La grande bouffe
(Francia/Italia 1973, La grande abbuffata, colore, 123m); regia: Marco Ferreri; produzione: Vincent Malle per Mara Film/Capitolina Produzioni Cinematografiche/Films 66; soggetto: Marco Ferreri; sceneggiatura: Rafael Azcona, Marco Ferreri; fotografia: Mario Vulpiani; montaggio: Claudine Merlin; scenografia: Michel De Broin; costumi: Gitt Magrini; musica: Philippe Sarde.
Quattro amici si danno convegno: sono Ugo, proprietario di un ristorante e cuoco sopraffino, Michel, funzionario televisivo, Marcello, pilota di linea e Philippe, magistrato. Il luogo del ritrovo è la villa di quest'ultimo. Le dispense sono stipate di provviste, dal momento che i quattro compari sono decisi a morire mangiando a dismisura. Mentre iniziano i lauti pasti, Marcello invita alcune prostitute. A loro si aggiunge Andréa, una maestra che aveva portato la propria classe in visita al giardino della villa, dove il 'tiglio di Boileau' troneggia accanto alla lapide che ricorda il soggiorno del poeta francese nella casa. Le prostitute presto se ne vanno nauseate. La maestra invece resta; Philippe le si dichiara e anche gli altri, a turno, godranno delle sue abbondanti grazie. Andréa partecipa ai sontuosi banchetti fino alla morte dei convitati in circostanze differenti: Marcello congelato di notte, sotto la neve, su una vecchia Bugatti; Michel con la pancia gonfia d'aria; Ugo per indigestione, mentre si fa mestamente masturbare da Andréa; Philippe nel giardino, dopo aver gioiosamente mangiato un grosso budino che ha la forma di due seni femminili. Andréa rientra in casa sola, mentre i cani ululano ai garzoni della macelleria che stanno portando nuove vivande.
Per certi versi, La grande bouffe può essere considerato l'ultimo dei classici antiborghesi, esempio di un cinema ancora in grado di scandalizzare la mentalità comune, anche se oggi la sua macabra allegria appare più vitale della provocazione ideologica e il suo apologo anticonsumistico meno oltraggioso di quanto sembrò all'epoca (vi fu il sindaco di una cittadina italiana che dichiarò di volerne impedire la proiezione nel proprio comune, a ogni costo). Intriso fin nelle più intime fibre delle immagini della propria epoca, ovvero gli anni Settanta (le basette lunghe, i pullover attillati, gli stivali lucidi al ginocchio, la lacca sui capelli, i toni psichedelici dei costumi, lilla, viola, arancione, rosa), il film getta le fondamenta del proprio impianto affabulatorio su un allusivo e schematico simbolismo sociale (il Giudice, il Giornalista, il Cuoco...), e ancor di più su un freudismo eretto a realtà biologica: tutto è condizionato dalla soddisfazione dei bisogni primari (il sesso e il cibo). La maestrina, figura femminile che sfugge alle tradizionali categorie di madre o amante per accettare quella di accompagnatrice dei personaggi verso la loro fine, senza cercare di dissuaderli, è l'unica presenza che sembra sottrarsi a un rituale in cui la borghesia, che ha svuotato il mondo di qualsiasi significato, si autosopprime, appagando così il proprio illimitato desiderio di un corpo che non conosce più la naturalezza del bisogno.
Marco Ferreri, come sempre, non sopravvaluta il cinema della messa in scena; predilige la tecnica dell'accumulo, l'opacità, la sorda elementarità della disposizione dell'inquadratura, l'"immobilità figurativa" (P.P. Pasolini), che trovano un'applicazione congeniale e rivelatrice soprattutto in questo film sulla promiscuità di corpi e cibo, orifizi e pietanze, fragranze e orgasmi. A questo, una squadra prestigiosa di attori di scuola ed esperienze difformi presta un'incondizionata, a tratti sperimentale espressività dal sapore terminale. In ogni caso, il passo stilistico è, in questo film più che altrove, lo stesso dei corpi che abitano le inquadrature con torpore allucinato o malinconia: la paradossale fisiologia della sua scansione è segnata dalla meccanica di 'riempimento e svuotamento'. Dalla sazietà catatonica, "con lo stomaco traboccante e i genitali svuotati" (A. Moravia), emana la purezza di una sopravvivenza animale che si trasforma ‒ è la vera trasgressione, sorprendente e lancinante ‒ nella ineluttabile vocazione all'autodistruzione. Nel finale, le carni morte dei cadaveri animali saranno depositate nei pressi dei corpi umani inanimati.
Luis Buñuel parlò di La grande bouffe come di un "monumento all'edonismo" e alla "tragedia della carne", eppure oggi esso riluce, piuttosto, come un film della più intransigente e ingrata lucidità: il cinema nato e sospinto dal bisogno della liberazione del mondo che si rovescia fulmineamente, con la stessa determinazione e urgenza, nel cinema che invoca una liberazione dal mondo (stessi anni, stessa propensione funebre, stesso scetticismo senza riscatto di Ultimo tango a Parigi). Se qualcosa lo ha trasformato in un classico, non è più la sferzata castigatoria del 'Rabelais negativo', ma la pena fredda, serena e inconfessabile di questa sorta di catari alimentari (di "anacoreti al contrario", come scrisse Goffredo Fofi), che potrebbe anche chiamarsi 'carità' (inclinazione di cui il film è impregnato, almeno quanto lo è dello sberleffo o della satira): la carità di un gruppo di goliardi di fine millennio che praticano, l'un l'altro, il suicidio amorevole via esofago.
Interpreti e personaggi: Ugo Tognazzi (Ugo Baldazzi), Michel Piccoli (Michel), Marcello Mastroianni (Marcello), Philippe Noiret (Philippe), Florence Giorgetti (Anne), Andréa Ferréol (Andréa), Monique Chaumette (Madeleine), Michèle Alexandre (Nicole), Solange Blondeau (Danielle), Henri Piccoli (Hector), Luis Navarre (Braguti), Bernard Menez (Pierre), Cordelia Piccoli (Barbara), Rita Scherrer (Anulka), James Campbell (Zac), Patricia Milochevitich (Mini), Mario Vulpiani (co-pilota), Giuseppe Maffioli (lo chef), Gérard Boucarou (l'autista), Margaret Honeywell e Annette Carducci (le hostess), Eva Simonnet (la segretaria).
M. Ferreri, R. Azcona, La grande abbuffata, Milano 1973.
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A. Moravia, in "L'Espresso", 26 agosto 1973.
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G. Fofi, La grande abbuffata, in "Quaderni piacentini", n. 52, 1974.
A. Ferrero, La grande abbuffata, in "Cineforum", n. 132, maggio 1974.
P.P. Pasolini, Le ambigue forme della ritualità narrativa, in "Cinema nuovo", n. 231, settembre-ottobre 1974.
M. Kinder, Life and death in the cinema of outrage, or The Bouffe and the Barf, in "Film quarterly", n. 2, winter 1974-75.
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