Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
La storia della genetica si può dividere in due fasi: una precedente e l’altra successiva al 1953, anno in cui viene scoperta la struttura del DNA, la molecola della vita. Nella prima parte del secolo vengono poste le basi della genetica classica, nella seconda parte la genetica diventa molecolare conseguendo risultati spesso inattesi, culminati nella conoscenza anatomica del genoma della nostra specie. Accanto ai biologi hanno partecipato e partecipano alle sue imprese scienziati con le formazioni più diverse: donne e uomini provenienti dalla matematica e dalla fisica, dalla chimica, dalla medicina.
Uno sviluppo a ritmi travolgenti
La parola genetica fu impiegata per la prima volta nel 1906 dal biologo inglese William Bateson, il fondatore della genetica moderna, in una conferenza sull’ibridazione tenuta alla Royal Horticultural Society di Londra per indicare la scienza “dell’eredità e della variazione”: dunque lo studio scientifico dei fattori responsabili delle somiglianze e delle differenze osservabili tra individui imparentati per discendenza. Con le loro prime ricerche i genetisti del Novecento riescono a stabilire che la comparsa in un individuo dei caratteri ereditati dai genitori è controllata da unità discrete che chiamano geni; che la manifestazione di forme differenti di un carattere sono dovute direttamente a forme alternative dei geni dette alleli; e, ancora, che, rispetto a un certo carattere, un individuo può essere omozigote (quando le sue cellule contengono due copie uguali di un gene) oppure eterozigote (se le copie sono differenti).
A partire da queste e da altre semplici e tuttavia fondamentali acquisizioni, la genetica si sviluppa a un ritmo travolgente, particolarmente nella seconda metà del secolo e svelando anche i meccanismi dell’evoluzione biologica si è posta al centro della biologia del Novecento. Per la maggior parte del tempo i genetisti si sono concentrati nell’identificazione di singoli geni e nella caratterizzazione delle loro funzioni; da una ventina d’anni, però, si è andata rafforzando la convinzione che sono veramente pochissimi i geni che agiscono da soli, e che geni e proteine (che dei geni sono il prodotto diretto) interagiscono continuamente tra loro. Il destino biologico di ogni organismo, dal lievito di birra alla drosofila, all’uomo, dipende infatti da complesse reti di interazioni tra molecole. La recente scoperta di questi network e la loro analisi è stata resa possibile dall’impiego di strumenti tecnici sofisticati che hanno permesso una manipolazione fine e precisa del materiale genetico. Si tratta della cosiddetta tecnologia del DNA ricombinante: un complesso di tecniche e di reazioni chimiche in cui rientrano gli enzimi di restrizione che tagliano il DNA in punti predefiniti, la reazione a catena della polimerasi (PCR) capace di isolare e amplificare un frammento di DNA a partire da una miscela di DNA, il clonaggio genico, l’ibridazione del DNA, il suo sequenziamento con cui si può conoscere l’esatto ordine di successione lineare delle basi costitutive di un filamento di DNA.
Dalla “riscoperta” di Mendel alla teoria cromosomica dell’eredità
Gli esperimenti di Mendel sui piselli vengono pubblicati nel 1866 ma il suo lavoro e i due principi rivoluzionari che egli ne fa derivare vengono semplicemente ignorati per 34 anni. Si tratta della legge della segregazione (i due alleli di ogni carattere si separano alla formazione dei gameti e poi si uniscono a caso al momento della fecondazione) e della legge dell’assortimento indipendente (alla formazione dei gameti, coppie di alleli differenti si separano indipendentemente l’una dall’altra).
Poi, nel 1900, l’olandese Hugo de Vries (1848-1935), il tedesco Karl Correns (1864-1933) e l’austriaco Erich von Seysenegg Tschermack (1871-1962), tutti e tre botanici, arrivano, ognuno per proprio conto, alle stesse conclusioni di Mendel, stavolta subito accettate: inizia per la biologia l’era della genetica.
Come spesso accade nella ricerca scientifica, le varie linee di indagine della genetica non procederanno ordinatamente seguendo un piano prestabilito, ma divergeranno o convergeranno secondo traiettorie erratiche che intercetteranno nei momenti più proficui le conoscenze di citologia, di biochimica e, più tardi, di biologia molecolare, producendo nuovi esaltanti sviluppi. Nel 1902 l’americano Walter Sutton (1877-1916) e il tedesco Theodor Boveri (1862-1915) evidenziando con opportune colorazioni dei corpuscoli intracellulari osservano che questi, chiamati poi cromosomi, si comportano in accordo con gli ipotetici agenti ereditari proposti da Mendel. In successive ricerche riescono a dimostrare che i cromosomi sono strutture individuali e differenziate, e li candidano a contenitori dei “fattori mendeliani” dell’eredità (i futuri geni). Nello stesso anno l’inglese Archibald Garrod individua l’esistenza di un rapporto tra tali fattori e attività metaboliche ipotizzando correttamente che l’alcaptonuria (anomalia genetica che ha come effetto artropatie e colorazione scura delle urine a causa di un accumulo di acido omogentisico nel sangue) dipende da un cambiamento, una mutazione, del fattore mendeliano che lo rende incapace di produrre l’enzima che controlla il metabolismo dell’acido omogentisico. Un poco alla volta si va chiarendo la logica che lega i geni al funzionamento dell’organismo. Garrod parla di errori congeniti del metabolismo: è la prima prova di eredità mendeliana nell’uomo e la posa della prima pietra dell’edificio della genetica medica.
Nel 1903 anche il francese Lucien Cuénot, che studia l’ereditarietà della colorazione della pelliccia del topo, ipotizza che gli effetti dei geni sulla pigmentazione fossero mediati da proteine enzimatiche. Quell’anno William E. Castle, pioniere della genetica americana, collega le frequenze alleliche a quelle genotipiche. Due anni dopo, lavorando sul coleottero della farina (Tenebrio molitor), la ricercatrice americana Nettie M. Stevens (1861-1912) mette in evidenza l’esistenza dei cromosomi sessuali. Nello stesso anno l’inglese Reginald C. Punnett pubblica il primo manuale di genetica: Mendelism. Nel 1906 a Cambridge William Bateson e Punnett scoprono nel pisello odoroso il fenomeno del linkage (“associazione, collegamento”) tra caratteri: geni associati sullo stesso cromosoma non segregano indipendentemente ma insieme; dunque un’importante eccezione alla legge di Mendel dell’assortimento indipendente. Nel 1908 Punnett ricorre all’aiuto di un collega matematico di Cambridge Godfrey H. Hardy per spiegare perché un carattere dominante non riesce automaticamente a soppiantare quello recessivo. Hardy formula il problema matematicamente, dimostrando che, date certe condizioni, le sequenze geniche delle popolazioni naturali rimangono costanti per molte generazioni. È il celebre principio dell’equilibrio genico di Hardy-Weinberg derivato pochi mesi prima, all’insaputa di Hardy, anche dal medico tedesco Wilhelm Weinberg; un principio che sta alla base della genetica di popolazione. Nello stesso 1908 lo svedese Herman Nilsson-Ehle dà la prova sperimentale che i caratteri con variazione continua sono controllati da multipli fattori mendeliani (eredità multigenica dei caratteri quantitativi).
Nel 1909 il danese Vilhelm Johannsen (1857-1927) riprende dagli scritti di De Vries, il termine gene definendolo come “la particella che possiede le proprietà mendeliane di segregazione e di ricombinazione”. Johannsen conierà anche i termini di genotipo e fenotipo. L’aspetto innovativo della sua ricerca è l’elaborazione di un concetto operativo di gene: il gene è un ente teorico inventato per spiegare i risultati degli incroci; non è ancora dotato di realtà materiale. Quell’anno, il 1909, Bateson e Punnett fondano a Cambridge la rivista “Journal of Genetics”. La teoria cromosomica dell’eredità, che si va faticosamente delineando, riceve un forte impulso dalle ricerche compiute dal genetista della Columbia University di New York Thomas Hunt Morgan sui numerosissimi mutanti del moscerino della frutta e dell’aceto Drosophila melanogaster. Un primo risultato di Morgan e della sua scuola (Alfred H. Sturtevant, Calvin B. Bridges, Hermann J. Muller) arriva nel 1909 con la scoperta (confermata nel 1911) dell’esistenza del linkage anche nella drosofila: quando i geni coinvolti nel controllo di certi caratteri erano vicini, fisicamente associati (linked) sullo stesso cromosoma, allora quei caratteri vengono trasmessi insieme. Da qui la deduzione che lungo i cromosomi i geni dovessero essere disposti in una sequenza lineare.
Una seconda scoperta è l’eredità legata al sesso, illustrata dal fatto che il carattere occhi bianchi di Drosophila melanogaster risulta collegato al cromosoma X. Nel 1912 il laboratorio di Morgan propone su base teorica anche la nozione di ricombinazione, il fenomeno dello scambio di materiale genetico tra cromosomi omologhi permesso alla meiosi dal meccanismo di crossing over. Viene dimostrato che la probabilità di ricombinazione aumenta con l’aumentare della distanza fisica tra i geni sul cromosoma: nascono così le prime mappe cromosomiche (quella della drosofila sarà terminata nel 1925) che consentono di individuare la posizione dei geni portatori delle diverse caratteristiche ereditarie sui cromosomi. Nel 1915 viene pubblicato il volume The mechanism of Mendelian heredity nel quale Morgan e i suoi tre allievi interpretano il mendelismo alla luce della teoria cromosomica dell’eredità. Nel 1916 Alfred H. Sturtevant (1891-1970) traccia la prima mappa di associazione. Quello stesso anno a proposito del rapporto tra mutazione e selezione nei fenomeni evolutivi, Morgan sostiene, diversamente da De Vries, che la mutazione è incapace di produrre nuove specie.
Nel 1925 Hermann J. Muller dimostra il potere mutagenico dei raggi X: l’esposizione ai raggi aumenta la frequenza delle mutazioni e delle aberrazioni cromosomiche; la mutazione è perciò assunta tra le cause dell’evoluzione delle popolazioni di organismi. Nel 1928 Morgan si trasferisce da New York al Caltec di Pasadena in California. Nel 1933 otterrà il premio Nobel.
La genetica di popolazione e l’evoluzione
L’approccio matematico ai fenomeni dell’eredità è presente particolarmente tra i genetisti interessati all’evoluzione biologica. A partire dagli anni Venti i modelli matematici che connettono genetica ed evoluzione vengono sviluppati in Inghilterra dallo statistico Ronald A. Fisher (1890-1962) e dal biologo John B.S. Haldane, negli Stati Uniti dal biologo Sewall Wright. Nel 1922 Fisher pubblica i risultati delle sue ricerche sulle conseguenze evolutive dell’eredità mendeliana, nel 1928 elabora una teoria sull’origine della dominanza; nel 1930 esce il suo The Genetical Theory of Natural Selection che segna attraverso la genetica di popolazione la rinascita della biologia evolutiva, praticamente scomparsa dal panorama biologico subito dopo la riscoperta delle leggi di Mendel. Negli anni che vanno dal 1924 al 1932 Haldane sviluppa una teoria matematica dell’evoluzione mirata a precisare gli effetti della selezione naturale (o artificiale) sulle frequenze geniche e a stimare la pressione di selezione sulla popolazione per effetto di un singolo gene. Lo scritto più importante di Wright viene pubblicato nel 1931; pur con metodi matematici differenti, egli corroborava i modelli di Fisher senza però accettarne le conclusioni. La sua idea di microevoluzione è che la selezione sia tanto più efficace quanto più agisce su complessi di geni piuttosto che su geni singoli. Inoltre Wright giudica di grande importanza ai fini evolutivi la dimensione demografica delle popolazioni e dimostra per via matematica che le oscillazioni casuali delle frequenze geniche (la cosiddetta deriva genica) sono più avvertibili nelle piccole popolazioni rispetto alle grandi. Nella sua teoria c’era dunque spazio per un’evoluzione non darwiniana delle popolazioni. Sono questi tre modelli, insieme a quelli proposti dai precursori Hardy e Weinberg, a fondare la genetica di popolazione. Un grande impulso agli studi genetici della microevoluzione si ha nel 1966 quando applicando la tecnica dell’elettroforesi a proteine umane si scopre l’esistenza insospettata di una grande variabilità genetica nei campioni esaminati. Analoghi studi compiuti su altre specie animali e su vegetali confermano nei decenni successivi l’esistenza di molti ed elevati polimorfismi enzimatici, in alcuni casi interpretabili come adattativi e prodotti dalla selezione naturale, ma nella maggioranza dei casi senza alcun influenza, cioè neutrali, rispetto alla capacità di adattamento delle popolazioni al loro ambiente. Su questa neutralità della variabilità molecolare il genetista giapponese Motoo Kimura svilupperà a partire dal 1967 la sua teoria neutralista dell’evoluzione.
Gli anni Trenta e Quaranta
Dagli inizi degli anni Trenta fino al dopoguerra si realizza un processo di maturazione della genetica e il suo consolidamento teorico anche attraverso la sperimentazione su organismi molto diversi (in effetti la scoperta di Garrod sull’uomo e quella di Beadle e Tatum sulle muffe – vedi oltre – erano tra loro molto collegate), con punti di vista alternativi e spiegazioni originali a fenomeni nuovi e insoliti. Per oltre mezzo secolo gli approcci dei genetisti furono sostanzialmente due soli: quello formale e quello citogenetico. L’approccio formale conduce all’identificazione delle entità responsabili di caratteri fenotipici dotati di variazione e perciò facilmente apprezzabili dall’osservatore (come nel caso delle varianti di colore, morfologiche e di certe varianti biochimiche). I modelli sperimentali più importanti per l’analisi formale dovevano essere organismi come drosofile, muffe, topi, batteri, protozoi, facili da tenere in laboratorio e con tempi di riproduzione rapidi che ne favorissero gli incroci: l’uomo era da escludere. Quale fosse la natura materiale del gene e come funzionasse erano questioni ovviamente precluse all’analisi formale, ma adatte all’approccio della genetica cellulare. La citogenetica si basava sull’osservazione al microscopio di struttura, proprietà biochimiche, organizzazione, funzionamento ed evoluzione del materiale ereditario. Tra i suoi modelli sperimentali migliori risaltano la drosofila e il mais. A livello citogenetico, il bandeggio dei cromosomi giganti delle ghiandole salivari delle larve di drosofila (ossia la tecnica che consente di identificare in maniera univoca un determinato cromosoma) non solo ha permesso di confermare l’esistenza della duplicazione genica (fornendo perciò un meccanismo potente e preciso per spiegare l’evoluzione del genotipo), ma ha prodotto la prova citologica dell’esistenza dell’effetto di posizione: il cromosoma non è solo un aggregato di geni ma un sistema integrato dimodoché il valore adattativo di un gene, la sua efficacia, diventa funzione del contesto in cui esso si trova nel cromosoma.
L’analisi della fisiologia del gene porta a una grande scoperta quando nel 1935 due americani, il genetista George W. Beadle (1903-1989) e il biochimico Edward L. Tatum dimostrano, impiegando mutanti metabolici della muffa del pane (Neurospora crassa), che la sintesi delle proteine dipende dai geni, e cioè che la mutazione di un gene influenza la sintesi dell’enzima corrispondente: ogni gene codifica per una proteina. Questa teoria, conosciuta attraverso la formula “un gene-un enzima”, porterà loro il Nobel del 1958 per la fisiologia e medicina. La comprensione dei processi riproduttivi degli organismi ricevette un impulso nel 1946-1947 dall’inattesa scoperta, dovuta a un dottorando in genetica, Joshua Lederberg (1925-2008), e al suo professore Tatum, che una miscela di differenti genotipi del batterio Escherichia coli può produrre ricombinanti genetici. Si tratta della coniugazione: in pratica avevano scoperto nei Procarioti l’analogo della sessualità degli Eucarioti. Nel 1958, a soli 33 anni, Lederberg divise il Nobel con Beadle e Tatum. Qualche anno dopo, nel 1950, la citogenetista americana Barbara McClintock del Cold Spring Harbor Laboratory di New York pubblica un articolo in cui dimostra l’esistenza nel mais di segmenti di cromosomi capaci di spostarsi da un sito all’altro del genoma. Questa scoperta di materiale genetico mobile (questi elementi trasponibili vengono chiamati trasposoni), insieme all’ulteriore dimostrazione di una certa intrinseca instabilità del materiale genetico, non suscita alcun immediato interesse tra i genetisti, nonostante metta in crisi l’assunto che i geni abbiano il loro posto fisso sul cromosoma. Quando poi i trasposoni vengono trovati nei batteri si intuisce il loro ruolo potenziale nel trasferire la resistenza agli antibiotici da un batterio all’altro. Altri casi vengono descritti nei batteriofagi e nei tripanosomi ove si dimostra il loro ruolo nel sottrarre il parassita alla risposta immunologica dell’ospite. Questa visione dinamica del genoma era in anticipo sui tempi; è una grande scoperta, ma solo alla fine degli anni Settanta verrà accettata dai genetisti. Molti di loro divennero interessati a una possibile correlazione nelle cellule umane fra i trasposoni e i retrovirus, i geni virali da poco scoperti, dato che alcuni geni che convertono le cellule sane in tumorali (oncogeni) si possono presentare anche come retrovirus e integrarsi nel genoma della cellula sana. La McClintock è insignita del Nobel per la fisiologia e la medicina nel 1983. Nel 1952 Frederick Ranger ricostruisce la sequenza amminoacidica dell’insulina; per questo nel 1958 guadagnerà il premio Nobel per la chimica.
L’evoluzione della genetica dopo il 1953
Nonostante la crescita della genetica sia stata sotto molti aspetti rivoluzionaria, i suoi progressi sono in parte avvenuti mantenendo una continuità teorica con le scoperte del passato; ancora oggi, infatti, le basi della genetica classica novecentesca (la separazione tra genotipo e fenotipo, la natura discontinua e casuale della mutazione, l’ordinamento lineare del materiale ereditario) non sono state contraddette dalla genetica molecolare. In parte però hanno provocato una rottura del quadro teorico precedente (specialmente per quanto riguarda l’identità e la definizione di gene, e l’idea innovativa che riconosce nel materiale ereditario una struttura gerarchica). Lo sviluppo della genetica molecolare ha mostrato che acquisizioni come le leggi mendeliane o il concetto premolecolare di gene rappresentano in realtà solo casi particolari di situazioni molto più generali. Dagli anni Sessanta in avanti il processo conoscitivo della genetica ha assunto una modalità autocatalitica accelerando a tal punto i propri sviluppi che le scoperte dell’ultimo ventennio del XX secolo superano di gran lunga tutte le precedenti della storia della genetica.