Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
La storia della Gran Bretagna nel XX secolo è innanzitutto quella di una grande potenza coloniale, la maggiore del suo tempo, che affronta progressivamente la decadenza dell’imperialismo europeo, e nel corso di molti decenni, attraverso un periodo di convulsione e quasi di autodistruzione della civiltà europea, riconverte la sua collocazione politica ed economica nello scenario mondiale. Una trasformazione che, grazie alla solidità della cultura politica e delle istituzioni britanniche, avviene senza traumi devastanti e collassi, nel segno di una complessiva continuità. La lotta contro i totalitarismi in nome del modello liberaldemocratico, l’alleanza e la “relazione speciale” con gli Stati Uniti, l’introduzione dello stato sociale nel segno di un equilibrio tra socialismo riformista ed economia di mercato, la vocazione al ruolo di crocevia economico tra l’Europa e gli scambi planetari, l’apertura all’innovazione scientifico-tecnologica, ne sono i caratteri dominanti di lungo periodo.
La stabilizzazione democratica nel declino dell’impero
Per il Regno Unito l’ingresso nel nuovo secolo è segnato dalla fine del lunghissimo regno della regina Vittoria e dalle ripercussioni interne e internazionali del conflitto anglo-boero in Sud Africa. I due eventi sono particolarmente rappresentativi di una cesura importante nella storia inglese. Termina un lunghissimo periodo di espansione internazionale, nel quale era stato consolidato l’impero coloniale e commerciale che aveva reso la Gran Bretagna la maggiore potenza mondiale, e si era consolidato all’interno il regime costituzionale parlamentare, con una riuscita transizione verso un ordinamento propriamente democratico e l’evoluzione del tradizionale bipartitismo whigs/tories in una nuova alternanza tra tories e liberali, le cui figure centrali erano state incarnate dalla leadership di William Gladstone (1809-1898) e Benjamin Disraeli (1804-1881).
Il Novecento si apre con il primo vero scacco alla politica di potenza britannica, al quale si unisce l’insoddisfazione sociale ormai diffusa delle sempre più numerose classi operaie. Sarà su questa base che tra il primo e il secondo decennio del XX secolo si verificherà un’ulteriore evoluzione del sistema politico inglese: non soltanto il ritorno al governo dei liberali, ma la nascita di un’alleanza “progressista” tra questi ultimi e il nuovo Labour Party, organizzazione politica socialista nata dalla rete del sindacato industriale. Con i governi di Herbert Henry Asquith (1852-1928), ma soprattutto con quelli guidati da David Lloyd George (1863-1945), il laburismo entrerà stabilmente nella dinamica della democrazia inglese, inserendo a pieno titolo, anche culturalmente, la prospettiva socialista all’interno di un orizzonte liberale, e articolando il bipartitismo in un sistema tripartitico che si rivelerà però sostanzialmente provvisorio: nel giro di pochi decenni, infatti, il partito laburista sostituirà in tutto e per tutto, come polo di sinistra del sistema, il declinante Partito Liberale, approdando per la prima volta con James Ramsay MacDonald (1866-1937) alla guida dell’esecutivo, pur se attraverso un periodo di transizione contrassegnato spesso da governi di coalizione eterogenei.
Proprio sotto il governo Asquith, nel 1911 è varata una legge di fondamentale importanza che sancisce la netta cesura con un passato di regime elitario-aristocratico e caratterizza più nettamente la Gran Bretagna come democrazia: il Parliament Act, con cui i poteri di veto tradizionalmente propri della Camera dei Lords vengono drasticamente ridotti, dando una effettiva autonomia al governo e consolidando il potere democratico della maggioranza nella Camera dei Comuni. Intanto, in India nel 1909 e nel 1919 vengono varate riforme non meno significative, che aprono la strada alla rappresentanza politica e alla partecipazione alla pubblica amministrazione da parte degli abitanti della più grande colonia britannica; e nel 1921 è concesso all’Irlanda lo statuto di dominion, che le conferisce una certa autonomia.
È in questa fase evolutiva che la Gran Bretagna viene coinvolta nello scoppio della Grande Guerra, come alleata della Francia e della Russia nella Triplice Intesa contro gli imperi centrali. Nel dopoguerra, e alla luce dell’enorme mutamento dell’assetto europeo determinato dalla rivoluzione bolscevica in Russia, la politica internazionale del Regno Unito si trova stretta tra priorità diverse: il tentativo di ricostruire un equilibrio tra le potenze continentali, evitando sia il ritorno dell’imperialismo tedesco sia lo strapotere francese; la percezione della necessità di una ridefinizione dell’equilibrio mondiale su basi che superano il principio della mera potenza imperiale; la difesa del complesso di interessi legati alla propria eredità imperiale. A queste esigenze Lloyd George cerca di dare una risposta con la partecipazione alla ridefinizione dell’assetto continentale operata durante il trattato di pace di Versailles, e con l’appoggio al progetto del presidente americano Wilson per la fondazione della Società delle Nazioni. A complicare il quadro, sopraggiunge il fatto nuovo costituito dalla rivoluzione bolscevica in Russia, verso la quale la linea inglese sarà quella di una rigorosa contrapposizione (eccettuata la parentesi del primo governo MacDonald).
Nello stesso periodo, la Gran Bretagna si assume, insieme alla Francia, il delicato compito di guidare l’evoluzione politica del Medio Oriente dopo la fine dell’Impero ottomano, attraverso l’istituzione dei Mandati sui territori precedentemente soggetti a esso, nuovamente suddivisi, tra i quali agli inglesi spetta la gestione, oltre che dell’Iraq, della Palestina e della Transgiordania. In Palestina, in particolare, comincia a prendere corpo il conflitto tra i residenti arabi e gli ebrei rafforzati dalla cospicua immigrazione sionista, che la Gran Bretagna aveva scelto di sostenere con la dichiarazione del ministro degli Esteri Arthur James Balfour (1917), in cui si indica come obiettivo la formazione di un “focolare” ebraico in terra palestinese.
La scelta di campo democratico-occidentale e il welfare state
Con il delinearsi, sempre più marcato negli anni Trenta, di una netta divisione dell’Europa tra liberaldemocrazie e totalitarismo, la politica inglese si troverà sempre più divisa tra la tradizionale linea “multipolarista” della sua politica europea (espressa ancora dall’opera diplomatica dispiegata dal governo guidato da Neville Chamberlain (1869-1940) per la stipula degli accordi di Monaco del 1938) e la coscienza di un conflitto insanabile su base ideologica, in cui vengono trascesi i consolidati interessi internazionali britannici, mentre la struttura dell’impero coloniale comincia a scricchiolare sotto le campagne indipendentiste del Partito del Congresso Indiano, guidato da Gandhi. Un passaggio rappresentato esemplarmente dal cambio della guardia alla guida dell’esecutivo tra Chamberlain e Winston Churchill nel 1940, quando vengono sanciti il fallimento della politica dell’appeasement con la Germania hitleriana e la necessità di contrastare frontalmente l’alleanza nazifascista.
Dopo la guerra-lampo del maggio-giugno del 1940, che in poche settimane porta Hitler all’annientamento della macchina militare francese, e l’avventuroso trasbordo delle truppe anglo-francesi a Dunkerque, la Gran Bretagna rimane praticamente sola a fronteggiare l’avanzata tedesca, sotto una massiccia offensiva aerea che colpisce molto duramente la popolazione, ma non abbatte la ferma determinazione dell’intero Paese alla resistenza. L’attacco viene respinto soprattutto grazie all’aviazione britannica, che, nonostante l’inferiorità numerica, riesce a infliggere alla Luftwaffe, la forza aerea della Germania, perdite decisive. Intanto l’invasione tedesca della Russia, che rompe la solidarietà tra Hitler e Stalin sancita con il patto del 1939, e l’ingresso nel conflitto degli Stati Uniti, mutano notevolmente la situazione sul terreno anche per gli Inglesi. La fase finale della guerra vedrà le truppe britanniche partecipare, insieme a quelle statunitensi e alle residue forze francesi, all’offensiva sul fronte italiano, allo sbarco in Normandia, e infine all’occupazione dell’Italia e della Germania sconfitte. In questo periodo Churchill cerca di mantenere al suo Paese un ruolo da protagonista tra le grandi potenze insieme alle nuove forze emergenti sul piano mondiale, quella statunitense e quella dell’Unione Sovietica. Negli incontri di Teheran e di Jalta, insieme al presidente americano Roosevelt e al dittatore sovietico Stalin, il premier inglese partecipa all’elaborazione di una divisione delle aree di egemonia in cui la Gran Bretagna avrebbe dovuto svolgere una funzione di Paese guida rispetto al continente europeo.
In realtà, la Gran Bretagna esce dal secondo conflitto mondiale estremamente provata dal punto di vista economico e sociale. Gli anni dell’immediato dopoguerra sono tra i più duri mai vissuti dalla popolazione da secoli, segnati dall’austerità e dai razionamenti che colpiscono anche i beni di prima necessità. Più in generale, la fine della guerra segna per la Gran Bretagna un momento di epocale cambiamento sia nella propria struttura politica e sociale, sia nella propria identità in politica estera. Dal primo punto di vista, nel 1945 le elezioni politiche vedono la sconfitta di Churchill (che guida il Paese durante la guerra in un governo di coalizione nazionale) e la vittoria dei laburisti di Clement Attlee (1883-1967). Ma, soprattutto, il nuovo governo laburista vara l’ambizioso piano di riforme sociali, teorizzato negli anni della guerra da lord William Henry Beveridge (1879-1963), che viene denominato del welfare state: un programma fondato sull’assistenza medica statale gratuita, sulla creazione di un solido sistema di istruzione pubblica e sull’intervento massiccio dello Stato in lavori di pubblica utilità, ispirato all’esempio delle politiche sociali già messe in pratica in alcuni paesi scandinavi, ma per la cui rilevanza la Gran Bretagna diventerà nei decenni successivi il punto di riferimento fondamentale per tutti i governi della sinistra riformista.
Dal punto di vista della politica estera, in quegli anni si compie il processo di indipendenza dell’India, che sfocia nella spartizione tra i due Stati dell’India e del Pakistan, e costituisce il più importante episodio della dismissione della potenza coloniale britannica, che già dal 1931 si è in parte trasformata in un’area di collaborazione politica e libero scambio economico, il Commonwealth. Contemporaneamente, prendendo atto della nuova era che si apre con il confronto serrato tra Paesi liberaldemocratici guidati dagli Stati Uniti e totalitarismo sovietico, la classe politica inglese nel suo insieme si indirizza con convinzione verso una strategia imperniata sul rafforzamento dell’alleanza tra i Paesi democratici dell’Europa occidentale, e tra questi ultimi e gli Stati Uniti. È infatti innanzitutto il governo laburista britannico a chiedere agli Americani, abbandonando ogni incertezza neutralista della sinistra socialdemocratica europea, la permanenza della loro presenza militare in Europa a protezione delle democrazie del continente contro i rischi di invasione sovietica. Ed è l’ex primo ministro Churchill nel 1946 a rilanciare, riprendendo il progetto proposto insieme a de Gaulle nel 1940, l’idea dell’unità politica europea.
Il modello politico-economico del welfare state si consoliderà a tal punto in Gran Bretagna che anche quando, nel 1951, i conservatori torneranno al governo non ne aboliranno gli elementi fondamentali, che entreranno a far parte integrante e comunemente accettata del “paesaggio” politico-sociale britannico. Viceversa, la strada verso la nuova collocazione internazionale della Gran Bretagna si rivelerà non priva di contraddizioni e difficoltà. La strategia dell’unità europea, in primo luogo, non verrà perseguita con convinzione né dai laburisti né dai conservatori (incluso Churchill, che l’aveva lanciata), tanto che la leadership dei progetti europeisti sarà assunta alla fine degli anni Quaranta soprattutto dalla Francia, con il piano Schuman, e dall’asse tra Parigi, la neonata Repubblica Federale Tedesca e l’Italia. Il Regno Unito non aderirà né alla CECA (1951) né alla CEE (1957), e sceglierà di rimanere, sotto il profilo strategico generale ed economico, ai margini dell’area continentale europea, coltivando soprattutto le relazioni con i Paesi del suo Commonwealth, con quelli dell’Europa settentrionale e con gli Stati Uniti. Dal punto di vista della strategia politico-militare, poi, la promozione dell’Alleanza atlantica e la convinta adesione a essa non impediranno alla Gran Bretagna di continuare a tentare di giocare un ruolo di egemonia autonoma in alcune aree del globo, soprattutto nell’epoca in cui gli Stati Uniti, dopo la morte di Stalin e le prime caute aperture distensive della nuova dirigenza comunista sovietica, cominciano a perseguire una politica di dialogo diretto con l’Urss, abbandonando la concertazione tra i Paesi occidentali. Gli esiti più clamorosi di questa linea saranno l’attacco militare lanciato insieme alla Francia contro l’Egitto per forzare il blocco del canale di Suez (1956) – che termina con un grave scacco per le due potenze europee, soprattutto a causa della presa di distanza da parte degli Stati Uniti – e la decisione inglese di varare un proprio programma di armamento atomico indipendente da quello della NATO.
La crisi del modello welfarista e la rivoluzione thatcheriana
I tardi anni Cinquanta e i primi anni Sessanta si caratterizzano in Gran Bretagna come un’epoca in cui finalmente la ripresa economica del dopoguerra e la sicurezza sociale creata dal welfare state divengono palpabili, e si traducono in una società mobile, culturalmente vivace, percorsa da grandi spinte di rinnovamento. Sono gli anni che sfociano nella cosiddetta swinging London, il periodo in cui la capitale britannica diviene il centro pulsante di una frenetica creatività e di soluzioni innovative nell’arte, nella moda, nella musica, nella cultura giovanile, ben presto diffuse in tutto il mondo. Ma a partire dalla metà degli anni Sessanta, complice una situazione economica internazionale che evolve in senso recessivo e l’emergere, come in tutti i Paesi industrializzati occidentali, di una nuova forte conflittualità sociale intrecciata con le rivendicazioni di inserimento sociale da parte della numerosa generazione dei baby boomers, cominciano a manifestarsi i primi segni di logoramento del modello economico e politico che ha guidato la rinascita del dopoguerra, appesantito dai costi sempre meno sostenibili della burocrazia e dei servizi pubblici. Tra gli anni Cinquanta e gli anni Settanta il Paese continua a essere guidato prevalentemente da esecutivi a maggioranza laburista – con l’intermezzo conservatore del governo di Edward Heath (1916-2005) dal 1970 al 1974 –, ma il laburismo inglese sembra complessivamente aver perso gran parte della sua capacità di innovazione. Alla crisi economica si aggiungerà poi anche la recrudescenza del problema irlandese, iniziata nel 1967 con le sollevazioni del Nord ancora occupato dagli Inglesi, e che si trascinerà, tra attentati terroristici e moti di piazza, ancora nei decenni successivi.
Un segno delle incerte prospettive del periodo si può scorgere anche nel mutamento di atteggiamento da parte britannica sul processo di integrazione europea, culminato con la decisione di richiedere l’adesione alla CEE, della quale il Regno Unito entrerà a far parte nel 1973. L’ingresso nella Comunità non modificherà però nella sostanza la particolarissima e delicata collocazione del Regno Unito rispetto ai Paesi dell’Europa continentale, ancora sospesa tra la necessità di coltivare rapporti economici e politici e quella di mantenere altre sfere di collaborazione privilegiata e influenza a livello più ampio.
Il lento declino dell’insularità britannica e del welfare comincia ad assumere ritmi più sostenuti verso la metà degli anni Settanta, acuito dalla grande crisi economica mondiale innescata dall’embargo petrolifero arabo. L’economia britannica è sempre più in difficoltà, fondata com’è su una grande industria e un settore minerario ormai obsoleti, ma sostenuti dalla mano pubblica ad altissimi costi, e dagli ormai insostenibili oneri fiscali derivanti dal mantenimento dello Stato sociale, divenuto una macchina pletorica e sempre più inefficiente. L’enorme incremento della disoccupazione giovanile si traduce nel prevalere di un cupo pessimismo e di una disaffezione complessiva delle nuove generazioni nei confronti delle istituzioni. Se i primi anni Sessanta erano simboleggiati dalle gioiose melodie dei Beatles e dalla lussureggiante fantasia della nuova grafica pop, i medi e tardi anni Settanta sono racchiusi nell’estetica lugubre e rabbiosa della nuova musica punk, nel suo nichilismo iconoclastico, e nello slogan “no future” lanciato da John Lydon, cantante dei Sex Pistols.
È in questo contesto che va compreso il fondamentale spartiacque storico del 1979, quando le elezioni politiche vedono non soltanto la sconfitta rovinosa dei laburisti e il ritorno al potere dei conservatori, ma soprattutto l’avvento al governo di una personalità politica profondamente innovativa come quella di Margaret Thatcher (1925-2013). Il nuovo premier britannico si caratterizza immediatamente per una fortissima discontinuità rispetto all’assetto economico e sociale dominante nei decenni precedenti. Il suo disegno strategico è innanzitutto quello di rilanciare l’economia e di rivitalizzare la società britannica attraverso una terapia shock che prevede l’iniezione in dosi massicce della logica dell’economia di mercato in tutti i settori, e la soppressione di ogni isola di protezione corporativa e parassitaria. In questa direzione la Thatcher vara un programma di radicale revisione del modello del welfare state, che si traduce in un taglio deciso delle spese improduttive, e promuove una gigantesca liberalizzazione economica, sottraendo il sostegno pubblico a settori irrimediabilmente in crisi, e favorendo l’investimento di capitali privati, sia interni che esteri. I primi anni del governo thatcheriano sono caratterizzati da un fortissimo malcontento delle vaste categorie sociali colpite dall’ambizioso processo di ristrutturazione neoliberale (memorabile il lunghissimo sciopero dei minatori nel 1984, concluso con la vittoria del governo e il tracollo dell’ala operaista del laburismo). Ma già verso la metà del decennio appare chiaro che il Paese ha voltato la pagina più nera della sua crisi, e si avvia a diventare uno tra i principali protagonisti della nuova economia mondiale, che si sta orientando sempre più verso la globalizzazione degli scambi, e nella quale la Gran Bretagna ben presto si caratterizza soprattutto come leader nei settori delle alte tecnologie e del terziario avanzato. Come era avvenuto per il welfare state socialdemocratico più di trenta anni prima, anche il programma liberista della Thatcher si profila come il battistrada di un nuovo assetto della politica economica in gran parte dei Paesi altamente industrializzati, a partire dagli Stati Uniti di Reagan (1911-2004), dalla Cina di Deng Xiao Ping (1904-1997), dall’India degli anni Novanta.
Post-thatcherismo: il New Labour di Blair e il nuovo protagonismo britannico
Quando, nel 1992, un nuovo periodo di contrazione economica a livello internazionale spingerà gli stessi conservatori a defenestrare la Thatcher, sostituendola con il più moderato John Major (1943-), la rivoluzione thatcheriana sarà ormai compiuta e, anche in questo caso analogamente al welfare laburista, non facilmente reversibile. L’esigenza sempre più emergente nella società inglese sembra essere nel corso degli anni Novanta soprattutto quella di correggere il modello thatcheriano nel senso della promozione della mobilità sociale, della riconversione dei soggetti “deboli” nel mondo del lavoro, della rimodulazione del welfare secondo le esigenze di una società divenuta più frammentata e variegata. Mentre il partito conservatore si rivela paralizzato e incapace di gestire in questo senso l’eredità thatcheriana, al contrario i laburisti riescono a captare i mutamenti profondi avvenuti nella società britannica, emarginando decisamente la loro ala massimalista e socialdemocratica più tradizionalista, e promuovendo ai loro vertici la leadership del giovane Tony Blair (1953-), che orienta il partito in senso decisamente più liberale e favorevole all’economia di mercato, sancendo anche simbolicamente la discontinuità rispetto al passato con la denominazione New Labour e con l’elaborazione a livello culturale della strategia della “terza via”, intesa a innovare profondamente il significato delle nozioni di eguaglianza e giustizia sociale. Sicché, quando nel 1997 i laburisti, dopo quasi vent’anni di ininterrotto dominio conservatore, vincono le elezioni politiche, l’opera di governo di Blair si caratterizza immediatamente non tanto come il rovesciamento della rivoluzione thatcheriana, quanto come una sua assimilazione ed una sua evoluzione nel senso di un ampliamento “democratico” della libertà d’iniziativa economica e della concorrenza. Complice anche l’iniziale, e apparentemente travolgente, successo della new economy, cioè delle nuove imprese basate su internet, in Gran Bretagna si consolida una robusta classe media affluente, nell’ambito di un’economia caratterizzata da una costante mobilità, con disoccupazione ridotta praticamente a zero e notevoli prospettive di inserimento e ascesa da parte dei newcomers. Anche nell’assistenza sociale, nella scuola e nell’università Blair elimina le ultime sacche di inefficienza parassitaria, puntando in particolare sulla formazione professionale e sulla libertà di scelta delle famiglie tra proposte concorrenziali.
Nella politica internazionale, intanto, il governo Blair si connota per un nuovo protagonismo del Regno Unito nella mobile e incerta situazione internazionale seguita alla fine della guerra fredda. In particolare, davanti all’evidente inadeguatezza dell’ONU e dell’Unione Europea nei confronti dei conflitti etnico-nazionalistici esplosi nell’Europa dell’Est, soprattutto nella ex Jugoslavia, Blair e il suo ministro degli Esteri Robin Cook si pongono al fianco degli Stati Uniti a favore di un intervento militare della NATO in Bosnia e in Kosovo contro il regime nazionalcomunista del dittatore serbo Slobodan Milosevic, e in generale promuovono un’azione attiva di “ingerenza umanitaria” della comunità internazionale guidata dai Paesi liberaldemocratici occidentali nelle principali aree di crisi del mondo. Per quanto riguarda la costruzione europea, i governi Blair si sono caratterizzati per una sostanziale continuità con la linea tenuta dal Paese fin dagli anni Settanta, cioè quella di un’adesione limitata e condizionata, pur con qualche accentuazione iniziale di maggiore volontà integrazionista. Il Regno Unito, pur tenendo le cifre della sua finanza pubblica all’interno dei parametri indicati dal trattato di Maastricht, non ha aderito alla moneta unica europea. Negli ultimi anni, poi, di fronte all’emergere di dissidi di fondo tra i maggiori Paesi membri sui principi fondanti dell’integrazione e sulla politica internazionale, si è battuto per far passare una linea di maggiore autonomia degli Stati anche nel dibattito sulla “costituzione” dell’UE poi sullo sviluppo delle istituzioni comunitarie dopo lo stallo di quest’ultima.
L’inizio del XXI secolo ha visto la Gran Bretagna, ancora sotto la guida di Blair, mantenere e approfondire, sia all’interno sia verso l’esterno, la direzione di marcia intrapresa negli anni precedenti. In particolare, in politica estera la svolta drammatica imposta dall’attacco integralista islamico dell’11 settembre 2001 agli Stati Uniti e la successiva evoluzione delle tensioni nell’area mediorientale hanno rappresentato per la strategia blairiana un impegnativo banco di prova. Davanti alla determinazione del presidente statunitense Bush jr. a rispondere militarmente alla sfida islamista attraverso la guerra prima contro il regime dei talebani in Afghanistan, poi contro quello di Saddam Hussein in Iraq, e di fronte all’aperta dissociazione di molti Paesi europei – in primo luogo Francia e Germania – rispetto alla politica americana, il premier britannico ha scelto con decisione di partecipare all’impresa militare intrapresa dagli Stati Uniti, condividendo sostanzialmente l’idea che l’espansione dell’integralismo islamico può essere combattuta con successo dall’Occidente soltanto mediante un accresciuto impegno, politico e militare, nel contesto politico mediorientale, e un’azione costante di promozione, in esso, di uno sviluppo in senso liberaldemocratico.