La giustizia civile
La giustizia civile costituisce un oggetto di indagine privilegiato per cogliere i profili dello svolgimento dell’esperienza giuridica italiana nel corso del 19° sec., al contempo però essa si presenta come un fenomeno complesso e sfuggente, la cui storia può essere ricostruita da diverse angolazioni. Queste pagine intendono seguire dal versante della scienza giuridica, il dibattito sul problema del dimensionamento giuridico della giustizia.
Nell’età liberale due appaiono le coordinate di riferimento principali nel ragionamento sui caratteri giuridici della giustizia civile: la pienezza dei diritti individuali e la pienezza della sovranità dello Stato.
Qui la giustizia dei rapporti tra i consociati è intesa come una giustizia dei rapporti intersoggettivi, tra soggetti cioè che si relazionano essenzialmente come portatori di diritti propri.
Essa è però considerata contemporaneamente come un ambito di esercizio della sovranità dello Stato. La cultura giuridica dell’età liberale presuppone un rapporto tra potere politico e dimensione giuridica svolto nel segno del primato della politica sul diritto, per cui il diritto emana dai poteri politici legittimi che lo decidono. Riflettere sui caratteri giuridici di tale giustizia significa dunque considerare come parte del problema anche la tenuta dei modi di produzione e di organizzazione delle norme giuridiche (cioè degli assetti sistematici) e dei rapporti tra i poteri che danno forma allo Stato (cioè degli assetti costituzionali).
Se le coordinate di riferimento sono l’individuo e lo Stato, i terreni sul quale si svolge tale discorso giuridico sulla giustizia sono essenzialmente due: il processo civile (l’insieme delle regole sui modi di amministrare la giustizia) e l’ordinamento giudiziario (le regole sugli apparati chiamati ad amministrare la giustizia e sui rapporti tra questi e gli altri poteri dello Stato).
Su tali terreni le pratiche discorsive della scienza giuridica si muovono avendo come oggetto la legge – intesa come l’insieme delle norme poste dallo Stato in materia di amministrazione della giustizia – impiegando come strumento argomentativo l’interpretazione della legge, svolta secondo diverse metodologie.
Un'ultima osservazione appare necessaria a completare il quadro: i regimi giuridici della giustizia che vengono implementati su questa base cambiano seguendo la parabola dell’ordine giuridico liberale. Si tratta infatti di un ordine i cui tratti ideologici restano relativamente stabili nel tempo, a fronte però di un mutamento sensibile, sia delle concrete strutturazioni giuridiche, sia delle teorie svolte per dargli forma, mutamento che deriva dal trasformarsi dello scenario socioeconomico. La storia della giustizia civile è, in un certo senso, anche la storia di tali persistenze e mutamenti.
Possiamo osservare che la principale linea di tendenza muove da una piattaforma privatistica, che vede al centro della amministrazione della giustizia le parti in lite, le quali dispongono del processo per far valere i propri diritti, per dirigersi verso un orizzonte pubblicistico, che tende a configurare il processo come luogo di attuazione della legge dello Stato o la giustizia come spazio per lo sviluppo del diritto nello Stato. Si tratta di una trasformazione che corrisponde a una modifica dei meccanismi di svolgimento della funzione giudiziale.
È una trasformazione al contempo discorsiva e reale, nel senso che le pratiche discorsive esprimono nuove concezioni della giustizia e del processo, che trovano corrispondenza in modifiche della base normativa di riferimento. Ciò è dovuto allo stabilirsi di una sempre più complessa relazione tra legge e interpretazione, che assegna un ruolo da protagonista proprio alla scienza giuridica.
Proviamo a fornire dei cenni sintetici su questo complesso svolgimento, partendo anzitutto da una ricostruzione della base normativa di riferimento, per poi considerare le elaborazioni svolte dalla scienza giuridica.
La vicenda che vogliamo ricostruire presenta dei tratti relativamente semplici sul piano legislativo; infatti l’Italia si dota già a pochi anni dall’Unità di un codice di procedura civile e di una legge sull’ordinamento giudiziario.
Il legislatore, animato anche in questo campo da un furor codificationis, promulga il codice con il decreto n. 2366 del 25 giugno 1865. Giuseppe Pisanelli, ministro Guardasigilli che del progetto di codice è il principale redattore, dovrà rinunciare a seguire la linea dell'armonizzazione delle legislazioni preunitarie, sostenuta nei suoi scritti come giurista; opterà per un adeguamento del codice sardo del 1859, riprendendo soluzioni anche dal codice del Regno delle due Sicilie del 1819 e tenendo a modello il codice francese del 1806 (Solimano 2011; Cipriani, in Giuseppe Pisanelli, 2005, pp.; Taruffo, in Giuseppe Pisanelli, 2005, pp.).
Alla base del processo civile viene posto il principio dispositivo, che attribuisce all’iniziativa delle parti il ruolo di impulso per lo svolgimento del procedimento e confina il giudice in un ruolo passivo (Taruffo 1980; Cipriani 1991; Solimano 2011). Pensato come strumento a disposizione delle parti per far valere in giudizio i propri diritti, il processo assume quindi i caratteri di una procedura formale e scritta. Come temperamento del profilo dispositivo si prevede una procedura di tipo sommario, capace di soddisfare maggiormente le esigenze di rapidità della giustizia di fronte al giudice conciliatore e al pretore e, a certe condizioni, di fronte al Tribunale e alla Corte d’appello. Sempre in accordo con il principio dispositivo, il giudizio di appello non sarà limitato a un riesame degli elementi raccolti nel primo giudizio, ma resterà aperto a nuove deduzioni delle parti (concezione devolutiva).
Quest'articolazione processuale non prevede poi un terzo grado di giudizio. Come nel sistema francese l’opzione fondativa per il principio di legalità, che fa della giustizia uno spazio di amministrazione della legge piuttosto che di determinazione del diritto, impone di ricorrere a un innovativo rito, il giudizio in cassazione (Alvazzi del Frate 2005; Meccarelli 2005), pensato solo come giudizio sulle violazioni di legge e non anche nel merito della causa. Si tratta inoltre di un giudizio con effetto meramente rescindente, perché la cassazione può solo annullare la sentenza impugnata e deve rinviare poi la decisione al giudice di merito.
Per quanto riguarda l’ordinamento giudiziario (Taruffo 1980; Gustapane 1999; Genovese, in Giuseppe Pisanelli, 2005, pp. 39-68) esso è regolato dalla legge 6 dic. 1865 nr. 2626; anche in questo caso sono stati ripresi impianto e contenuti della equivalente legge sabauda del 1859. Organi di prima istanza sono il giudice conciliatore, un giudice laico per la giustizia minore, il pretore, il Tribunale civile e il Tribunale di commercio; segue poi la Corte d’appello per le seconde istanze, mentre al vertice dell’ordinamento giudiziario è posta la Corte di cassazione. Sul piano dei rapporti tra magistratura e potere esecutivo la legge richiama il principio di inamovibilità del giudice previsto dallo Statuto albertino, riconoscendo però al ministro della Giustizia pervasivi poteri di controllo (controlla le carriere, può disporre trasferimenti d’ufficio per «utilità di servizio», cfr. l’art. 199); il pubblico ministero è qualificato come rappresentante del potere esecutivo presso l’autorità giudiziaria.
Codice e legge sull’ordinamento giudiziario hanno resistito a lungo; per un nuovo codice di procedura civile bisognerà attendere il 1942; mentre una nuova legge sull’ordinamento giudiziario verrà emanata solo nel 1941. Ciò non deve però indurre a pensare che si sia trattato di apparati normativi privi di criticità.
Diversi erano i problemi che le discipline previste dal codice ponevano, soprattutto perché favorivano una frammentazione e un allungamento dei tempi del processo. Il principale problema era legato alla insufficiente distinzione nel codice, tra la procedura formale e sommaria, che produceva l’esito di favorire l’affermarsi sul piano della prassi di un tertium genus procedurale. Altri profili problematici, solo per menzionarne alcuni, riguardavano la disciplina della prova, delle questioni incidentali e del giudizio di cassazione. Evitiamo in questa sede di illustrarne i risvolti tecnici.
Pare opportuno però soffermarci, seppur brevemente, sulla questione della cassazione, in quanto rappresenta un indicatore significativo del campo di tensione esistente tra giurisprudenza e legge, all’interno della funzione giudiziale.
Il problema era rappresentato dal fatto che la natura del giudice di cassazione, come giudice della violazione di legge, era fortemente in contrasto con la tradizione giurisprudenziale, radicata nella nostra cultura giuridica, della terza istanza. In tale concezione che nell’Italia preunitaria aveva trovato diffusa applicazione, non ultimo nel Lombardo-Veneto austriaco (Taruffo 1991; Sciumè 1996), il giudice supremo non era mero giudice di legittimità, ma un vero e proprio giudice di terzo grado capace di decidere la causa.
Il legislatore italiano del 1865, pur optando per il modello francese della cassation, aveva tenuto conto di ciò, prevedendo una disciplina ibrida, che attenuava la rigida separazione tra questione di fatto e questione di diritto. Era però questo uno snodo tecnico essenziale per conferire al giudizio di cassazione il carattere del giudizio di legittimità e mantenere la giurisprudenza su un terreno (meramente) applicativo della legge. L’ibridazione prevista dal nostro codice aveva ricadute indirette sulla funzione della Corte suprema poiché riconosceva nella sostanza una capacità di adeguamento della legislazione (Meccarelli 2005). Tale tendenza era del resto accentuata da un secondo tratto di originalità: nell’ordinamento italiano esistevano cinque Corti di cassazione regionali (a Torino, Firenze, Napoli, Palermo, e – a partire dal 1875 – Roma) capaci di svolgere in reciproca autonomia interpretazioni giurisprudenziali diverse del medesimo codice civile. Tale assetto regionale della giurisdizione suprema, inizialmente pensato come transitorio, sarebbe però restato fino al 1923.
La questione della cassazione ci introduce anche a problematiche sul versante dell’ordinamento giudiziario. Sul piano degli assetti costituzionali infatti l’ordine giudiziario risultava fortemente indebolito dall’assenza di un vertice unitario. È un tratto, questo della debolezza costituzionale, che si può rinvenire anche su un altro rilevante terreno, quello relativo alla indipendenza della magistratura dal potere esecutivo. Essa, lo ricordiamo, non era affatto garantita dalle regole in materia di inamovibilità dei giudici previste dalle legge sull’ordinamento giudiziario ed era messa in discussione dalle regole sul controllo disciplinare e da quelle sulle modalità di accesso e sulle carriere in Magistratura, che attribuivano al ministro di Grazia e giustizia poteri particolarmente pervasivi (Taruffo 1980; Gustapane 1999).
Il dibattito per la soluzione di tali problemi del processo civile e dell’ordinamento giudiziario è stato intenso e si è tradotto in numerose iniziative di riforma, alcune anche realizzate. Fra queste possiamo qui ricordare: la legge 28 nov. 1875 nr. 2781, sulle attribuzioni del pubblico ministero nelle cause civili, che però non toccava il problema dei rapporti tra magistratura e potere esecutivo; la legge 25 genn. 1888 nr. 5174, con cui si abolivano i tribunali di commercio; la legge 16 giugno 1892 nr. 161, che estendeva le competenze del giudice conciliatore; la legge 15 giugno 1893 nr. 295, sui collegi dei probiviri, sorta di giurisdizioni speciali in materia di controversie sul lavoro, capaci di amministrare una giustizia in chiave conciliatoria o equitativa.
Soprattutto però, tra le riforme rivolte alla disciplina del codice di procedura, va ricordata la legge sul processo sommario, il cui coordinamento con il rito formale, come si accennava, costituiva un nodo problematico molto rilevante. Si tratta della legge 31 marzo 1901 nr. 107 e del relativo decreto di attuazione (il r.d. 31 ag. 1901 nr. 413). Tale riforma razionalizzava quel tertium genus tra rito formale e sommario creato dalla prassi per superare le inadeguatezze della disciplina codicistica: il procedimento formale restava in vigore ma diventa ipotesi eccezionale, mentre attraverso il nuovo processo sommario si tendeva a riconoscere un maggiore spazio al ruolo direttivo del giudice. Da un punto di vista tecnico, tuttavia, questa pur importante riforma non rispondeva fino in fondo all’obiettivo di una procedura organizzata intorno al principio di concentrazione e rapidità del giudizio (Taruffo 1980).
C’è poi da ricordare la legge 19 dic. 1912 nr. 1311, con cui si disponeva l’introduzione del giudice unico in prima istanza. La riforma, prevedendo la monocraticità anche del giudice del tribunale, tendeva a rafforzare il ruolo del giudice, spingendo verso l’oralità e la concentrazione del procedimento. Si sarebbe trattato in realtà di un «naufragio», come ricorda Lodovico Mortara nel suo Manuale della procedura civile (1887-1888, 19168, p. 299). A seguito di forti proteste del mondo forense e giudiziario quelle norme sarebbero state abrogate con la legge 27 dic. 1914 nr. 1404 (Taruffo 1980; Tarello 1989; Cipriani 1991).
Altre riforme del processo che possono essere ricordate sono quelle che chiudono la stagione liberale: la legge 9 luglio 1922 nr. 1035, con il regolamento attuativo (il r.d. 24 luglio 1922 nr. 1036) introduce nell’ordinamento italiano il procedimento per ingiunzione, un procedimento a contraddittorio posticipato, pensato a tutela del credito per ottenere in modo rapido il titolo esecutivo. C’è poi da ricordare la riforma del procedimento di fronte ai pretori e ai giudici conciliatori realizzata con il r.d. 20 sett. 1922 nr. 1316 in attuazione della legge 15 sett. 1922 nr. 1287 (che eleva la soglia di competenza per valore): si introducono importanti modifiche che vanno nel senso di rafforzare la concentrazione del processo, semplificarne le forme, favorire un ruolo più attivo del giudice (Taruffo 1980).
Con l’aprirsi del ventennio fascista si abbandona la linea degli interventi parziali seppur strutturali e ci si orienta con più determinazione verso la progettazione di un nuovo codice; si tratterà tuttavia di un cammino lungo: per la sua promulgazione bisognerà attendere il 28 ottobre 1940 e per la sua entrata in vigore il 21 aprile 1942.
Passiamo ora in rassegna, seppur rapidamente, alcune delle riforme dal versante dell’ordinamento giudiziario. Possiamo ricordare la legge 6 dic. 1888 nr. 5825, che, deferendo alla Cassazione di Roma la cognizione degli affari penali e dei ricorsi a sezioni unite, sancisce l’unificazione delle Cassazioni penali ma lascia aperta la questione dal versante civilistico (Meccarelli 2005). Il ministro Giuseppe Zanardelli (1826-1903), con la legge 8 giugno 1890 nr. 6878, ha realizzato una riforma delle regole di reclutamento dei magistrati introducendo l'obbligo del concorso e riducendo le possibilità di accesso per nomina ministeriale. Vanno poi ricordate le leggi Orlando del 14 luglio 1907 nr. 511 e del 7 luglio 1908 nr. 438. Con la prima si istituisce il Consiglio superiore della magistratura; le competenze assegnategli, che riguardano l'organizzazione giudiziaria, sono qui solo di tipo consultivo. Con la legge del 1908 «sulle guarentigie e la disciplina della magistratura» oltre a regolare la materia della responsabilità e del controllo disciplinare, si intende rafforzare, seppure in modo ancora relativo, il principio di inamovibilità del magistrato (Taruffo 1980; Gustapane 1999).
Il crepuscolo dello Stato liberale avrebbe aperto anche per la materia dell’ordinamento giudiziario a interventi più incisivi e organici: con il decreto delegato del 24 marzo 1923, nr. 601 si sanciva l’unificazione delle Corti di cassazione (Meccarelli 2005); sulla base della medesima legge delega (la legge 3 dic. 1922 nr. 1601) si sarebbe emanato il Testo unico delle leggi sull’ordinamento giudiziario (il r.d. 30 dic. 1923 nr. 2786) con cui si razionalizzava la legislazione in materia. Non si apportavano innovazioni al sistema nel suo insieme ma se ne accentuava il carattere piramidale (Taruffo 1980; Gustapane 1999). Questo Testo unico fungerà da base per la nuova legge sull’ordinamento giudiziario introdotta con il r.d. 30 genn. 1941 nr. 12.
Veniamo ora a descrivere più propriamente il ruolo svolto dalla scienza giuridica. Nella storia che stiamo ricostruendo la vediamo impegnata su almeno tre fronti: la promozione delle politiche legislative; l’analisi dei problemi e l’individuazione degli strumenti per risolverli; l’elaborazione delle metodologie per lo svolgimento della riflessione dottrinale.
L’impegno per la riforma da parte della scienza giuridica è una caratteristica originaria e ricorrente, anche se con profili e modalità diverse. Nei primi decenni dopo la codificazione, per es., si segnala una vivace produzione di scritti di avvocati e magistrati, che mostra un impegno costante nel sollecitare modifiche e nel formulare proposte di riforma della legislazione esistente; la dottrina 'maggiore' invece è più impegnata sulla esegesi della legislazione vigente (Taruffo 1980). Si pensi a Luigi Mattirolo (1838-1904) che con il suo Trattato di diritto giudiziario italiano (1875-1880) offre uno degli esempi più riusciti di quell’orientamento dottrinale; qui non è dato rinvenire un progetto autonomo rispetto a quello del legislatore (Grossi 2000).
Ciò però non significa che la processualistica esegetica abbia fatto mancare un apporto al miglioramento dell’impianto legislativo disponibile. Come è stato osservato a proposito della civilistica (Cazzetta 2011), l’opzione esegetica non è un'opzione esclusivamente legalistica. Oltre che rispondere a una chiara visione dei ruoli rispetto al compito di creazione del diritto, riflette infatti una forte sintonia assiologica tra giurista interprete e legislatore. Per questo l’approccio esegetico non è necessariamente il segnale di una completa rinuncia a svolgere un compito di implementazione del diritto legale. In qualche misura l’opera di Mattirolo (Cipriani 1991; Cipriani 2006) – a partire dalla stessa categoria del diritto giudiziario in base alla quale i temi dell’ordinamento giudiziario e della procedura vengono unitariamente descritti – sembra assolvere una funzione non esclusivamente illustrativa. Si pensi poi a figure come Luigi Borsari, il quale vede il codice come «un'opera d'arte» ma al contempo riconosce che «non è uno specchio di ordine, di semplicità e di chiarezza» (Commentario al codice di procedura civile, Torino 1865, 18723, p. 8, 12).
Qui il riconoscimento di superiorità del codice non implica una rinuncia a un impegno, per il suo perfezionamento.
È un tratto questo che nel finale del 19° sec. troverà accentuazione, grazie a nuovi approcci metodologici, che consentiranno di svolgere un'interpretazione della legge ben più pervasiva. Soprattutto però inizia a logorarsi quella sintonia tra scelte del codificatore e opzioni dottrinali ed emerge sempre più chiaramente la prospettiva pubblicistica come orizzonte su cui collocare una riflessione aggiornata riguardo alla funzione giudiziale.
A partire dai due decenni finali del 19° sec., del resto, si può registrare anche un più scoperto impegno della scienza giuridica per la riforma (Taruffo 1980; Tarello 1989; Grossi 2000); vi troviamo coinvolte figure di primo piano come, per es., Mortara, Carlo Lessona (1863-1919), Giuseppe Chiovenda, e poi Francesco Carnelutti (1879-1965), Enrico Redenti (1883-1963) e Piero Calamandrei.
Non si tratta solo di una partecipazione diretta ai lavori legislativi che pure è stata rilevante; tale impegno si riflette anche sulla produzione scientifica, che qui appare elaborata proprio in funzione dei provvedimenti da adottare. È questo il caso di una vasta produzione saggistica, spesso comparsa su riviste scientifiche, direttamente connessa a specifiche tematiche di riforma; ma a volte sono gli stessi volumi, pensati come opere generali di riferimento teorico, a costituire uno strumento per la riforma. Solo per fare tre esempi: è il caso dei Principii di diritto processuale civile (1906) di Chiovenda (vero pilastro della teoria generale del processo) che trova ‘applicazione’ nel progetto di nuovo codice del 1919 elaborato nel contesto dei lavori della Commissione per il dopoguerra (Taruffo 1980; Cipriani 1991); altro esempio sono i due volumi su La Cassazione civile (1920) di Calamandrei, monumento teorico alla Cassazione unica, pubblicati negli anni immediatamente precedenti la legge che abolisce le Corti di cassazione regionali; si pensi ancora alle Lezioni di diritto processuale civile (1920-1931) di Carnelutti e al progetto del 1926 elaborato dalla Sottocommissione C (quella per la materia del processo civile) della Commissione Reale per la riforma dei codici (Taruffo 1980; Tarello 1989; Cipriani 1991).
I giuristi, in quanto elaboratori di scienza giuridica, si sono dunque fatti promotori di iniziative proprie, rispetto al problema del dimensionamento giuridico della giustizia, fornendo analisi e individuando gli strumenti.
Consideriamo ora tali profili, concentrandoci sul tema centrale del superamento della concezione dispositiva del processo a cui abbiamo più volte accennato.
Si è osservato in apertura che la nostra storia ha come punti di riferimento il problema della pienezza dei diritti individuali e quello della pienezza della sovranità dello Stato. Per la cultura liberale italiana si tratta di una coppia concettuale inscindibile, ma nel corso del sessantennio postunitario se ne danno letture diverse.
La concezione originaria, quella cosiddetta privatistica, lo ricordiamo consiste nel mettere in primo piano il problema della attribuzione dei diritti o, se vogliamo, del concepire le tutele solo nella forma di una attribuzione dei diritti: la giustizia è strumentale alla titolarità dei diritti. Lo Stato qui è presupposto, ma svolge la sua funzione fornendo, tramite i suoi organi giurisdizionali e il processo, strumenti per l’esercizio dei diritti. Sul piano tecnico il principio guida è la 'libertà delle parti' (da cui il processo dispositivo, formale e scritto); c’è poi anche il principio guida della 'celerità e semplicità dei giudizi' (salvaguardato dalla procedura sommaria), che in questa logica è però secondario (Solimano 2011).
Tale equilibrio viene rimesso in discussione con il profilarsi di una nuova fase della vita economica e sociale che, a partire dagli anni Ottanta dell’Ottocento, manifesta gli effetti della rivoluzione industriale e pone una domanda di giustizia più capace di sostenere il diritto nella sua funzione economico-sociale e nella sua circolazione; c’è un problema di giustizia sostanziale, che interessa tanto l’effettività nelle tutele dei diritti soggettivi, quanto il riconoscimento di nuove tutele giuridiche.
È in risposta a questo mutamento che si spiega il ripensamento in chiave pubblicistica del processo e della giustizia civile. Non si tratta, a nostro avviso, di una tendenza al superamento dell’ordine giuridico liberale, ma di una diversa sua declinazione, poiché dell’ordine garantito dalla giustizia non viene messo in discussione l’impianto ideologicamente qualificante, fatto di una combinazione di individualismo e statalismo.
La svolta pubblicistica, pur essendo in continuità ideologica, capovolge però i termini del discorso assegnando alla giustizia un compito diverso, rivolto al diritto (dello Stato) anche quando si prende cura dei diritti (degli individui). L’ordine di priorità dei due principi indicati dal codificatore si inverte: ora occorre congegnare un processo capace di fornire una giustizia efficiente, puntando soprattutto sul protagonismo del giudice nella gestione del processo (a scapito di un ruolo delle parti in causa), sulla sua oralità (piuttosto che sulla scrittura).
Le costruzioni di questa nuova architettura sono state molteplici. Non è possibile qui e forse non è particolarmente rilevante, illustrarne gli aspetti specifici; interessa piuttosto segnalare le diverse concezioni di giustizia che può aver compreso tale pluralistico orizzonte discorsivo della natura pubblicistica.
Sotto questo aspetto vi sono due diverse concezioni, per certi versi contrapposte, che animano la riflessione processualistica e accompagnano il suo emergere come scienza del diritto.
In una prospettiva, che potremmo definire di tipo pragmatico-teorica – riconoscibile negli itinerari di studiosi come Mortara o Lessona e per certi versi anche di Redenti (Grossi 2000; Cipriani 1991; Cipriani 2006) – la riflessione va nel senso di valorizzare il rapporto tra diritto e giustizia materiale.
Ricostruiamone seppur sinteticamente gli snodi argomentativi rileggendo alcune pagine di Mortara. Qui lo spazio della giustizia viene a consistere nello svolgimento di un rapporto trisoggettivo (le due parti in causa e il giudice) considerato nella sua autonomia dal rapporto sostanziale poiché, come spiega nel suo Manuale, «l’esercizio dell’azione ha solo come presupposto ipotetico, non come presupposto accertato, la esistenza e la violazione del diritto che di essa forma oggetto» (Manuale, cit., p. 17, corsivi dell’autore). La finalità del rapporto processuale è «il regolamento di diritti subbiettivi privati», ma essa è conseguita attraverso «l’attività del potere giurisdizionale», che si legittima con il «mantenere la pace pubblica» (p. 19). Si dà in tal modo un fondamento pubblicistico al processo civile, anche se non in termini di incompatibilità con un ruolo delle parti nel suo svolgersi.
Infatti ciò che qui conta è il rapporto processuale, nella sua funzione dichiaratrice del diritto preesistente. Si tratta di uno snodo concettuale che permette a Mortara una valorizzazione della relazione tra diritto e giustizia. Il diritto preesistente come tale, leggiamo ancora nelle pagine del suo Manuale, non sussiste senza la sua dichiarazione attraverso il processo, perché da un lato l’interpretazione della legge non sempre è «limpida e sicura» e dall’altro perché il giudice non funziona come «un reagente chimico». In sostanza dunque la sentenza piuttosto che dichiarare il diritto preesistente «impone di ritenere preesistente il diritto in essa dichiarato» (p. 17, corsivi dell’autore).
Questa giustizia si preoccupa dunque ancora di tutelare i diritti dei soggetti – o ancora di far coincidere il trattamento della ingiustizia con l’attribuzione di diritti – sul presupposto però che «la nozione del diritto subbiettivo non è assoluta, ma essenzialmente relativa» e che il suo contenuto dipende da un diritto obbiettivo sottostante che è «stabilito nella società» (p. 3, nostri i corsivi).
Tale concezione dinamica dei diritti soggettivi è particolarmente rilevante per le conseguenze sul piano sistematico (si assegna un certo ruolo al diritto giurisprudenziale nella produzione del diritto), ermeneutico (si riconosce un carattere di originalità nell’attività di interpretazione della legge) e costituzionale (si ridisegnano in forma bilanciata i rapporti tra i poteri dello Stato).
Il momento giudiziale viene a rivestire un ruolo centrale nella vita dell’ordinamento. Nella concezione di Mortara «mentre la legge rappresenta la statica del diritto obbiettivo, la giurisprudenza ne costituisce la dinamica» (Commentario del codice di procedura civile, 1° vol., s.d. [1898-1909], 2, n. 70, p. 76), per cui vi sono due dimensioni nella fenomenologia giuridica. L’interpretazione è il metodo che permette di tenerle presenti entrambe; si tratta di un «metodo critico» che punta a definire le valenze attuali degli istituti giuridici considerandone funzione, profilo sociologico e storico, nonché «le mutazioni sostanziali anche là dove radicali cangiamenti esterni non vengano a denunziarli» (Commentario, cit., 1° vol., pp. VI-VII).
Come si nota l’amministrazione della giustizia (e quindi l’attività ermeneutica del giudice) non può essere solo un momento di applicazione della legge, o detto in altro modo, seppure lo è, essa comunque dà un apporto imprescindibile alla definizione del contenuto effettivo della legge (Meccarelli 2007; Meccarelli 2005; Lacchè 2004).
La prospettiva pragmatica seguita induce qui a una valorizzazione della prassi come espressione delle nuove esigenze e come misura della riconversione pubblicistica che occorre dare al processo. A ciò si collega anche l’idea di procedere alla riforma legislativa con interventi mirati settore per settore, piuttosto che globalmente con una ricodificazione.
Si tratta di considerare il diritto giurisprudenziale, oltre che il diritto legislativo, per determinare il contenuto dei diritti previsti dalla legge; al contempo si tende a mettere in rapporto la giustizia con nuovi diritti, eleggendola a terreno della loro emersione. In tale quadro è anche possibile che ci si possa spingere a riflettere su temi legati alla funzione sociale della giustizia civile. Si pensi al saggio di Lessona, I doveri sociali del diritto giudiziario civile (1897) e ad altre sue pagine sui probiviri; ma su questa materia si possono ricordare anche alcuni lavori di Redenti e in particolare il Massimario della giurisprudenza dei probiviri (1906).
C’è però una seconda via al ripensamento della giustizia civile in chiave pubblicistica, che potremmo definire di tipo teorico-costruttivista; essa viene percorsa, seguendo il metodo della pandettistica e guardando alla dottrina processualcivilistica tedesca, attraverso la tessitura di un rapporto tra diritto legale e dogmatica (Taruffo 1986; Tarello 1989).
Qui si pubblicizza la dimensione giuridica della giustizia presentandone la funzionalità in astratto e costruendola come sistema autoreferenziale. È la prospettiva individuata da Chiovenda (sul punto cfr. F. Carnelutti, Scuola italiana del processo, «Rivista di diritto processuale», 1947, 1; F. Carnelutti, Metodi e risultati degli studi sul processo in Italia, «Foro italiano», 1939, coll. 73-83) e alla quale si è poi ispirata in vario modo la grande maggioranza della processualcivilistica di quei decenni e dei successivi (P. Calamandrei, Gli Studi del diritto processuale in Italia nell'ultimo trentennio, 1941, in Id., Studi sul processo civile, 1947; Liebman 1974; Taruffo 1980; Grossi 2000).
La natura pubblicistica del processo – nel suo essere ripensato secondo una «concezione oggettiva» come strumento di attuazione della legge – viene implementata a partire dal concetto di azione intesa come «l'autonomo potere giuridico di realizzare per mezzo degli organi giurisdizionali l'attuazione della legge in proprio favore» (G. Chiovenda, Principii di diritto processuale civile, pp. XII e IX). Il problema della giustizia diventa dunque un problema di teoria generale, cioè un problema di individuazione (del sistema) delle categorie giuridiche (astrattamente) idonee a rendere il processo strumento di attuazione della legge.
La distanza rispetto al modello impostato sul principio dispositivo si fa radicale; diventano corollari necessari per il sistema la funzione direttiva del giudice, la sua identità per tutto il processo, la concentrazione processuale, l’oralità. Questa radicalità dell’alternativa spiega anche la predilezione di tale orientamento dottrinale per riprogettazioni complessive dell’ordinamento processuale, che ritroviamo nell’opera di Chiovenda ma anche di Carnelutti (Tarello 1989; Cipriani 2006), il quale, pur con una diversità di impianto, adotta una simile angolazione.
In tale spiccata caratterizzazione pubblicistica della funzione giudiziale resta però uno spazio per i diritti individuali. Anzi per certi aspetti, rispetto all’orientamento precedente, sensibile alla funzione sociale del diritto, qui è da riscontrarsi una maggiore continuità con l’impostazione individualistica dell’ordinamento processuale delle origini. Certo, accanto ai diritti soggettivi sostanziali (quelli reali e personali) Chiovenda individua il genus nuovo dei diritti potestativi – «diritti che si esauriscono in un puro potere giuridico» (Principii, cit., p. 12) – che serve a spiegare l’azione nei termini sopra accennati. Qui però la giustizia civile che attua la legge è ancora una giustizia preoccupata dei diritti dei privati (Liebman 1974; F. Carnelutti, Metodi e risultati degli studi sul processo in Italia, cit.), tanto che l’azione viene configurata da Chiovenda proprio come un diritto soggettivo avente laa stessa natura del diritto soggettivo alla prestazione, seppur distinto da esso.
Anche per Chiovenda tali diritti discendono dal diritto obiettivo, ma qui il diritto obiettivo è espresso dallo Stato piuttosto che dalla società: è «la volontà concreta di legge che garantisce il conseguimento di un bene» (Principii, cit., p. 49); è dunque staticamente connotato, non si riflette sul diritto soggettivo come un fattore di relativizzazione.
Del resto attraverso l’elaborazione dogmatica si tende a rafforzare il processo nella sua funzione nomofilattica. Infatti se è vero che la prospettiva chiovendiana potenzia molto i poteri direttivi del giudice, più di quanto non faccia Mortara, è anche vero che quel giudice resta un attuatore della legge (Tarello 1989; Taruffo 1986).
È proprio Chiovenda a chiarire che la sua teoria «si oppone» a quelle che riconoscono al giudice un compito di «determinazione» della legge; addirittura egli ritiene «pericolose» le teorie della «così detta scuola del diritto libero» (Principii, cit., pp. 69 e 75). Nel descrivere l’attività ermeneutica del giudice egli tende a disconoscerne una valenza creativa, anche dove si accetti l’idea della possibile «adattazione storica» della legge tramite l’interpretazione: il giudice, a ben vedere, «contribuisce alla interpretazione» ma in quanto «giurisperito»; invece come «giudice egli attua la legge secondo la interpretazione che la sua cultura gli suggerisce». In sostanza «l’interpretazione è opera della dottrina, non del giudice», (pp. 73-74, corsivi dell’autore).
Non c’è dunque una circuitazione creativa tra diritto e giustizia (prima della sentenza il diritto è incerto ma «il diritto preesiste alla sentenza» (p. 79); l’unico campo di tensione che Chiovenda riconosce nell’esserci del diritto è quello tra legge e dottrina. La sua ragion d’essere è ben individuata: consiste in un'implementazione dogmatica, che dà alla legge un'idonea struttura sistematica e non in un sindacato dei contenuti o delle connotazioni assiologiche delle norme positive.
Orientamento pragmatico-teorico e teorico-costruttivistico non si distinguono, dunque, solo sul punto della maggiore radicalità rispetto al superamento del principio dell’autonomia privata nel processo; è la questione della funzione del giudice ad apparire qualificante nella prospettiva che qui stiamo indagando: a fare la differenza tra le due prospettive pubblicistiche è il rapporto tra esercizio della giustizia e legge dello Stato.
Ciò rivela un interessante risvolto costituzionale nel nostro tema. Nella prospettiva di Chiovenda si finiva per presupporre e rafforzare il potere di fare le leggi come centro di gravitazione esclusivo degli assetti costituzionali, secondo la tradizione costituzionale continentale; in quella di Mortara si apriva a un'inedita configurazione bilanciata dei poteri che proprio tramite il reciproco gioco dialettico avrebbero assicurato la piena espressione della sovranità dello Stato (Meccarelli 2007). In ultima analisi, dunque, intorno alla questione della giustizia civile si pone non solo il problema di un aggiornamento delle forme di tutela dei diritti, ma anche quello di un consolidamento della forma dello Stato. È un ulteriore profilo al quale in questa sede possiamo solo accennare.
Anche tale ultimo dato conferma però come in effetti il problema del dimensionamento giuridico della giustizia costituisca un prisma attraverso il quale possono essere osservate le molteplici valenze di una concezione ordinante e con ciò i limiti di una esperienza giuridica.
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