La grande crisi del nuovo secolo
Fra la metà degli anni Novanta del 20° sec. e i primi sei anni di quello successivo, l’economia mondiale conobbe uno sviluppo senza precedenti nella storia per intensità, continuità e diffusione. Nuove economie, quelle dette emergenti, soprattutto dell’Asia, ma anche dell’America Latina, si scossero dal torpore del sottosviluppo e si affacciarono con prepotenza sulla scena del commercio mondiale. Le economie mature continuarono nel loro progresso, coniugando una crescita soddisfacente con un’occupazione alta e un’inflazione bassa. All’interno di ciascun Paese aumentavano, è vero, le disuguaglianze, ma i livelli di benessere comunque miglioravano.
Vi furono, in questo periodo, due crisi finanziarie di non piccola portata: la prima, nel 1997-98, dovuta al collasso di alcuni Paesi asiatici e della Russia e, a seguire, di un grandissimo fondo di investimento; l’altra, proprio all’inizio del nuovo secolo, con una caduta pronunciata e prolungata del mercato azionario come reazione agli eccessi speculativi del quinquennio precedente. In entrambi i casi, tuttavia, la crisi rimase geograficamente contenuta, e le conseguenze sull’economia reale furono relativamente modeste. Anzi, gli anni successivi al 2002 e prima della grande crisi saranno ricordati come quelli più scintillanti in un periodo d’oro della storia capitalistica: crescita del prodotto mondiale elevata e stabile, guidata dalle economie emergenti, e al contempo bassa inflazione, che pareva giustificare politiche monetarie accomodanti; tumultuoso sviluppo della finanza, in condizioni di abbondante liquidità, con bassi tassi d’interesse; un’ampia e crescente disponibilità di credito per investimenti in attività reali e in impieghi finanziari; volatilità singolarmente bassa delle variabili sia reali sia finanziarie e, in conseguenza, riduzione del rischio percepito. Parevano rimossi i vincoli di bilancio: non vi fu chi scrisse di una ‘fine della storia (economica)’, ma lo spirito dei tempi era quello.
Avvenne invece che il periodo d’oro ebbe una fine improvvisa e traumatica. All’inizio dell’estate 2007, nei mercati si comprese che le crescenti insolvenze dei mutui ipotecari liberalmente concessi negli Stati Uniti avrebbero causato un sostanziale deprezzamento di una buona parte delle attività finanziarie legate al credito fondiario. Quello shock, che in sé pareva poca cosa rispetto alle dimensioni dell’industria finanziaria mondiale, bastò a far collassare l’intero castello di carte che anni di crescita incontrollata e poi degenerata della finanza avevano eretto. Le conseguenze ben si possono definire epocali. Una crisi finanziaria senza precedenti si è manifestata in una caduta drastica e improvvisa dei prezzi di prodotti finanziari privi ormai di mercato; nel venir meno della fiducia reciproca nelle relazioni fra controparti dell’industria finanziaria, con il blocco delle arterie che distribuiscono il credito all’economia e tassi di mercato monetario a livelli record; in un processo disordinato di contrazione del credito; in perdite sempre più gravi subite dalle banche; in un crollo delle borse; in un’impennata della volatilità. Negli Stati Uniti e nel Regno Unito sono falliti o sono finiti in amministrazione controllata grandissimi istituti che dominavano la finanza mondiale, e con essi decine di banche locali e storiche istituzioni del credito fondiario. Le banche centrali hanno messo in opera interventi senza precedenti per dimensione e natura. Non solo negli Stati Uniti, l’intervento pubblico, un tempo deprecato, è stato invocato per sostenere o ricapitalizzare le banche, le cui perdite, in continuo aumento, sfiorano oggi i 3000 miliardi di dollari. Le perdite dovute al crollo dei mercati azionari e alla caduta dei prezzi degli immobili si misurano in decine di migliaia di miliardi.
Sin dal 2008, la crisi finanziaria si è trasmessa all’economia reale: prima negli Stati Uniti, poi nelle altre economie industrializzate, infine nel mondo intero. Il rallentamento della crescita è divenuto recessione: nel 2009, per la prima volta dal secondo dopoguerra, si è verificata una riduzione del prodotto mondiale, con una caduta ancora maggiore della produzione industriale e una caduta a due cifre dei volumi del commercio. Secondo le previsioni del Fondo monetario internazionale, fra il 2007 e il 2010 il tasso di disoccupazione nelle maggiori economie avanzate sarà aumentato di quasi quattro punti. Per intensità e diffusione, questa grande recessione è sinora grave come la fase iniziale della grande depressione degli anni Trenta (Eichengreen, O’Rourke 2009). L’intervento della politica economica, oggi più tempestivo e deciso, probabilmente impedirà che essa si trasformi in una lunga depressione, ma, anche nella migliore delle ipotesi, la ripresa sarà lenta.
Le crisi finanziarie, assai numerose nella storia economica, hanno tutte alcuni tratti comuni, ma anche cause e caratteristiche specifiche a ciascuna di esse (v. Sviluppo finanziario e crisi finanziarie). Quella di oggi, gravissima, trova le sue premesse nella persistenza di squilibri macroeconomici a livello mondiale, nell’accelerazione incontrollata dell’innovazione finanziaria, in un clima ideologico che ha favorito la deregolamentazione dei mercati (v. All’origine della crisi). In quell’ambiente, le patologie di uno sviluppo finanziario privo di vincoli e regole hanno reso il sistema del tutto instabile (v. La degenerazione del nuovo modello). L’instabilità si è manifestata quando una piccola spinta ha messo in moto una reazione a catena, che ha quasi provocato il meltdown del sistema. I responsabili della politica economica, colti di sorpresa, non sono riusciti a prevenire l’aggravarsi della crisi: pur se disordinate e sovente inefficaci, le reazioni sono state tuttavia decise e di segno giusto, diversamente che negli anni Trenta (v. La crisi). Dalla crisi presto o tardi si uscirà, ma almeno per un po’ di tempo il mondo sarà ben diverso da quello degli anni ruggenti della finanza (v. Guardando oltre).
Sviluppo finanziario e crisi finanziarie
In generale lo sviluppo economico è associato allo sviluppo finanziario, che è ‘misurato’ dalla possibilità di accesso al finanziamento esterno da parte di soggetti le cui decisioni di spesa sarebbero altrimenti vincolate dal reddito disponibile. Il nesso è duplice. Un’infrastruttura finanziaria efficiente assicura le condizioni e crea gli strumenti affinché il risparmio di chi ha un eccesso di reddito rispetto alla spesa trovi impiego presso i soggetti che si trovano in situazione opposta: la disponibilità di finanziamento (maggiore quando non vi sono ostacoli al movimento dei capitali) consente di sfruttare meglio le opportunità d’investimento produttivo; l’innovazione degli strumenti finanziari amplia la scelta delle combinazioni fra rischi e rendimento offerta al risparmiatore-investitore finanziario.
Se vi è complementarietà fra sviluppo fisiologico della finanza e crescita dell’economia, è anche vero che il settore finanziario è a continuo rischio di instabilità a motivo di sue caratteristiche intrinseche. La finanza è a trade in promises, uno scambio di promesse – di restituire il capitale, di pagare gli interessi, di non svuotare e defraudare l’azienda di cui si sono emesse azioni – che si basa necessariamente sulla fiducia. Gli intermediari finanziari operano una trasformazione di passività liquide a breve termine in attività meno liquide a lungo termine. Ogni evento che incrini la fiducia o che renda impossibile il mantenimento delle promesse è la premessa di una crisi finanziaria, che avviene quando i creditori delle istituzioni finanziarie, non più fidandosi, non rinnovano il credito.
Come osservava Charles P. Kindleberger (Manias, panics, and crashes. A history of financial crises, 1978; trad. it. 1981), nella storia economica le crisi finanziarie sono una robusta pianta perenne, che ritroviamo in varie guise in tempi e luoghi diversi: due studiosi statunitensi, Carmen M. Reinhart e Kenneth S. Rogoff (2008), hanno contato e classificato le tante registrate da otto secoli di storia economica. Condividono tutte alcune caratteristiche, sia nella genesi, sia nel modo in cui si dispiegano (Bordo 2007). Sovente segnano la fine brusca di quei periodi di euforia in cui un ottundimento della percezione del rischio dà luogo a una bolla speculativa, alimentata da una forte espansione del credito, e pertanto del grado di indebitamento, e spesso da ardite innovazioni finanziarie. Il gregge degli investitori, che prima spingeva al rialzo, cerca di fuggire da impieghi finanziari improvvisamente ritenuti troppo rischiosi; crollano in conseguenza i prezzi di intere classi di strumenti finanziari; cade la liquidità, mentre il credito improvvisamente si contrae per mancanza di fiducia; i bilanci delle banche, gonfiatisi nel periodo di euforia, subiscono una forte contrazione. L’illiquidità di alcuni intermediari può trasformarsi in insolvenza, con effetti di contagio sui mercati finanziari. Le crisi finanziarie solitamente segnano una svolta del ciclo economico, deprimendo l’attività sia attraverso una caduta di prezzi delle attività reali sottostanti a quelle finanziarie (spesso gli immobili residenziali), sia attraverso la contrazione del credito.
La teoria economica più recente ha elaborato eleganti modelli formalizzati di crisi finanziarie (per una rassegna, v. Allen, Gale 2007). Pur se offrono strumenti utili di interpretazione, tali modelli presentano limiti notevoli, non solo perché privi di generalità, ma soprattutto perché rappresentano gli episodi di instabilità finanziaria come esito di comportamenti razionali degli operatori. La crisi in atto, per la sua genesi e per le sue modalità di svolgimento, ha reso quei limiti del tutto evidenti (tanto che fra le sue vittime figura anche una parte rilevante della teoria economica). Accantonati i modelli recenti, è parso naturale tornare alla visione keynesiana delle motivazioni degli investimenti finanziari (ripresa in Akerlof, Shiller 2009) e richiamare una più antica e solida letteratura, che ben percepiva alcune patologie intrinseche ai sistemi finanziari (soprattutto in una serie di contributi di Hyman Ph. Minsky, in particolare Financial stability revised: the economics of disaster, «Reappraisal of the Federal reserve discount mechanism», 1972, 3, pp. 97-136, e Can ‘it’ happen gain? Essays on instability and finance, 1982). Comunque, al di là della comunanza di alcuni tratti generali, ogni crisi finanziaria è diversa dalle altre per le cause specifiche che l’hanno innescata, per i modi in cui si manifesta, per la gravità e per la diffusione: l’analisi di ciascuna di esse, anche se deve avvalersi di strumenti teorici, appartiene dunque alla storia economica.
In quella, gravissima, di cui ci si occupa in queste pagine, l’espansione del credito, e pertanto dell’indebitamento, che è un tratto comune a precedenti episodi, è avvenuta a ritmi straordinari e con modalità inconsuete. Almeno tre i fattori che l’hanno favorita: gli squilibri macroeconomici mondiali; l’innovazione finanziaria nell’ambito del nuovo modello di trasferimento del rischio di credito; il sostegno della teoria economica all’ideologia prevalente.
All’origine della crisi
Macroeconomia: gli squilibri e le politiche
In ogni momento vi sono Paesi in cui la produzione e il reddito eccedono la domanda interna (per consumi, investimenti, spesa pubblica) e altri in cui avviene l’opposto: gli uni sono esportatori netti di beni e servizi, gli altri importatori netti; l’avanzo di bilancia corrente con l’estero dei primi genera flussi di risparmio che si dirigono verso i secondi per finanziarne l’indebitamento. In un mondo di economie aperte questi squilibri sono fisiologici. Cessano di esserlo, tuttavia, e pongono problemi di stabilità, quando assumono connotazioni strutturali per la loro dimensione e per la loro persistenza, com’è avvenuto dalla seconda metà degli anni Novanta del secolo scorso.
In questo periodo, due gruppi di Paesi si sono collocati in situazioni opposte. Nel primo, di cui gli Stati Uniti sono l’esponente principale, la propensione a spendere ben più del reddito prodotto non ha trovato costrizioni. Il secondo gruppo, composto soprattutto di Paesi emergenti e in cui la Cina rappresenta l’elemento di dimensioni maggiori, si è caratterizzato per un’elevata capacità di esportazione e per una bassa propensione alla spesa interna, soprattutto per consumi. Il primo gruppo ha registrato di conseguenza disavanzi persistenti e crescenti con l’estero (i quali misurano un risparmio negativo a livello aggregato), che negli Stati Uniti hanno superato il 6% del PIL; il secondo, con avanzi crescenti, ha generato un flusso corrispondente di risparmio positivo (fra il 2000 e il 2008 le riserve ufficiali in valuta estera della Cina sono aumentate da 165 a oltre circa 1900 miliardi di dollari, in prevalente contropartita di un aumento dell’indebitamento statunitense). È questa la ‘sovrabbondanza di risparmio’, il savings glut, di cui ha parlato Ben S. Bernanke. Ma, affinché la disponibilità di risparmio cinese per finanziare gli eccessi di spesa statunitensi potesse realizzarsi, occorreva che quegli eccessi non trovassero vincoli di natura macroeconomica o microeconomica: altrimenti gli squilibri sarebbero stati minori, e pro tanto minore la disponibilità internazionale di risparmio.
Sul versante macroeconomico, trattandosi di grandi economie con valute impiegate come mezzo di pagamento e di riserva, non operarono quelle costrizioni esterne sulla bilancia dei pagamenti che limitano la libertà di economie più piccole. Di più, la politica economica condotta nel periodo dell’amministrazione Bush contribuì alla crescita della spesa interna sia con una politica di bilancio fortemente espansiva, sia con una politica monetaria straordinariamente permissiva sino al 2004. Soprattutto, l’innovazione finanziaria, incoraggiata dai governi, consentì di allentare i vincoli di bilancio che avrebbero altrimenti costretto le decisioni individuali di spesa: ne è prova la rapida caduta della propensione al risparmio delle famiglie statunitensi, che si è quasi azzerata nel periodo. Grazie all’innovazione finanziaria, il savings glut generato dalle economie emergenti si è trasformato nel credito che ha consentito la crescita della spesa in alcune economie più ricche. L’affermarsi di un nuovo modello di intermediazione e l’invenzione di nuovi strumenti finanziari hanno infatti favorito, negli Stati Uniti e in alcuni altri Paesi, un boom degli investimenti delle famiglie in immobili residenziali e, su questa base, una diffusione multipla di strumenti finanziari legati al credito (Spaventa 2008b).
L’innovazione finanziaria: il nuovo modello
Nel modello classico dell’intermediazione bancaria, i crediti concessi alle imprese e alle famiglie (finanziati solitamente con raccolta a breve) restano all’attivo dei bilanci degli intermediari, con i rischi connessi (originate to hold). La banca esercita un monitoraggio ex ante sulla solvibilità del debitore ed ex post sull’uso del credito erogato; intrattiene un rapporto di lungo periodo con il debitore, accumulando un ‘capitale informativo’ (relationship banking). Per prevenire i problemi di stabilità derivanti dalla differenza di liquidità e di scadenza fra attivo e passivo, si è sviluppata nel tempo una serie di presidi di vigilanza degli intermediari (fra cui l’imposizione di requisiti minimi di capitale, il ruolo della banca centrale come prestatore di ultima istanza, l’obbligo di riserve, l’istituto dell’assicurazione dei depositi). Nel finanziamento dell’economia, alla funzione della banca si affianca (in misura più rilevante nei sistemi anglosassoni) quella del mercato, su cui le imprese emettono direttamente titoli azionari o di debito.
Il nuovo modello, affermatosi soprattutto nell’ultimo decennio grazie all’innovazione finanziaria, in qualche senso rappresenta un ibrido fra banche e mercato. La sua definizione, ormai canonica, è originate to distribute (OTD). Le banche originano i crediti, ma, invece di tenerli all’attivo dei propri bilanci, li cedono, insieme ai rischi connessi e alle garanzie offerte dal debitore, a un’entità fuori bilancio all’uopo costituita. L’operazione di cessione riguarda in particolare i mutui fondiari con garanzia ipotecaria, fra i quali i meno affidabili sono quelli definiti subprime, concessi a soggetti con basso reddito e basse prospettive di solvibilità. L’entità parabancaria a fronte di ampi insiemi di mutui, disparati per qualità e titolarità, che costituiscono il sottostante, emette certificati obbligazionari definiti genericamente asset backed securities (ABS), che poi colloca presso prenditori terzi non bancari. Il credito viene così trasformato in uno strumento che si compra e si vende sul mercato (‘mercatizzazione della finanza’: v. Borio 2007).
In base alla distribuzione di probabilità degli eventi di insolvenza nell’intero insieme dei mutui sottostanti, ciascun certificato obbligazionario viene suddiviso in tranches, caratterizzate da una diversa esposizione a quegli eventi. Se si verificano insolvenze, le perdite che ne derivano sono anzitutto sopportate dalla tranche inferiore (detta equity tranche), subordinata rispetto a tutte le altre; superata la capienza di questa, sono assorbite da successive tranches intermedie. Le tranches di rango più elevato sono dunque protette dalle insolvenze che possono verificarsi nel portafoglio di mutui sottostanti sin quando le perdite che ne conseguono non superino il limite di assorbimento delle tranches inferiori. Le diverse tranches, che hanno rendimenti inversamente correlati al grado di rischio, e valutazioni corrispondenti da parte delle agenzie di rating (da triplo A per quelle superiori, ritenendosi che per esse le probabilità di perdita siano prossime allo zero, a B per quella più esposta), vengono collocate separatamente, affinché ogni investitore possa scegliere la combinazione rischio-rendimento desiderata. Nel genus ABS esistono specie più complesse, come le CDO (Collateralized Debt Obligations), largamente diffuse e ormai tristemente note per la loro tossicità, che assemblano tranches di ABS, strutturandosi a loro volta. L’offerta di questi prodotti si rivolge a investitori istituzionali (per es., i fondi pensione) o comunque qualificati (come gli hedge funds), ma non al pubblico indistinto. Si tratta di prodotti finanziari non standardizzati, a motivo della diversità del pool di crediti sottostanti e della diversa strutturazione: l’eterogeneità e la mancanza di un mercato spesso riducono la liquidità e impediscono la formazione di prezzi che esprimano la domanda e l’offerta di una pluralità di soggetti.
I presunti benefici del nuovo modello. Il nuovo modello OTD, che ha consentito alle banche di originare credito senza trattenerlo sui propri bilanci, rappresenta un’innovazione di grande portata, ora esecrata, ma di cui sino al 2007 venivano esaltati i meriti.
La possibilità di trasferimento del rischio (e in particolare la tecnica di assemblaggio di un insieme di mutui di diversa rischiosità in un certificato obbligazionario strutturato per tranches di rischio) consente l’accesso al credito a soggetti che ne sarebbero esclusi qualora un intermediario ne dovesse assumere i rischi individuali. È indubbio che negli Stati Uniti l’aumento dei mutui fondiari, e dunque degli acquisti di case, ha riguardato soprattutto le famiglie a minor reddito. Certamente l’assunzione dei crediti da parte di soggetti terzi non bancari, e dunque non sottoposti all’osservanza di requisiti di capitale, abbassa il rapporto fra capitale e credito originato, e fa crescere pertanto l’offerta di credito a parità di capitale. Al tempo stesso, l’emissione di obbligazioni strutturate rappresentative di mutui apre il mercato del credito agli investitori non bancari e, ampliando le loro scelte, permette una maggiore diversificazione dei portafogli.
In via di principio, il nuovo modello dovrebbe consentire una distribuzione più efficiente del rischio. Questo viene frammentato e trasferito dalle banche a una pluralità di investitori non bancari. Ne dovrebbe risultare una maggiore stabilità finanziaria, poiché le banche nel loro complesso sarebbero meno esposte a quei rischi sistemici, comuni a tutte, derivanti dal verificarsi di eventi estremi di origine esterna (la ‘coda’ della curva di distribuzione), ciascuna specializzandosi invece nei rischi idiosincratici di insolvenza. Anni di crescita stabile e di bassa inflazione, accompagnati da un’espansione del credito, che consentiva la diffusione della proprietà dell’abitazione, da profitti senza precedenti dell’industria finanziaria, da rendimenti elevati su tutti i segmenti dei mercati sembravano avvalorare le valutazioni più ottimistiche del nuovo modello. Nel settembre 2005 il presidente della Federal reserve Alan Greenspan affermava, quindi, che «i nuovi strumenti di dispersione di rischio [che] hanno consentito alle banche più grandi e più sofisticate […] di spogliarsi di una gran parte del rischio di credito trasferendolo a istituzioni con minore grado di indebitamento […] hanno contribuito allo sviluppo di un sistema finanziario molto più flessibile ed efficiente, e perciò meno sensibile agli shock, di quello che esisteva appena un quarto di secolo fa» (Greenspan 2005). Nell’aprile 2006, quattordici mesi prima che scoppiasse la crisi, l’International monetary fund (IMF) scriveva: «La dispersione del rischio di credito dalle banche a un insieme più ampio e variegato di investitori […] ha contribuito a rendere più flessibile il sistema bancario e finanziario» (2006, cap. 2, p. 1) consentendo di mitigare e di assorbire gli shock a cui esso è esposto, di contenere in conseguenza i collassi bancari e di aumentare l’offerta di credito.
Come oggi sappiamo, è avvenuto esattamente il contrario di quanto previsto.
Teoria e ideologia
Le autorevoli opinioni appena riportate ben riflettono lo spirito del tempo, che trovava supporto negli sviluppi della teoria economica e nell’ideologia prevalente che li condizionava.
Si erano verificati progressi notevolissimi, quasi di natura ingegneristica, nella teoria della finanza, che (evento raro) avevano trovato diretta applicazione nella pratica dei mercati. Si tratta per lo più di raffinati metodi di valutazione del rischio e della redditività di prodotti finanziari complessi (per es., delle opzioni, con il diffusissimo metodo Black-Scholes), impiegati anche per sfruttare opportunità di arbitraggio nel caso di discrepanze fra valore di mercato e valore teorico. Gli strumenti ottenuti da una pur solida teoria dovrebbero tuttavia essere maneggiati con cautela nelle loro applicazioni pratiche: sovente si tratta di ‘scatole nere’, che producono risultati la cui robustezza dipende dalla qualità dei dati impiegati e dalla plausibilità delle ipotesi circa le distribuzioni statistiche, e che comunque dovrebbero essere integrati dalla valutazione di altre variabili trascurate nelle formalizzazioni, quali i rischi di liquidità. La crisi ha mostrato quanto fosse mal riposta una fiducia cieca nelle tecniche matematiche di misurazione del rischio.
Progrediva anche la teoria generale posta a base della politica economica, attraverso il rafforzamento delle fondamenta microeconomiche alla base dei modelli di funzionamento dell’economia: la generazione dei modelli di equilibrio generale dinamico chiamata DSGE (Dynamic Stochastic General Equilibrium) ha trovato impiego anche in molte banche centrali. Ai nostri fini interessano due caratteristiche di questi sviluppi. Da un lato i modelli esibiscono caratteristiche di funzionamento dei mercati che lasciano poco spazio a un intervento pubblico di regolazione. D’altro canto, quasi per costruzione, essi non possono ospitare eventi di instabilità finanziaria, implicitamente escludendoli: operandovi agenti ‘rappresentativi’, si esclude eterogeneità di comportamenti; i soggetti intrattengono aspettative razionali e si presume non solo efficienza dei mercati, ma razionalità degli esiti che in essi si determinano, poiché i prezzi in ogni momen;to incorporano tutte le informazioni rilevanti; valgo;no sempre condizioni di equilibrio generale. Questa impostazione trovava poche eccezioni, spesso con una marginalizzazione del dissenso. Sopravvissuta senza danni agli scandali di borsa di inizio secolo (quelli che provocarono negli Stati Uniti i pesanti interventi regolatori della legge Sarbanes-Oxley), era del tutto complementare allo sviluppo degli anni d’oro. Con un’interazione fra ideologia e analisi assai frequente nelle discipline economiche, pareva trovare verifica in quello sviluppo e al tempo stesso ne ispirava l’ideologia: la miglior regolazione dei mercati si ottiene lasciandoli funzionare liberamente, limitando l’intervento a un ‘tocco lieve’ (light touch) che non ostacoli l’innovazione finanziaria. La passività compiaciuta dei regolatori trovava conforto in tale dottrina.
La degenerazione del nuovo modello
Le condizioni sopra esaminate – trasferimento senza limiti del risparmio mondiale verso i centri di spesa, innovazione finanziaria che ampliava le possibilità di indebitamento, briglia lenta ai mercati – crearono le condizioni necessarie per i tumultuosi sviluppi della finanza dell’inizio del nuovo secolo. Il credito facile favorì la domanda di case, provocando negli Stati Uniti e in molti altri Paesi un’inflazione dei prezzi degli immobili: la riduzione del rapporto fra il debito contratto e il valore dell’immobile in garanzia ipotecaria consentiva di rifinanziare i mutui in essere a condizioni più vantaggiose, o di estinguerli vendendo la casa e lucrando un margine di profitto. La riduzione generalizzata dei rendimenti di tutti gli strumenti tradizionalmente più sicuri (come i titoli di Stato e alcune obbligazioni) induceva a cercare rendimenti più elevati, e dunque più rischiosi. I nuovi strumenti strutturati del credito offrivano da questo punto di vista un prodotto appetibile: poiché la domanda ne stimolava l’offerta nelle condizioni prevalenti, il risultato fu un flusso di emissioni sempre più veloce. Con il credito a basso costo, il perseguimento di alti profitti incoraggiava un’alta leva (rapporto fra indebitamento e capitale proprio) negli investimenti finanziari.
Si creavano in tal modo le condizioni propizie a episodi di instabilità finanziaria: pochi se ne accorsero (v. in particolare Rajan 2005). Per spiegare l’accelerazione e la gravità della crisi, occorre tuttavia considerare i fenomeni degenerativi da cui fu afflitta la nuova finanza: in particolare, un assetto distorto di incentivi, che ha incoraggiato comportamenti destabilizzanti, e lo sviluppo di un sistema finanziario ‘ombra’, opaco, privo di regole, ignorato dai regolatori.
Il problema degli incentivi
La qualità del credito. L’incentivo a valutare il merito di credito del debitore e la sua evoluzione, evidente nel caso di una banca che tiene i crediti in bilancio, viene meno quando l’originatore dei crediti (una banca o una società di mutui fondiari che si approvvigiona presso la banca o sul mercato) ne trasferisce il rischio a terzi. D’altra parte, come abbiamo visto, uno dei possibili meriti del nuovo modello di frazionamento e trasferimento del rischio al mercato si ravvisa proprio in un ampliamento delle possibilità di accesso al credito e dunque in un aumento del credito concesso. Tale aumento dovrebbe tuttavia trovare dei limiti. Negli anni in cui maturarono le premesse della crisi ogni ragionevole limite fu superato: le condizioni del mercato inducevano a privilegiare la quantità di mutui generati rispetto alla loro qualità. Il basso livello dei tassi di interesse e la riduzione dei differenziali rispetto ad attività prive di rischio stimolavano un’elevata domanda di attività finanziarie ad alto rendimento. I prodotti obbligazionari rappresentativi del credito parevano soddisfare questa esigenza. Per parte loro, le banche che originavano il credito, o che lo assumevano da altri originatori non bancari, ottenevano margini di profitto elevati dalla strutturazione dei nuovi prodotti finanziari, il cui volume dipende dalla quantità dei mutui sottostanti (come i compensi dei broker dipendono da quanti mutui essi riescono a procacciare). Vi era dunque un incentivo ad aumentare i volumi, senza doversi preoccupare del rischio, che sarebbe poi stato trasferito. Con il tempo si è verificato così un forte deterioramento della qualità del credito (mutui erogati senza alcuna verifica del reddito, delle condizioni di occupazione e del patrimonio del mutuatario, o resi attraenti dall’abbattimento delle rate iniziali, ma con pagamenti successivi elevatissimi). Aumentava in conseguenza la rischiosità del pool di mutui sottostanti alle obbligazioni, soprattutto se i prezzi degli immobili avessero cessato di aumentare o fossero caduti, come poi avvenne.
La piramide finanziaria. Un sistema di incentivi distorto si manifestava anche per i gestori di patrimoni, quali gli hedge funds, a motivo della struttura delle commissioni. Queste sono solitamente pari al 2% del patrimonio gestito e al 20% dei profitti di gestione. Ne risulta per i gestori uno stimolo all’assunzione di rischi elevati in vista di rendimenti più alti: se va bene, oltre al 2% si percepisce un quinto dell’aumento di valore; se va male resta comunque la commissione di gestione. Questo appetito per il rischio ha stimolato una domanda crescente di nuovi strumenti finanziari su cui scommettere. Per soddisfarla non bastavano le pur complesse obbligazioni strutturate di prima generazione: la fantasia e la tecnica della nuova finanza seppero offrire di più, recidendo qualsiasi residuo contatto degli strumenti finanziari con l’economia reale.
Furono creati CDO al quadrato (o a potenza superiore), assemblando le tranches di rango inferiore di CDO già in circolazione. Impiegando strumenti derivati che consentono di vendere e acquistare protezione da eventi di insolvenza (CDS, Credit Default Swaps) furono costruiti CDO sintetici, che replicavano i rischi e i rendimenti di un CDO di riferimento, senza avere come sottostante alcun rapporto di credito effettivo. Analogamente, i CDS, nati come utile strumento di copertura e di assicurazione, si trasformarono in questo modo in occasioni di scommessa rischiosa fine a sé stessa, con un volume cresciuto sino a divenire un multiplo del valore dei titoli o dei rapporti di credito di riferimento.
La costruzione di questa sovrastruttura finanziaria ha provocato un gonfiamento dei bilanci dei soggetti operanti nel settore della finanza svincolato dalla domanda e dall’offerta di credito dei settori dell’economia reale (imprese e famiglie). Si è costruita un’instabile piramide rovesciata, con strati successivi costituiti da rapporti interni al settore finanziario, il cui indebitamento negli Stati Uniti è aumentato in misura superiore persino a quello delle famiglie. Come ha osservato Willem H. Buiter (2008), questo sviluppo finanziario non aveva più nulla a che fare con lo sviluppo economico: era piuttosto il risultato di una sorta di lotteria interna al settore della finanza, in cui le attese di futuri guadagni di capitale spingevano verso l’alto le quotazioni, con rendimenti slegati da quelli effettivi dell’attività produttiva.
Le agenzie di rating e i modelli di valutazione del rischio. Per la valutazione del rischio delle obbligazioni strutturate rappresentative del credito, gli investitori si affidavano il più delle volte al giudizio rilasciato dalle agenzie di rating su richiesta degli emittenti: solitamente massimo (tripla A) per le tranches delle ABS di rango più elevato perché più protette da perdite per insolvenze, indipendentemente dalla qualità dei singoli mutui sottostanti; e via via minore per le tranches con maggior grado di subordinazione. Eppure, sin dall’inizio della crisi l’aumento delle insolvenze dei mutui subprime ha provocato drastiche cadute dei prezzi anche per le tranches delle obbligazioni più protette da perdite. Le stesse agenzie sono ripetutamente intervenute per declassare decine di miliardi di dollari di emissioni: in due anni, quasi il 25% delle tranches emesse con il rating massimo di tripla A, fra il 25 e il 40% di quelle con valutazioni di poco inferiori (da Aa1 ad Aa3), sino a quasi l’80% di quelle di qualità più bassa. Evidentemente nella loro valutazione iniziale qualche conto non tornava.
Si è sovente richiamata l’attenzione sui conflitti d’interesse che potrebbero compromettere l’obiettività delle agenzie: il servizio di rating è pagato dagli emittenti e non dagli investitori; i ricavi crescono con il numero e il volume delle emissioni; le agenzie prestano servizi di consulenza, remunerati, per la strutturazione degli strumenti da collocare. Ma, al di là di questa componente patologica, gli errori commessi hanno anche altre spiegazioni.
La valutazione del rischio di un’obbligazione rappresentativa di un pool di crediti, disparati sia per origine sia per qualità, viene compiuta in base alla probabilità media di perdita, calcolata con modelli statistici riferiti all’intera popolazione di crediti. Tre caratteristiche di questi modelli ne hanno inficiato l’affidabilità (v. FSA 2009).
In primo luogo, essendo l’evoluzione degli strumenti di credito assai recente, il computo statistico si affidava a una storia passata breve e non abbastanza rappresentativa, in cui l’interazione fra bassi tassi d’interesse e inflazione dei prezzi degli immobili abbassava il tasso medio d’insolvenza. In secondo luogo, le ipotesi prevalenti di correlazione bassa o nulla fra eventi di insolvenza e di distribuzione normale delle probabilità di perdita, plausibili in tempi propizi, non valgono quando si verifica un improvviso peggioramento delle condizioni economiche. Da ultimo, la valutazione delle agenzie prescindeva, esplicitamente, dal rischio di liquidità, che per uno strumento finanziario si manifesta nell’impossibilità di trovare mercato. Eppure le obbligazioni rappresentative del credito sono particolarmente soggette a quel rischio: diverse l’una dall’altra, in dipendenza del pool di crediti sottostante e delle caratteristiche della strutturazione; particolarmente opache a causa della loro complessità, che a volte rende impossibile determinarne il prezzo con le tecniche consuete; trattate bilateralmente (over the counter) e prive pertanto di un mercato in cui si formi un prezzo rappresentativo con l’intervento di un gran numero di investitori anonimi. Proprio in queste condizioni, uno shock può determinare una disastrosa e improvvisa perdita di liquidità, com’è infatti avvenuto.
Il problema di un’evidente e sistematica sottovalutazione dei rischi non riguarda solo la agenzie di rating, ma anche i grandi investitori professionali. I complessi modelli matematici da questi usati soffrivano probabilmente degli stessi limiti sopra elencati, soprattutto con riferimento alle ipotesi di distribuzione delle probabilità di perdita. Certamente l’euforia degli ultimi anni aveva indotto molti ad abbandonare ogni doverosa prudenza, pur nella consapevolezza che qualcosa potesse andar storto. Sono frequenti le narrazioni di coscienziosi risk managers messi da parte perché non intralciassero ardite operazioni che gonfiavano i profitti di intermediari e gestori. Quando tutto il gregge si muove in una direzione, chiamarsene fuori può salvare dall’abisso, ma comporta la rinuncia a guadagni immediati. Ancora nel luglio 2007, il capo di Citi, una grandissima banca d’investimento statunitense, disse, memorabilmente, in un’intervista alla stampa (e poco prima di essere cacciato per le perdite record del suo istituto): «Quando la musica si interrompe, le cose si complicano; ma finché la musica suona, bisogna alzarsi e ballare. Noi stiamo ancora ballando».
Il ‘sistema finanziario ombra’
Le disfunzioni esaminate in precedenza rappresentano una componente importante della crisi. Molte di esse erano tuttavia presenti anche nell’episodio del crollo di borsa di inizio secolo, che ebbe tuttavia conseguenze limitate. Pare inoltre certo che la gravità e la diffusione di questo nuovo episodio dipendono dal coinvolgimento del sistema bancario, che non si era verificato in esperienze precedenti. Ma perché è avvenuto questo coinvolgimento, se il nuovo modello e il suo presunto contributo alla stabilità si basavano proprio sul trasferimento del rischio?
Da tempo si era riconosciuto, anche a livello ufficiale, che si era prodotto un vuoto informativo. Sin quando il rischio era concentrato nelle banche, soggetti vigilati e sottoposti a obblighi di comunicazione, le autorità erano in grado di mapparne almeno approssimativamente la collocazione; non più, quando il rischio si distribuisce in mille rivoli a soggetti terzi, non sottoposti a vigilanza di stabilità, come gli hedge funds, i fondi pensione, le compagnie di assicurazione e, soprattutto, le grandi banche di investimento che non raccolgono depositi. I regolatori se ne preoccupavano solo sul versante del rischio di controparte che le banche commerciali assumevano nei rapporti di credito e di intermediazione con quei soggetti. Almeno apparentemente, non si erano accorti che il rischio del credito trasferito dal sistema bancario aveva in parte compiuto un round trip: uscito dal sistema era a esso tornato in misura significativa. Quel ‘sistema finanziario ombra’ di cui si parla include dunque non solo le istituzioni non soggette a vigilanza prudenziale, ma, in misura e con rilevanza maggiore ai fini della stabilità, importanti segmenti di attività delle stesse banche.
Il viaggio di ritorno del rischio ha seguito vari percorsi. Anzitutto, molte istituzioni, o entità da esse controllate, impegnate nella costruzione delle obbligazioni strutturate avevano accumulato e mantenuto in portafoglio le tranches esposte alle prime perdite da insolvenza e dunque più rischiose. In secondo luogo, per sfruttare le opportunità di profitto offerte dalla differenza fra i rendimenti ottenibili dai prodotti finanziari rappresentativi del credito e i tassi di interesse a breve senza dover immobilizzare nuovo capitale (come le norme di vigilanza avrebbero richiesto), molte banche avevano creato o sponsorizzato entità separate fuori bilancio (conduits o SIV, Structured Investment Vehicles, a seconda delle caratteristiche tecniche), che acquistavano obbligazioni strutturate e derivati di credito finanziandosi a breve o a brevissimo termine sul mercato. A queste entità le banche concedevano garanzie di finanziamento di ultima istanza (esplicite o implicite): anche se non comparivano nei bilanci, tali garanzie esponevano pur sempre le banche al rischio del portafoglio di strumenti finanziari all’attivo del veicolo nel caso in cui un improvviso inaridimento delle possibilità di rifinanziamento sul mercato avesse reso necessaria l’attivazione della linea di credito (come in effetti avvenne). Molte banche erano inoltre impegnate in una cospicua (e lucrosa) attività di negoziazione in conto proprio e mantenevano a tal fine nei loro portafogli quantità ingenti di obbligazioni strutturate. Infine, alla vigilia della crisi le istituzioni maggiori avevano ancora sui loro libri notevoli prestiti ponte concessi ai fondi di private equity (fondi d’investimento chiusi in titoli non quotati), di cui si prevedeva la cessione al mercato con la solita strutturazione a carattere obbligazionario.
Una bella fetta dei rischi ostensibilmente trasferiti dalle banche era così tornata a queste ultime, come poi si dovette constatare. Ma quali banche erano più esposte, e per quanto? Il mercato e anche le autorità di vigilanza lo ignoravano, poiché le esposizioni effettive non potevano essere ricavate dai bilanci e dai dati disponibili. Sono emerse, settimana dopo settimana, solo quando la crisi ha costretto a riportare nei bilanci le esposizioni fuori bilancio e le perdite subite. Le condizioni di carenza informativa sulla situazione finanziaria e sui rapporti di credito-debito degli intermediari hanno contato molto nella crisi: l’incertezza che ne è derivata circa l’affidabilità delle controparti nei normali rapporti di credito ha compromesso la funzionalità del sistema finanziario.
Il sonno della vigilanza
La carenza informativa del mercato può stupire; ma è molto più grave il fatto che le autorità di vigilanza si siano trovate nella stessa situazione. L’inefficiente frammentazione dei poteri di supervisione negli Stati Uniti, epicentro della crisi, non è spiegazione sufficiente: l’accentramento di quei poteri in una sola autorità non ha evitato al Regno Unito la stessa sorte. A livello aggregato, la crescita impetuosa del credito e del livello di indebitamento, comunque misurato, rappresentava un fenomeno evidente. Al di là delle responsabilità della politica macroeconomica statunitense, e soprattutto di quella monetaria, sarebbe stato doveroso un maggiore attivismo di vigilanza a livello microeconomico, sui criteri e sulle modalità di concessione del credito e sulla situazione effettiva delle istituzioni bancarie. Questo sonno della vigilanza – soprattutto, ma non solo, nei Paesi anglosassoni – trova svariate spiegazioni, che configurano gradi diversi di colpa: storica incapacità di mantenere il passo con l’innovazione finanziaria e di comprenderne le implicazioni; ‘cattura del regolatore’, che finisce per recepire e proteggere gli interessi dei soggetti vigilati, com’è avvenuto negli Stati Uniti nel caso dei due istituti semipubblici di credito fondiario noti come Fannie Mae e Freddie Mac; fiducia acritica nelle virtù e nella capacità di autoregolazione del mercato; interpretazione del ruolo del regolatore come funzionale allo sviluppo dell’industria finanziaria di casa. Comunque, nelle vicende che sono state premessa alla crisi vi sono evidenti responsabilità pubbliche, forse meno scusabili dei comportamenti privati: questi sono almeno dettati dall’avida caccia al profitto; quelle configurano una vera e propria culpa in vigilando, che non trova motivazioni accettabili.
La crisi
La scintilla
L’espansione dell’edilizia residenziale negli Stati Uniti toccò un picco nel 2005; dal 2006 iniziò una flessione delle costruzioni e dei prezzi delle case. Dal 2005 cominciarono a salire i tassi di morosità sui mutui subprime, disinvoltamente concessi a soggetti con basso merito di credito: l’aumento dei tassi ufficiali dall’1 al 5,25% fra il giugno 2004 e il giugno 2006 rese insostenibile per molti mutuatari l’onere dei debiti contratti a tasso variabile. Le agenzie di rating cominciarono a rivedere al ribasso le loro generose valutazioni di alcune classi di titoli. Il mercato ebbe un sussulto all’inizio del 2007, ma, concentrato sul presente e chiudendo gli occhi sul futuro, trascurò ogni segnale negativo e riprese la sua corsa: le cifre delle insolvenze, pur se notevoli, parevano poca cosa rispetto ai volumi in circolazione; comunque, non si voleva rinunciare a qualche altro mese di profitti. In giugno, mentre i tassi di morosità si impennavano e continuavano i declassamenti di rating, due fondi hedge della (poi defunta) banca Bear Stearns pesantemente investiti in ABS si trovarono in difficoltà, non riuscendo a vendere i titoli in portafoglio per far fronte ai riscatti dei risparmiatori: uno dovette essere finanziato dalla banca, l’altro fu posto in liquidazione. Questo episodio svelò la nudità dell’imperatore: la valutazione dei titoli rappresentativi in portafoglio valeva solo sin quando non si cercasse di venderli.
I mercati questa volta la presero malissimo e andarono nel panico: era cominciata la crisi.
Chiavi di interpretazione
Qualche notazione generale risulta utile per comprendere le modalità della crisi e le interazioni che vi si sono manifestate.
Più di altre, quella che viviamo è stata preceduta da un’espansione del credito, anomala per i suoi ritmi straordinari: fra la fine degli anni Novanta e il 2007 il rapporto incrementale fra credito e prodotto lordo aumentò del 50%. Date le condizioni permissive dell’offerta di credito prima esaminate, la domanda era alimentata da una noncuranza per il rischio da parte degli investitori, che si manifestava non solo in un maggiore ‘appetito’ per investimenti ad alto rendimento e perciò meno sicuri, ma ancor più in una valutazione ottimistica, consapevole o inconsapevole, di tutti i rischi insiti in quegli investimenti, da quello di insolvenza a quello di illiquidità. L’altra faccia dell’aumento del credito è l’aumento dell’indebitamento, che, insieme alla maggiore propensione al rischio, ha determinato un gonfiamento delle poste attive e passive dei bilanci degli intermediari (Adrian, Shin 2008), dovuto sia all’aumento di valore degli strumenti finanziari in portafoglio, sia a un aumento ciclico del rapporto fra debito e capitale. In definitiva, il leverage del sistema, inteso sia nel senso stretto di rapporto fra indebitamento e capitale sia nel senso più generale di esposizione al rischio, raggiunse valori eccezionali, soprattutto in alcuni Paesi.
Quando un evento sfavorevole si verifica – razionalmente prevedibile ma irrazionalmente imprevisto, come nel caso della caduta del prezzo delle case negli Stati Uniti e della conseguente impennata delle insolvenze sui mutui fondiari statunitensi – s’innesca un processo di deleveraging, tanto più rovinoso, disordinato e diffuso, quanto più impetuosa e disordinata era stata la crescita dell’indebitamento e dell’esposizione al rischio (Spaventa 2008a). Si manifestano pesanti perdite nelle poste all’attivo degli intermediari, di cui viene intaccato il capitale; quando quelle poste consistano di strumenti finanziari illiquidi – nel caso presente le obbligazioni rappresentative del credito fondiario – il tentativo di venderle provoca ulteriori cadute dei prezzi; il rinnovo dell’indebitamento richiede un aumento dei margini sui titoli offerti in garanzia e ora svalutati; la provvista di fondi può addirittura essiccarsi quando il finanziamento avvenga con carta a breve sul mercato. In conseguenza, i bilanci delle banche, prima gonfiati, devono ora rattrappirsi all’improvviso. La situazione si aggrava quando l’incertezza sulla distribuzione dei rischi rende ogni operatore diffidente nei confronti di qualsiasi controparte. Lo shock (negativo) ai prezzi dei titoli all’attivo dei bilanci delle istituzioni innesca dunque un circolo vizioso (Brunnermeier, Pedersen 2007) fra caduta della liquidità di mercato (possibilità di negoziare un titolo senza provocare escursioni eccessive del prezzo) e inaridimento della liquidità di finanziamento (funding liquidity, ovvero possibilità di ottenere agevolmente finanziamenti dalle banche o sul mercato).
La crisi finanziaria del 2007 deve essere collocata all’interno di questo scenario.
L’aggravarsi della crisi e la reazione delle autorità
La prima scossa del giugno 2007 fu seguita in luglio da un’altra ondata di vendite e di caduta dei prezzi, anche perché aumentarono le previsioni di insolvenze dei mutui fondiari (per un resoconto dettagliato di questi e dei successivi eventi, v. BIS, Bank for International Settlements, 2008, IMF 2008).
La turbolenza si estese ad altri mercati del credito. In agosto il mercato dei prodotti strutturati cessò di funzionare, mentre si inaridivano del tutto le fonti di finanziamento a breve termine a cui ricorrevano le entità di origine bancaria che investivano in titoli rappresentativi del credito. Le grandi banche erano appesantite da un ingente volume di prestiti, concessi per operazioni di acquisizione e ristrutturazione, che non riuscivano più a trasferire. In questa «ondata senza precedenti di reintermediazione» (BIS 2008, p. 109) e di deleveraging si manifestarono gravi disfunzioni sui mercati interbancari, che si bloccarono, con tassi interbancari che toccarono livelli senza precedenti, poiché le banche non si fidavano di prestarsi reciprocamente fondi senza garanzia.
Non disponendo di una valutazione attendibile delle perdite effettive e potenziali delle banche, le autorità ritennero all’inizio che il problema principale fosse quello di restituire liquidità al sistema. Le banche centrali (prima quella europea e con qualche ritardo quella statunitense) si mostrarono subito disponibili a fornire tutta la liquidità che il sistema potesse richiedere, estendendo la portata delle operazioni di rifinanziamento e rendendole più permissive nelle regole di ammissione e di garanzia. La Banca centrale statunitense accompagnò queste operazioni con riduzioni successive dei tassi d’interesse. Non fu sufficiente. Negli Stati Uniti, ma anche nel Regno Unito e nell’Europa continentale, le autorità dovettero accogliere in garanzia o addirittura acquisire sui propri bilanci titoli di qualità sempre più dubbia; o offrirono esplicita garanzia sui debiti di alcune banche (come Bear Stearns) per consentirne il salvataggio.
In una successione di interventi caso per caso, non si ebbe l’immaginazione e l’audacia di elaborare un piano di sistemazione che affrontasse il problema strutturale: sin quando i bilanci delle banche erano appesantiti dalla presenza di titoli non vendibili se non a prezzi di saldo, l’interazione fra illiquidità dell’attivo e difficoltà di accesso al finanziamento avrebbe continuato a erodere il capitale provocando episodi di insolvenza. Per restaurare le condizioni di adeguatezza patrimoniale, non basta ricorrere a operazioni di ricapitalizzazione quando continua a ridursi il valore dell’attivo: lo dimostra l’insuccesso di operazioni successive intraprese nel 2008 con fondi pubblici e privati. La ricapitalizzazione dovrebbe essere accompagnata da interventi di natura straordinaria, volti ad arrestare la caduta dei valori delle attività illiquide, attribuendo a esse un prezzo plausibile non influenzato da manifestazioni di panico (v. Spaventa 2008a). In caso contrario, la continua erosione del capitale costringe le banche a ridurre il valore del proprio attivo tagliando il credito a imprese e famiglie: è il canale con cui una crisi finanziaria trasmette effetti di carattere recessivo all’economia reale.
Le difficoltà continuarono ad aggravarsi, sino a toccare un massimo quando, nel settembre del 2008, il Tesoro e le autorità monetarie degli Stati Uniti consentirono, inesplicabilmente, che la grande banca d’affari Lehman Brothers andasse in bancarotta, senza intervenire, come invece avevano fatto in altri casi. Poco dopo, il Congresso bocciò in prima lettura un piano di riacquisto dei titoli compromessi che il segretario al Tesoro aveva finalmente, ma tardivamente, elaborato. Come ricaduta di questi due eventi (e di altri episodi d’insolvenza), crollò la fiducia sui mercati finanziari e la crisi raggiunse la sua fase più acuta, investendo pesantemente l’Europa. Divenne evidente che solo un massiccio intervento degli Stati avrebbe potuto offrire risposta adeguata.
Dall’epoca della Grande depressione non si era mai visto un tale dispiego di forze pubbliche, a singolare coronamento di un’era che aveva visto in continua ritirata non soltanto lo Stato interventista ma anche lo Stato regolatore. Questi interventi, sia in Europa sia negli Stati Uniti, hanno seguito due direttrici: un’ampia garanzia pubblica sulle passività delle banche; una loro ricapitalizzazione con partecipazioni assunte dallo Stato, sino a giungere in alcuni casi a una nazionalizzazione di fatto. Si è trattato di misure necessarie per evitare un meltdown del settore finanziario in una situazione di assoluta e imprevista emergenza, ma non sufficienti di per sé a evitare una lunga e pesante recessione dell’economia mondiale.
Guardando oltre
Dopo gli eccessi di un decennio di sviluppo incontrollato della finanza, una grande purga era inevitabile per smaltire le tossine che si erano accumulate nel sistema. La grande crisi finanziaria del nuovo secolo ha svolto questa funzione. Certo, una conversione ordinata dall’intemperanza alla sobrietà sarebbe stata idealmente preferibile. Ma, da sempre, il mondo della finanza, quando periodicamente si sfrena, non riesce mai a fermarsi per propria determinazione prima di giungere sull’orlo dell’abisso: per rigenerarsi deve cadere. Proprio perché l’ascesa era stata sfrenata, la caduta questa volta è stata rovinosa.
Ogni crisi fa vacillare molti miti, ripropone antiche lezioni dimenticate e ne insegna di nuove. Lo sviluppo finanziario è utile allo sviluppo economico, ma non lo è sempre e comunque: quando perde contatto con l’attività reale e diviene fine a sé stesso nelle sue innovazioni e nelle sue operazioni, si conclude inevitabilmente in una crisi che distrugge non solo profitti di carta, ma anche ricchezza reale. In un mercato efficiente si manifestano comportamenti irrazionali e miopi, che concorrono a produrre instabilità. Gli economisti dovrebbero ammettere che teorie raffinate offrono sovente un’immagine dei mercati lontana dalla realtà; che gli strumenti teorici possono aiutare a comprendere il mondo, ma non sono il mondo. Le virtù dei due grandi centri finanziari – Londra e, soprattutto, New York – erano state portate a modello. Ma, affinché un mercato finanziario funzioni per il meglio, esso deve essere presidiato da istituzioni e regole: questa crisi ha rivelato carenza di regole, inadeguatezza e colpe di vigilanza proprio nei due mercati leader. Si consentiva che alcuni protagonisti della crisi, le grandi banche di investimento, fossero sottratti alla vigilanza di stabilità solo perché, operando sul mercato all’ingrosso, non raccoglievano depositi dai risparmiatori: nel momento del bisogno hanno dovuto anch’essi bussare agli sportelli della Banca centrale.
Cominciano a delinearsi i tratti di un assetto futuro più solido e meno instabile di quello in cui la crisi ha trovato nutrimento. Il grado di indebitamento del sistema, e soprattutto quello interno al settore finanziario, sarà minore, e si ridurrà il rapporto fra aumento del credito e crescita reale. Affinché ciò avvenga, vi dovrà essere un maggiore equilibrio fra le maggiori economie del mondo. Le banche avranno compiuto un profondo processo di ristrutturazione. Abbandonati gli strumenti troppo complessi, chiusi i dipartimenti che prosperavano sulla finanza del credito (vere repubbliche indipendenti all’interno dell’azienda), rivisti i modelli di valutazione del rischio, le banche torneranno a un antico business model: quello di quando le banche facevano le banche e non quello di quando avevano smesso di fare le banche per impegnarsi in altri mestieri di finanza. Si sarà disegnato e attuato un nuovo sistema di regole condiviso dai principali Paesi, di cui si conoscono i lineamenti: al di sopra della tradizionale vigilanza prudenziale, vigilanza di stabilità a cui sottoporre non solo le banche di deposito, ma tutte le istituzioni finanziarie, indipendentemente dalla loro definizione legale, i cui bilanci eccedano certi limiti e in cui non vi sia corrispondenza di scadenze fra attivo e passivo; revisione delle regole di adeguatezza di capitale e di ogni altra regola che abbia prima consentito gli eccessi e poi aggravato le conseguenze della crisi; disciplina degli incentivi; strumenti soddisfacenti di valutazione del rischio, che tengano conto anche del rischio di liquidità.
I problemi dell’assetto futuro presentano complicazioni politiche, di consenso internazionale a una riduzione di sovranità nazionale nel disegno e nell’attuazione delle regole. Concettualmente, invece, i problemi più complicati si manifestano nel percorso di uscita dalla situazione che la crisi ha determinato.
Gli interventi messi in opera e altri che inevitabilmente seguiranno configurano per il settore finanziario una singolare situazione di economia mista: con uno Stato che diviene non solo più attento regolatore, ma addirittura azionista. I ricordi più recenti di situazioni analoghe non sono esaltanti. Sapranno gli Stati ritirarsi ordinatamente? Sapranno evitare la tentazione di proteggere la malmessa industria finanziaria nazionale erigendo barriere all’integrazione finanziaria e quella di mettere voce in scelte industriali? Se così non fosse, ai danni prodotti dalla finanza globale si aggiungerebbero quelli non meno gravi di un ritorno alla frammentazione nazionalistica e alla protezione.
Il processo di riduzione del leverage a livello di sistema richiede una riduzione dell’indebitamento e dunque un aumento del risparmio negli Stati Uniti e in alcune altre economie. Un aumento della propensione al risparmio, tuttavia, riduce la spesa e provoca conseguenze recessive; se questo avviene in un grande Paese, tale processo si diffonde, a meno che altrove non si verifichi un aumento della propensione al consumo. Sinora le politiche economiche nazionali nei Paesi industrializzati hanno operato interventi di sostegno alla domanda interna: di fatto hanno sostituito l’indebitamento pubblico all’indebitamento privato, con un esito che potrebbe essere foriero di nuovi squilibri. Una soluzione stabile dovrebbe passare per un aumento della propensione al consumo nei Paesi ove essa è più bassa – Cina ed economie emergenti, ma anche Germania – che compensi la riduzione necessaria in Paesi come gli Stati Uniti.
Ogni previsione è difficile, salvo una. Anche nella migliore delle ipotesi, presto o tardi i cattivi ricordi svaniranno, altre innovazioni offriranno l’occasione di nuove tentazioni e la forza possente dell’avidità di profitti e di compensi indurrà a nuovi eccessi e provocherà di conseguenza nuove crisi.
Bibliografia
R.G. Rajan, Has financial development made the world riskier?, NBER working paper 11728, Cambridge (Mass.) 2005.
IMF, Global financial stability report, Washington D.C. 2006.
F. Allen, D. Gale, Understanding financial crises, Oxford 2007.
C.E.V. Borio, Change and constancy in the financial system. Implications for financial distress and policy, BIS working paper 237, Basel 2007.
M.K. Brunnermeier, L.H. Pedersen, Market liquidity and funding liquidity, NBER working paper 12939, Cambridge (Mass.) 2007.
T. Adrian, H.S. Shin, Liquidity and leverage, BIS working paper 256, Basel 2008.
BIS, 78th annual report, Basel 2008.
W.H. Buiter, Lessons from the North Atlantic financial crisis, CEPR policy insight 18, London 2008.
IMF, Global financial stability report, Washington D.C. 2008.
C.M. Reinhart, K.S. Rogoff, Is the 2007 U.S. sub-prime financial crisis so different? An international historical comparison, NBER working paper 13761, Cambridge (Mass.) 2008.
L. Spaventa, Avoiding disorderly deleveraging, CEPR policy insight 22, London 2008a.
L. Spaventa, Una crisi della nuova finanza, in Proprietà e controllo dell’impresa: il modello italiano, stabilità o contendibilità?, atti del convegno di studi, Courmayeur, 5 ottobre 2007, Milano 2008b, pp. 137-52.
G.A. Akerlof, R.J. Shiller, Animal spirits. How human psychology drives the economy, and why it matters for global capitalism, Princeton (N.J.) 2009 (trad. it. Spiriti animali. Come la natura umana può salvare l’economia, Milano 2009).
FSA, The Turner review. A regulatory response to the global banking crisis, London 2009.
Webgrafia
A. Greenspan, Economic flexibility, remarks to the National association for business economics annual meeting, Chicago, September 27, 2005, http://www.federalreserve.gov/Board Docs/Speeches/2005/20050927/default.htm.
M.D. Bordo, The crisis of 2007. The same old story, only the players have changed, remarks prepared for the Federal reserve, Bank of Chicago and International monetary fund conference Globalization and systemic risk, Chicago, September 28, 2007, http://michael.bordo.googlepages.com/The_same_old_story.pdf.
B. Eichengreen, K.H. O’Rourke, A tale of two depressions, «Vox», April 6, 2009, http://www.voxeu.org/index.php?q=node/3421.
Tutte le pagine web s’intendono visitate per l’ultima volta l’8 luglio 2009