La giustizia penale
L’espressione giustizia penale possiede e sintetizza una pluralità di significati. Essa designa in primo luogo l’insieme delle regole (legali, sovralegali, giurisprudenziali) che mirano a disciplinare il fenomeno della penalità (reati, sanzioni, accertamenti penali, esecuzione della pena). Allude, inoltre, alle iniziative e agli strumenti di politica criminale dal potere pubblico per controllare e reprimere la devianza. Include, infine, un riferimento alle dottrine e teorie elaborate per spiegare o giustificare le ragioni del punire.
La triplice distinzione evocata è utile in una trattazione retrospettiva. Nello svolgimento storico, l’evolversi della ‘giustizia penale’ trova evidente riscontro ora nell’una ora nell’altra delle tre componenti. Taluni periodi sono caratterizzati prevalentemente, se non esclusivamente, da novità normative e movimenti di riforma. Altri da prassi giudiziarie o di polizia e da concrete iniziative di politica criminale. Altri ancora da dibattiti e da polemiche fra orientamenti teorici o scuole. E, quand’anche l’evoluzione riguardasse alla stessa maniera e nella stessa misura sia la normativa, sia la politica criminale, sia la dottrina, l’accennata distinzione tornerebbe comunque utile, poiché ognuno dei tre aspetti, pur strettamente intrecciato nella realtà delle cose con ciascuno degli altri due, offre di per sé una sfaccettatura significativa del periodo considerato.
La giustizia penale ha subito, anche nel Novecento, le evoluzioni indotte dai climi politici e dalle temperie culturali transitati nel ‘secolo breve’. Di qui una convenzionale periodizzazione in quattro fasi. La prima, lunga poco più di un ventennio, coincide con il declino dell’Italia liberale (1900-1922); la seconda racchiude il ventennio fascista (1922-1945); la terza, l’era demo-costituzionale e repubblicana fino alla fine della guerra fredda (1945-1989); l’ultima, lo scorcio finale del secolo (1989-2000).
Il secolo si apre quando è in pieno svolgimento il confronto fra cosiddetta scuola classica e scuola positiva. Alle astrazioni generalizzatrici dei ‘classici’, imperniate sul postulato del libero arbitrio, sull’idea di colpevolezza e su una concezione essenzialmente retributiva della pena, i ‘positivisti’ opponevano una visione empirica del problema penale, imperniata sulla sostanziale negazione del libero arbitro e sull’idea di pericolosità che esigeva un approccio preventivo al problema della devianza.
Da poco (1° gennaio 1890) era entrato in vigore il codice penale. La prima opera codicistica dell’Italia unitaria aveva comprensibilmente animato il confronto fra i due principali orientamenti e approcci culturali. La polemica si incentrava, in particolare, sul carattere libero o, viceversa, necessitato delle condotte devianti. Il codice Zanardelli non aveva optato in maniera decisa per alcuno dei due orientamenti. Pur sotto il prevalente influsso della scuola classica, esso accoglieva qualche suggestione della nuova scuola positiva per es. in tema di trattamento del non imputabile che avesse commesso un reato (art. 46, 2° co.) e di recidiva (artt. 80-84). L’esito fu un prodotto eclettico, capace di scontentare un po’ tutti e tale da rinviare la partita fra le due scuole (Spirito 1925, pp. 180-81).
L’occasione fu rappresentata dal progetto di nuovo codice di procedura penale, i cui lavori avevano ripreso vigore nell’estate del 1898 (Miletti 2003, p. 159). In realtà, anche questa iniziativa, destinata a sfociare nel codice di rito penale del febbraio 1913, lasciò irrisolto il confronto fra i due approcci, mettendo a nudo, fra l’altro, l’arretratezza della dottrina processualpenalistica (Miletti 2003, p. 305). A ben vedere, però, era l’intera penalistica italiana ad apparire datata nel primo scorcio di secolo.
I positivisti, con ossessiva attenzione al dato empirico, agli influssi extragiuridici (psicologici, sociali, antropologici) sulla criminogenesi, avevano contribuito a svecchiare il dibattito nell’Italia di fine Ottocento. Un Paese che si avviava a cambiare pelle anche sul piano economico-sociale, grazie soprattutto allo sviluppo del Nord.
Alla svolta del secolo, la popolazione del ‘triangolo industriale’ (Milano, Torino e Genova) era pressoché raddop;piata rispetto alle cifre del 1861. Nuovi disagi e nuove occasioni di devianza affioravano, destando nell’opinione pubblica ansietà e preoccupazioni fino allora sconosciute o trascurate. La scuola positiva (con Enrico Ferri, Raffaele Garofalo e, più tardi, Eugenio Florian e Filippo Grispigni) seppe cogliere il vento di questo mutamento antropologico, ma non fu in grado di elaborare una teoria penale convincente, adeguata alle coeve condizioni politiche e capace di innervare la politica criminale del tempo. Dal canto suo, la scuola classica o, meglio, i suoi epigoni rappresentati da autori quali Luigi Lucchini, Enrico Pessina, Emilio Brusa, Antonio Buccellati, vantava un’indubbia solidità teorica, edificata però su postulati metafisici e antistorici che ne rendevano inattuali le riflessioni e sovente inadeguate le conseguenti proposte pratiche sul terreno della politica criminale.
La duplice insufficienza fu superata dall’indirizzo cosiddetto tecnico-giuridico, il cui atto di nascita si fa solitamente coincidere con la prolusione sassarese (1910) di Arturo Rocco. La ricetta di questa ‘terza scuola’ era semplice. Contro l’antistoricismo della scuola classica, andava affermato il carattere contingente e storico del diritto. Oggetto di studio doveva essere il diritto positivo vigente, non un ideale o sovrannaturale sistema di principi. Contro gli eclettismi della scuola positiva, contro il cedimento della scienza penalistica a scienze ausiliarie quali l’antropologia, la sociologia criminale, la psicologia, andava riaffermato il carattere strettamente giuridico del reato e della pena.
Se si allarga l’orizzonte oltre la scienza penalistica, si noterà che l’intervento di Rocco è parte di un vasto rinnovamento metodologico che aveva già coinvolto altre discipline giuridiche. Nel 1889, con la sua celebre prolusione palermitana (su I criteri tecnici per la ricostruzione del diritto pubblico), Vittorio Emanuele Orlando aveva gettato le basi per un nuovo approccio al diritto pubblico. Nel 1903, Giuseppe Chiovenda, con l’altrettanto celebre prolusione bolognese (su L’azione nel sistema dei diritti), aveva reso analogo servizio alla procedura civile, segnando la nascita del ‘diritto processuale civile’ come oggetto di studio sistematico. Comune a queste importanti posizioni dottrinali, l’intento di annodare la teoria giuridica alla nuova realtà dello Stato, concepito come persona giuridica, come soggetto dispensatore di diritti individuali, secondo la visione propria della cultura giuridica germanica (Carl Friedrich von Gerber, Paul Laband, Georg Jellinek e Otto Meyer). Si trattava di scelta studiata e 'politicamente' motivata. La dottrina tedesca, di origine pandettistica, ricca dell’arsenale concettuale che il diritto privato aveva pazientemente elaborato sulla scorta degli istituti romanistici, fungeva da segnavia per una sistematica anche delle discipline pubblicistiche. Così fu, infatti, per il diritto amministrativo e costituzionale, per il diritto processuale civile (che, con Chiovenda, sarà ascritto all’area pubblicistica) e per il diritto penale, ultimo della serie in questa evoluzione dottrinale. Di ciò Rocco è ben consapevole, tant’è vero che, nelle prime pagine della sua prolusione, egli si rifà espressamente a I criteri di Orlando e menziona il diritto processuale civile fra le ‘scienze’ già approdate a esemplare perfezione tecnica.
Il tecnicismo giuridico di Arturo Rocco si inserisce, dunque, nel percorso avviato già un ventennio prima sul terreno del diritto pubblico (Grossi 2000, p. 67). La svolta metodologica avviene nel segno di un’asserita superiorità del pensiero sistematico di matrice tedesca rispetto all’approccio descrittivo e piattamente esegetico degli autori francesi, ai quali erano soliti ispirarsi i giuristi italiani negli anni immediatamente successivi all’unità nazionale (Grossi 2000, p. 61).
Inizia con Rocco un rapporto di dipendenza, se non addirittura di sudditanza, della dottrina penale italiana rispetto alla tedesca: un rapporto destinato a protrarsi, pur con alterne vicende, per tutto il 20° secolo. Quanto all’indirizzo tecnico-giuridico, esso si manterrà dominante per la prima metà del Novecento. Con un efficace gioco di parole, si può dire che la prolusione sassarese segnò il passaggio dalla ‘penalistica civile di impronta liberale’ alla ‘civilistica penale’, vale a dire a una sistematica del diritto penale fondata sulle categorie concettuali del diritto civile (Sbriccoli 1973, p. 663).
Circoscritto al diritto positivo vigente l’oggetto della scienza penalistica, l’indirizzo tecnico giuridico propiziava l’abbandono delle tensioni ideali e degli approcci socialmente impegnati cari agli autori della scuola classica di ispirazione carrariana. Qualche reazione al formalismo si registrerà nei decenni immediatamente successivi, ma – come si vedrà – si tratterà di moti episodici che denunciano il disagio di qualche isolato autore. Bisognerà attendere la seconda metà del secolo per vedere rinascere una nuova ‘penalistica civile’.
L’avvento del fascismo ebbe influssi appariscenti sul terreno delle riforme penali; meno su quello delle correnti di pensiero che caratterizzarono il ventennio.
Espressione diretta dell’autorità statale, la giustizia penale non poteva restare quella concepita negli anni dello Stato liberale. L’intera opera di codificazione andava revisionata e adattata ai postulati della rivoluzione fascista.
Nell’ottobre del 1930, il ministro della Giustizia Alfredo Rocco era già in grado di presentare al re il testo dei nuovi codici penale e di procedura penale, elaborati nell’arco di un quinquennio. L’opera di codificazione sia penale sia processuale non fu tale da stravolgere la struttura e i principi dei codici previgenti. Fu reintrodotta la pena di morte (soppressa dal codice Zanardelli) e questa non fu certo differenza da poco. Furono tuttavia ribaditi i canoni tradizionali del sistema penale: il principio di legalità e il connesso divieto di analogia nell’interpretazione della legge penale, il principio di retroattività della legge più favorevole, così come il divieto di retroattività o ultrattività di quella più sfavorevole. Furono riproposte le classiche categorie della colpevolezza (dolo, preterintenzione, colpa) come presupposti necessari di responsabilità penale, benché non si escludessero forme di responsabilità oggettiva (art. 42 rubrica e 3° co.) anche nella rinnovata disciplina del concorso di persone nel reato (art. 116). Accogliendo una delle proposte della scuola positiva, furono affiancate alle pene le misure di sicurezza, per l’esecuzione delle quali fu istituita la figura del giudice di sorveglianza.
Venata di maggiore autoritarismo appariva la riforma processuale. Essa confermava la scelta del modello misto di matrice napoleonica, già caratteristica delle previgenti codificazioni del 1865 e del 1913, ma si caratterizzava subito per l’aperto disconoscimento della presunzione d’innocenza, bollata come
stravaganza derivante da quei vieti concetti, germogliati dai principi della Rivoluzione francese, per cui si portano ai più esagerati e incoerenti eccessi le garanzie individuali (Alfredo Rocco, Relazione ministeriale sul progetto preliminare al c.p.p., cit. in V. Manzini, Trattato di diritto processuale penale italiano, 1, 1931, p. 181 nota 1).
Fu varata una disciplina delle nullità processuali che, sopprimendo le nullità assolute, indebolì la posizione della difesa. Fu rafforzata la posizione del pubblico ministero, all’epoca dipendente dal potere governativo, con l’attribuire al suo ufficio un potere di archiviazione delle notizie di reato insindacabile in sede giurisdizionale.
In quello stesso torno di tempo, altri significativi interventi contribuirono a riformare la giustizia penale in senso autoritario. In leggi speciali troveranno spazio scelte marcatamente liberticide (Neppi Modona, Pelissero, in Storia d'Italia. Annali, 1997, pp. 784 e segg.). Del resto, il «dualismo nelle regole e nelle pratiche repressive» costituisce un tratto della politica criminale anche pre- e post-fascista (Sbriccoli 1998, pp. 489 e segg.).
Nel novembre del 1926 era stato istituito il tribunale speciale per la sicurezza dello Stato che, con cinque anni d’anticipo sull’entrata in vigore del nuovo codice penale, aveva introdotto la pena di morte per gli attentati contro la vita o l’incolumità personale del capo del governo o degli appartenenti alla famiglia reale. Composto da militari e, pertanto, succube della politica governativa, il tribunale speciale giudicava in unico grado, sulla base di una procedura a sua volta speciale, che attribuiva al giudice istruttore penetranti poteri inquisitori e mortificava i diritti della difesa (persino il patrocinatore dell’imputato andava scelto fra gli ufficiali dell’esercito). La sua durata, prevista come temporanea (cinque anni), fu poi ripetutamente prorogata fino al 1943.
Nel marzo del 1931 veniva emanata la legge che riformava la composizione e la procedura delle Corti d’assise. Fino a quel momento, la partecipazione popolare all’amministrazione della giustizia avveniva con forme affini all’esperienza di common law: una giuria popolare competente per le questioni di fatto cooperava con la componente togata, competente per le questioni di diritto. Diffidando dell’elemento popolare, il legislatore fascista optò per la formula del collegio misto (scabinato), nella quale si fondono le competenze dell’elemento popolare e di quello togato. La componente popolare era selezionata in base alla fede politica, sì da assicurare che i processi per i fatti più gravi e allarmanti fossero definiti da persone sensibili alle parole d’ordine del regime (Orlandi 2010, pp. 225 e segg.).
Merita qui un cenno anche il testo unico di pubblica sicurezza, varato a sua volta nel 1931, che attribuiva all’autorità prefettizia poteri assai penetranti sul controllo delle persone pericolose, ivi compresi i dissidenti politici, assoggettabili alla misura (amministrativa) del confino di polizia in quanto sospetti di attività volte a «sovvertire violentemente gli ordinamenti politici, economici o sociali costituiti nello Stato o a contrastare o a ostacolare l'azione dei poteri dello Stato» (art. 181, 1° co. nr. 3, r.d. 18 giugno 1931 nr. 773).
Va infine ricordata, in questa breve rassegna, una riforma meritevole invece ancora oggi di apprezzamento: l’istituzione, nel 1934, della giurisdizione minorile. Una concessione (ragionevole) alle proposte della scuola positiva. Fino a quel momento, i minori erano giudicati dai giudici che si occupavano anche di adulti, sia pur in base a regole particolari (sostanziali e processuali), adeguate alla loro personalità. Il tribunale minorile, concepito non come giudice speciale, bensì come sezione specializzata del tribunale ordinario, rappresentò un importante passo in avanti sul piano ordinamentale. La composizione del collegio giudicante venne integrata con l’inclusione di «un cittadino benemerito dell’assistenza sociale, scelto fra i cultori di biologia, di psichiatria, di antropologia criminale, di pedagogia» (art. 2 r.d. legisl. 20 luglio 1934 nr. 1404). Un membro laico a misura di imputato.
Sul piano dottrinale resisteva l’indirizzo tecnico-giuridico che celebrava nei trattati (penale e processuale) di Vincenzo Manzini la sua compiuta realizzazione. Pressoché spariti i ‘classici’ (Luigi Lucchini muore nel 1929), anche gli epigoni della scuola positiva accettano di buon grado la lezione metodologica di Arturo Rocco.
Rari gli autori che reagirono al formalismo insito nella scelta di limitare al diritto positivo vigente l’attenzione del penalista. Fra questi, Vincenzo Lanza, che intorno alla metà degli anni Venti fondò la scuola umanista di diritto penale. Dalle colonne dell’omonima rivista egli si sforzò di superare le secche formalistiche del tecnicismo giuridico, rivendicando le radici irrazionalistiche (sentimentali) del diritto punitivo. L’etica non va separata dal diritto, perché «la nostra coscienza apprende il delitto, prima che come violazione della legge penale, come violazione dei sentimenti morali» (V. Lanza, La nuova scuola di diritto penale. L’umanesimo, «La scuola penale umanista. Bollettino trimestrale di dottrina e giurisprudenza penale», 1925, p. 6). Questo tentativo di assegnare un contenuto sostanziale all’illecito penale non sortì esiti di rilievo. Con la scomparsa di Lanza (1929) la scuola umanista si estinse e anche la rivista che ne divulgava i principi cessò le sue pubblicazioni.
Una sortita dal tecnicismo fu tentata anche da Francesco Antolisei. Nel saggio Per un indirizzo realistico nella scienza del diritto penale (1937) egli si scagliava contro l’indirizzo dominante o, meglio, contro quella che gli sembrò una degenerazione dell’indirizzo medesimo. Insofferente del «divorzio dalla pratica» cui il penalista era costretto, Antolisei denunciava i pericoli dell’astrazione conseguente alla Zivilisierung del diritto penale, importata dalla dottrina tedesca di fine Ottocento; attaccava la dogmatica formalistica e si batteva per «un vero e sano realismo». Attratto, a sua volta, dagli sfondi irrazionali del diritto penale, auspicava l’inclusione nell’orizzonte del penalista di scopi e finalità sociali che lo studioso doveva saper enucleare dalle norme. Il dinamismo della realtà non poteva essere ingabbiato in formule astratte. Per questo occorreva superare il principio di legalità, sopprimere il divieto di analogia e affidare al giudice il compito di farsi interprete dello spirito del tempo, pur senza giungere agli eccessi cui ci si era spinti in Germania con l’adozione del Führerprinzip quale clausola di orientamento generale per la giurisprudenza (riforma del § 2 Strafgesetzbuch). Fra gli autori da prendere a modello egli cita esponenti fedelissimi al regime nazista come Georg Dahm e Friedrich Schaffstein, appartenenti alla (tristemente) nota Kieler Schule; cita persino un (oggi) oscuro penalista sovietico di nome Anossov e menziona altresì l’italiano Giuseppe Maggiore, a sua volta vicino alla cultura giuridica nazista. L’appello di Antolisei resterà (fortunatamente) inascoltato. Esso è però il sintomo di un disagio profondo che coinvolse una delle voci più autorevoli della penalistica italiana dell’epoca: una voce che, con le doverose revisioni imposte dal mutato clima politico, sarà destinata a giocare un ruolo di primo piano nel periodo postfascista e, in particolare, nella manualistica penale del secondo Novecento.
Nel frattempo, un decreto ministeriale del settembre 1938 rendeva l’insegnamento della procedura penale autonomo dal diritto penale. Fino a quel momento, la materia processuale era parte (marginalissima e assai trascurata) del corso di diritto penale. Erano rimaste a lungo senza esito le numerose voci che invocavano lo scorporo della procedura penale dal diritto penale, analogamente a quanto accaduto per le materie civilistiche (Miletti 2003, pp. 18 e segg.). Una faccenda burocratica e, quindi, in apparenza di scarso interesse per le sorti della cultura penalistica italiana. In realtà, l’elevazione della materia processuale al rango di disciplina autonoma e fondamentale nel corso di studi delle facoltà di Giurisprudenza avrebbe incoraggiato un settore dell’esperienza giuridica poco e mal frequentato dalla dottrina. Gli effetti della separazione non si percepirono immediatamente, anche perché l’insegnamento della procedura penale, pur divenuto autonomo, continuò per qualche decennio a essere impartito per affidamento dai docenti di diritto penale e le eccezioni furono davvero rare (Orlandi 2011b, p. 209 nota 4). Bisognerà attendere gli anni Sessanta per vedere i frutti dell’autonomia accademica acquisita dal diritto processuale penale.
La caduta del fascismo (1943), l’avvento della Repubblica (1946), l’entrata in vigore della Costituzione (1948) ebbero l’effetto di un terremoto sul piano politico, ma non comportarono un immediato sconvolgimento negli assetti della giustizia penale e delle sue regole, né nelle idee di cui si nutriva la cultura penalistica.
Il ripudio del fascismo e le condizioni di vita drammatiche nell’Italia del secondo dopoguerra fecero inizialmente prevalere, in sede politica, l’impulso a tornare indietro alle codificazioni dell’Italia liberale: al codice del 1913 per il processo penale; al codice del 1889 per il diritto penale (Palazzo, in Storia d'Italia, 1997, p. 856). Ma la dottrina mostrò subito il suo scetticismo rispetto a questa spinta emotiva.
Giuristi molto influenti (Piero Calamandrei, Giovanni Leone, Remo Pannain, Francesco Santoro Passarelli, Tullio Delogu) si dichiararono favorevoli al mantenimento della legislazione penale fascista, pur depurata delle incrostazioni autoritarie e illiberali che la connotavano (Sbriccoli 2009, p. 696). Si faceva leva sull’indirizzo largamente seguito dalla penalistica anche durante il Ventennio (il tecnicismo giuridico), per sottolineare il carattere neutrale, scientifico, politicamente incolore delle scelte legislative effettuate e delle relative applicazioni giurisprudenziali. Il discorso fece breccia. Furono così istituite commissioni ministeriali, con il limitato compito di riformare i codici del 1930, anziché di riscriverli muovendo dai postulati dello Stato democratico. Nemmeno l’entrata in vigore della Costituzione repubblicana (1948), contenente numerose disposizioni in tema di diritto e processo penale ebbe l’effetto di risvegliare sentimenti democratici sul terreno delle iniziative legislative riguardanti la giustizia penale. Non subito, per lo meno.
Vigile e attenta ai fermenti della nuova situazione spirituale si dimostrò una parte della dottrina penalistica. L’indirizzo tecnico-giuridico, che forse aveva contribuito a scongiurare eccessi di barbarie, appariva una gabbia troppo stretta, incapace di contenere le spinte creative di una società che si affacciava alla democrazia.
Interpreti precoci di questa nuova sensibilità furono, in particolare, Giuseppe Bettiol e Pietro Nuvolone. Il primo, in un saggio del 1945 venato di spirito religioso (Il problema penale), si batteva contro le astrazioni generalizzatrici del tecnicismo, a favore di una dogmatica legata a valori etici, che sapesse problematizzare gli ‘scopi’ della norma penale, senza accettazioni acritiche. Il secondo, solido pensatore laico, sviluppava a sua volta una convincente critica al formalismo in una serie di brevi ma succosi saggi apparsi a cavallo fra anni Quaranta e Cinquanta (P. Nuvolone, I fini e i mezzi nella scienza del diritto penale, «Rivista italiana di diritto penale», 1948, 1-3; Id., Introduzione a un indirizzo critico nella scienza del diritto penale, «Rivista italiana di diritto penale», 1949, 4; Id., Natura e storia nella scienza del diritto penale, «Rivista italiana di diritto penale», 1951, 2). Si rivendicava quell’integrazione fra dogmatica penale e scienze ausiliarie che l’indirizzo tecnico aveva mortificato. Logica, storia, psicologia andavano riscoperte e valorizzate. Il penalista doveva essere in grado di comprendere le leggi (extragiuridiche) che governano le azioni umane, al fine di ricavarne lo scopo da trasfondere nel contenuto delle fattispecie penali. Lungi dal limitarsi all’esegesi o alla ricostruzione del sistema, ci si doveva impegnare nella critica dei beni meritevoli di tutela. Al formalismo dei tecnogiuristi si opponeva uno sguardo critico, capace di guardare alla sostanza dell’interesse in gioco. Oltre allo studio del diritto vigente, il penalista era tenuto a coltivare soluzioni alternative, propugnando la creazione di norme future. Sono i prodromi di una nuova ‘penalistica civile’ destinata a svilupparsi un paio di decenni dopo.
Ma, come detto, negli anni Cinquanta la parola d’ordine continua a essere quella di adeguare l’esistente alla costituzione repubblicana.
La Corte costituzionale entrerà in funzione nell’aprile del 1956. Ed è questa la ragione che induce il legislatore a varare finalmente, nel 1955, un’ampia e importante riforma del codice di procedura penale. Riforma di segno garantista, volta in particolare a estendere le garanzie difensive anche alla fase istruttoria, come ormai esigeva l’art. 24, 2° co. della Costituzione. Sarà però dalla giurisprudenza costituzionale degli anni subito successivi che verranno le spinte decisive per un cambiamento su tutti i fronti: legislativo, giudiziario, dottrinale.
Cominciamo da quest’ultimo.
Negli anni Sessanta e Settanta, maturano atteggiamenti inclini a valorizzare il ricco contenuto della nostra Carta fondamentale, secondo le indicazioni della Corte costituzionale. Merita di essere ricordata, al riguardo, l’opera di Franco Bricola nella quale si compie un’innovazione metodologica destinata a influire per decenni nella dottrina italiana.
Allievo di Nuvolone, Bricola si muove nella scia del cosiddetto ‘indirizzo critico’, mettendo però i principi costituzionali al centro della propria riflessione. Con la monografia del 1965 (La discrezionalità nel diritto penale), egli affronta il tema dell’arbitrio del potere pubblico nelle scelte di politiche criminali. Questo arbitrio va regolato. Esso deve trovare un limite e, al contempo, una fonte ispiratrice nella Costituzione. In particolare, in una sapiente lettura e combinazione dei principi che la stessa enuncia con riguardo alla potestà punitiva: la riserva di legge, i principi di tassatività, determinatezza e irretroattività della norma penale, la personalità della responsabilità penale, la finalità tendenzialmente rieducativa della pena, sono principi che implicano una selezione dei valori da tutelare in sede penale. Ed essendo la pena una sanzione che sacrifica un bene costituzionalmente protetto (la libertà personale), la selezione va necessariamente fatta fra valori di rilievo costituzionale. Per decenni il formalismo imperante aveva ritenuto vano o impossibile ragionare sul contenuto sostanziale delle fattispecie incriminatrici: illecito era ciò che il legislatore, nella sua sconfinata discrezionalità, indicava come tale. Ogni tentativo di assegnare un significato sostanziale (non formale) al reato sarebbe stato immancabilmente votato all’insuccesso, bollato come nostalgia giusnaturalistica.
La brillante proposta di Bricola consentiva di superare questa critica, perché rintracciava in un testo normativo (e che testo!) le coordinate di fondo per una definizione sostanziale dell’illecito penale. Stava nella Costituzione la tavola di valori meritevole di essere tutelata con la privazione della libertà personale. L’importante voce Teoria generale del reato (in Novissimo digesto italiano, 1973) perfeziona questa intuizione, fertile per il dibattito dottrinale, ma anche utile per l’evoluzione legislativa, come dimostrerà, per es., il varo della legge nr. 689 del 1981 (Modifiche al sistema penale), nonché ispiratrice della fondamentale sentenza (nr. 364 del 1988) con la quale la Corte costituzionale attenuò il valore del brocardo ignorantia legis non excusat, dichiarando parzialmente illegittimo l’art. 5 del codice penale.
Nel frattempo, anche sul terreno processuale iniziava lentamente a imporsi una critica delle norme codicistiche alla luce dei valori costituzionali. L’autonomia didattica acquisita dalla procedura penale nel 1938 aveva cominciato ad affermarsi concretamente negli anni Cinquanta. Fino allora l’insegnamento era dato per incarico a professori di diritto penale.
Le prime opere teoriche provenienti da processualisti ‘puri’ quali Giovanni Conso (I fatti giuridici processuali penali, 1955) e Franco Cordero (Le situazioni soggettive nel processo penale, 1956), risentono ancora di un’impostazione formalistica. La prospettiva costituzionalistica è ancora assente. Lo stesso vale per Leone, indubbiamente lo studioso del processo più influente di quel periodo.
Ma l’approccio costituzionalistico è ormai nell’aria. Alcuni studi di Giuliano Vassalli (La libertà personale nel sistema delle libertà costituzionali, in Scritti giuridici in memoria di Piero Calamandrei, 5° vol., 1958, pp. 383 e segg.; Il diritto alla prova nel processo penale, «Rivista di diritto e procedura penale», 1968, pp. 3 e segg.), di Leopoldo Elia (Libertà personale e misure di prevenzione, 1962) e di Giuliano Amato (Individuo e autorità nella disciplina della libertà personale, 1967) avevano condotto una critica di istituti processuali (carcerazione preventiva, diritto di difesa) alla luce della Costituzione. Ottimi spunti per la nuova generazione di processualisti che si stava affacciando sulla scena accademica sul finire degli anni Sessanta e l’inizio dei Settanta, in un clima ormai affrancato dai formalismi del tecnicismo-giuridico. L’orizzonte costituzionale implicava ormai anche per il processualista un costante riferimento ai valori. Ne sono dimostrazione numerose trattazioni pubblicate in quel periodo, fra le quali si ricordano, a mo’ di esempio, lo studio sulla Convenzione europea dei diritti dell’uomo (1969) di Mario Chiavario, la monografia sul Nemo tenetur se detegere (1974) di Vittorio Grevi , quella sul Principio del libero convincimento (1974) di Massimo Nobili, gli studi sulla Motivazione della sentenza penale (1977) di Ennio Amodio e la monografia sulla Presunzione d’innocenza (1979) di Giulio Illuminati.
Un tratto metodologico accomuna queste opere. Tutte traggono spunto dai principi costituzionali per condurre una critica della legislazione vigente. Siamo ben distanti dall’indirizzo formalistico, o addirittura piattamente esegetico in voga fino a qualche anno prima.
Erano i tempi in cui si discuteva di una radicale riforma del processo penale. Abbandonata l’idea di ritoccare la legislazione processuale del 1930, si vagheggiava una riscrittura integrale del codice di rito. Il progetto varato all’inizio degli anni Sessanta da Francesco Carnelutti era giunto inaspettato, quasi una provocazione (Orlandi 2011a, pp. 51 e segg.). L’iniziativa aveva favorito discussioni che davano ad autori giovani, socialmente impegnati, l’ebbrezza e il gusto di partecipare a una riforma epocale, nel nome della costituzione e dei suoi valori di libertà. La riforma processuale avanzerà fra molte difficoltà negli anni Settanta ed è forse questa la ragione che spinse gli autori sul terreno di una critica dell’esistente.
Varata nel 1974 la legge-delega per un nuovo codice di procedura penale, il governo si rifiuterà di approvare l’articolato che la commissione ministeriale, nel 1978, aveva messo a punto. Ufficialmente a causa delle gravi e inedite manifestazioni di delinquenza (attentati terroristici, sequestri di persona), da fronteggiare – come in effetti accadde – con leggi d’emergenza anziché con riforme processuali di segno garantista. Forse, invece, perché non erano maturate sul piano politico-istituzionale le condizioni per un passo del genere. L’appuntamento con il nuovo codice è solo rinviato di un decennio.
Giunge invece a destinazione, nel 1975 e senza eccessivi clamori, la riforma dell’ordinamento penitenziario. Riforma di straordinario impatto pratico e di grande importanza teorica che tocca il nucleo pulsante dell’intero sistema penale. Un filosofo come Vittorio Mathieu (Perché punire? Il collasso della giustizia penale, 1978), con la sua verve reazionaria, ne coglierà il deflagrante spirito innovatore prima e meglio di tanti giuristi.
Sul piano delle prassi e dei comportamenti giudiziari, gli anni Settanta evocano l’uso alternativo del diritto, incarnato dalla figura dei ‘pretori d’assalto’. La magistratura aveva cambiato pelle rispetto ai decenni precedenti. Aveva accolto nei propri ranghi giovani formatisi nelle lotte studentesche, pronti a cogliere nella Costituzione e nei suoi avanzati principi sociali spunti programmatici da attuare nei processi e con le sentenze, in supplenza di una politica spesso assente e sorda al cambiamento. Si comincia a valutare in termini positivi l’impegno politico del magistrato (anche penale), avviando così un costume che annida in sé rischi degenerativi del sistema politico-istituzionale. Si cede alla tentazione di misurare la bontà del magistrato e delle sue iniziative con il metro (tutto politico) del consenso. E le tensioni sociali di quegli anni, con le loro esplosioni violente, le appendici terroristiche talvolta sospette di connessione con apparati dello Stato forniscono alla magistratura penale occasioni frequenti per accreditarsi come baluardo democratico. Ne deriva un rapporto difficile con il mondo della politica ufficiale, incline a vedere in giudici e pubblici ministeri dei pericolosi concorrenti, se non addirittura dei personaggi ostili.
È in questo clima che, negli anni Ottanta, viene portata a termine la riforma del codice di procedura penale. Sul piano tecnico, si tratta della conclusione di un percorso lungo e accidentato, iniziato con la già accennata ‘bozza Carnelutti’ (1962) e proseguito con fluire carsico per un quarto di secolo. Della proposta carneluttiana il nuovo codice (pubblicato nel 1988 ed entrato in vigore nell’ottobre dell’anno successivo) riproduceva l’impronta programmaticamente accusatoria (Orlandi 2011a, p. 70). Si trattava di una scelta indubbiamente coraggiosa e forse un po' velleitaria, se non addirittura incosciente, a giudicare dal modo in cui la novità sarà subito accolta nel mondo giudiziario. Resta da spiegare perché, proprio in quel frangente storico, si riuscì a condurre in porto una riforma politicamente impegnativa come quella del processo penale. La difficile domanda trova una verosimile risposta nel momentaneo calo di legittimazione cui era stata esposta la magistratura negli anni immediatamente precedenti la riforma processuale. La vicenda di Enzo Tortora (1983-87), ingiustamente condannato sulla scorta di dichiarazioni risultate poi false, aveva scosso profondamente l’opinione pubblica. Ne era scaturita una campagna politica, sfociata nell’organizzazione di un referendum per cancellare le norme sulla responsabilità civile dei magistrati. Percepite come l’espressione di ingiustificato privilegio, esse furono abrogate da un amplissimo responso popolare. Il nuovo codice di procedura penale ha un segno analogo. Con la sua approvazione, la politica tenta di frenare il temibile potere dei giudici istruttori e dei pubblici ministeri. E lo fa – per l’appunto – profittando del picco di impopolarità nel quale, in quegli anni, la magistratura era sprofondata.
Gli anni Novanta aprono scenari in parte inediti per la giustizia penale italiana. A condizionarne le vicende, evolutive o involutive, sono gli accadimenti politici più che le dottrine e le teorie.
Sul fronte interno, la politica vive un drammatico sbandamento all’inizio del decennio, anche a causa di un cattivo o mal risolto rapporto con la magistratura, le cui conseguenze dureranno anni.
L’intenzione di limitare i poteri inquisitori dell’autorità giudiziaria con il varo del nuovo codice di procedura penale si rivelerà ingenua. La magistratura italiana recupera in fretta la popolarità perduta. Sue significative componenti si adopereranno per far dichiarare illegittime talune disposizioni del codice che rendevano difficoltosa l’opera di accertamento, specie nel contrasto al crimine organizzato. La Corte costituzionale risponde, nella prima metà del 1992, con una serie di sentenze che hanno l’effetto di una controriforma dal sapore inquisitorio: il pubblico ministero diventa il dominus dell’intero processo, non della sola fase preliminare. Le inchieste all’epoca di tangentopoli (1992-94) registreranno un forte squilibrio fra le parti del processo. Ne deriva un’accesa conflittualità fra magistratura (organizzata nell’Associazione nazionale magistrati) e avvocatura penale (a sua volta organizzata nell’Unione delle camere penali). Una conflittualità esiziale per le sorti della giustizia penale, che troverà, se non una soluzione duratura, almeno un’attenuazione di toni con la riforma dell’art. 111 cost. (1999), detta del giusto processo’ (Orlandi 2011a, p. 76). Finalizzata a recepire i principi del due process (art. 6, 3° co. CEDU, Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo), tale riforma intende altresì affermare il principio secondo il quale
la colpevolezza dell’imputato non può essere provata sulla base di dichiarazioni di chi, per libera scelta, si è sempre volontariamente sottratto all’interrogatorio da parte dell’imputato o del suo difensore (art. 111, 4° co., seconda parte).
L’affermazione va letta alla luce delle prassi affermatesi negli anni precedenti. Lascia intravedere, in filigrana, le condanne emesse sulla scorta di dichiarazioni raccolte unilateralmente dal pubblico ministero e non verificate davanti al giudice dibattimentale.
Sul fronte esterno, la fine della guerra fredda proietta l’Italia in uno spazio internazionale che attende e cerca una propria ridefinzione. Nello spazio europeo, in particolare, si intensificano iniziative unitarie della Comunità, con inevitabili ripercussioni sulla legislazione interna, non esclusa quella penale. Il Trattato di Maastricht (1992), nel perseguire un’unificazione politica e monetaria dell’Europa, colloca la giustizia fra i settori di interesse comune (terzo pilastro) e prepara le condizioni per future facilitazioni nella cooperazione giudiziaria (creazione di un ufficio europeo di polizia; rafforzamento della lotta contro terrorismo, traffico di droga, criminalità organizzata). Nella stessa direzione si muovono gli accordi di Schengen, che liberalizzano la circolazione delle persone fra i Paesi dell’Unione, la corrispondente Convenzione (resa esecutiva in Italia con una legge del 1993 ed entrata in vigore il 26 ottobre 1997), il Trattato di Amsterdam (1997) e, soprattutto, il Trattato di Tampere (1999) con il quale si istituisce un’unità di cooperazione giudiziaria permanente denominata Eurojust. Priva di autentica sovranità politica e, pertanto, incapace di esprimere una propria potestà punitiva, la Comunità europea è molto attiva – con gli strumenti normativi che le competono – nel sollecitare iniziative volte a contrastare le forme più gravi di criminalità o a offrire adeguata tutela (anche processuale) alle vittime di reati. A partire da questo periodo, la ‘burocrazia europea’ inizia a ispirare le politiche criminali dei parlamenti nazionali. Nel che si coglie un sintomo di quella parziale cessione di sovranità implicita nell’atto di partecipare all’Unione e nella ratifica dei suoi trattati.
È una cessione di sovranità con rimarchevoli riflessi sulla giustizia penale anche quella derivante dall’adesione alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU). Dal 1959 il nostro Paese è soggetto alla giurisdizione della Corte europea di Strasburgo e risponde in sede risarcitoria di eventuali soprusi subiti dal cittadino vittima di trattamenti ingiusti da parte dell’autorità pubblica. Tutto questo non è certo una novità di fine secolo. Nuova, però, e più agevole è la modalità d’accesso che il cittadino-vittima dell’asserita lesione deve seguire a partire dal 1998: grazie all’11° Protocollo addizionale alla CEDU, il ricorso va presentato direttamente alla Corte di Strasburgo e non più alla Commissione EDU. Un dettaglio procedurale importante, perché mette il ricorrente (persona fisica o persona giuridica) in rapporto diretto con la Corte e in frontale contrapposizione con l’autorità statale convenuta in giudizio. Anche per questo, dopo il 1998, il numero dei ricorsi è cresciuto in misura sensibile e con esso è aumentato il peso delle condanne subite dagli Stati ritenuti responsabili di violazioni.
Quanto agli sviluppi delle dottrine penalistiche, gli anni Novanta sono anni di crisi da ripensamento. Cadute, con il muro di Berlino, le grandi utopie ideali a cui si potevano annodare visioni e scelte di politica criminale, il penalista ripiega sulla dogmatica e sull’esegesi. Il suo compito è capire il mondo, più che cambiarlo.
I cultori della procedura penale impegnano le proprie energie nello studio dei nuovi istituti introdotti nel 1989 e nella necessaria rivisitazione di quelli vecchi. L’avvenuta riforma fa venire meno la tensione verso il nuovo. All’euforia del futuribile si sostituisce la prosaicità del presente. I cultori del diritto sostanziale, pur continuando a coltivare intenzioni di riforma del codice penale, debbono, a loro volta, fronteggiare una realtà normativa in continuo, frenetico cambiamento. Per tutti, il mutato contesto europeo e internazionale nel quale l’Italia si trova collocata, pone questioni nuove che attendono di essere studiate. Per es., la cooperazione rafforzata fra autorità giudiziarie degli Stati membri UE comporta la conoscenza di altre realtà normative e, in prospettiva, la ricerca di regole comuni sul piano sia processuale, sia sostanziale: donde l’importanza (non solo speculativa) del metodo comparativo. Inoltre, l’intreccio di fonti normative (legge statale e relativa giurisprudenza costituzionale, normativa comunitaria, giurisprudenza della Corte di giustizia europea, giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo) esige abilità combinatorie non dissimili da quelle dimostrate dai commentatori dello ius commune: donde la necessità non tanto di ordinare gerarchicamente le suddette fonti, quanto piuttosto di integrarle in una visione complessiva, rispettosa dei diritti inviolabili della persona e, al contempo, capace di reggere l’urto di insorgenti realtà criminose (per es., il crimine transnazionale) o nuove situazioni d’ordine pubblico (per es., l'immigrazione clandestina) attratte nell’orbita di una penalità orientata a prevenire più che a reprimere. Sicurezza è la parola d’ordine, il fulcro di politiche criminali ‘anti-ideologiche’ e ‘vicine al cittadino’. Con essa la dottrina penale si trovò a dover fare i conti alla fine del secolo. E li dovrà fare anche all’inizio del successivo.
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