La geologia e la conoscenza della Terra
Negli anni Sessanta dell’Ottocento, la presenza degli studi italiani di scienze della Terra, all’interno di un dibattito internazionale che sviluppa specifici indirizzi disciplinari quali stratigrafia, paleontologia, vulcanologia e sismologia, non appare particolarmente rilevante rispetto al ruolo ricoperto dalle ricerche di provenienza britannica, francese e tedesca. Il rallentamento subito dalla ricerca geologica italiana già intorno alla metà del secolo aveva, infatti, determinato non solo la riduzione della visibilità istituzionale di una comunità di geologi pur mostratasi attiva nei congressi degli scienziati italiani degli anni preunitari, ma anche la perdita di una centralità e di un’autorevolezza riconosciuta a livello europeo a partire dai primi decenni del Settecento e conservata fino almeno al ventennio successivo alla Restaurazione. Tuttavia, se nell’ultimo quarto dell’Ottocento i luoghi privilegiati delle discussioni sui nuovi temi stratigrafici, orogenetici e litogenetici sembrano collocarsi prevalentemente in ambito francese e britannico, i terreni soprattutto montani e vulcanici della penisola italiana continuano a essere frequentati e studiati non solo dai geologi italiani, ma anche da autorevoli studiosi d’oltralpe.
Inoltre, le ‘scuole’ geologiche espresse a partire dagli anni Cinquanta, in particolare in Toscana, Veneto, Piemonte, Lombardia, ma anche in Campania, Lazio e Sicilia, si rapportano agli ambienti scientifici parigini, londinesi e viennesi, tentando di superare il rischio di una dimensione provinciale che solo in parte era stato evitato nei primi nove congressi degli scienziati italiani (1839-47). In alcune occasioni, infatti, la partecipazione di geologi britannici, francesi, tedeschi e austriaci (Roderick I. Murchison, Henri Coquand, Edouard de Verneuil, Leopold von Buch, Franz von Hauer) aveva contribuito in modo significativo ai lavori delle sezioni di geologia, mineralogia e geografia. Aveva stimolato nuove indagini nonché il confronto tra i diversi studi stratigrafici di geologia regionale e le ricerche di giacimenti di combustibili fossili intrapresi da geologi italiani quali Leopoldo Pilla, Paolo Savi (1798-1871), Angelo Sismonda (1807-1878), Giacinto Ottavio Provana di Collegno (1794-1856), Tomaso (o Tommaso) Antonio Catullo (1782-1869), Lodovico Pasini (1804-1870) e Lorenzo Pareto (1800-1865).
In tale contesto, le frequenti discussioni su questioni di nomenclatura geomineralogica si affiancano a un primo progetto di carta geologica d’Italia, nel tentativo di uniformare la ricerca italiana basandosi sui risultati ottenuti in altri Paesi europei e individuando procedure di interpretazione e di datazione dei terreni con nuovi criteri paleontologici o biostratigrafici e non più esclusivamente litologici. Nei decenni successivi all’Unità, sebbene le occasioni di confronto si diradino a causa della sporadicità degli ultimi congressi degli scienziati italiani (Siena 1862, Roma 1873, Palermo 1875), i geologi italiani seguono autonomamente e attentamente i dibattiti europei sui principali temi stratigrafici e sui principi uniformisti espressi in particolare da Charles Lyell (1797-1875) nei Principles of geology (1830-1833) e negli Elements of geology (1838). In mancanza di traduzioni italiane, questi testi si diffondono in Italia soprattutto grazie alle edizioni francesi pubblicate dal 1839 al 1875 e sono oggetto di particolare attenzione da parte dei geologi interessati allo studio delle formazioni terziarie dell’Appennino toscano ed emiliano-romagnolo, come Dante Pantanelli (1844-1913) a Siena, Giovanni Capellini (1833-1922) e Giovanni Giuseppe Bianconi (1809-1878) a Bologna, Pietro Doderlein (1809-1895) a Modena: di quest’ultimo si segnalano le Note illustrative della Carta geologica del Modenese e del Reggiano (1870), realizzata nel 1869 sulla base della suddivisione stratigrafica proposta da Lyell.
Il riferimento alla tradizione di ricerca consolidatasi in Italia tra la metà del Settecento e i primi decenni del secolo seguente (tesa a privilegiare una geologia locale e descrittiva fondata sull’attività di rilevamento sul campo), esplicitato in più occasioni nell’ambito degli scritti sulla carta geologica d’Italia, come nel caso delle Memorie per servire alla descrizione della Carta geologica d’Italia (1871) pubblicate da Igino Cocchi (1827-1913), comporta una continua verifica sul terreno della nuova classificazione stratigrafica proposta da Lyell. D’altro canto, il mantenimento della visione attualista adottata da autorevoli scienziati italiani, tra cui Giovanni Arduino, fin dalla seconda metà del Settecento e in cui si affermava la sostanziale identità dei fenomeni geologici osservabili nel presente con quelli verificatisi nel passato, consente ancora una più agevole ricezione dell’uniformismo lyelliano. Tuttavia, se le posizioni catastrofiste e ‘diluvialiste’ appaiono minoritarie tra i geologi italiani a fine Ottocento, sia pure sostenute da alcuni fautori del cosiddetto concordismo tra geologia e Sacre Scritture (come Antonio Stoppani o Guglielmo Jervis), non si riscontra comunque nemmeno un ampio consenso sulla teoria della rigida uniformità degli agenti geologici e della loro intensità nel corso della storia della Terra, come proposto da Lyell. Nonostante quindi il ruolo internazionale della comunità geologica italiana possa essere considerato in declino subito dopo l’Unità, in quanto ancora privo di solidi riferimenti istituzionali e accademici già presenti in altri Paesi, è comunque evidente che l’attenzione per i principali dibattiti europei e l’autonomia delle discussioni si evidenzia nettamente non solo nella vicenda della ricezione delle teorie di Lyell, ma anche dello stesso evoluzionismo darwiniano, sostenuto da geologi autorevoli come Giovanni Omboni (1829-1910) a Padova e Arturo Issel (1842-1922) a Genova, ma criticato da altri, come il già citato Bianconi, autore della teoria paleontologica detta della creazione indipendente (1874-75).
Lo sviluppo istituzionale delle scienze della Terra in Italia nel corso dell’ultimo quarto dell’Ottocento presenta alcune tappe particolarmente significative che fanno riferimento a modelli europei già ben definiti e consolidati intorno alla metà del secolo: l’istituzione dei servizi geologici e delle prime società scientifiche nel campo delle scienze della Terra (per quanto riguarda l’aspetto gestionale, politico e organizzativo); l’apertura di scuole minerarie e l’attivazione di cattedre universitarie (nell’ambito dell’istruzione tecnica secondaria e della formazione accademica); la pubblicazione di periodici specializzati e la nascita di una nuova letteratura di divulgazione geologica, indirizzata a diverse tipologie di destinatari.
In effetti, proprio a partire dagli anni Sessanta iniziano le attività del Servizio geologico d’Italia, istituito tra il 1861 e il 1862 su iniziativa di Felice Giordano (1825-1892) e Quintino Sella (1827-1884) con il compito di produrre la carta geologica del Regno. Le lunghe vicende relative a questa impresa scientifica, che si rivelerà ben presto faticosa e irta di ostacoli, ricoprono una notevole importanza per valutare il complessivo fallimento di un progetto ambizioso e solo in parte realizzato, che intendeva istituzionalizzare le diverse discipline appartenenti alle scienze della Terra (geologia, mineralogia, paleontologia, geomorfologia, vulcanologia, sismologia) all’interno di una vera e propria scienza di governo. Come ha suggerito Pietro Corsi (1998), il progetto della carta geologica italiana intendeva far parte di un fenomeno europeo di dimensioni assai più rilevanti, al punto da configurarsi come un caso tardo ottocentesco di big science (ovvero un’impresa scientifica ad alto contenuto tecnologico avviata, controllata e finanziata da uno o più governi), costituita dal sistematico rilevamento geologico di interi territori nazionali a opera dei servizi geologici che iniziano a essere istituiti a partire dagli anni Trenta non solo in Europa, ma anche in alcuni degli Stati Uniti d’America.
Il Servizio geologico italiano, tuttavia, si segnala ben presto per la scarsa produttività e l’eccessiva problematicità dei rapporti tra geologi universitari e ingegneri del Corpo delle miniere (che avrebbero dovuto interagire nelle operazioni di rilevamento e di produzione delle carte), nonché per la mancanza di personale e di finanziamenti adeguati. Dopo la ripresa del progetto nel 1867, con l’istituzione del Regio comitato geologico d’Italia, affidato alla direzione di Cocchi, nel 1873 la struttura viene suddivisa in un Regio ufficio geologico (con compiti di rilevamento cartografico) e in un Regio comitato geologico (con incarichi di coordinamento e di direzione scientifica). Ma nel corso degli anni Ottanta le attività si riducono ulteriormente e i successivi progetti di riforma, avviati negli anni Venti e Sessanta del Novecento, non condurranno a sostanziali mutamenti nell’efficienza del Servizio.
Un altro elemento di istituzionalizzazione delle scienze della Terra, ma in un contesto formativo eminentemente tecnico-scientifico, si evidenzia con l’apertura delle prime scuole minerarie postunitarie, sostenute dallo stesso Sella, che introducono l’insegnamento teorico e le applicazioni pratiche delle scienze della Terra all’interno di un contesto tecnico. Si tratta di una scelta alternativa alla mancata attivazione in Italia di un curriculum universitario dedicato alla formazione degli ingegneri minerari, al pari di quanto già avvenuto in Francia o in Germania. L’attenzione del ministero di Agricoltura, industria e commercio del nuovo governo liberale si concentra invece sulle potenzialità dell’educazione tecnica secondaria: tra il 1862 e il 1871 vengono quindi istituite scuole minerarie in Sicilia, Veneto, Toscana e Sardegna, con lo scopo di formare tecnici minerari diplomati con una preparazione di base in campo mineralogico e geologico. Questo tentativo consente inizialmente di incrementare l’insegnamento delle scienze della Terra in alcuni settori dell’educazione secondaria, a cui si collegheranno anche alcuni percorsi nelle scuole politecniche e di applicazione, ma nel corso del Novecento subirà una pesante riduzione con la chiusura di molte attività estrattive soprattutto a partire dal secondo dopoguerra.
Negli stessi anni in cui si istituiscono le scuole minerarie, nelle principali sedi universitarie della penisola si attivano le prime cattedre nell’ambito delle scienze della Terra. A Pisa, Pilla e quindi Giuseppe Meneghini (1811-1889) avevano già tenuto corsi universitari di mineralogia e geologia fin dal 1842, mentre tra il 1860 e il 1870 altre cattedre di geologia (spesso in associazione con la mineralogia), vengono istituite a Pavia, Bologna, Palermo, Napoli, Roma, Genova e Padova. Tra i docenti si segnalano alcuni giovani di valore come Capellini all’Università di Bologna, Leopoldo Maggi (1840-1905) all’Università di Pavia, ma anche studiosi già affermati come Omboni all’Università di Padova oppure Giuseppe Ponzi (1805-1885) all’Università di Roma.
Tra la fine dell’Ottocento e i primi anni del secolo successivo, seguendo una tendenza già in atto in Europa, le università italiane assegnano a più cattedre gli insegnamenti di geologia, mineralogia e, successivamente, paleontologia. Grazie all’aumento dei corsi e delle opportunità di ricerca all’interno delle università, si forma quindi una nuova generazione di scienziati, tra i quali si ricordano Dante Pantanelli (1844-1913), Carlo De Stefani (1851-1924) e Mario Canavari (1855-1928), allievi di Meneghini a Pisa; oppure Torquato Taramelli (1845-1922), allievo di Stoppani a Pavia; Giorgio Dal Piaz (1872-1962), allievo di Omboni a Padova. Altri geologi attivi all’inizio del Novecento, come Bernardino Lotti (1847-1933), Vittorio Novarese (1861-1948), Secondo Franchi (1859-1932) e Augusto Stella (1863-1944), si sono invece formati grazie a studi di carattere tecnico-ingegneristico all’interno delle scuole minerarie o di applicazione, talvolta completati con una specializzazione ottenuta nelle accademie minerarie tedesche o francesi.
La graduale istituzionalizzazione delle scienze della Terra all’interno delle università dell’Italia unita negli ultimi decenni dell’Ottocento può configurarsi come il risultato di un più ampio tentativo di rinnovamento del sistema accademico che riuscirà solo in parte e sarà comunque affiancato dal progetto di sviluppo e di adeguamento dell’istruzione scientifica e tecnica. Inoltre, a partire dagli anni Ottanta dell’Ottocento si evidenziano alcuni significativi tentativi di ricondurre la geologia italiana in un ambito internazionale di maggior prestigio. In particolare, il II Congresso geologico internazionale, tenutosi a Bologna nel 1881, costituisce un prezioso strumento di comunicazione e promozione per le scienze della Terra dell’Italia unita. A margine di questo evento, il 29 settembre 1881, viene costituita la Società geologica italiana, grazie all’impegno di un gruppo di autorevoli scienziati tra cui Capellini, Meneghini, De Stefani, Taramelli e lo stesso Sella.
La nuova Società geologica italiana si affianca quindi alle società geologiche da tempo attive soprattutto in Inghilterra, Francia e Germania, con un ruolo non solo di organizzazione, ma anche di promozione della ricerca. Non a caso, anche in Italia nell’ultimo quarto dell’Ottocento si sta sviluppando una nuova letteratura di geologia ‘popolare’ a carattere divulgativo, testimoniata in particolare dalla celebre opera di Stoppani Il bel Paese (1876), che conoscerà una fortuna ininterrotta fino almeno alla metà del Novecento, oppure dagli scritti di Paolo Lioy (1834-1911) definito il poeta della scienza. Sul piano della comunicazione attraverso la stampa periodica, si segnalano riviste specializzate come il «Bollettino del R. comitato [poi R. ufficio] geologico» pubblicato a partire dal 1870, quindi «Bollettino del Servizio geologico d’Italia» dal 1936; il «Bollettino della Società geologica italiana» pubblicato dal 1882 e tuttora in corso; le «Memorie descrittive della Carta geologica italiana» dal 1886; la rivista «Paleontographica italica» dal 1895; il «Giornale di geologia pratica» (poi «Giornale di geologia»), fondato a Genova nel 1903.
Le attività di ricerca dei geologi italiani tra Ottocento e Novecento presentano una certa frammentazione in studi dettagliati sul terreno, spesso privi di un coordinamento e di riferimenti a modelli o sistemi teorici: questo atteggiamento metodologico, indubbiamente determinato da una rigorosa tradizione sperimentale, ha però probabilmente causato una situazione di relativo isolamento nei confronti dei dibattiti europei coevi sulle scienze della Terra. La validità scientifica di molti lavori prodotti dai geologi italiani dopo l’Unità emerge, tuttavia, in modo evidente soprattutto negli studi sulle aree alpine e appenniniche. In particolare, si segnalano le ricerche di Sismonda nel 1862 sulla possibile età giurassica di alcune rocce metamorfiche delle Alpi piemontesi, i cosiddetti gneiss di modificazione (calcescisti): tali ricerche sono riprese nel 1898 da Franchi che dimostra, nella sua monografia sulle Alpi Cozie, l’età mesozoica dei calcescisti, fino ad allora considerati antiche formazioni prepaleozoiche.
Nel 1869 Giordano descrive con notevole precisione la costituzione geologico-strutturale del Cervino e delle montagne tra il Vallese e il Monte Rosa, avvicinandosi alla formulazione della ‘teoria delle falde’ in alternativa ai modelli basati sulle pieghe dette a fungo o a ventaglio. Agli inizi del Novecento in Veneto riprende vigore la ‘scuola’ di geologia alpina in seguito agli studi di Giorgio Dal Piaz che, nel 1904, reinterpreta le Alpi meridionali come una struttura essenziale a pieghe, in gran parte rovesciate verso l’Adriatico. Nella monografia Le Alpi Feltrine (1907), oltre a illustrare con notevole precisione i terreni fossiliferi del Giurassico, egli applica nuove idee tettoniche allo studio della geologia alpina.
Studi ottocenteschi significativi sulla geologia dell’Appennino settentrionale sono invece opera di geologi emiliani come Bianconi e, soprattutto, Giuseppe Scarabelli (1820-1905), autore di fondamentali rilevamenti cartografici e di lavori innovativi sulla tettonica degli Appennini, tra cui spicca la dimostrazione dell’origine tettonica della maggior parte delle cosiddette argille scagliose. La ricerca italiana tardottocentesca si segnala inoltre per gli ottimi risultati nel campo della vulcanologia e della nascente sismologia: gli studi di Giuseppe Mercalli, a cui si deve l’introduzione di una nuova scala empirica di sismicità che porta il suo nome, consentono di aumentare le conoscenze sul rischio sismico e vulcanico del territorio italiano. Lo studio dei vulcani si avvale inoltre delle ricerche avviate da Carlo Gemmellaro (1787-1866) nella poderosa monografia La vulcanologia dell’Etna (1858), ma anche da Luigi Palmieri (1807-1896), già ideatore di un innovativo sismografo nel 1856 e autore del volume Il Vesuvio e la sua storia (1880).
Nel corso del primo ventennio del Novecento l’attività di ricerca, che si affianca allo sviluppo istituzionale nelle associazioni e nelle sedi universitarie, determina una graduale definizione e distinzione delle varie discipline interne alle scienze della Terra. L’istituzione, nel 1928, del Comitato nazionale geologico del Consiglio nazionale delle ricerche (CNR) si propone in effetti di offrire un coordinamento agli studi italiani di geologia applicata, oltre a garantire una funzione di promozione degli studi geologici in Italia, incrementando nel contempo le relazioni con studiosi ed enti di ricerca all’estero. Sotto la presidenza di Alessandro Martelli (1876-1934) e con segretario Michele Gortani (1883-1966), il Comitato promuove, tra l’altro, la compilazione di un inventario e di una bibliografia delle risorse geomineralogiche italiane. A causa di costanti difficoltà burocratiche e organizzative, tale lavoro di inventariazione procede con grande lentezza e scarsa collaborazione da parte degli enti territoriali, fino almeno alla completa interruzione delle attività nell’estate del 1943.
Il progetto di costituire e mettere in funzione una struttura a livello nazionale per coordinare le ricerche italiane di geologia, paleontologia e mineralogia, provenienti dall’ambiente universitario e dalle imprese di gestione mineraria, ampliando i contatti con la comunità scientifica internazionale e con l’industria, sembra quindi non ottenere successo. Inoltre, la riorganizzazione che coinvolge diversi enti nel dopoguerra non consente di risolvere con immediatezza i molteplici problemi organizzativi e i vari contrasti interni che coinvolgono sia il nuovo Comitato unificato di geografia, geologia e talassografia del CNR, sia il Servizio geologico.
I nuovi Centri di studio istituiti dal CNR prevalentemente all’interno delle università fin dal 1947 e in buona parte attivi fino almeno all’inizio degli anni Settanta si occupano, invece, di argomenti vicini alle ‘scuole’ e alle tradizioni di ricerca proprie del contesto accademico locale: la mineralogia e la petrografia a Roma sotto la direzione di Ettore Onorato (1899-1971); la geochimica e la mineralogia a Firenze sotto la guida di Guido Carobbi (1900-1983); la geologia dell’Appennino studiata a Firenze da Giovanni Merla (1906-1984) e a Pisa da Livio Trevisan (1909-1996); infine a Padova la petrografia e la geologia (soprattutto alpina) negli studi di Giambattista Dal Piaz (1904-1995) e Angelo Bianchi (1892-1970). Il CNR finanzia inoltre numerose attività di ricerca universitaria, ma continua a privilegiare nel corso degli anni Cinquanta, come già in precedenza, anche lo studio delle risorse energetiche e minerarie. E nel 1958 promuove l’istituzione di una Commissione italiana per la vulcanologia, che intende coordinare le ricerche già da tempo avviate sul territorio, soprattutto in Campania (Osservatorio vesuviano) e in Sicilia, affiancandosi all’Istituto nazionale di geofisica, istituito dal CNR presso l’Università di Roma e destinato a diventare, nel corso degli anni Sessanta e Settanta, il riferimento principale per lo studio dei fenomeni tellurici e il rilevamento delle attività sismiche sul territorio nazionale.
Anche i lavori della Commissione geologica per la carta geologica d’Italia riprendono nel 1958, su iniziativa di alcuni docenti universitari che, grazie alla legge Sullo promulgata nel gennaio 1960, possono ricevere specifici finanziamenti per rilevare, elaborare e stampare 140 fogli (nuovi o aggiornati, nel caso di carte non più disponibili) in scala 1:100.000. I lavori si concludono nel 1970, ma la successiva richiesta al governo, da parte del presidente della Commissione, Ardito Desio (1897-2001), di procedere con rilevamenti più accurati per la produzione di nuovi fogli in scala 1:50.000 e 1:25.000 non viene accolta. Nel frattempo il Servizio geologico entra in un periodo di profonda crisi, dovuta non solo a una cronica mancanza di personale fin dagli anni Sessanta, ma anche all’ulteriore riduzione delle risorse.
Nonostante una situazione complessivamente difficile per lo sviluppo delle scienze della Terra sotto il profilo istituzionale, alcune realtà nazionali e locali, tra gli anni Cinquanta e la metà degli anni Settanta, dimostrano comunque una buona vitalità e produttività. Nella prima metà degli anni Cinquanta, Trevisan e Merla interpretano i principali fenomeni tettonici dell’Appennino settentrionale. Trevisan lavora in particolare sulle Alpi Apuane e sull’Isola d’Elba, di cui realizza una carta geologica della parte orientale, individuandovi, nel 1950, evidenti fenomeni tettonici di scivolamento per gravità. Merla pubblica il saggio Geologia dell’Appennino settentrionale (nel 1951 compare nel «Bollettino della Scuola geologica italiana», nel 1952 è edito come monografia), dove viene illustrata la storia geologica di questa catena montuosa attraverso la formazione di una serie di «rughe» da ovest a est, quale risultato delle modificazioni del basamento rigido in seguito alle sollecitazioni profonde: questi sollevamenti determinano diverse tipologie di scivolamenti e spostamenti soprattutto dei materiali argilllosi o arenacei, attraverso i quali è tuttavia possibile decifrare l’apparente ‘caos’ geologico o alloctonia delle placche rocciose e delle formazioni appenniniche. Tra gli anni Cinquanta e Sessanta si segnalano gli studi paleontologici di Raimondo Selli (1916-1983) sul Quaternario, e in particolare sul limite tra Pliocene e Pleistocene (individuato con precisione grazie all’utilizzo dei foraminiferi), oltre alla pubblicazione dei primi grandi trattati generali di paleontologia in lingua italiana, come in particolare la terza edizione delle Lezioni di paleontologia. Introduzione generale e invertebrati (1956) di Giorgio Dal Piaz, integrato nel 1962 da una parte sulla paleobotanica e quindi, nel 1966, dal volume postumo sulla paleontologia dei vertebrati, pubblicato a cura di Roberto Malaroda (1921-2008).
Tra gli istituti di ricerca attivi con un certo successo tra gli anni Sessanta e Settanta si ricordano il Laboratorio di geologia marina fondato presso l’Università di Bologna da Selli e l’Istituto internazionale di vulcanologia di Catania, realizzato dal CNR e dall’UNESCO nel 1968 con il preciso scopo di valutare la pericolosità dei vulcani attivi nell’area mediterranea (in particolare Etna, Stromboli, Vulcano, Lipari e Pantelleria).
L’attività dei geologi italiani tra l’Unità e il secondo dopoguerra ha certamente prodotto ricerche degne di maggiore attenzione storico-scientifica, per es. per quanto riguarda gli studi realizzati durante gli anni Trenta sulla tettonica delle Alpi e degli Appennini. Altre indicazioni potranno pervenire da un’analisi sistematica e approfondita dell’imponente documentazione a stampa, manoscritta e cartografica conservata in archivi e biblioteche pubblici e privati di diverse città e località d’Italia, anche se, purtroppo, spesso priva di un’adeguata catalogazione e accessibilità agli studiosi.
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