La giustizia
Il mio approccio è quello di un artigiano storico che cerca di comporre i frammenti del passato in un quadro coerente (P. Prodi, Una storia della giustizia. Dal pluralismo dei fori al moderno dualismo tra coscienza e diritto, 2000). Non ho alcuna «idea» o teoria della giustizia e mi sembra che l’espressione corrente che invoca una «giustizia giusta» (tautologia od ossimoro?) sia la dimostrazione che la riflessione teoretica è abbastanza bloccata ai giorni nostri, almeno sul piano della opinione pubblica. Non cerco nemmeno di esporre la storia del concetto di giustizia nei grandi pensatori del passato, analisi che spetta ai filosofi e agli storici della filosofia (C. De Pascale, Giustizia, 2010). La mia ipotesi interpretativa è che nelle società concrete ci si avvicina maggiormente alla giustizia nella misura in cui nessuno possiede il monopolio del potere ed esiste una pluralità di sistemi di norme – etiche e giuridiche – e di fori come luoghi in cui la giustizia come giudizio sul comportamento e le azioni degli uomini viene concretamente esercitata. La pluralità dei fori sembra la caratteristica fondamentale che ha permesso all’Occidente, rispetto ad altre civiltà, la crescita nella maggior misura possibile delle garanzie che impediscono gli abusi dell’uomo sull’uomo: nel corso dei secoli con un cammino difficile e complesso si è distinto il foro esteriore dei tribunali da quello interiore, la sfera dell’obbedienza alla legge positiva scritta da quella della coscienza. Per questo nella storia concreta della civiltà occidentale il punto centrale per capire questo respiro che ha permesso la nascita dello Stato di diritto e delle libertà odierne si fonda sulla distinzione progressiva tra il concetto di peccato, come disobbedienza alla legge morale, e il concetto di reato come disobbedienza alla legge positiva. Si è sviluppato nel corso dei secoli un dualismo, un concreto sdoppiamento della giurisdizione tra un foro esterno il cui interprete è il giudice e un foro interno, amministrato normalmente dalla comunità religiosa d’appartenenza, non come semplice perdono dei peccati ma come esercizio effettivo di un giudizio, di un potere sull’uomo: il nostro mondo attuale della giustizia e della colpa, pur secolarizzato con lo sviluppo del monopolio statale del diritto e con le scoperte della psicanalisi, non è comprensibile se non si tiene conto di questa dialettica storica (P. Legendre, Les enfants du texte. Étude sur la fonction parentale des États, leçons VI, 1992). L’attenzione sul foro come luogo dove la legge e il potere si incontrano con la realtà di tutti i giorni, con la vita concreta è derivata negli ultimi anni dai nuovi sviluppi dell’antropologia giuridica: non è necessario soltanto allargare il raggio visivo della ricerca dalle istituzioni formali deputate all’amministrazione della giustizia all’infragiudiziario e ai poteri di fatto diffusi nella società, ma anche cercare di penetrare nel mondo vivo della giustizia come giudizio sociale sui comportamenti, contrassegnato da concrete conseguenze, e vedere quindi il ricorso ai tribunali in qualche modo come uno stato d’eccezione in un universo giudiziario quotidiano molto più complesso. Nell’evoluzione delle tensioni nelle quali si sviluppa il sistema costituzionale dell’Occidente tra Medioevo ed Età moderna il foro rappresenta una specie di frontiera mobile, un punto di confine che si sposta continuamente, dove il potere si materializza in decisioni o sentenze e diventa realtà concreta: credo che la prima precondizione per iniziare una ricerca di questo tipo sia togliersi dalla testa lo stereotipo della identificazione fra il foro e il luogo fisico del tribunale. Il concetto di foro è stato trasmesso dall’antichità alle radici della nostra civiltà occidentale attraverso le Etymologiae di Isidoro di Siviglia; esso così è definito: «Forus est exercendarum litium locus […]. Constat autem forus causa, lege et iudicio»: il foro è quel luogo fisico o ideale in cui le controversie tra gli uomini, le cause («causa vocatur a casu», aggiunge Isidoro; Etymologiae, XVIII, 15), vengono concretamente definite in rapporto alla legge e al potere. Come elemento simbolico per descrivere lo snodo fondamentale di passaggio nel lungo cammino di costruzione dello Stato di diritto e della giustizia ho rubato una frase pronunciata da un anonimo consigliere della Repubblica fiorentina il 31 luglio 1431: «Deus est Respublica, et qui gubernat Rempublicam gubernat Deum. Item Deus est iustitia, et qui facit iustitiam facit Deum» (frase posta in epigrafe da R. Trexler al cap. II del suo volume Public Life in Renaissance Florence, 1980): «Dio è la Repubblica e chi governa la Repubblica governa Dio. Nello stesso modo Dio è la giustizia e chi fa la giustizia fa Dio». Non intendo parlare di Dio, trascendente o immanente, rubando il mestiere ai teologi e ai filosofi, ma cerco di capire cosa abbia voluto dire per l’uomo occidentale «fare Dio» facendo la giustizia. Molti secoli prima di Ugo Grozio (sulla cui sentenza si usa da alcuni anni fantasticare da una parte e dall’altra, in senso laico o in senso confessionale: «etiamsi daremus, quod sine summo scelere dari nequit, non esse Deum aut non curari ab eo negotia humana») il consigliere fiorentino coglieva la necessità di una meta-politica e di una meta-giustizia: l’uomo si avvicina tanto più al bene comune e alla giustizia quanto riesce a porli al di sopra degli interessi particolari rendendoli simili a Dio, identificandoli in Dio. La politica e il diritto hanno potuto divenire oggetto di indagine razionale e tecnica, secondo la grande intuizione di M. Weber, con la recinzione del sacro. Il potere ha sempre a che fare con il sacro e la grandezza dell’Occidente è consistita soprattutto nel recintare il sacro, non nell’espellerlo come un demone: è questo che ha permesso la de-magificazione del mondo e la nascita della politica e del diritto come tecnica. Oggi – nel processo tumultuoso di globalizzazione in corso – non sappiamo nemmeno dove certi reati siano stati consumati: sta venendo meno il principio, fondamentale nell’ordinamento degli ultimi secoli, della territorialità della norma. Le nuove tematiche relative all’ambiente e alla bioetica (basta accennare alle manipolazioni genetiche) non appaiono minimamente controllabili nello schema tradizionale elaborato nell’età delle codificazioni. Lo Stato ha invece reagito esasperando la produzione delle norme giuridiche e l’intervento dei suoi tribunali: dalla vita sentimentale allo sport, dalla sanità alla scuola, immensi settori della vita quotidiana che un tempo erano regolati da norme non giuridico-positive, ma di tipo etico o consuetudinario, entrano nel campo del diritto positivo e sono sottoposti alla magistratura ordinaria che applica articoli e commi. Si diffonde l’illusione di risolvere ogni problema e ogni conflitto mediante la norma positiva e la giurisdizione ordinaria: si arriva così all’ingessatura della società in una gabbia, in una rete a maglie sempre più fitte, causa non ultima anche del fallimento del welfare state. «È possibile la sopravvivenza del nostro sistema senza quel pluralismo di ordinamenti e di norme che ne ha caratterizzato la genesi?». Il rapporto tra questo duplice piano di norme ha costituito il respiro – dall’interno della vita alla necessaria oggettivazione delle istituzioni – di tutta la civiltà giuridica occidentale, respiro che viene meno quando la società è normata a una sola dimensione. Semplificando il discorso in modo schematico si potrebbe affermare che, dato per costante il volume delle norme comportamentali necessarie a una società per sopravvivere come tale, la storia dimostra che se diminuisce l’ethos condiviso aumentano in proporzione le imposizioni di tipo giuridico e repressivo in un’affannosa ricerca della giustizia.
Forse è l’ora di abbandonare l’illusione illuministica di risolvere tutti i problemi con un’ulteriore espansione, senza limiti, del diritto positivo, della «norma a una dimensione», per regolare tutti gli aspetti della nostra vita quotidiana, i comportamenti un tempo unicamente dipendenti dalle norme morali. Occorre, in senso kantiano o non, difendere il territorio della coscienza. D’altra parte sul piano dell’etica appare indubbia la difficoltà attuale delle Chiese a esprimere norme aventi un valore universale: l’insistenza stessa delle Chiese per l’imposizione delle norme etiche sul piano giuridico finisce per mettere in secondo piano il problema fondamentale della loro autorità in relazione al perdono del peccato e alla salvezza. Nella riflessione teologica e nel magistero degli ultimi decenni il problema del peccato come offesa unicamente a Dio (e quindi ben distinto dal reato) pare quasi dimenticato. Il problema della giustizia oggi deve confrontarsi con il problema del multiculturalismo, della presenza di più culture e più religioni nella medesima società. In sostanza penso si possa dire che il diritto positivo difende in qualche modo il perimetro esterno di una società dai corpi estranei che ne mettono in discussione gli equilibri interni i quali sono invece regolati da norme di altro tipo che permettono la formazione di identità politiche e che nella nostra età non sono soltanto mores ma si traducono in costituzioni scritte. Quando il diritto non si limita a tradurre concretamente nella vita quotidiana questo ethos, ma deve trovare in sé stesso la propria autogiustificazione, diventa sterile e paralizza la vita della società. Seguendo dunque questa frontiera mobile e poliforme del foro noi ci troviamo di fronte al rapporto tra la norma come imperativo, positivo o negativo, e la sanzione, come costrizione o come pena, in quanto atto coattivo teso al ristabilimento della giustizia. Non possiamo affrontare qui questo problema ma occorre guardarsi bene dal porre ingenuamente il confine tra la sfera del diritto e la sfera della morale sul fatto che il diritto sia caratterizzato dalla possibilità di porre in atto un sistema coattivo mentre la morale no. Già H. Kelsen nella sua maturità e particolarmente nei saggi scritti dopo l’esperienza nazista e l’approdo in America (L’anima e il diritto, 1936; La metamorfosi dell’idea di giustizia, 1949; L’idea di giustizia nelle Sacre Scritture, 1953: saggi raccolti in L’anima del diritto. Figure arcaiche della giustizia e concezione scientifica del mondo, a cura di A. Carrino, 1989) poneva in guardia – pur difendendo la «dottrina pura dei diritti» contro le teorie giusnaturalistiche – nei confronti di una visione superficialmente positivistica, chiarendo che anche il costume e la morale, come il diritto, pongono in essere un loro potere concreto di coercizione, anche se esso non si esprime con multe o anni di galera ma con sanzioni fondate sulla perdita di ruolo sociale o sulla minaccia di pene immateriali, non visibili ma non meno efficaci se esse fanno parte di una credenza diffusa e partecipata, la pena eterna come condanna e la felicità eterna come ricompensa. Per capire il presente occorre la storia di lungo periodo, ripercorrere l’arco ampio di tempo che parte dall’affermazione in Europa del dualismo tra il potere politico e quello religioso, in particolare dallo sviluppo della Chiesa come istituzione autocefala, dalla riforma gregoriana e dalla lotta per le investiture (dalla «rivoluzione papale» come è stata definita da H.J. Berman in Law and Revolution. The Formation of Western Legal Tradition, 1983, opera che rimane fondamentale ancor oggi) sino alle prime codificazioni settecentesche e ottocentesche. Occorre precisare che, anche se il nodo centrale è rappresentato dal rapporto tra peccato e reato, il problema non è limitato al diritto penale: non soltanto perché, come gli esperti ci insegnano, la separazione e l’autonomia del diritto penale nel contesto del pensiero e della prassi giuridica è un fatto relativamente recente, ma perché il problema che ci interessa è il triangolo uomo-legge-potere in tutte le sue forme e in tutte le sue manifestazioni, anche se la materia penale è ovviamente quella nella quale il nodo è più scoperto e acuto.