primo piano nelle ricerche che indagano l’ambiguità della fotografia in rapporto alla sua capacità di riproduzione del reale. Non più testimonianza, ma rappresentazione del mondo contemporaneo, colto nella sua natura ambigua dove reale e artificiale si fondono in un’unica soluzione visiva.
Il rapporto tra il luogo reale e la sua percezione è un tema sul quale molti artisti delle ultime generazioni hanno fondato le loro ricerche, seppur analizzando il problema da punti di vista differenti. Una visione fiabesca e infantile legata al paesaggio americano e ai suoi stereotipi cinematografici è quella dello statunitense Gregory Crewdson (n. 1962), che ricostruisce nel suo studio i tipici spazi di periferia delle città degli Stati Uniti, dominati da un senso di fissità innaturale e straniante. Una percezione metafisica capace di trasformare l’assenza in presenza è la componente principale della ricerca svolta dal giapponese Hiroshi Sugimoto (n. 1948), autore di interessanti cicli di immagini in bianco e nero che trasformano orizzonti marini in paesaggi immobili e innaturali, così come schermi all’interno di sale cinematografiche prive di pubblico in fonti di luce assoluta e laconica. Gli ambienti ripresi dal francese George Rousse (n. 1947) sono spazi in edifici industriali abbandonati, dove l’artista dipinge sulle pareti e sul pavimento campiture geometriche di colori differenti per poi fotografarle, in modo da far loro acquistare il senso compiuto dell’opera, tutta giocata sulla mimesi tra pittura, architettura e fotografia. Su un altro tipo di ambiguità di matrice minimalista e concettuale si fonda il lavoro dello statunitense James Casebere (n. 1953), in cui le linee essenziali di spazi architettonici ripresi dall’interno e stampati su grandi formati rivelano, solo a uno sguardo attento, la loro natura di modellini riprodotti in scala nello studio dell’artista e illuminati in maniera tale da sembrare veri. Un procedimento simile a quello seguito dal tedesco Thomas Demand (n. 1964) che ricostruisce ambienti reali a grandezza naturale, in modo tale da rendere l’operazione mimetica ancora più verosimile. Rispetto a Casebere, l’opera di Demand ha assunto nel tempo connotati sociopolitici sempre più marcati, portando l’artista a ricostruire lo studio di Bill Gates o addirittura uffici dove sono state compiute operazioni segrete legate alla lotta internazionale al terrorismo islamico.
Oggetto-soggetto
La riproduzione fotografica dell’oggetto quotidiano che prosegue l’antica tradizione pittorica della natura morta, o still life, si è rivelata uno strumento diretto ed efficace per permettere alla fotografia di assumere i connotati di un’operazione semantica, in grado di attribuire nuovi significati alle cose più banali che ci circondano. Un procedimento che trae le sue radici culturali dalla fotografia surrealista degli anni Venti, rinvigorita dalla contaminazione con le istanze merceologiche e commerciali della Pop art che hanno trasformato l’opera d’arte in una merce di consumo alla portata di tutti. Tra i primi artisti a intuire le possibilità interpretative degli oggetti attraverso la fotografia sono stati gli svizzeri Peter Fischli (n. 1952) e David Weiss (n. 1946) che, a partire dagli anni Ottanta, hanno scattato una serie di immagini che riproducono sculture realizzate con utensili da cucina, ortaggi e materiali vari posti in equilibrio precario. Nella serie intitolata Stiller Nachmittag (1984-85), è la fotografia a rendere permanenti questi assemblaggi ironici, assurdi e paradossali, che diventano protagonisti del cortometraggio Der Lauf der Dinge (1987). Un punto di vista condiviso dall’artista messicano Gabriel Orozco (n. 1962), che crea inedite chiavi di lettura del reale rese evidenti attraverso sequenze di immagini dove l’abbinamento tra oggetti diversi inseriti in un banale contesto urbano assume il significato di un’azione critica nei confronti di un consumismo spinto all’estremo. È il caso, per es., di un’opera come Cats and watermelons (1992), dove le angurie e le scatolette di cibo per gatti riprese insieme all’interno di un supermercato rivelano le contraddizioni tra le diverse componenti di una natura sempre più artificiale.
L’idea del trompe l’œil è invece alla base delle opere del brasiliano Vik Muniz (n. 1961), che costruisce immagini tratte dall’arte del passato utilizzando i materiali più disparati, dal cioccolato fuso ai coriandoli, dai diamanti ai giocattoli, e le fotografa per poi distruggerle. Una forma di illusionismo tecnologico per rileggere i capolavori della storia dell’arte, che vengono continuamente manipolati mantenendo una riconoscibilità forte in qualunque contesto.
Un principio che ritroviamo anche nelle opere a matrice fotografica di Paola Pivi (n. 1971), l’artista italiana che realizza immagini di gusto decisamente surreale, all’interno delle quali combina elementi apparentemente incongrui per dare vita a situazioni paradossali come, per es., una coppia di zebre fotografata sulla neve, uno struzzo sulla spiaggia di un’isola del Mediterraneo oppure un leopardo che cammina tra centinaia di tazze di cappuccino. La sua ricerca procede per slittamenti, non all’interno del senso ma sulla superficie dell’immagine. È una riflessione immediata e bruciante sulla possibilità dell’artista di mettere in atto un processo il cui punto di arrivo coincide con la costruzione di un’immagine che diviene realtà proprio nel momento in cui amplifica al massimo la sua natura artificiale. Una modalità che lascia campo aperto all’evoluzione della fotografia come linguaggio artistico di primo piano nel prossimo futuro.
Bibliografia
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Arte contemporanea, a cura di F. Poli, Milano 2005.