La giustizia penale
Nell’Italia postunitaria la giustizia penale è ambito di elezione per sperimentare le conquiste statutarie, sostanziare la libertà politica, «educare il popolo al sentimento del vero [e] del giusto» stimolandolo al «civico concorso» (L. Lucchini, Somme finalità del giure penale, in Per le onoranze a Francesco Carrara, 1899, pp. 410 e 415). Il tema appassiona intellettuali e salotti borghesi, dilaga sulla stampa, irrompe nell’agone parlamentare. Eppure, stenta a tradursi in una scienza processual-penale degna del 'genio italico'.
Le radici dell’insoddisfazione sono ramificate: una codificazione, quella del 1865, sortita da un affrettato rimaneggiamento del codice sabaudo del 1859; una dottrina asfittica rispetto al penale sostanziale; lo scarto tra una forma di governo finalmente liberal-garantista e un processo ancora autoritario. Di questa articolata retorica dello scontento le pagine seguenti si propongono di decrittare le tracce piú significative, privilegiando la prospettiva processuale con riferimento a un arco cronologico (1859-1913) racchiuso tra due codici.
Il disappunto si innestò inizialmente nella polemica sull’unificazione ‘a vapore’. Gli «uomini della scuola di Procuste», ironizzava Francesco Carrara, leader della penalistica del giovane Regno, «osteggia[va]no ogni miglioramento delle leggi sarde» e sminuivano al rango di «idee regionali» quelle poche istituzioni giudiziarie che negli Stati preunitari avevano svolto una preziosa funzione anti-dispotica (Il diritto penale e la procedura penale, in Id., Opuscoli di diritto criminale, 5° vol., Progresso e regresso del giure penale, t. 2, 1874, pp. XII-XIV). In effetti, tra i ‘modelli’ processual-penali europei circolanti nella prima metà dell’Ottocento la normativa piemontese non occupava un posto di rilievo. Il Codice di procedura criminale del 1847 era stato reso subito obsoleto dallo Statuto Albertino. In ottemperanza a quest’ultimo, l’editto 26 marzo 1848, nr. 695 aveva affidato a «giudici del fatto» la cognizione dei più gravi reati commessi a mezzo stampa. Il 20 novembre del 1859 il governo sabaudo, dilatando la delega legislativa incassata in vista della Seconda guerra d’indipendenza, aveva promulgato il Codice di procedura penale per gli Stati di S.M. il Re di Sardegna (in vigore dal 1° maggio 1860), il cd. codice Rattazzi, con il quale si prefiggeva di adeguare il rito ai dettami costituzionali e di renderlo fruibile ai territori annessi. Di spiccato timbro inquisitorio, compensato però dalla ‘novità’ della giuria, esso fu esteso alla Lombardia il 1° luglio 1862; nelle province meridionali venne applicato, con alcune correzioni, dal 1° giugno 1862.
Arenatisi i progetti di riforma predisposti dal guardasigilli Giuseppe Pisanelli tra il 1863 e il 1864, la legge 2 apr. 1865, nr. 2215 sull’unificazione legislativa delegava il governo a estendere, con le opportune modifiche, alle province toscane il c.p.p. del 1859. Nelle settimane successive una commissione presieduta da Domenico De Ferrari e composta, tra gli altri, da Filippo Ambrosoli ed Enrico Pessina elaborò con estrema riservatezza il Codice di procedura penale del Regno d’Italia, promulgato con r.d. 26 nov. 1865, nr. 2598 e in vigore dal 1° gennaio 1866 in tutte le province del Regno.
Nella relazione di accompagnamento il guardasigilli Paolo Cortese collegava l’esigenza di uniformare il rito penale nell’intero Regno, incluso l’ex Granducato, al trasferimento della capitale a Firenze. Suonava consolatoria l’assicurazione di avere attinto alle «buone instituzioni preesistenti nelle singole province» e di avere contemperato «soverchia larghezza» e «inquisizione pericolosa alla civile libertà». In realtà l’articolato del 1865 perfezionava la disciplina della libertà personale e del giudizio d’accusa, ma segnava persino un regresso in materia di nullità, di impugnazioni e di leggibilità in udienza delle deposizioni scritte: difetto, quest’ultimo, accentuato dall’applicazione giurisprudenziale e che rivela la dipendenza psicologica dei giudici togati dal fascicolo cartaceo (Cordero 2006, p. 81). Concludendo la relazione, Cortese preveniva le critiche «della scienza» puntualizzando
che il mandato del governo non si spingeva fino alla completa redazione di legge nuova, sicché gli intenti pratici dovevano essere considerati come i più urgenti (Relazione sul codice di procedura penale, in Codice di procedura penale del Regno d’Italia colla relazione del ministro guardasigilli fatta a S.M. in udienza del 26 nov. 1865 [...], 1866, pp. III-V, IX, XXXII).
Dinanzi a queste giustificazioni i primi commentari si mostrarono comprensivi. Carrara, viceversa, nella celebre prolusione pisana del 12 novembre 1873 proclamò il «bisogno urgentissimo» per il «decoro d’Italia» di gettare «alle fiamme il nostro codice di procedura penale del 1865, indegno da capo a fondo dei tempi nostri e di un popolo che dicesi libero»: e stigmatizzò che, dinanzi al «giogo di ferro», «tutti tacciono ad eccezione di pochi» (Il diritto penale e la procedura penale, in Id., Programma del corso di diritto criminale. Del giudizio criminale. Con una selezione dagli Opuscoli di diritto criminale, cit., p. 438).
Per la verità, tacquero in pochi. Esponenti di scuole diverse ravvisarono nel codice di rito il «peccato originale» della filiazione dalla Francia, «l’impronta dell’ansia frettolosa», il mancato aggiornamento scientifico e, soprattutto, il contrasto con le «franchigie e libertà» statutarie ormai metabolizzate (A. Buccellati, Il nihilismo e la ragione del diritto penale, in Memorie del R. Istituto Lombardo di scienze e lettere, 1882, p. 299). In Parlamento risuonò ripetutamente il malcontento per i continui «rattoppi» al c.p.p. (il primo addirittura ventotto giorni dopo l’entrata in vigore), presagio di una precarietà normativa destinata a cronicizzarsi.
I principali ritocchi si concentrarono a ridosso dell’avvicendamento dalla Destra alla Sinistra storica, allorché si allentarono gli ostruzionismi delle forze reazionarie (F. Benevolo, Le riforme al codice di procedura penale. Il Pubblico Ministero e il Giudice istruttore, «Rivista penale», 1890, 31, 5, pp. 405-07). La legge sulla corte d’assise (1874) e la riforma Vigliani della detenzione preventiva e della libertà provvisoria (1876) modificarono in senso progressista istituti di pregnante portata simbolica. Parimenti significativo fu il coordinamento del c.p.p. al codice Zanardelli, effettuato con decreto 1° dic. 1889, nr. 6509: esso comportò modesti aggiustamenti (in particolare l’abolizione della correzionalizzazione), ma dimostrò come il sistema parlamentare fosse compatibile con grandi imprese legislative. Per il resto, i disegni di legge e gli organismi di studio susseguitisi senza successo dallo schema De Falco (1866) alla commissione Finocchiaro-Aprile (1898) si avvitarono intorno a nodi controversi: la ridefinizione delle competenze, lo snellimento delle procedure mediante la citazione diretta o direttissima e la semplificazione del giudizio d’accusa, la riforma della giuria, dell’appello, della revisione.
Come tutti i codici di derivazione napoleonica, il c.p.p. italiano del 1865 presentava un’architettura «a duplice arcata»: all’istruzione di stampo inquisitorio seguiva un dibattimento accusatorio. Il difetto più vistoso del sistema ‘misto’ consisteva nell’ipoteca esercitata dal primo segmento sul secondo. In astratto, perciò, un inquisitorio ‘secco’ poteva rivelarsi «piú serio» (F. Carrara, Introduzione a C.A. Weiske, Manuale di procedura penale con speciali osservazioni sul diritto sassone, 1874, pp. XX-XXI). Sulla scia delle perplessità carrariane, i penalisti moderati non si lasciarono incantare dalla facile equazione inquisitorio-oscurantismo e accusatorio-liberalismo. Essi comprendevano che l’evoluzione del processo trascinava fatalmente con sé scorie autoritarie, «sprazzi d’una fioca luce che la civiltà morente del passato lasciava sull’orizzonte del suo tramonto» (G. Borsani, L. Casorati, Codice di procedura penale italiano commentato. Libro primo, 1873, p. X). Per l’accusatorio puro si schierarono invece Luigi Lucchini e i fautori del giudizio d’accusa facoltativo, adottato dal Regolamento austriaco del 1873. Simili opzioni rimasero però minoritarie, schiacciate tra la prudenza dei carrariani, il gradualismo pessiniano e il positivismo reazionario.
La critica liberale non risparmiò nessuna fase del rito penale. Tuonò contro l’«osceno connubio» tra investigazioni di polizia e attività giurisdizionale istruttoria (F. Carrara, Il diritto penale e la procedura penale, in Id., Programma del corso di diritto criminale. Del giudizio criminale. Con una selezione dagli Opuscoli di diritto criminale, 2004, p. 436). Lanciò strali contro la «zavorra inquisitoria» e il formalismo ottuso (L. Lucchini, I semplicisti (antropologi, psicologi e sociologi) del diritto penale, 1886, p. 254). Si batté per invertire il rapporto di regola/eccezione tra istruzione formale e sommaria, soluzione poi recepita dal codice del 1913. Cocenti delusioni procurava il giudizio, che la penalistica classica aveva concepito quale momento di controllo sociale sulla funzione giudiziaria e che invece soffriva le crescenti distorsioni della pubblicità, amplificate dal morboso interesse della stampa per i processi-spettacolo. Il dibattimento fu svilito a grottesco teatrino:
Il p.m. è quasi sistematicamente per l’accusa; i difensori stendono imboscate, ed i piú annoiano con orazioni stereotipate; sfilano i testimoni, rosarii di inesatte notizie e di deliberate ed inconsce bugie; disputano periti stiracchiandosi la scienza (A. Zerboglio, Realtà ed illusioni della giustizia penale. Prolusione letta nella R. Università di Roma il 23 novembre 1905, «Rivista di diritto penale e sociologia criminale», 1905, 6, p. 12).
Insomma, i princípi piú commendevoli si atrofizzavano nell’impatto con le «tendenze retrive» (F. Carrara, Foglio di lavoro per la commissione sulla riforma carceraria [10 febbraio 1872], in Id., Opuscoli di diritto criminale, 4° vol., cit., pp. 340-41). Nell’interminabile transizione al nuovo regime la giustizia tradì la sua missione civile perché pretese di conciliare gli opposti: «il costituto obiettivo nel gabinetto dell’inquisitore, e l’oralità tribunizia dei dibattimenti»; l’estromissione della difesa dall’istruzione e il contraddittorio in giudizio; il rifiuto dell’azione popolare e l’inappellabilità del verdetto dei giurati (L. Lucchini, Somme finalità del giure penale, in Per le onoranze a Francesco Carrara, cit., p. 416).
Lo scollamento tra ideale e reale inficiava anche la valutazione dell’ordinamento giudiziario. In linea di principio, i giuristi liberali confidavano nella magistratura quale unica «barriera contro le esorbitanze del potere esecutivo» (E. Brusa, Note alla lezione XXXVIII di L. Casanova, Del diritto costituzionale, 2° vol., 1875, p. 423) o «ultima àncora legale di salvezza» delle libertà, come ribadiva con foga Lucchini (Somme finalità del giure penale, cit., p. 418) all’indomani delle cannonate di Fiorenzo Bava Beccaris. In realtà l’autonomia statutaria del potere giudiziario (frazionato peraltro in cinque cassazioni regionali sino all’unificazione della Cassazione penale realizzata con l. 6 dic. 1888, nr. 5825) non era così scontata. Della legge organica 6 dic. 1865, nr. 2626 si scrisse che aveva infeudato i giudici all’esecutivo (F. Carrara, Il diritto penale e la procedura penale, in Id., Programma del corso di diritto criminale. Del giudizio criminale. Con una selezione dagli Opuscoli di diritto criminale, cit., p. 435). Longa manus del controllo governativo era il pubblico ministero, che l’art. 129 qualificava «rappresentante del potere esecutivo presso l’autorità giudiziaria» ponendolo «sotto la direzione del Ministro della Giustizia». La norma, tacciata d’incostituzionalità, fu incolpata di aver reso il p.m. «figlio della politica» (F. Carrara, I discorsi di apertura [1873], in Id., Opuscoli, 4° vol., t. 1, cit., pp. 44-45), «persona ibrida quant’è ibrido il sistema misto, un poco parte e un po’ magistrato, un po’ soggetto all’azione del governo e un po’ indipendente» (L. Lucchini, Elementi di procedura penale, 1895, p. 215).
Sondaggi storiografici comprovano le pressioni ministeriali sulla magistratura inquirente. Un’abbondante pubblicistica discettò delle possibili contromisure. Ma ogni tentativo di correggere l’ambigua fisionomia del pubblico ministero naufragava dinanzi alle convergenti pressioni del ceto politico e dei sostenitori dell’accusatorio ‘puro’ perché gli si conservasse uno status funzionale distinto, che lo rendeva meglio controllabile. Né i suoi poteri furono scalfiti dalla scelta del codice Finocchiaro-Aprile – già caldeggiata da Vincenzo Manzini (Manuale di procedura penale italiana, 1912, pp. 14-15) – di sottrargli la qualifica di parte sul presupposto che lo Stato non persegue un fine a priori contrapposto a quello dell’imputato (Relazione al Re, in Commento al codice di procedura penale, 1915, 1/3, p. 562).
Si discuteva se, nell’esercizio dell’azione penale (che gli spettava ex artt. 2, 2° co. e 42 n. 1 c.p.p. 1865), il pubblico ministero dovesse attenersi al criterio di legalità o di opportunità. Il dilemma si scioglieva in via di fatto perché, quando si fosse persuaso di non dover procedere, egli era solito trasmettere il fascicolo all’archivio: prassi che, ad avviso degli esponenti della scuola positiva, pregiudicava la parte lesa. Il c.p.p. 1913, con una soluzione equilibrata, da un lato ribadì che l’azione andava promossa «secondo le norme stabilite dalla legge» (art. 179, 1° co.), dall’altro, quasi a porre il p.m. al riparo da ingerenze, precisò che questi, «se reputi che per il fatto non si debba promuovere azione penale, richiede il giudice istruttore di pronunciare decreto» (art. 179, 2° co.). La novità del controllo giurisdizionale sull’archiviazione venne contestata o ridimensionata da magistrati poi divenuti ‘organici’ alla penalistica fascista, come Silvio Longhi ed Edoardo Massari.
L’obbligatorietà non implicava necessariamente monopolio dell’azione penale. Non mancarono proposte (Lucchini) di azione popolare o sussidiaria, che appagavano due tipiche istanze liberali: il piú largo coinvolgimento dei cittadini nell’amministrazione giudiziaria e la facoltà per il privato di tutelare le proprie ragioni anche a prescindere dalla mediazione statuale. La scuola positiva conveniva sull’opportunità di accordare una qualche iniziativa processuale alle vittime di reato ma non transigeva sul carattere ‘pubblico’ dell’azione.
Era però la giuria l’organismo simbolo dell’intersezione costituzionale tra popolo e potere giudiziario. Retaggio di mitologie rivoluzionarie e di aspettative risorgimentali (G. Pisanelli, Dell’istituzione de’ giurati, 1856, p. 139), essa si affacciava nell’Italia unita per il tramite del codice Rattazzi, che ne aveva esteso la competenza dai reati di stampa ai crimini. Piú volte modificata quanto ai parametri di selezione e al rapporto con la componente togata della Corte d’assise, la giuria sopravvisse alle contestazioni mosse durante l’emergenza del brigantaggio, ma rimase oggetto di dispute appassionate. Le si rinfacciava, oltre alle molteplici farraginosità tecniche (in primo luogo, l’eccessiva discrezionalità del presidente), l’inclinazione all’emotività e al lassismo: suscitarono scalpore l’assoluzione di Bernardo Tanlongo, protagonista dello scandalo della Banca Romana, o il verdetto di condanna emesso nel processo Murri. La forte connotazione ideologica dell’istituto, nel quale un certo utopismo liberale vedeva addirittura un ponte verso una magistratura elettiva (E. Brusa, Sul giurì ad occasione delle recenti discussioni dei giuristi svizzeri, «Rivista penale», 1882, 15, p. 329), attirò il radicale dissenso dei positivisti della prima ora, persuasi che nelle aule giudiziarie vi fosse bisogno non di democrazia o di buon senso bensí di giudici scientificamente attrezzati.
Nella citata prolusione pisana Carrara constatava che la scienza processuale penale si era avviata «in una via funestissima di regresso». Con acume storicistico il professore lucchese invitava a sfogliare gli ormai introvabili volumi dei «praticacci antichi» per comprendere come gli aspetti più torbidi della giustizia d’antico regime fossero stati «dalle buone scuole anatemizzati, e dalle buone pratiche con indignazione reietti». Nel Granducato – aggiungeva Carrara – l’efferatezza del codice penale era stata arginata da un rito rispettoso del criterio della prova piena. Il confronto con il passato, insomma, non tornava «ad elogio dei vivi». Il paradosso mirava a stimolare i giovani a dedicarsi alla «materia del procedimento penale», vero «campo da mietere» per affrancarsi da logori preconcetti e commentari «eruditi» (F. Carrara, Il diritto penale e la procedura penale, in Id., Programma del corso di diritto criminale. Del giudizio criminale. Con una selezione dagli Opuscoli di diritto criminale, cit., pp. 433-41).
L’appello rimase inascoltato. Le biblioteche restarono ingombre di lavori esegetici anche pregevoli (la Sposizione compendiosa, 1864-1865, di Matteo Pescatore, il Commento, 1867-1868, di Francesco Saluto, i sette volumi – l’ultimo completato da Luigi Majno – del Codice commentato di Giuseppe Borsani e Luigi Casorati, 1873-1887) o di monografie sui temi più scottanti (giuria, libertà personale): ma difettavano opere capaci di raccordare teoria e prassi entro un ‘sistema’ originale. Il perdurante sussiego degli studiosi costò alla procedura penale l’appellativo di cenerentola del sapere giuridico e una penalizzante subalternità accademica.
Si attribuisce di solito – forse con generosa approssimazione – alla prima edizione dei lucchiniani Elementi di procedura penale (1895) il merito della palingenesi ‘scientifica’ della disciplina. L’autore si diceva non «rassegnato a fare la parte soltanto di rapsode, e men che meno per illustrare leggi le quali soventi sono negazione della scienza». L’agile testo, scevro da erudizioni, pullula di stimoli critici, a cominciare dalla questione – allora molto sentita – della «posizione enciclopedica» della procedura penale o dell’importanza della critica induttiva nella valutazione delle prove (pp. VI, 1-5).
Il contributo processualistico di Lucchini non è circoscritto agli Elementi (ripubblicati piú volte sino al 1920). Dopo le monografie d’esordio ispirate a un garantismo ‘anglosassone’ (Pubblicità oralità e contraddittorio nella istruttoria del processo penale, 1873; Il carcere preventivo ed il meccanismo istruttorio che vi si riferisce nel processo penale, 18732), egli aveva fondato nel 1874 «Rivista penale», sulle cui pagine transitò, specie dopo il varo del codice Zanardelli, larga parte del dibattito sulla modernizzazione della giustizia. All’alba del nuovo secolo, il direttore deplorava che la procedura penale non fosse «uscita dalla crisalide di studi e lavori interni e preparatori», ma prometteva di non ammainare la «bandiera» liberale e umanitaria (L. Lucchini, Ai lettori, «Rivista penale», 1900, 26, p. 6).
Intanto la processual-penalistica italiana andava affinando gli strumenti metodologici. A partire dal tardo Ottocento essa si avvalse in misura massiccia della comparazione e della statistica. Della prima, che confermava impietosamente l’arretratezza del rito vigente nel Regno, Carrara era stato antesignano: egli, tra l’altro, aveva esaltato la qualità del Regolamento austriaco del 1873 e per primo aveva contrapposto alla «esagerata autorità della Francia» gli «ammaestramenti della dotta Germania» (Introduzione a C.A. Weiske, Manuale di procedura penale con speciali osservazioni sul diritto sassone, cit., pp. VI, XI, XIV).
Quanto alla statistica, grazie alla fortuita sinergia tra Lucchini (membro della commissione per la statistica giudiziaria) e la scuola positiva (che cercava nei numeri il riscontro alle proprie ipotesi criminologiche), minuziose tabelle inondarono periodici e monografie. I dati erano attinti soprattutto dai discorsi d’inaugurazione dell’anno giudiziario tenuti dai pubblici ministeri, vero e proprio genere letterario dal respiro non sempre localistico: sin dal 1879 «Rivista penale» ne pubblicava una rassegna ragionata. La messe di informazioni non aiutava però a stabilire se, nell’Italia finalmente unita ma assai variegata dal punto di vista dell’ordine pubblico, la criminalità tendesse all’incremento o alla contrazione. L’impressione che si ricava dalla miriade di prospetti e dai relativi commenti è quella di una giustizia penale ingolfata, che già in istruttoria lasciava inevasa una quota consistente di processi e che si mostrava temibile più nell’iter procedimentale che negli esiti sanzionatori.
L’impatto sferzante della scuola positiva si abbatteva dunque su una comunità di studiosi nient’affatto coesa né appagata dalla macchina giudiziaria. La contrapposizione tra indirizzi scientifici, talora caricaturizzata dai protagonisti e dalla meno recente storiografia, consente però di cogliere in controluce le ambiguità di un sistema processuale che tollerava, sotto la patina del garantismo formale, meccanismi di sicurezza (soprattutto misure di polizia preventiva) sfuggenti al controllo giurisdizionale (Sbriccoli 2009, 1° vol., pp. 594-97 parla di «doppio livello di legalità»). Gli attacchi provenienti dalla falange lombrosiana portavano allo scoperto l’inconfessabile timore che un rito ossequioso dei precetti costituzionali non riuscisse a blindare valori e beni cari al notabilato.
L’offensiva positivista risale agli inizi degli anni Ottanta del 19° sec., quando apparvero i Nuovi orizzonti (1881) di Enrico Ferri, ampliati nel 1884 e poi riproposti come Sociologia criminale (1892, 1900, 1929-30); e il saggio Ciò che dovrebbe essere un giudizio penale (1882) di Raffaele Garofalo, magistrato napoletano, nucleo processuale della Criminologia (1885, 1891). Da questi lavori non si evince un coerente archetipo di rito penale ‘alternativo’ ma solo il generico auspicio di ripensare il processo secondo dettami bio-socio-antropologici affinché rispondesse al compito di «trasportare la pena dal campo aereo delle minaccie legislative al campo pratico della difesa sociale contro i delinquenti» (E. Ferri, I nuovi orizzonti del diritto e della procedura penale, 1881, p. 120). La nuova procedura sarebbe consistita in «un esame psichico del delinquente» finalizzato a determinarne la ‘categoria’, accertarne la pericolosità (anziché la «responsabilità morale») e disporne il trattamento clinico. I magistrati sarebbero stati reclutati in base alle competenze statistiche, antropologiche e penitenziarie, giacché la tradizionale formazione civilistico-romanistica li abituava all’astrazione e non li preparava a curare l’«infermità sociale» della delinquenza (R. Garofalo, Ciò che dovrebbe essere un giudizio penale, «Archivio di psichiatria, scienze penali e antropologia criminale», 1882, 3, pp. 88-99; E. Ferri, I nuovi orizzonti del diritto e della procedura penale, 18842, pp. 447-48).
Simili proposte furono irrise dagli avversari, che le considerarono terribilmente regressive. Dal loro canto, i positivisti rispedivano alla scuola classica l’accusa di anacronismo, osservando che l’individualismo ostinato aveva ormai esaurito la sua funzione di limite ‘negativo’ all’azione dello Stato (F. Puglia, L’evoluzione storica e scientifica del diritto e della procedura penale, 1882, p. 294). In effetti, l’orizzonte valoriale verso cui marciava la giustizia penale contemplava il sacrificio delle garanzie del singolo sull’altare della sicurezza collettiva. Il progetto di codice presentato al ministro Zanardelli nell’aprile del 1889 dai magistrati Garofalo e Carelli non stravolgeva i lineamenti del rito vigente proprio perché i due autori ammettevano di avere piegato «il capo a quella specie di ipocrisia sociale» che parificava individuo e società e di non aver portato a conseguenze logiche il sempre più «insistente» principio per cui «l’individuo scomparisce di fronte allo Stato» (R. Garofalo, L. Carelli, Riforma della procedura penale in Italia. Progetto di un nuovo codice, 1889, pp. XII-XIII). Un salto di qualità, quest’ultimo, che Alfredo Rocco avrebbe rivendicato nel progetto preliminare del codice di rito fascista (1929).
Su alcuni istituti processuali l’attrito ideologico tra le scuole raggiunse l’acme. Ai liberali ripugnava l’abuso della carcerazione preventiva, precipitato di quel «velo nero e denso», dal sapore inquisitorio, che ancora ricopriva l’istruttoria (L. Lucchini, Il carcere preventivo ed il meccanismo istruttorio che vi si riferisce nel processo penale, 18732, p. 5), mentre i positivisti non escludevano che essa potesse servire da escamotage per indurre alla confessione (R. Garofalo, Criminologia. Studio sul delitto, sulle sue cause e sui mezzi di repressione, 1885, p. 328). A simili provocazioni alludeva forse Lucchini (nella lettera premessa ad A. Pallotti, Alcune note sul carcere preventivo, 1886, p. 10) quando si scagliava contro i «Robespierre in sessantaquattresimo» che vedevano in ogni imputato un reo e misconoscevano l’interesse parimenti «sociale» alla tutela dell’incolpevole.
Il contrasto riflette la viscerale antinomia sul principio della presunzione d’innocenza. I classici avevano elevato questo canone a «metafisica del diritto procedurale» (Il diritto penale e la procedura penale, in Id., Programma del corso di diritto criminale. Del giudizio criminale. Con una selezione dagli Opuscoli di diritto criminale, cit., pp. 422-26). Ferri, pur coniando il calembour secondo cui il codice penale è destinato ai «birbanti» e quello di procedura penale ai «galantuomini» (Lavori parlamentari del nuovo codice penale italiano. Discussioni alla Camera dei deputati [dal 26 maggio al 9 giugno 1888], 1888, p. 33), bollava la presunzione come effetto delle «soverchie esagerazioni» individualistiche noncuranti della difesa sociale (E. Ferri, I nuovi orizzonti del diritto e della procedura penale, 18842, pp. 428-40). Il tentativo di mediazione esperito dalla terza scuola dissodò il terreno per lo sprezzante ripudio del principio in questione (V. Manzini, Manuale di procedura penale italiana, 1912, pp. 51-54): una censura le cui ombre lunghe si proiettano sulla formulazione ‘negativa’ (presunzione di non colpevolezza) adottata dall’art. 27, 2° co. della Costituzione repubblicana.
La diagnosi positivista della questione criminale presenta indubbi elementi di contiguità con quella socialista, ma non vi si sovrappone. Il socialismo penale, che visse un’effimera fiammata a cavallo tra 19° e 20° sec., ebbe una sua specificità: abbozzò un’analisi essenzialmente politica dei problemi giudiziari, denunciò le sperequazioni di classe, esportò il dibattito tecnico in sedi militanti come i fogli di partito o le arringhe forensi. Ma scontò con l’assenza di una concreta strategia riformistica l’improbabile velleità di combinare marxismo e spencerismo-darwinismo. Anzi la drammatica congiuntura di fine secolo, contrassegnata dalla legislazione eccezionale per i fasci siciliani e gli anarchici della Lunigiana (1894) e poi dalla repressione del movimento operaio, sorprese penalisti socialisti e liberali affiancati nella difesa delle libertà statutarie.
Comunque la ventata contestataria di stampo positivistico e socialista, benché sterile nei risultati immediati, aveva rovesciato taluni dogmi della giustizia liberale: l’attenzione si era spostata dal reato al reo, dal garantismo indulgente all’intransigente difesa della società, dall’eguaglianza processuale formale a un rito sensibile agli effettivi dislivelli sociali (cfr. A. Pozzolini, L’idea sociale nella procedura penale. Appunti critici, «Archivio giuridico Filippo Serafini», 1898, 60, pp. 307, 310, 318-19; 1898, 61, pp. 34-38). Di questo incoerente ideario la cosiddetta terza scuola, pur premendo per il ritorno a una giustizia imperniata sul fatto anziché sul delinquente, ereditava molte insofferenze, anzitutto verso l’«ingiustificata tenerezza per l’imputato» (U. Conti, Ciò che dovrebbe essere un giudizio penale, «Rivista penale», 1906, 63, 1, pp. 6-18). Anche l’indirizzo tecnico-giuridico metteva a fuoco aspirazioni diffuse, come la necessità, già avvertita dai patriarchi della penalistica civile e da socialisti o radicali critici quali Eugenio Florian e Alfredo Pozzolini, di demarcare uno specifico campo del penale giuridico. Quando Arturo Rocco, nella prolusione sassarese del 15 gennaio 1910 (Il problema e il metodo della scienza del diritto penale, «Rivista di diritto e procedura penale», 1910, 1, p. 570), fissava nel concetto di rapporto giuridico il fulcro di una futura «sistemazione scientifica» delle discipline penalistiche, incoraggiava la costruzione di una scienza processual-penale ‘pura’ deducibile da princípi assoluti: impresa alla quale vari studiosi (Pio Barsanti, Ugo Conti) ambivano da qualche anno, seppur con esiti non sempre confortanti.
La maturazione teoretica rendeva plausibili, sul cadere del 19° sec., i propositi di riforma legislativa. Il decreto 3 ottobre 1898, con il quale il guardasigilli Camillo Finocchiaro-Aprile nominava una commissione incaricata di apportare modifiche al codice di rito, segnava una cesura. I lavori, dipanatisi sulla base di perspicue relazioni tematiche, vennero quindi distillati in principii cautamente innovativi, che il neoministro Emanuele Gianturco sottopose al vaglio delle facoltà giuridiche, delle magistrature e dell’avvocatura. I pareri delle università lamentavano soprattutto l’eccessivo indugio delle massime su disquisizioni dottrinali e comparatistiche. Tra le eterogenee reazioni delle magistrature di vertice prevalse il sentore che il legislatore avesse travisato le priorità del Paese reale (per es. R. Garofalo, I principii adottati dalla Commissione per la riforma della procedura penale, «Riforma giudiziaria», 1901, pp. 3-4, 9-11, in polemica con Lucchini).
Ulteriori limature arrecate ai principii sfociarono in un articolato piuttosto progressista, che Finocchiaro-Aprile, di nuovo guardasigilli, illustrò il 28 novembre 1905 alla Camera dei deputati con il corredo di una ricca e incisiva relazione. Falliti, nel 1908-09, i due tentativi di riforma predisposti dal ministro Vittorio Emanuele Orlando, il biennio 1911-12 registrò un’accelerazione dell’iter codificatorio grazie all’ennesimo ritorno di Finocchiaro-Aprile a palazzo Firenze nel quarto governo Giolitti. Il dibattito, svogliato in Parlamento, si arroventò sui periodici: «Rivista penale» organizzò persino un referendum per demolire il progetto. Piú che per la rivalità tra le scuole (esautorate dall’astro nascente del tecnicismo giuridico, come s’intuisce dalla cooptazione in extremis di Manzini nel ristretto gruppo dei ‘coordinatori’), la tensione salí per la concitata modalità di promulgazione: l’ultimo segmento del percorso legislativo fu infatti macchiato da dubbi di costituzionalità perché il governo, ricorrendo alla legge delega 20 giugno 1912, nr. 598, operò per il tramite della commissione di coordinamento una sospetta manipolazione sul testo definitivo, sanzionato dal r.d. 27 febbr. 1913, nr. 127. Trovava cosí conferma la prima parte dell’osservazione di Manzini secondo cui «l’attuazione delle grandi riforme legislative in Italia non si può attendere che dal potere legislativo delegato, o dalla rivoluzione» (Per la riforma della procedura penale italiana. Note di pratica legislativa, in Scritti giuridici e di scienze economiche pubblicati in onore di Luigi Moriani, 1° vol., 1906, pp. 424-25). Le vicende novecentesche avrebbero interamente inverato la profezia.
Nel merito il codice del 1913 tradiva molte delle speranze moderatamente accusatorie balenate in fase progettuale. Giovanni Giolitti approfittò della contingenza politica (la guerra di Libia) per assicurarsi, al prezzo di qualche revirement e con l’aiuto dei relatori di Camera e Senato Alessandro Stoppato e Lodovico Mortara, la non aperta ostilità dell’ala social-positivista. Il testo approvato risultò piú solido del precedente nella sistematica, nel libro ad hoc sull’esecuzione, nella disciplina delle nullità, ma cedevole su altri fronti (l’istruzione restava inquisitoria e in molti passaggi preclusa al difensore; alla polizia giudiziaria si concedeva di provvedere ad atti urgenti; si confermava il monopolio del p.m. sull’azione; si attenuava lo sbarramento alla lettura delle deposizioni in dibattimento). Non a torto si è parlato di «liberalismo equivoco» (Cordero 2006, p. 82), anche se occorrerebbe interrogarsi su quanto istinto ‘inquisitorio’ covasse già sotto il manto del garantismo liberale. Lo scontento trasversale, la crociata orchestrata dai superstiti penalisti classici, la frustrazione della frantumata scuola positiva, la protesta dell’avvocatura mostrano come l’agognato traguardo del 1913 si rivelasse un'ennesima tappa provvisoria raggiunta – come nel 1865 – fuori tempo massimo. Sulla lunga rincorsa a un codice degno della Terza Italia calava il sipario della grande guerra.
È tempo di una notazione conclusiva. La valenza ‘costituzionale’ del processo criminale era stata teorizzata dall’Illuminismo maturo. È però dal secondo Ottocento che la dottrina giuridica dovette confrontarsi con le variabili di un sistema parlamentare e con gli umori dell’opinione pubblica. Il gioco democratico disorientava i penalisti liberali, dilaniati tra la missione ‘civile’ di rassodare le tutele giudiziarie del cittadino e l’urgenza di tranquillizzare un notabilato traumatizzato dal brigantaggio, dall’urbanizzazione, dalla conflittualità industriale, dai sommovimenti anarco-socialisti, dal crimine organizzato. La scuola positiva spiazzò i ben pensanti disvelando limiti e ipocrisie del garantismo processuale.
Maturò in questo clima, e sarebbe divenuta una costante, una sorta di strabismo tra premesse politiche e proposte riformatrici. Da un lato, gli studiosi di area moderata erano i piú decisi a mutare lo status quo iniettando nella giustizia penale robuste dosi di trasparenza sin dentro le tenebre istruttorie. Dall’altro, i penalisti di schieramento progressista (alcuni dei quali socialisti) accettavano di subordinare le libertà statutarie all’interesse collettivo, senza tema di apparire conservatori e talora nostalgici di un rito premoderno. L’incipit di I semplicisti (1886) di Lucchini scolpiva la dialettica tra il «morboso sentimentalismo pei malfattori» rimproverato alla scuola classica e il «ripristinamento dell’inquisizione processuale» auspicato dai positivisti (p. VI).
«Morboso sentimentalismo»: non è forse casuale che il sintagma lucchiniano ricompaia nella relazione al progetto preliminare del codice di procedura penale stilata da Alfredo Rocco nel 1929 (Ministero della giustizia e degli affari di culto, Lavori preparatori del codice penale e del codice di procedura penale, 8° vol., 1929, p. 7). La penalistica fascista avrebbe riletto la polarizzazione tra autorità e libertà recuperando molte delle argomentazioni reazionarie tardottocentesche e saldandole allo statualismo autoritario forgiato dal tecnicismo giuridico. Quel campo di tensione si ripresenta periodicamente anche nell’Italia repubblicana, sintomo di pulsioni profonde che scuotono le fondamenta democratiche della giustizia e ne pregiudicano un sereno funzionamento.
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