La giustizia civile
Nell’ambito della giustizia civile il Novecento si apre con due eventi di rilievo, benché assai diversi. Il primo di questi eventi è la l. 31 marzo 1901 nr. 107, che su ispirazione di Ludovico Mortara mira a risolvere i gravi problemi che affliggevano il processo civile. Già pochi anni dopo l’entrata in vigore del codice del 1865 si erano manifestate gravi inefficienze, ma numerosi progetti di riforma erano rimasti senza esito e alcune riforme parziali non avevano prodotto mutamenti significativi (Taruffo 1980, pp. 156 e segg.). La legge tenta di migliorare la situazione generalizzando il rito sommario che si era affermato nella prassi anteriore, con norme non prive di qualche pregio ma che presentano numerosi limiti e difetti di formulazione. Non a caso, non riuscendo a modificare questa prassi la riforma fallisce. Una delle ragioni del fallimento può però risalire alla matrice culturale della stessa legge. Mortara era il più famoso e autorevole processualista del momento, ma era anche – come è stato detto – l’ultimo degli esegeti, benché nelle sue opere non manchino elementi di carattere sistematico. Essendo dunque ripiegato sul diritto vigente, egli mira soltanto a razionalizzare in qualche misura la prassi senza introdurre innovazioni effettive, e di conseguenza la realtà della giustizia civile non conosce mutamenti rilevanti (Taruffo 1980, pp. 167 e segg.).
L’altro evento di grande importanza, destinato a mutare in modo irreversibile – malgrado dubbi emersi anche di recente – la concezione del processo civile, è costituito dal sostanziale e rapido abbandono degli orientamenti che avevano dominato la cultura processualistica dell’Ottocento. Questa trasformazione riguarda due aspetti diversi ma connessi della cultura processualistica.
Sul piano del metodo, l’esegesi delle norme vigenti ispirata soprattutto al modello francese, che pure aveva prodotto nel secondo Ottocento una letteratura commentaristica non priva di valore, cede il passo all’orientamento dogmatico-sistematico che, ispirandosi alla pandettistica tedesca, era ormai dominante tra i processualisti germanici degli ultimi decenni dell’Ottocento. Non a caso Giuseppe Chiovenda, che è il primo e più importante sostenitore del rinnovamento metodologico nell’ambito degli studi relativi al processo civile, individua in Adolf Wach, esponente di rilievo della dottrina tedesca, il suo vero maestro, e intitola L’azione nel sistema dei diritti la sua famosa prolusione del 1903. Essa costituisce per molti aspetti il ‘manifesto’ della nuova dottrina, e rende subito evidente l’approccio concettualistico relativo alla definizione della natura dell’azione come concetto generale, e la collocazione di questo concetto nel sistema del diritto processuale.
Sul piano della concezione del processo si verifica la crisi dell’ideologia liberale del processo civile, magistralmente enunciata da Giuseppe Pisanelli nel 1863, secondo la quale il processo rientrerebbe esclusivamente nel diritto privato, trattandosi di una sorta di appendice pratica, secondaria e strumentale, del diritto soggettivo sostanziale. Le norme processuali si limiterebbero quindi a disciplinare lo svolgimento di una controversia insorta tra individui privati e dovrebbero essere ispirate al valore fondamentale costituito dal completo esplicarsi della libertà e dell'autonomia delle parti, dovendosi invece ridurre al minimo indispensabile il ruolo dello Stato, e quindi del giudice. Questi dovrebbe solo assistere alla libera dialettica delle parti private, intervenendo soltanto per sanzionare eventuali nullità e per formulare la decisione finale (Taruffo 1980, pp. 142 e segg.).
La crisi di questa ideologia si determina per effetto dell’influenza della dottrina germanica (soprattutto della dottrina pubblicistica), e anche a ragione dell’esempio offerto dalla Zivilprozessordnung entrata in vigore in Austria nel 1898. Entrambi questi fattori sono presenti nel pensiero di Chiovenda, che della crisi della concezione liberale del processo è l’interprete più originale e influente. In base alla nuova concezione il processo civile viene considerato – sulla scorta degli scritti di Franz Klein, autore del codice austriaco – come uno strumento di giustizia sociale. Di conseguenza esso ha natura pubblicistica, costituendo una delle funzioni fondamentali dello Stato moderno. La finalità del processo non viene più ravvisata nella mera risoluzione di una controversia tra individui privati, bensì nel conseguimento di una decisione con la quale il giudice realizza l’attuazione del diritto dello Stato nei singoli casi concreti. In un contesto di questo genere la libertà delle parti non è più il valore fondamentale al quale l’intera disciplina del processo dev’essere subordinata; il valore che deve ispirare tale disciplina è quello della efficienza di un procedimento che dev’essere accessibile a tutti coloro che hanno bisogno della tutela giurisdizionale per la realizzazione dei loro diritti. Per le stesse ragioni il processo dev’essere semplice, rapido e capace di produrre decisioni utili ed efficaci.
Si tratta, come è facile vedere, di un capovolgimento radicale rispetto alla ideologia liberale ottocentesca della giustizia civile. Peraltro, non va sopravvalutato il significato della ‘funzione sociale’ del processo: esso deve bensì servire a risolvere i problemi che sorgono nell’ambito della società e deve essere a disposizione di tutti i cittadini, ma ciò non implica che la nuova dottrina si fondi su una ideologia di tipo socialista. I processualisti italiani che seguono questa dottrina non si collocano (salvo pochissime eccezioni, come Carlo Lessona) nella corrente del socialismo giuridico, e anche gli occasionali riferimenti ad Anton Menger non sono tali da far collocare Chiovenda – che era un liberale conservatore – entro questa corrente. In alcuni processualisti di fine Ottocento e negli scritti giovanili di Mortara e di Enrico Redenti non mancano aperture verso il problema della giustizia per le classi più povere, ma non ne emergono programmi di riforma di ispirazione socialista.
Chiovenda espone in molti suoi scritti, ma soprattutto nei Principii di diritto processuale civile (che avranno varie edizioni, dal 1906 al 1923), e in maniera sistematica, i principi che dovrebbero ispirare un nuovo processo civile moderno. Fortemente contrario a riforme parziali, pensa che solo una riforma completa e radicale possa porre rimedio ai mali della giustizia civile. Tale riforma dovrebbe essere incardinata sull’attuazione di tre principi fondamentali: il principio della oralità, che dovrebbe governare – sostituendosi al tradizionale metodo della scrittura – la forma della maggior parte degli atti e delle fasi del processo; il principio della concentrazione, secondo il quale tutte le attività processuali dovrebbero svolgersi senza soluzione di continuità e possibilmente in una sola udienza, e il principio di immediatezza, secondo il quale il giudice che decide dovrebbe avere avuto un contatto diretto con i mezzi di prova, e in particolare con i testimoni. Questi principi si compongono in un sistema, ossia in un modello abbastanza coerente di processo semplice, rapido e orientato a decisioni fondate su una corretta valutazione delle prove, ma proprio per queste ragioni la concezione chiovendiana si pone in netto contrasto con la realtà della giustizia civile dell’epoca, e anche con gli orientamenti di altri processualisti di rilievo (e in particolare di Mortara; Francesco Carnelutti, d’altronde, non seguirà mai la prospettiva di Chiovenda) ma ciò non le impedirà di costituire per molto tempo – e sostanzialmente sino a oggi – un costante Leitmotiv della dottrina processualistica.
Alla fine della guerra mondiale i problemi della giustizia civile si ripropongono, aggravati dall’ovvia circostanza che l’Italia non è più, per molte ragioni economiche e sociali, quella dell’inizio del secolo. Il fallimento della riforma del 1901 e l’insuccesso del ‘progetto Orlando’ di riforma del processo civile (del 1908), lasciano una situazione confusa in cui domina l’inefficienza dell’intero sistema.
Prende avvio così una serie di tentativi di riforma del codice di procedura civile, che durerà più di vent’anni. Si inizia con il progetto del 1919 nel quale Chiovenda tenta di attuare i principi che aveva elaborato sul piano teorico (Commissione per il dopoguerra, 1920) ma che non viene preso in considerazione proprio perché appare troppo innovativo. Nel 1923 si passa allora a un ‘progetto Mortara’ che – in netta antitesi rispetto a Chiovenda – mira ancora una volta a razionalizzare la prassi esistente, ma, benché si tratti di un tentativo che rimane all’interno del sistema vigente, non ha alcun esito. Nel 1926 si ha un ‘progetto Carnelutti’, nel quale l’autore tenta di realizzare una sua personale e originale concezione teorica, ma con scarse innovazioni effettive a parte l’uso di una terminologia inconsueta. Neppure Carnelutti segue Chiovenda e anzi, con il concetto di ‘lite’, sembra tornare a concezioni prechiovendiane. Anche questo progetto, che forse si colloca troppo al di fuori della cultura prevalente, non ha alcun esito. Il significato di questa vicenda va al di là delle specifiche sorti dei vari progetti: essi sono in realtà espressioni di orientamenti culturali profondamente diversi, rispetto ai quali prevalgono però l’inerzia politica e l’incapacità di affrontare in maniera globale i problemi della giustizia civile (Taruffo 1980, pp. 195 e segg.).
Negli anni Venti si susseguono tuttavia alcune riforme parziali, non prive di impatto significativo sull’amministrazione della giustizia, ma non tali da trasformare effettivamente il sistema: tra queste riforme vanno ricordate l’introduzione del procedimento d’ingiunzione, avvenuta nel 1922, e l’unificazione della Cassazione civile attuata nel 1923.
Il fascismo riserva alla giustizia civile un atteggiamento di sostanziale indifferenza, con una sola eccezione di cui si dirà tra poco. Il fatto è che non esiste una concezione fascista della giustizia civile: acquisita senza sforzo l’adesione della magistratura, il regime vede con favore il fatto che le controversie civili vengano trattate con le modalità che si sono consolidate nella prassi. Nell’ambito dei rapporti individuali privati, dunque, il fascismo non interviene sino al codice civile del 1940. Non a caso, dopo il fallimento del progetto del 1926, i lavori per la riforma del codice di procedura civile verranno ripresi solo nel 1935.
Dal canto suo, la dottrina processualistica non elabora una teoria fascista del processo civile. In realtà non esiste un vero e proprio ideologo fascista della giustizia civile, anche se non mancano atti di piaggeria verso il regime (come nel caso di Emilio Betti). Nella dottrina dell’epoca non mancano neppure riferimenti allo Stato autoritario, e alcuni esponenti di rilievo della dottrina processualistica, come Carnelutti e Redenti, aderiscono al fascismo ricevendone grande considerazione. Tuttavia, prevale un approccio di carattere tecnico-scientifico ai problemi del processo. La scuola sistematica e storico-dogmatica domina la cultura di tutti i processualisti e determina un notevole grado di omogeneità della loro produzione. Ciò riduce in qualche misura il rilievo dei riferimenti al regime e allo Stato autoritario, che appaiono come tratti stilistici d’occasione più che come fattori sostanziali della cultura dei processualisti.
D’altronde, alcuni grandi processualisti dell’epoca, da Chiovenda (che rimarrà in disparte sino alla morte, avvenuta nel 1936) a Piero Calamandrei, restano estranei al fascismo e non prendono espressamente posizioni politiche (Taruffo 1980, pp. 242 e segg.; Aquarone 1965, pp. 281 e segg.). I loro orientamenti culturali – pur con non trascurabili variazioni individuali – sono incardinati in maniera largamente omogenea su un concettualismo dogmatico e sistematico che produce analisi tecnicamente pregevoli ma contenute solitamente nei limiti del diritto positivo. Le eccezioni non sono molte: meritano una menzione soprattutto La cassazione civile (1920) di Calamandrei, per la sua imponente premessa storica e l’impianto sistematico, e il Sistema del diritto processuale civile (1936) di Carnelutti per la poderosa fantasia teorica che l’autore mette in campo anche in quest’opera. Va comunque ricordato che nel 1924 Chiovenda, Calamandrei e Carnelutti fondano la «Rivista di diritto processuale», che da subito diventa una voce autorevole nel panorama della cultura giuridica italiana.
Vale poi la pena di osservare che la sostanziale non adesione dei processualisti italiani all’ideologia autoritaria trova modo di manifestarsi soprattutto nella seconda metà degli anni Trenta. Mentre in Germania si diffondono teorie che mirano ad attuare l’ideologia del nazismo nell’ambito della giustizia civile, azzerando i diritti delle parti a vantaggio dello strapotere dello Stato in una sorta di ‘amministrativizzazione’ della giustizia, i maggiori esponenti della dottrina italiana si oppongono nettamente all’importazione di queste teorie, così difendendo, in sostanza, una concezione del processo che malgrado tutte le sue incertezze rimane comunque all’interno di una concezione non totalitaria.
Tornando all’atteggiamento di indifferenza del regime fascista, va sottolineato che esso non si manifesta nei confronti delle controversie civili che vengono avvertite come politicamente pericolose, ossia le controversie di lavoro. Soprattutto su ispirazione di uno dei (pochi) grandi giuristi del regime, ossia Alfredo Rocco, già nel 1926 una legge vieta lo sciopero e la serrata, impone il riconoscimento giuridico dei sindacati e dei contratti collettivi, e istituisce la Magistratura del lavoro con il compito di risolvere le controversie collettive di lavoro con efficacia erga omnes. Nel 1928, poi, vengono aboliti i consigli dei probiviri e viene modificata la parte del codice di procedura civile relativa alle controversie individuali di lavoro, con un decreto (poi modificato nel 1934) che mira soprattutto a semplificare il procedimento e ad aumentare i poteri del giudice. In questo modo i conflitti di lavoro vengono ricondotti sotto il controllo esclusivo dello Stato: la Magistratura del lavoro assicura il controllo politico sulle controversie collettive, mentre il giudice ordinario ha il potere di gestire le controversie individuali. Il tutto nel quadro dell’ideologia corporativa elaborata da Rocco, con il sostegno dei lavoristi fascisti come Luisa Riva Sanseverino e Carlo Costamagna, ma nell'indifferenza – non priva di atteggiamenti critici – della dottrina processualistica (Taruffo 1980, pp. 219 e segg.).
A parte un ‘progetto Redenti’ del 1933, l’iniziativa delle riforme processuali riprende solo nel 1935 a opera del ministro Arrigo Solmi. Viene nominata una commissione (in cui non entrano accademici, con la sola eccezione di Redenti), che già nel 1937 pubblica un progetto di codice in 630 articoli. Lo scopo fondamentale del progetto è di introdurre un processo semplice, rapido e poco costoso: l'individuazione di questo scopo viene ascritta a merito del fascismo, e in particolare di Benito Mussolini, ma è chiaro che si tratta del consueto problema della giustizia civile, di cui la dottrina discuteva da decenni.
Comunque, il progetto propone novità di rilievo: soprattutto una consistente riduzione dei vecchi formalismi e un forte ampliamento dei poteri direttivi e istruttori del giudice. Quest’ultimo punto è in consonanza con l’ideologia autoritaria del regime, ma non si tratta di una creazione originale del fascismo. Da tempo, infatti, la dottrina indicava nel ruolo attivo del giudice il cardine di una riforma efficace del processo civile. D’altronde, il progetto adotta soluzioni equilibrate quanto alla definizione dei poteri del giudice in relazione ai poteri delle parti. Esso non recepisce direttamente le teorie di Chiovenda, ma tiene presenti i principi dell’oralità, della concentrazione e dell’immediatezza, con una netta inversione di tendenza sia rispetto alla concezione ottocentesca e ai progetti precedenti (con l’eccezione del ‘progetto Chiovenda’), sia rispetto alla prassi.
Il ‘progetto preliminare Solmi’ riceve molte critiche, forse proprio a causa della sua novità, sia da parte della dottrina di ispirazione chiovendiana (per es., Calamandrei), sia da parte di chi – come Carnelutti – era contrario all’oralità. Non viene messa in discussione la prospettiva pubblicistica che il progetto adotta, ma si criticano molte soluzioni relative soprattutto ai poteri del giudice, al sistema delle preclusioni e all’introduzione del giudice unico. Ciò che la dottrina vuole salvaguardare è soprattutto la libertà delle parti nel dare inizio e nel condurre il processo.
La proposta di riforma viene dunque rielaborata, e si giunge nel 1939 al ‘progetto definitivo Solmi’, nel quale è fortemente attenuato il rigore di molte soluzioni che erano presenti nel progetto del 1937. La versione del 1939 costituisce la base per la redazione finale del codice da parte di una commissione nominata dal ministro Dino Grandi, che in realtà lavora per mezzo di un comitato ristretto composto da Calamandrei, Carnelutti e Redenti (e dal magistrato Leopoldo Conforti). Il comitato produce un testo che viene ulteriormente riveduto (essenzialmente da Conforti), e che viene approvato e promulgato il 28 ottobre 1940, per entrare in vigore il 21 aprile 1942 (Taruffo 1980, pp. 253 e segg.).
Vale la pena di ricordare queste vicende assai complesse per alludere alle ragioni che portano, nella redazione finale del codice, assai lontano dall’impostazione rigorosa che aveva caratterizzato il progetto del 1937. In realtà il codice è il frutto di un compromesso sistematico tra chi – anche in mancanza di una concezione fascista del processo – mira a un rafforzamento del ruolo del giudice e a una limitazione dell’autonomia delle parti, e chi è sostanzialmente contrario a innovazioni radicali, come la maggior parte della dottrina e della professione forense. Inoltre, il codice ha un carattere marcatamente dottrinale e riflette l’impianto sistematico dei trattati di diritto processuale, oltre che le soluzioni elaborate dalla dottrina a proposito di numerosi istituti del processo. Nel codice non si esprime una teoria omogenea e coerente del processo civile, poiché una teoria siffatta non era stata costruita dalla dottrina. Anche a livello teorico si trovano soluzioni di compromesso: si accolgono alcuni aspetti del pensiero chiovendiano ma senza attuarli in modo effettivo. Non è dunque attendibile la tesi, proposta soprattutto da Calamandrei, secondo la quale il codice sarebbe il frutto della dottrina chiovendiana: esso è certamente il frutto della cultura processualistica dell’epoca, ma Chiovenda fu solo un esponente, influente ma spesso discusso e contestato, di questa cultura (Taruffo 1980, pp. 281 e segg.).
Quanto alla questione – sollevata anche di recente da Franco Cipriani – se si tratti di un codice fascista (Cipriani 2002) la risposta non può che essere negativa. Da un lato, le novità che il codice contiene rispetto al codice del 1865 non sono affatto dovute a una concezione fascista della giustizia civile, per la semplice ragione che essa – come si è detto – non esisteva. Esse derivano dal fatto che la dottrina – malgrado numerose incertezze e divergenze – aveva in qualche modo elaborato un modello di processo che si poneva al passo con i tempi, senza rinunciare, pur in presenza di un ruolo relativamente attivo del giudice, ai tradizionali principi attinenti ai diritti e ai poteri delle parti. Dall’altro lato, bisogna distinguere tra il codice e la Relazione che lo accompagna, nella quale non mancano espressioni di omaggio e di esaltazione del regime. Peraltro, l’autore della Relazione è Calamandrei, che certamente fascista non è, ma in realtà queste espressioni furono aggiunte all’ultimo momento dal magistrato Giuseppe Chiarelli, anche in ragione del fatto che la stessa Relazione sarebbe stata sottoscritta dal ministro della Giustizia del governo fascista.
Il primo evento rilevante che si verifica alla fine del conflitto mondiale è una vera e propria rivolta della classe forense contro il codice. Si dice infatti che esso, essendo stato promulgato in epoca fascista, è di conseguenza fascista, e quindi se ne chiede l’abrogazione e il ritorno alla legge del 1901. La dottrina reagisce duramente contro quella che Carnelutti definisce in modo assai efficace come «la rivolta degli empirici camuffati da antifascisti» e difende il codice, che infatti non viene abrogato.
È chiaro, peraltro, che la pretesa natura fascista del codice è solo un pretesto: ciò che provoca la reazione degli avvocati (che non protestano contro norme davvero fasciste come quelle contenute nei codici penali e nella legge di pubblica sicurezza) sono soprattutto le preclusioni processuali che il codice ha introdotto, e che implicano un drastico mutamento delle abitudini che si erano consolidate sotto il vecchio codice. La conferma di ciò viene dalla prima riforma processuale del dopoguerra, ossia dalla l. 15 luglio 1950 nr. 581. Essa ritocca il codice introducendo deroghe alla oralità della trattazione, ma soprattutto elimina le preclusioni. Si realizza così un notevole salto all’indietro rispetto alla disciplina già moderata del codice, ma – non a caso – cessano le proteste degli avvocati.
Gli effetti di questa vicenda non tardano a manifestarsi: la crisi endemica della giustizia civile, dovuta soprattutto alla durata eccessiva dei processi, continua e anzi si aggrava progressivamente.
La Costituzione del 1948 contiene l’enunciazione delle garanzie fondamentali del processo, dai diritti di azione e di difesa all’indipendenza dei giudici e all’obbligo di motivazione delle sentenze. Tuttavia, i processualisti non sembrano rendersene conto per almeno una ventina d’anni, immersi come sono nelle loro prospettive concettualistiche. Le sole eccezioni sono rappresentate, nel 1954, da Processo e democrazia di Calamandrei (che era stato membro della Costituente) e, tra il 1955 e il 1957, da alcuni scritti giovanili di Mauro Cappelletti (poi ripresi nel 1968), allievo di Calamandrei, che per la prima volta in Italia affronta il tema del controllo di costituzionalità delle leggi.
Il ritardo nell’entrata in funzione della Corte costituzionale, e il prevalere per un certo periodo dell’idea che le norme della Costituzione non abbiano natura precettiva (Ferrajoli 1999, pp. 49 e segg.), possono spiegare almeno in parte l’inerzia dei processualisti. Rimane il fatto che solo a partire dal 1970, anche per gli stimoli costituiti dalla prima giurisprudenza della Corte costituzionale, si ha un revirement di una parte della dottrina, che inizia a occuparsi delle garanzie costituzionali del processo.
La sola vera riforma che viene attuata nei primi decenni del dopoguerra riguarda le controversie di lavoro che continuano a rappresentare un settore del tutto particolare della giustizia civile. Nel 1970 entra in vigore lo Statuto dei lavoratori, che contiene due importanti norme processuali: l’art. 18, che regola gli effetti della sentenza che dichiara l’illegittimità del licenziamento, e l’art. 28, che introduce il procedimento per la repressione della condotta antisindacale. Va tuttavia sottolineato che queste norme non sono frutto della cultura dei processualisti, ma della cultura di un non processualista che è il vero autore dello Statuto, ossia Gino Giugni.
Nel 1973 una legge assai importante modifica gli artt. 409 e segg. del codice di procedura civile introducendo un procedimento orale, semplice, concentrato e rapido per le controversie individuali di lavoro. In particolare, esso è caratterizzato da varie norme che tendono a compensare la situazione sfavorevole in cui tipicamente si trova la parte debole, ossia il lavoratore. La dottrina assume in proposito orientamenti divergenti: vi è chi saluta con favore le nuove norme e ne sottolinea il carattere alternativo rispetto al procedimento ordinario, sottolineando la funzione attiva che viene attribuita al giudice e il rafforzamento della tutela del lavoratore, ma sembra prevalere l’orientamento favorevole a interpretazioni restrittive, finalizzato a ridurre l’impatto concreto delle nuove norme. Ne è chiaro esempio la netta divergenza di opinioni che si verifica in dottrina a proposito dell’art. 421, 2° co., ossia proprio la norma che estende notevolmente i poteri istruttori del giudice.
Tuttavia ciò che nessuno può negare è che il nuovo processo del lavoro funziona in modo efficiente e produce una forte riduzione dei tempi della giustizia. Rimarrà invece senza esito la proposta di generalizzare il rito del lavoro applicandolo in tutte le controversie in luogo del procedimento ordinario.
Sull’esempio costituito dal processo del lavoro altri settori specifici vengono separati dal complesso della giustizia civile ordinaria: quando il legislatore ritiene necessario apprestare un procedimento efficiente per particolari tipi di controversie estende a essi le norme introdotte nel 1973 per le controversie di lavoro. È quanto accade, per es., per le controversie agrarie e, nel 1978, per le controversie in materia di locazioni urbane.
Intanto, però, la crisi della giustizia ordinaria continua e si aggrava. Negli anni Cinquanta, Sessanta e Settanta si susseguono progetti di riforma, che tuttavia – oltre a essere quasi sempre di modesta portata – non producono alcun risultato. Talvolta si pensa a riforme parziali e talvolta si parla di riformare l’intero codice, ma la prospettiva dominante è quella secondo la quale sarebbero sufficienti ritocchi limitati della disciplina del codice, che peraltro non vengono realizzati. Sfugge all’inerte legislatore il fatto che questa prospettiva è clamorosamente inadeguata di fronte alla gravità del problema della giustizia, che è ormai diventata un fenomeno sociale di massa. Viene elusa, inoltre, la necessità di adeguare le norme processuali ai principi fissati nella Costituzione, verso i quali continua, peraltro, la disattenzione di buona parte della dottrina.
Anche quando si formulano proposte originali fondate su una elaborazione culturale matura, come nel caso del ‘progetto Liebman’ pubblicato nel 1977, l’inerzia del potere politico permane e ne determina l’insuccesso. La stessa sorte colpisce i tre ‘progetti Bonifacio’ del 1976 che, sia pure in versioni diverse, contenevano proposte relative alla nomina anche elettiva di giudici onorari e alla semplificazione del procedimento secondo il modello del processo del lavoro.
Passano dunque i decenni, mentre il sistema della giustizia civile è sempre più incapace di svolgere decorosamente la propria funzione. Nel corso degli anni Ottanta non compaiono più progetti diretti a una riforma generale del processo civile, mentre continua lo stillicidio dei progetti parziali, che solitamente non hanno esito, e di piccole riforme di dettaglio che non servono a nulla dal punto di vista dell’efficienza del sistema.
Bisognerà infatti attendere gli anni Novanta perché vengano introdotte alcune riforme parziali di qualche importanza. Tra queste riforme meritano di essere menzionate le seguenti: a) la l. 26 nov. 1990 nr. 353 introduce varie novità di rilievo, come l’immediata esecutorietà della sentenza di primo grado e un procedimento cautelare uniforme; b) la l. 21 nov. 1991 nr. 374 (poi modificata nel 1999) istituisce il giudice di pace, disciplinando un procedimento semplificato e rapido per le relative controversie; c) il d. legisl. 18 febbr. 1998 nr. 51 istituisce il giudice unico in primo grado per la quasi totalità delle controversie civili. Queste norme introducono modificazioni assai rilevanti nella disciplina del processo civile, ammodernandola sotto numerosi aspetti. Esse non raggiungono tuttavia lo scopo fondamentale, che pure il legislatore si era prefissato, ossia quello di ridurre la durata dei processi. In proposito, invero, le riforme in questione registrano l’ennesimo fallimento, probabilmente per la loro natura ancora parziale e frammentaria e per l’incapacità del legislatore di incidere in profondità sulle cause reali della crisi.
Nei primi decenni del dopoguerra quella che si potrebbe definire come la dottrina processuale ‘standard’ continua a seguire l’orientamento che si era consolidato nei primi decenni del secolo. A parte opere di analisi esegetica delle norme del codice (come i noti commentari di Virgilio Andrioli e di Salvatore Satta) si tratta, come si è visto in precedenza, di un indirizzo dogmatico-sistematico in cui prevale la costruzione – per non dire la entificazione – dei concetti relativi agli istituti processuali (l’‘azione’, l’‘interesse ad agire’ ecc.) e continua la tendenza a comporre tali concetti in un insieme che dovrebbe essere coerente. È in sostanza la tendenza al ‘sistema’ che, sia pure in versioni tra loro assai diverse, era stata il Leitmotiv del pensiero di Chiovenda e di Carnelutti.
Oggetto dell’analisi dottrinale è il diritto processuale positivo italiano (salvo frequenti riferimenti alla dottrina germanica, che ancora costituisce il modello culturale di riferimento), visto non solo nella sua applicazione pratica ma soprattutto come oggetto di teorizzazione dogmatica. L’altra faccia della moneta è costituita, in alcuni esponenti, da un formalismo esegetico applicato anche agli aspetti meno importanti delle norme processuali (sono frequenti, invero, i processualisti ‘del secondo comma’ o ‘del combinato disposto’). A volte, ma non sono casi frequenti, il metodo dogmatico produce risultati di notevole valore, ma vi è pur sempre scarsa attenzione verso le garanzie costituzionali, e una sostanziale chiusura nei confronti dei problemi sociali e politici connessi con la crisi della giustizia civile. Essa viene ovviamente percepita dalla dottrina più attenta, ma – a parte qualche isolata proposta di riforma – prevale un rassegnato disinteresse per le sorti del processo civile, a volte accompagnato da generiche lamentazioni per le sue disfunzioni.
Intanto vengono meno quasi tutti i grandi maestri della prima metà del secolo, come Calamandrei e Carnelutti, ma i loro successori, da Andrioli a Satta, da Enrico Allorio a Luigi Montesano, da Tito Carnacini a Edoardo Garbagnati e a Elio Fazzalari, sino a Enrico Tullio Liebman e a Giuseppe Tarzia, continuano lungo la via tracciata da quei maestri, solitamente tributando formali omaggi a Chiovenda. Il panorama della letteratura processualistica diventa naturalmente più vario e frammentato, poiché non mancano personalità di spicco e opere di notevole livello qualitativo, ma il concettualismo dogmatico-sistematico di stile germanico continua a svolgere un ruolo dominante.
Come si è detto, la dottrina processualistica standard continua a essere quantitativamente prevalente, ma a un certo punto si verificano variazioni di grande importanza culturale che vanno qui menzionate, sia pure in sintesi.
Una prima rilevante variazione è costituita dall’apertura verso lo studio del diritto comparato, e anzi verso la comparazione come metodo di studio del diritto processuale. L’origine di questo orientamento ha luogo negli anni Sessanta: è fondamentale al riguardo l’opera di Cappelletti su La testimonianza della parte nel sistema dell’oralità (1962), nella quale si svolge un’analisi approfondita del tema nei principali ordinamenti. Nello stesso periodo Vittorio Denti abbandona l’approccio dogmatico e comincia a pubblicare vari saggi di taglio comparatistico e relativi alla metodologia della comparazione. Entrambi continueranno nel tempo in questa direzione, a volte con esiti di grande interesse e portata (come, per es., i sei volumi di saggi pubblicati da Cappelletti nel 1978 con il titolo Access to justice) e creano soprattutto a Firenze e a Pavia gruppi di studiosi più giovani che continueranno a lavorare secondo il metodo comparatistico, spesso con risultati di grande interesse. Il diritto processuale comparato diventa così una componente essenziale della cultura processualistica italiana. Cappelletti e Denti acquistano d’altronde una notevole fama internazionale, il primo svolgendo ricerche e periodi di insegnamento in tutto il mondo e soprattutto negli Stati Uniti, il secondo partecipando come apprezzato relatore a numerosi congressi internazionali in cui si discutono in chiave comparatistica i problemi più importanti dell’amministrazione della giustizia.
Un aspetto interessante della svolta comparatistica è che si attenua, pur senza scomparire del tutto, l’influenza della dottrina tedesca, e prevale invece nettamente l’interesse per gli ordinamenti di common law, e in particolare per il sistema statunitense.
Un’altra variazione molto importante è costituita dall’apertura verso i problemi sociali e politici inerenti alla giustizia civile. La concezione del processo civile come strumento di giustizia sociale viene qui presa sul serio, nella duplice direzione dell’approfondimento delle conseguenze negative che la crisi della giustizia civile produce soprattutto a danno dei meno abbienti, e della necessità di realizzare riforme incisive e globali. Libri come Giustizia e società (1972) di Cappelletti, e come Processo civile e giustizia sociale (1971) e Un progetto per la giustizia civile (1982) di Denti sono alcune manifestazioni estremamente significative di questo orientamento.
Esso implica chiaramente una presa di posizione ideologica in senso progressista e riformatore (con venature di ispirazione socialista), ma proprio per questa ragione suscita l’opposizione della dottrina politicamente conservatrice.
L’apertura verso il metodo della comparazione e verso i problemi sociali determinati dalla disfunzione del processo civile comporta come ulteriore conseguenza che finalmente si rivolga la dovuta attenzione alla interpretazione non formalistica e all’applicazione effettiva delle garanzie costituzionali del processo. Inizia infatti negli anni Settanta una letteratura – anche qui stimolata soprattutto da Cappelletti e da Denti – che con contributi notevoli discute, con riferimento al nostro come ad altri ordinamenti, temi come la garanzia dell’accesso alla giustizia, il due process of law e il diritto di difesa, la tutela dei non abbienti, l’obbligo di motivazione, il principio di uguaglianza nel contesto del processo. Questa elaborazione si svolge in parallelo – e non di rado in prospettiva critica – rispetto alla giurisprudenza della Corte costituzionale relativa a temi processuali.
Ancora l’apertura verso la comparazione e verso la dimensione sociale della giustizia porta ad affrontare un tema nuovo ma destinato a rivestire un’importanza decisiva negli ordinamenti moderni, ossia quello della tutela degli interessi collettivi. La comparazione propone soprattutto il modello della class action nordamericana e l’effettività della tutela giurisdizionale richiede che si creino strumenti processuali nuovi, diversi dai tradizionali rimedi costruiti sulla dimensione strettamente individuale delle situazioni giuridiche. La discussione inizia alla fine degli anni Sessanta e prende corpo in particolare negli anni Settanta, per proseguire negli anni successivi anche per la evidente incapacità del legislatore di intervenire efficacemente. Ciò non toglie tuttavia che la cultura processualistica italiana si ponga al passo rispetto a ciò che avviene in altri ordinamenti e si arricchisca di contributi di notevole interesse.
Oltre all’uso sistematico della comparazione, un altro suggerimento fondamentale – dato soprattutto da Denti, che per primo lo mette in pratica nei suoi scritti – è nel senso di un approccio multidisciplinare ai problemi della giustizia, che deve includere l’analisi sociologica, la ricostruzione storica e l’elaborazione teorica e filosofica dei vari problemi. Da qui l’utilità della sociologia giuridica, anche empirica, ma anche un grande interesse per la storia (comparata) dei principali ordinamenti e degli istituti più importanti del processo. L’apertura verso l’analisi storica porta alla redazione di saggi e monografie che studiano l’evoluzione del nostro ordinamento processuale e di vari istituti, oltre che delle relative implicazioni culturali, e produce anche un'iniziativa assai utile, dovuta soprattutto alla cura di Nicola Picardi, consistente nella pubblicazione dei codici processuali storici, a partire dal Code Louis. L’attenzione per la dimensione filosofica porta, in un momento in cui l’idealismo crociano è in declino e si riprendono studi di logica e di epistemologia, a rivisitare in prospettiva aggiornata temi come la prova e il ragionamento del giudice.
Se, come si è detto, gli iniziatori e i protagonisti di questa svolta culturale sono soprattutto Cappelletti e Denti, un ruolo particolare va riconosciuto a Giovanni Tarello. Non processualista, filosofo del diritto e storico della cultura giuridica, Tarello dedica un nutrito gruppo di saggi a temi e personaggi del diritto processuale del Novecento (G. Tarello, Dottrine del processo civile. Studi storici sulla formazione del diritto processuale civile, 1989). I contributi di Tarello sono sempre originali, spesso fortemente critici – e talvolta discutibili e discussi – ma la sua voce, che viene dall’esterno dell’area spesso chiusa del diritto processuale tradizionale, rappresenta un contributo storico-filosofico essenziale alla comprensione della materia.
Negli ultimi anni del Novecento il panorama della cultura processualistica appare variegato ma non particolarmente complesso. Il metodo dogmatico-sistematico, sostanzialmente concettualistico, di quella che si è chiamata dottrina standard continua a risultare prevalente anche nelle generazioni più giovani.
L’importanza di quelle che poc’anzi si sono chiamate 'variazioni' non viene certamente meno: soprattutto i seguaci di Denti e di Cappelletti svolgono serie ricerche di diritto comparato e di storia del diritto e producono volumi di grande interesse su vari temi. Tuttavia lo spazio che occupano nella letteratura processualistica rimane quantitativamente limitato, se non marginale. Al loro posto, risultano invece ben più frequenti studi di impianto tradizionale soltanto ‘decorati’ con brevi introduzioni o con rapidi e superficiali riferimenti a qualche ordinamento straniero o a qualche codice preunitario. È chiaro che ciò non significa fare davvero comparazione o storia. Ma la tentazione delle cose facili è molto diffusa anche tra i processualisti.
Tuttavia, e per quanto numericamente minoritaria, la ‘cultura delle variazioni’ rimane di fondamentale importanza nel contesto del diritto processuale, come esempio e come indicazione di come dovrebbe essere una buona cultura della giustizia civile.
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