Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
La nascita di un mercato globale ha permesso alle imprese di espandersi a seconda della propria capacità organizzativa, delle risorse finanziarie a disposizione e del patrimonio tecnologico a loro disposizione. Contemporaneamente nel corso del XX secolo si sono innescati fenomeni di disintegrazione politica e di integrazione economica che hanno dato vita a quella che viene definita come globalizzazione. Un fenomeno che ha trovato conferma anche nella generazione di un unico mercato finanziario su scala planetaria.
Economie di scala ed economie di scopo: commercio internazionale e mercati domestici
Nel 1946 esistevano nel mondo solo 74 Stati sovrani; nel 1995 gli Stati sovrani sono diventati 192. La gran parte di questi Stati ha una dimensione inferiore a quella dello Stato del Massachusetts. 87 Paesi hanno meno di cinque milioni di abitanti; in altri 58 la popolazione scende sotto i due milioni e mezzo di persone; 35 Paesi presentano una popolazione inferiore alle 500 mila persone. Nel medesimo arco di tempo, la seconda metà del XX secolo, il volume del commercio internazionale (la somma delle importazioni e delle esportazioni) cresce mediamente del 40 percento rispetto alle dimensioni del prodotto interno lordo (l’insieme dei beni e dei servizi prodotti all’interno di ogni Paese). Questa progressiva espansione del volume degli scambi internazionali si manifesta parallelamente alla riduzione delle tariffe doganali che proteggono i mercati domestici. Si allargano gli scambi internazionali, si riducono le tariffe che proteggono i singoli mercati domestici, aumenta il numero degli Stati sovrani, aumenta il numero degli Stati di piccole dimensioni – in termini demografici – ed emergono grandi aggregazioni sovrannazionali (Stati Uniti, Unione Europea) e, nel trapasso tra XX e XXI secolo, si affermano nuovi grandi protagonisti sulla scena dell’economia mondiale (Cina, India e Brasile).
Quale può essere la spiegazione di questa singolare trasformazione della scena economica internazionale? Se i mercati sono chiusi nel perimetro amministrativo degli Stati, come avveniva nella prima metà del XX secolo, le dimensioni del mercato determinano un potenziale incremento di produttività per le imprese che agiscono al suo interno. Al crescere della dimensione del mercato, infatti, aumenta la domanda di beni di consumo e di beni di investimento che si sviluppa al suo interno. In presenza di una domanda più larga ciascuna impresa può espandere i propri confini aziendali: aumentando il numero delle singole unità di merci prodotte o moltiplicando la tipologia delle merci prodotte. Nel primo caso, quando aumenta il numero delle unità della medesima merce prodotta, l’impresa riduce i propri costi unitari di produzione e realizza un’economia di scala. Questa è stata la variabile che spiega l’affermazione dell’impresa di marca fordista, sia nelle economie pianificate che in quelle di mercato, nella prima metà del XX secolo.
Il successo delle imprese automobilistiche, dopo l’introduzione della catena di montaggio, è un caso emblematico di questa relazione virtuosa tra dimensione del mercato domestico, dimensione dell’impresa e produttività della stessa. La crescita della domanda aggregata domestica, alimentata dall’aumento del numero di occupati nella grande impresa e, in parte, anche dall’incremento unitario dei salari, permette di espandere la tipologia delle merci e dei servizi prodotti. Si realizza, in questo caso, per i gruppi industriali che scelgono di diversificare la gamma delle proprie produzioni e di trasformarsi in holding finanziarie, una economia di scopo. “Scopo”, in questa circostanza, è una parola ambigua perché importata brutalmente dalla lingua inglese. Scope significa campo di attività o settore e, quindi, una economia di scopo (scope economy) rappresenta proprio la possibilità di ampliare la propria sfera di azione utilizzando una struttura organizzativa di cui l’impresa era già dotata. Nelle economie di scala, insomma, l’aumento della produzione genera una riduzione dei costi per ogni unità di prodotto mentre nelle economie di scopo si realizza una moltiplicazione dei ricavi, in vari campi di attività, grazie a una modesta variazione positiva dei costi totali dell’impresa. Sta di fatto che, se il commercio internazionale viene scoraggiato da tariffe e dazi doganali, le economie si chiudono nel perimetro degli Stati ma, così facendo, si genera sulla scena mondiale un vantaggio per le imprese che operano negli Stati di maggiori dimensioni, in termini di popolazione. Quegli Stati diventano sempre più ricchi e sempre più potenti ed è comprensibile che si generi un incentivo perverso ad annettersi altri Stati per allargare la propria dimensione e consolidare questa posizione di vantaggio per le proprie imprese. La causa economica dello scatenarsi delle due guerre mondiali – che, partendo dall’epicentro europeo, si sono estese all’intero pianeta nella prima metà del secolo – si può ricondurre alle diverse dinamiche nella dimensione dei mercati nazionali, alla diffusione di politiche di protezionismo e alla diffidenza verso il commercio internazionale.
L’alternarsi di questi incentivi tra loro contraddittori hanno determinato squilibri di potere sui mercati internazionali tra i diversi gruppi industriali appartenenti alle singole nazioni. Gruppi che trovavano nelle relazioni con il potere politico, che controllava i programmi di investimento pubblico, e con le banche nazionali la forza e la ragione della loro diversa velocità di espansione.
Se, al contrario, come è avvenuto partendo dalla fine della seconda guerra mondiale – seppure nel clima di tensione bipolare generato dalla guerra fredda tra Paesi a economia di mercato e Paesi a economia socialista – si allargano le dimensioni del commercio internazionale, la dimensione del mercato domestico e il vantaggio di disporre di commesse pubbliche domestiche diventano variabili meno vincolanti rispetto alle dimensioni complessive e alla produttività industriale delle singole imprese. Ogni impresa può espandersi nel mercato mondiale secondo quanto le consente la sua capacità organizzativa, il suo patrimonio tecnologico e la dimensione delle risorse finanziarie di cui dispone. Un mercato globale che rappresenta un vastissimo insieme di opportunità condivisibili per tutte le imprese del mondo. Ma, in queste mutate circostanze, la causa che determina la dimensione dei singoli Stati diventa piuttosto politica e non economica. La popolazione preme per ottenere forme dirette di controllo sulla qualità e il costo dei beni pubblici prodotti dalle amministrazioni pubbliche e sulle scelte di fondo delle élite che governano la comunità. Nascono, in questo modo, nuove organizzazioni statali, di dimensioni minori, frammentando l’unitarietà organizzativa dei vecchi Stati nazionali. E, parallelamente, si aggregano tra loro insiemi di Stati per creare agenzie condivise capaci di amministrare, a costi condivisi e nel comune interesse, grandi problemi comuni come il funzionamento del sistema monetario e bancario o la disciplina del libero commercio.
L’Unione Europea rappresenta l’esperimento più significativo di questo nuovo genere di aggregazioni tra Stati nazionali mentre la Banca Mondiale e il Fondo Monetario, entrambi costituiti nella conferenza internazionale di Bretton Woods nel 1944, rappresentano i primi prototipi di agenzie multinazionali, capaci di aggredire grandi problemi comuni, come la stabilizzazione dei cambi tra le varie valute o lo sviluppo dei Paesi strutturalmente più deboli sotto il profilo economico.
Questi fenomeni di disintegrazione politica e di integrazione economica sono l’essenza della trasformazione radicale degli assetti mondiali che viene chiamata globalizzazione nel linguaggio corrente. Una trasformazione che ha ricevuto una ulteriore e intensa accelerazione dalla rivoluzione tecnologica che ha investito, a partire dagli anni Novanta del XX secolo, il mondo della comunicazione e dell’informazione.
Globalizzazione e allargamento dell’Unione Europea
Un cambiamento tanto radicale della scena mondiale richiede anche una trasformazione dei criteri di politica economica con i quali governare la dinamica del processo di sviluppo. Tradizionalmente il governo dello sviluppo si realizza mediante una terna di strumenti: politiche fiscali, politiche del cambio, grado di apertura agli scambi e alle transazioni soprannazionali. Dani Rodrik, un economista nell’Università di Harvard, riprende – per spiegare la natura dei problemi che si pongono in un mondo che diventa globale – la struttura logica che era stata utilizzata per spiegare gli equilibri definiti a Bretton Woods nel 1944. Secondo quella formula non si potevano rendere compatibili contemporaneamente il regime di cambi fissi tra le valute internazionali e il dollaro, l’autonomia monetaria dei singoli Stati nazionali aderenti a quel regime e la mobilità dei capitali finanziari privati alla scala di un mercato internazionale effettivamente integrato.
Pick two, any two: sono le conclusioni di Rodrik rispetto a questo vero e proprio trilemma. Se si rinuncia ai cambi fissi si ha autonomia monetaria e mobilità dei capitali privati. Se si rinuncia all’autonomia monetaria delle banche centrali nazionali ci si ritrova nel mondo del gold standard, cioè nelle condizioni che hanno dominato il mondo tra le guerre napoleoniche e la prima guerra mondiale. Se si rinuncia alla mobilità dei capitali – e si costringe nelle maglie dei governi il controllo dei movimenti di capitale a lungo termine – si ottiene il regime monetario e commerciale definito negli accordi di Bretton Woods.
Oggi, nel pieno della globalizzazione, questo problema deve essere aggiornato e bisogna scegliere tra: integrazione economica e finanziaria alla scala internazionale; “federalismo”, cioè decentramento amministrativo e rafforzamento del ruolo politico delle istituzioni locali; sopravvivenza degli Stati nazionali. Questo nuovo compromesso, impone di governare rigidamente le politiche fiscali alla scala locale, se si vuole mantenere la struttura nazionale dello Stato in parallelo con il processo di integrazione.
Ma questa conseguenza richiede un patto di stabilità e crescita, alla scala sovranazionale, che non sia tanto rigido da smarrire il traguardo della crescita e ridursi a un mero patto di stabilità. Altrimenti i singoli Stati, che aderiscono a una Unione sovrannazionale, come avviene nel caso dell’Unione Europea, si troverebbero in una vera e propria “camicia di forza” rispetto alla gestione dei propri sistemi di finanza pubblica: come avviene, effettivamente, da quando tra i Paesi europei venne firmato il trattato di Maastricht negli anni Ottanta. Se, al contrario, si realizza un federalismo globale, che rappresenti l’altra faccia – quella istituzionale e politica – dell’integrazione economica, allora si deve rinunciare al ruolo dello Stato nazione nel governo molto pervasivo delle economie nazionali, rispetto a quello che esso ha svolto, e che la popolazione ha sperimentato, nel XX secolo. In queste diverse circostanze, l’allargamento dell’Unione Europea, ad esempio, comporterebbe il coinvolgimento, nelle regole di funzionamento delle istituzioni elettive europee, in primis del Parlamento e della Commissione, come in quelle del Consiglio Europeo, di tutte le regioni amministrative, dei singoli Stati nazionali partecipanti, su una base assolutamente paritaria.
Se, infine, si vogliono rendere compatibili le ragioni della sopravvivenza degli Stati e quelle del decentramento delle decisioni, sulla creazione e la gestione dei beni pubblici a livello locale, si premia la spinta che chiede il rafforzamento dei poteri politici a livello diffuso. Ma si deve anche rallentare il processo di allargamento su una base paritaria: perché si dovrebbe immaginare una forma di regolamentazione dei rapporti commerciali e finanziari alla scala sopranazionale.
In altre parole, l’allargamento si manifesta subito come un accordo per la libera circolazione delle merci e delle persone ma non si traduce, contemporaneamente, in un regime monetario comune nè, di conseguenza, in un mercato dei capitali perfettamente integrato. Esso potrebbe tradursi anche in un regime di integrazione finanziaria, accompagnato da una banda di oscillazione del cambio molto ristretta, e da una liberalizzazione dei mercati dei beni e dei servizi più progressiva e meno rapida. L’integrazione finanziaria resterebbe in entrambi i casi parziale, se non altro perché i cambi – anche vincolati in qualche forma di banda concertata di oscillazione, in una sorta di nuovo “serpente monetario” – sono un elemento di disturbo nel calcolo dei rischi puntuali degli emittenti di titoli nelle diverse valute. Una geometria variabile, nella struttura del sistema degli scambi commerciali e finanziari tra i Paesi dell’allargamento, dovrebbe durare per l’intero periodo di moratoria nell’applicazione degli accordi istituzionali, ancora da maturare a oggi, ed essere gestita in maniera da poter arrivare, contemporaneamente, all’applicazione operativa di quegli accordi e al superamento della regolamentazione parziale degli scambi di merci e di capitali. Questa soluzione avrebbe una rigorosa coerenza logica interna e corrisponderebbe alla situazione di fatto in cui si trova l’economia europea nel trapasso tra XX e XXI secolo e nel contesto dell’intera economia mondiale.
L’economia europea si espande più lentamente di quella degli Stati Uniti ma questo scarto non è la mera manifestazione di una sfasatura tra cicli congiunturali. Esso rispecchia un gradino strutturale nella produttività complessiva dei due sistemi economici che dipende dal vantaggio tecnologico che l’economia americana ha accumulato su quella del Vecchio Continente e dal maggior costo degli apparati pubblici europei (il welfare state) rispetto a quelli americani, che assorbe una parte delle risorse che l’Europa dovrebbe destinare all’accelerazione della crescita piuttosto che alla distribuzione del benessere. Ne segue che, nell’agenda della politica economica, non è l’inflazione il principale problema europeo mentre il cambio tra euro e dollaro dovrebbe rispecchiare le deboli ragioni di scambio tra le esportazioni americane e quelle europee.
Dunque, è la terza sponda del trilemma di Rodrik che deve essere governata con maggiore discrezionalità. In altre parole dovrebbe essere meglio modulato, nel tempo e negli ambiti di attuazione, il processo di allargamento del numero dei Paesi partecipanti all’Unione Europea. Questa linea di politica economica non richiederebbe un freno al processo di liberazione degli scambi ma dovrebbe solo creare, nel medio periodo, le condizioni strutturali perché quel processo possa dispiegare i suoi effetti virtuosi. Una partenza precipitosa potrebbe apparire più generosa, da parte dei Paesi fondatori dell’Unione verso i nuovi entranti, ma aumenterebbe i rischi di quella scelta, necessaria nel medio periodo, senza moltiplicarne le opportunità. Sarebbe solo meno efficiente.
Una parentesi: cosa sono e come funzionano i mercati finanziari?
Le banche e la banca centrale non sono gli unici intermediari finanziari. Un intermediario finanziario è una impresa che consente il trasferimento della liquidità esistente nel sistema dagli attori che non ne hanno un immediato bisogno a quelli che desiderano impiegare una quantità di moneta che eccede la dimensione delle proprie scorte liquide. Gli intermediari finanziari sono le imprese che danno vita ai mercati finanziari. I consumatori che hanno raggiunto un livello accettabile di consumo, dato il proprio reddito e una volta pagate le imposte e le tasse, restano in possesso di una certa quantità di moneta legale e di moneta bancaria che possiamo considerare il flusso di nuovo risparmio generato nel sistema. Anche le imprese e gli enti pubblici potrebbero trovarsi in questa condizione, ma è più difficile.
Le imprese devono investire in impianti, conoscenze e nuove attrezzature tecnologiche, se vogliono garantirsi la possibilità in futuro di rimanere sul mercato in termini competitivi. Il fabbisogno di moneta necessario per alimentare questi investimenti risulta spesso superiore agli incassi derivanti dalle vendite di beni e servizi. Anche gli enti pubblici devono spendere, per garantire servizi e prestazioni agli utenti, somme superiori a quelle derivanti dal gettito delle tasse e delle imposte. Imprese ed enti pubblici devono recuperare moneta bancaria attraverso i crediti delle banche e i finanziamenti degli intermediari finanziari non bancari. I consumatori devono impiegare le eccedenze monetarie di cui dispongono par garantirsi un reddito futuro e per fronteggiare, con investimenti assicurativi, il manifestarsi di eventi dannosi, il costo dei quali non potrebbero sopportare solo con il proprio reddito.
Gli intermediari finanziari trasferiscono la moneta e la liquidità del sistema dagli attori in surplus, quelli che possono risparmiare una parte del proprio reddito, agli attori in deficit, quelli che devono realizzare investimenti privati o servizi pubblici e hanno bisogno di una massa liquida superiore a quella di cui dispongono.
Ma come si distinguono le banche e la banca centrale dagli altri intermediari finanziari? Un criterio molto facile da applicare è quello di considerare la natura dei debiti degli intermediari. I debiti della banca centrale e quelli delle banche sono moneta legale e moneta bancaria: mezzi liquidi spendibili facilmente nelle transazioni commerciali. Gli altri intermediari, come le compagnie di assicurazione o gli istituti specializzati nel credito a medio termine, raccolgono la liquidità dei risparmiatori emettendo titoli di debito che non sono facilmente liquidabili. E, proprio per questo motivo, corrispondono un interesse a chi acquista quei titoli molto più alto di quello corrisposto dalle banche ai depositanti.
Questo interesse rappresenta un premio sia per il tempo, più lungo, durante il quale il risparmiatore non potrà disporre del proprio denaro, che per il rischio che il risparmio sopporterà essendo trasferito dall’intermediario alla copertura dei progetti delle imprese o delle opere infrastrutturali realizzate dallo Stato o da altri enti pubblici. I tassi di interesse, sulle obbligazioni e gli altri titoli finanziari, infatti, sono proporzionali alla durata degli investimenti da realizzare e al rischio che essi generano, essendo realizzati in circostanze, che non si possono definire con certezza nelle loro conseguenze, proprio perché manifestano i propri effetti nel corso del tempo e in un futuro abbastanza distante dal presente e che non ripeterà necessariamente le medesime vicende accadute in passato.
Esistono sistemi finanziari orientati al mercato, come quelli anglosassoni, in cui larga parte del rischio dei progetti industriali viene trasferito ai risparmiatori attraverso la quotazione in borsa delle azioni emesse dalle imprese, e sistemi orientati agli intermediari, nei quali il rischio si concentra negli intermediari finanziari che restano creditori delle imprese e degli Stati e debitori verso la massa dei risparmiatori. La storia finanziaria europea è stata caratterizzata da questo secondo genere di circostanze. Ma, con la progressiva unificazione dei mercati finanziari in un unico grande mercato globale, realizzatasi nella seconda metà del XX secolo, il modello anglosassone è diventato largamente prevalente. Anche i paesaggi finanziari, diceva un grande banchiere americano, sono sempre caratterizzati dalla diffusa presenza di banche, come i filari di cipressi caratterizzano il profilo dell’orizzonte nella campagna toscana.
Il mercato finanziario globale e la rivoluzione delle telecomunicazioni
L’economia mondiale ha oscillato molte volte, prima del XX secolo, tra i due possibili assetti che governano la crescita dei singoli Paesi e lo sviluppo del commercio internazionale: lunghi periodi dominati da grandi nazioni, l’economia delle quali era gestita in una prospettiva sostanzialmente autarchica, e lunghi periodi di integrazione globale, governata dalle nazioni capaci di rappresentare il centro del sistema mondiale. La stagione dell’impero romano, o la grande influenza delle repubbliche marinare sull’intero bacino di relazioni riconducibili al comune mare Mediterraneo, rappresentano due esempi di questa possibile integrazione in epoche precedenti e lontane dal XX secolo.
Il ciclo di chiusura e di apertura delle relazioni internazionali, che si legge nello svolgersi del Novecento risulta, invece, segnato da un singolare ribaltamento che si realizza proprio nel corso del suo svolgimento. Nell’ultimo decennio del secolo XIX e negli anni che precedono la prima guerra mondiale, sembra avviato un processo di integrazione dei mercati finanziari e degli stili di vita che anticipa, per certi versi, i tratti della globalizzazione economica che si realizza solo successivamente, nel trapasso tra il XX secolo e quello in cui viviamo.
Il livello di sviluppo dei mercati finanziari mondiali nel 1913 appare molto simile a quello del 1990. In gran parte dei Paesi industriali la quota dei depositi bancari sul totale del prodotto interno lordo appare nel 1913 simile a quella che si registrerà nel 1980. La capitalizzazione delle borse mondiali, cioè il valore complessivo dei titoli azionari in esse scambiate, è maggiore nel 1913 rispetto al 1980 e bisogna aspettare il 1990 perché i livelli del 1913 siano recuperati. Ovviamente queste differenze di ordine quantitativo sulla dimensione dei mercati finanziari non esauriscono la diversità tra la situazione agli inizi del XX secolo e quella osservabile alla fine di quel periodo. Nel 1913 i mercati di borsa del Belgio, della Francia e della Russia superano per dimensione degli scambi ed emissione dei titoli quello degli Stati Uniti. Il mercato più importante in Europa risulta essere quello del Regno Unito, che supera le dimensioni di quello americano nel 1913 e domina la graduatoria, misurando la capitalizzazione di borsa in percentuale del prodotto interno lordo, ancora oggi. Ma solo per motivi collegati alla dimensione del denominatore oltre che a quella delle transazioni finanziarie.
La contrapposizione tra economie di mercato ed economie socialiste, le paure indotte dalla grande crisi del 1929, le conseguenze implicitamente deflattive del sistema di gold standard nella gestione del sistema monetario internazionale e la chiusura autarchica e interventista delle singole politiche economiche nazionali sono le cause di una prolungata flessione nelle dimensioni e nel livello di integrazione tra i mercati finanziari mondiali nel corso del XX secolo.
Il mercato finanziario europeo si riprenderà solo negli anni Ottanta mentre quello americano avrà un impennata clamorosa negli anni Novanta e la discesa dei corsi dovrà essere governata dalla banca centrale nel trapasso verso il nuovo secolo.
A questa impennata del mercato americano concorre anche la rivoluzione tecnologica che ha rivoluzionato la produzione e il trasferimento a distanza delle informazioni. Aprendo la strada a un salto nella produttività dell’intero sistema economico americano e non solo nei settori direttamente collegati alla telefonia, al personal computing e alla digitalizzazione del trattamento dell’informazione. La fine della guerra fredda, e gli effetti di questa terza rivoluzione tecnologica, hanno favorito la integrazione dei mercati finanziari internazionali. La liberalizzazione dei movimenti di capitale e l’emergere di nuovi protagonisti sulla scena economica, come i Paesi del Far East e dell’America Latina, ha moltiplicato le opportunità per la emissione di titoli e la raccolta del risparmio oltre che per la canalizzazione di quel risparmio verso gli investimenti realizzati nelle economie emergenti. Si può affermare, quindi, che il primo mercato globale sia stato proprio il mercato finanziario e che questo sia potuto avvenire proprio perché le nuove tecnologie per gestire il trasferimento delle informazioni, nel tempo e nello spazio, hanno determinato un grande salto di produttività per gli intermediari finanziari. Ma questa integrazione mondiale del sistema dei pagamenti e dei processi di trasferimento, dal risparmio agli investimenti, delle risorse disponibili è stata, a sua volta, una grande leva del processo di integrazione economica tra i mercati dei beni e dei servizi. La semplificazione del sistema monetario internazionale, con la riduzione delle monete di riserva a tre sole valute (il dollaro, l’euro e lo yen) è stata la condizione di contesto che, collegandosi alle grandi trasformazioni tecnologiche e alla piena liberalizzazione del commercio mondiale, ha permesso la nascita del mercato globale, e delle sue grandi infrastrutture logistiche, per le merci e i servizi, non solo per la gestione dei pagamenti e il trasferimento di capitali finanziari tra le varie economie del mondo.