di Paolo De Castro
Gli ultimi decenni sono stati contraddistinti da un dibattito sempre più animato sul rapporto tra uso delle risorse naturali e loro capacità di rigenerazione. Dal punto di vista mediatico e politico sono stati soprattutto i temi del cambiamento climatico e della sicurezza degli approvvigionamenti alimentari a catturare l’attenzione. L’allarme food security fa la sua comparsa nel dibattito politico internazionale dopo i picchi dei prezzi delle derrate agricole registrati nel biennio 2007-08. Dal quel momento inizia anche a diffondersi la consapevolezza che le azioni intraprese su scala globale in questo ambito non possano essere più esclusivamente riconducibili alla mai risolta questione dell’iniquità nella distribuzione delle risorse tra territori e tra ricchi e poveri. L’aumento vertiginoso dei prezzi di alcune derrate agricole strategiche, come mais, soia e riso, pone il problema dell’equilibrio tra domanda e offerta e spinge il tema dell’accesso e della disponibilità di cibo in una posizione di vertice nell’agenda politica e mediatica globale. Anche perché lo shock si ripete con intensità solo leggermente minore nel 2011, confermando le preoccupazioni espresse da diverse autorevoli fonti (Fao, Oecd, Fondo monetario internazionale e Banca mondiale, per citarne solo alcune) sui rischi derivanti dall’instabilità dei mercati agricoli, che sembrano destinati a essere caratterizzati da un’accentuata volatilità delle quotazioni. Le cause della volatilità, che può essere sinteticamente definita come un indicatore dell’oscillazione dei prezzi nel tempo, sono molteplici e tra loro spesso intimamente connesse. Nelle sue manifestazioni estreme, come nel caso dei due picchi dei prezzi già menzionati, la volatilità può avere impatti significativi sul benessere e la stabilità di intere regioni.
Molte fonti ormai concordano che l’impennata dei prezzi del grano del 2011 abbia giocato un ruolo nell’innesco di alcune rivolte delle cosiddette Primavere arabe. Più controverso da interpretare è l’effetto della volatilità dei prezzi sul numero di persone che al mondo vive sotto la soglia della povertà estrema. Dopo la crisi del 2008, la Fao prevedeva un aumento rilevante della popolazione mondiale al di sotto della soglia di povertà, tale da mettere allora in discussione il raggiungimento di uno degli Obiettivi prioritari del Millennio. Nel 2013 la stessa Fao ha rivisto le sue valutazioni, suggerendo che gli aumenti dei prezzi delle commodities alimentari generalmente hanno scarso effetto sui prezzi al consumo, le cui oscillazioni risultano molto più attenuate rispetto a quelle registrate nel commercio internazionale. Negli ultimi anni si sono registrati significativi progressi verso il raggiungimento dell’obiettivo del Millennio sulla fame nel mondo, anche se la sua piena realizzazione, a pochi mesi dalla scadenza prefissata, ancora non può essere considerata un dato acquisito.
La volatilità dei mercati agricoli ha fatto tornare di attualità le preoccupazioni e le incertezze circa la sostenibilità dei processi di crescita. Come sfamare una popolazione che sarà di oltre 9 miliardi di individui nel 2050 è una delle maggiori sfide del prossimo futuro, perché coinvolge le risorse naturali indispensabili per l’agricoltura e la produzione di cibo: la disponibilità di acqua e terra è sempre più strategica e, di riflesso, aumentano le relative tensioni.
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Secondo le stime della Fao, nel 2050 gli abitanti del pianeta aumenteranno di circa un terzo rispetto agli attuali 6,9 miliardi per superare la soglia dei nove. Numeri poco sorprendenti se si volge lo sguardo alla storia demografica dell’ultimo secolo. Gli incrementi previsti per i prossimi quarant’anni si collocano, in termini relativi, al di sotto delle variazioni percentuali registrate nei quattro decenni appena trascorsi, periodo nel quale la popolazione mondiale è più che raddoppiata. Però, in termini assoluti, il pianeta sarà abitato da circa 2,5 miliardi di persone in più nel 2050 e il primo miliardo di questo saldo dovremmo registrarlo già nel 2030. I maggiori incrementi avranno luogo nei paesi in via di sviluppo, mentre la popolazione delle economie ad alto reddito rimarrà pressoché stabile. Nel continente africano la popolazione dovrebbe raddoppiare, passando da circa uno a due miliardi di persone entro il 2050, e ci sarà anche un consistente incremento nelle aree cosiddette emergenti, tra cui Cina e India, che oggi rappresentano oltre un terzo della popolazione mondiale, contando circa 2,5 miliardi di abitanti che nel 2050 diventeranno all’incirca 3,2. Ma non è solo l’aumento della popolazione a far scattare il campanello d’allarme. Questa crescita è già oggi accompagnata da un processo di convergenza degli stili di vita. In estrema sintesi, i pattern di consumo delle aree emergenti somigliano sempre di più a quelli delle economie a capitalismo maturo, inclusa una maggiore propensione verso un’alimentazione più varia e più ricca. Anche qui nessuna sorpresa rispetto a quello che ci racconta la storia: si tratta di trasformazioni tipiche della transizione verso modelli economici più evoluti. A colpire è la velocità di questa ‘convergenza’, che rispecchia l’accelerazione in termini di incremento del pil di alcune importanti e popolose aree del pianeta, i cosiddetti paesi Brics. Questo significa maggiore benessere, ma anche maggiori consumi, maggiore pressione sulle risorse naturali e maggiore inquinamento.
Oggi la popolazione mondiale è distribuita per il 50% circa negli insediamenti urbani e per l’altra metà nelle campagne. Nel 1950 il rapporto era 30 a 70 e a distanza di un secolo, nel 2050, sarà completamente ribaltato, con oltre il 70% delle persone che vivrà nelle città. Diciannove città in più rispetto a oggi conteranno più di dieci milioni di abitanti, e cinque di queste sorgeranno in Asia. Questa migrazione dalla campagna verso la città sta accompagnando il passaggio di questi paesi da un’economia agricola a una industriale e in parte già postindustriale, contribuendo a orientare le scelte di consumo delle ampie quote della popolazione mondiale coinvolte, avvicinandole agli stili alimentari delle aree più ricche del pianeta.
Il maggior contributo verrà fornito dall’espansione della classe media dei paesi emergenti. Il reddito disponibile pro capite in queste aree è cresciuto a ritmi sostenuti negli ultimi anni per rallentare, ma non frenare, solo durante questa lunga fase di recessione internazionale. Secondo uno dei postulati della ‘legge di Engel’, l’espansione del reddito e della popolazione non porta solo a un aumento complessivo dei consumi, ma ne modifica anche la struttura. Gli stili alimentari si modificano, con una progressiva sostituzione dei beni destinati all’alimentazione di base (come cereali e riso) con prodotti ritenuti di maggior pregio. In particolare si assiste alla sostituzione di prodotti amidacei e non processati con proteine animali (come carne, latte e derivati) e con prodotti trasformati a maggior valore aggiunto. In Cina, la domanda individuale di carne è destinata ad aumentare di oltre 25 kg nei prossimi quarant’anni (oltre il 50% in più rispetto a quella attuale). La media dei consumi pro capite di tutti i paesi emergenti e in via di sviluppo dovrebbe salire di oltre 6 kg. Le prospettive sono le stesse per i prodotti lattiero-caseari, che vedranno la domanda crescere di circa il 70% rispetto agli attuali livelli. L’incremento dei consumi proteici diventa un moltiplicatore della domanda di alcune materie prime agricole vegetali, come soia e cereali, che sono anche alla base dell’alimentazione animale. Seppur con l’ampia variabilità dipendente dai sistemi di allevamento in uso, per produrre un chilo di pollo ne occorrono in media da due a quattro di cereali, mentre per produrre una bistecca di manzo dello stesso peso ne servono dai sette ai dieci. Una dieta proteica media conta all’incirca quattro volte il fabbisogno di cereali presente in una dieta vegetariana.
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Qual è l’effetto sul rapporto tra domanda e offerta di prodotti agricoli? La Fao sostiene, ormai da qualche tempo, che per venire incontro alla domanda di cibo di una popolazione più numerosa, ricca e urbanizzata di quella di oggi, la produzione agricola destinata a usi alimentari dovrà aumentare del 70% da qui al 2050. Un obiettivo non facile da raggiungere a causa di numerosi vincoli. In primo luogo questa ipotesi si scontra con la carenza di terra disponibile. A oggi, le possibilità per incrementare l’offerta in modo sostanziale sono essenzialmente due: l’aumento delle superfici dedicate e la crescita della loro produttività, ossia il rapporto tra quantità prodotte e ampiezza delle superfici coltivate. Gli incrementi dell’output registrati negli ultimi quindici anni sono quasi per intero ascrivibili alla crescita della produttività. A fronte di una superficie agricola che a livello mondiale è rimasta quasi costante (+6%), l’aumento delle rese produttive ha consentito una crescita delle quantità prodotte superiore al 120%. Le terre migliori, sopravvissute alla competizione nell’uso dei suoli tra città e campagna, sono già coltivate. Un’ulteriore espansione delle aree coltivate potrebbe avvenire solo su superfici marginali e scarsamente produttive o riducendo, in una prospettiva nient’affatto auspicabile, il patrimonio di boschi e foreste del pianeta. In base al rapporto tra terra disponibile e popolazione la superficie coltivabile pro capite è diminuita di oltre la metà negli ultimi cinquant’anni.
Al tempo stesso sono aumentate le superfici agricole non dedicate alla produzione di cibo ma destinate ad altri scopi, come la produzione di biocarburanti. Conosciuti solo dagli addetti ai lavori fino a pochi anni fa, i carburanti ottenuti da biomasse hanno guadagnato in breve tempo grande notorietà. Il dibattito è stato molto polarizzato fin dal principio. Da una parte, gli incentivi alla produzione di biocarburanti di prima generazione (vale a dire da colture alimentari) sono stati presentati come soluzione al grande problema del cambiamento climatico, grazie alla loro ipotetica capacità di ridurre le emissioni complessive di gas serra nell’atmosfera. Dall’altra, sono stati accusati d’essere un ‘crimine contro l’umanità’ in quanto corresponsabili della sottrazione di terreni agricoli a scopi alimentari.
Sul versante della produttività della terra lo scenario non migliora di molto. Seppure gli incrementi dell’offerta degli ultimi anni siano riconducibili all’aumento delle rese, va rilevato come vi sia stato un significativo rallentamento nella loro crescita, soprattutto nelle aree più sviluppate. In Europa si è passati da tassi di crescita medi su base annuale superiori al 2% per arrivare a quelli attuali che si presentano inferiori all’1%. L’Oecd e la Fao hanno recentemente stimato che per i prossimi anni la crescita annuale della produzione continuerà a essere più lenta che in passato: si andrà da una media annua del 2,4% del decennio appena trascorso a una dell’1,7% per il prossimo. Le ragioni di questo rallentamento vanno ricercate da un lato nell’esigenza di rendere la produzione agricola più sostenibile sotto il profilo ambientale, dall’altro nella difficoltà di realizzare incrementi marginali importanti (superando l’attuale frontiera tecnica) con tassi decrescenti di spesa pubblica dedicata alla ricerca e allo sviluppo in campo agricolo. Dal punto di vista della sostenibilità, la connessione tra produzione agricola e ambiente è molto stretta. Ne derivano impatti positivi per la collettività: dalle funzioni di salvaguardia idrogeologica a quelle del sequestro di anidride carbonica, ottenibili tramite una corretta gestione dei suoli; e, come spesso accade, impatti negativi: inquinamento idrico, emissione di gas serra. Gli aspetti deteriori hanno assunto una portata difficilmente sostenibile nel prossimo futuro. Il costante processo di intensivizzazione si è sostenuto con l’ampio ricorso a input chimici, ricavati essenzialmente da combustibili fossili. I fertilizzanti sono stati tra i principali protagonisti di quella che fu etichettata ‘rivoluzione verde’, la fase storica che va dai primi anni Sessanta sino alla fine degli anni Ottanta, caratterizzata da un impressionante incremento della produttività guidato dalla meccanizzazione, dal progresso tecnologico e dai passi da gigante compiuti nelle tecniche di selezione genetica e negli sviluppi della chimica applicata all’agricoltura, uniti al miglioramento delle infrastrutture di irrigazione. Il progresso sperimentato nelle economie più sviluppate e il suo trasferimento in altre regioni del mondo, Asia e America Latina in particolare, hanno quasi duplicato le rese di alcuni prodotti agricoli strategici in appena un quarto di secolo. La rivoluzione verde ha giocato un ruolo determinate nella lotta alla fame, ma ha anche contribuito a incrementare la pressione sulle risorse naturali, oggi non più sostenibile.
Tutto ciò richiede un cambiamento di traiettoria anche per quanto concerne la ricerca e lo sviluppo, ambito al quale oggi si chiede di fornire soluzioni per una ‘intensivizzazione sostenibile’. Un cambio di paradigma che si colloca in un trend degli investimenti nella ricerca pubblica per l’agricoltura che progrediscono, ma a tassi decrescenti. Molti analisti hanno segnalato lo stretto legame tra l’andamento dell’impegno pubblico nella ricerca e l’arretramento dei saggi di crescita della produttività agricola. Grave anche l’attuale insufficienza finanziaria e organizzativa del sistema della ricerca nei paesi africani, che non consente di capitalizzare con la rapidità necessaria i benefici del progresso tecnico già da tempo raggiunto in agricoltura.
A questi limiti si aggiunge la maggiore frequenza degli eventi calamitosi legati ai cambiamenti climatici, da cui possono derivare significative riduzioni dell’offerta. In questo quadro, aumenta la pressione sulle risorse naturali indispensabili alla produzione di cibo: acqua e terra. Le tensioni e i conflitti che da sempre si generano per il loro controllo rischiano di esacerbarsi ulteriormente. Negli ultimi vent’anni i consumi di acqua sono cresciuti a una velocità doppia rispetto alla popolazione, quasi decuplicando il loro livello. L’agricoltura è l’attività a maggior intensità di consumo idrico: rappresenta circa il 70% del consumo totale. Per il prossimo futuro si prevede un incremento dei fabbisogni idrici del settore che dovrebbe attestarsi tra il 30 e il 50% rispetto ai livelli attuali. Anche in questo caso il coefficiente di conversione in cibo rappresenta un moltiplicatore dei consumi. Basti pensare che per produrre un chilo di riso o di carne di pollo sono necessari circa 3500 litri d’acqua.
Dalla percezione della scarsità di queste risorse parte quella che può essere definita una vera e propria corsa alla terra, che è entrata nel linguaggio comune come il land grabbing. Si tratta di acquisizioni, a vario titolo, di ampie superfici agricole da parte di società private, governi e fondi sovrani. Un fenomeno che negli ultimi anni ha avuto una risonanza tale da innescare l’interesse e la preoccupazione di istituzioni intergovernative come la Banca mondiale, organizzazioni non governative e governi come quello giapponese che, al summit del G8 dell’Aquila, ha posto all’ordine del giorno del vertice il tema degli ‘investimenti responsabili in agricoltura’.
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Oltre che da elementi di natura strutturale la sicurezza alimentare è minacciata da altri fattori di natura contingente che si riflettono sui mercati agricoli. La prima considerazione da fare è che si tratta di mercati dalle dimensioni ridotte e molto concentrati. Solo il 12% del mais e il 15% del grano sono destinati all’esportazione e di conseguenza disponibili sui mercati internazionali. A questo dato si aggiunge l’elevata concentrazione, che mette di fatto il mercato nelle mani di pochi grandi attori. Quasi il 70% dell’export mondiale di zucchero è appannaggio del Brasile, oltre il 50% di quello del mais degli Stati Uniti e il 50% del latte in polvere della Nuova Zelanda. La conseguenza è che piccole variazioni dell’offerta producono sensibili incrementi o diminuzioni dei prezzi.
In questo scenario giocano un ruolo decisivo il livello delle scorte di derrate agricole strategiche e le scelte di politica commerciale. Le prime perché hanno storicamente rappresentato uno dei principali strumenti a garanzia della sicurezza degli approvvigionamenti e della stabilità dei mercati domestici. Oggi il livello delle scorte alimentari è molto più basso rispetto al passato. Nel 2007 le riserve di cereali hanno raggiunto il loro minimo storico. Questo ha, di fatto, ristretto ulteriormente il livello dei volumi disponibili, favorendo la crescita dei prezzi. Le ragioni della diminuzione dei volumi stoccati sono di ordine economico, politico e commerciale, ma va comunque sottolineata l’elevata correlazione che ha storicamente contraddistinto il rapporto tra quotazioni e scorte.
Un fatto nuovo è costituito dalle reazioni, in termini di politiche commerciali, agli shock di prezzo da parte dei grandi esportatori mondiali. Finalizzate a stabilizzare il più rapidamente possibile l’offerta interna, attraverso l’adozione di divieti alle esportazioni o incentivi alle importazioni, queste iniziative hanno avuto il solo risultato di esportare l’instabilità, amplificando le oscillazioni dei prezzi a livello internazionale. Si tratta di iniziative cui si è fatto ricorso anche in passato per preservare la sicurezza degli approvvigionamenti alimentari, ma che negli ultimi anni vengono adottate con una frequenza maggiore, condizionando in modo determinante l’andamento delle quotazioni sui mercati internazionali. Durante la crisi dei prezzi alimentari del 2007-08, per esempio, oltre 30 paesi hanno intrapreso misure per limitare le esportazioni.
Altri fattori, come le variazioni dei tassi di cambio e il legame sempre più forte tra quotazioni agricole e prezzi energetici, arricchiscono il quadro dei molteplici fattori che condizionano la volatilità dei mercati.
Più controverso, infine, il ruolo della speculazione finanziaria, finita nel mirino della critica quando si è appurato che, in concomitanza con i rialzi dei prezzi, i volumi dei titoli derivati trattati nelle borse merci agricole era cresciuto in modo esponenziale. Sia nel biennio 2007-08 sia in quello 2010-11 la crescita delle posizioni non commerciali nel mercato dei futures è stata marcata. Quanto ciò sia causa o effetto dell’innalzamento dei prezzi è difficile stabilirlo. Di sicuro le negoziazioni sui ‘derivati’ possono amplificare le aspettative dei mercati e contribuire all’innalzamento dei prezzi, per esempio in concomitanza di un evento calamitoso che riduce l’offerta o dell’annuncio di un divieto all’esportazione di un determinato prodotto da parte di uno o più paesi.
L’altalena delle quotazioni è un fattore che storicamente innesca tensioni sociali. Il New England Complex Systems Institute ha pubblicato uno studio che analizza la tempistica delle rivolte in Nord Africa e Medio Oriente in relazione ai picchi dei prezzi delle materie prime agricole. Nel dicembre 2010 in quest’area, caratterizzata da forte dipendenza alimentare dall’esterno, hanno preso il via tumulti e tensioni che hanno rovesciato regimi pluridecennali: le cosiddette Primavere arabe. I manifestanti tunisini che animavano le prime proteste per la democrazia scendevano in piazza brandendo pezzi di pane. In Algeria un’impennata del 20-30% dei prezzi degli alimenti di base ha scatenato quella che è stata chiamata la ‘rivolta del cuscus’. Anche in Egitto, a far scoppiare la rivolta ha contribuito il crollo del sistema dei sussidi per l’acquisto del pane, messo in crisi per la seconda volta in pochi anni dall’aumento repentino del grano sui mercati internazionali. Si tratta ovviamente di uno dei fattori che hanno esacerbato uno stato di bisogno materiale e reso più pressanti le rivendicazioni in tema di uguaglianza sociale e ampliamento delle libertà individuali delle popolazioni coinvolte.
Nel 2008 la Banca mondiale ha dedicato all’agricoltura, per la prima volta dopo un quarto di secolo, il suo rapporto sullo sviluppo. Nello stesso anno, il G8 di Hokkaido ha presentato la Dichiarazione sulla sicurezza alimentare globale. Con il lancio, nel 2009, dell’Aquila Food Security Initiative, le otto economie più importanti della terra si sono impegnate a destinare 22 miliardi di dollari in tre anni per gli investimenti in agricoltura come fattore di sviluppo. Così, negli ultimi anni, il tema della food security si è affermato nell’agenda politica mondiale.
La promessa dell’Aquila, mantenuta, seppur con qualche difficoltà, fa parte di una serie di iniziative accompagnate da un crescente attivismo delle organizzazioni internazionali, anche non governative. Paradigmatica è la riforma del 2009 del Comitato per la sicurezza alimentare della Fao, che si apre alla partecipazione di rappresentanti della società civile, del settore privato, delle organizzazioni filantropiche e non governative. Fuori dalla logica tradizionale degli aiuti ai paesi più poveri, queste realtà acquistano un peso sempre maggiore nella governance dei processi di sviluppo. I più entusiasti vedono nel delinearsi di questo arcipelago di enti e istituzioni con obiettivi comuni l’emergere di una governance mondiale, capace di prendere iniziative concrete contro la fame e arginare gli effetti dell’instabilità dei mercati. D’altro canto, manca un coordinamento e una chiara demarcazione e attribuzione delle responsabilità. Pro e contro del ‘mondo non polare’, caratterizzato da un’espansione della partecipazione (almeno nei casi migliori), ma anche dalla perdita di visione a lungo termine (soprattutto nelle economie mature).
Nel 2011, il G20 a guida francese si è dato obiettivi ambiziosi. Il gruppo, che include le economie più avanzate del mondo, quelle emergenti e l’Unione Europea e che rappresenta i due terzi della popolazione, l’85% del pil e l’80% del commercio a livello mondiale, promuove un Piano d’azione sulla volatilità dei prezzi alimentari e l’agricoltura con cinque obiettivi: aumentare gli investimenti in produttività e ricerca; migliorare il livello, lo scambio e la trasparenza delle informazioni sui mercati finanziari delle principali commodities agricole tramite l’Amis (Agricultural Market Information System) e istituire un forum di risposta rapida (Rapid Response Forum) per le crisi alimentari; rimuovere ogni ostacolo commerciale, in termini di restrizioni all’export e/o di tassazione straordinaria, agli acquisti di derrate a scopi umanitari da parte del Programma mondiale per la lotta alla fame; incrementare l’efficienza dei programmi di assistenza e rafforzare le filiere alimentari a fronte degli shock di prezzo; introdurre una regolamentazione dei mercati finanziari.
Il Piano, integrato nella Dichiarazione finale di Cannes, resta lo sforzo più concreto finora messo in atto a livello globale per dare una risposta politica organica alle nuove sfide della food security. Nell’inverno 2012, dopo l’annuncio del catastrofico raccolto americano di mais dovuto alla peggiore siccità da 50 anni a questa parte, l’Amis ha dimostrato di funzionare, favorendo la trasparenza e lo scambio di informazioni. Solo per fare un esempio, in quell’occasione nessun grande esportatore di derrate ha chiuso le frontiere, evitando così di esacerbare la crisi.
Le diverse iniziative intraprese evidenziano la necessità di un approccio coordinato a livello globale che si dipana su due principali direttrici. La prima è quella della crescita produttiva o dell’‘intensivizzazione sostenibile’. Significa centrare l’obiettivo di aumentare la produzione agricola e renderla più sostenibile dal punto di vista ambientale. Significa investire di più in ricerca, ma anche, e forse soprattutto in infrastrutture e trasferimento di conoscenza. Ancora oggi differenze troppo considerevoli separano le rese agricole di aree geografiche non dissimili in termini di condizioni fisiche e climatiche. Gli agricoltori delle aree più povere sono penalizzati nell’accesso all’innovazione e nella disponibilità di infrastrutture: con la rimozione di questi ostacoli possono essere creati nuovi e importanti spazi di crescita per l’agricoltura, soprattutto facilitando l’adattamento del progresso tecnico alle diverse condizioni territoriali. La seconda direttrice è quella del governo dei mercati. Si sono fatti passi importanti per renderli più trasparenti ma ancora molto c’è da fare tanto sul fronte delle regole del commercio internazionale, quanto su quello degli strumenti da attivare in caso di gravi perturbazioni dei mercati.
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La Dichiarazione del Millennio è stata adottata dalle Nazioni Unite nel 2000 con l’intento di portare avanti, in modo coordinato a livello internazionale, una serie di azioni destinate a costruire un mondo meno povero e più sostenibile. La Dichiarazione definisce otto target strumentali per il raggiungimento di quest’ambizioso proposito, ognuno dei quali costituisce un obiettivo del Millennio. Il primo è la lotta alla povertà estrema e alla fame nel mondo. L’impegno è di ridurre almeno della metà, entro il 2015, la percentuale della popolazione mondiale che vive in stato di povertà e che soffre la fame. Gli altri obiettivi riguardano la più larga diffusione dell’educazione primaria, la parità di genere, la riduzione della mortalità infantile, il miglioramento della salute materna, la lotta all’HIV e alla malaria, la sostenibilità ambientale del pianeta e la promozione di un partenariato globale per lo sviluppo. L’avanzamento nel raggiungimento degli obiettivi è aggiornato con cadenza annuale.
BRICS è un acronimo utilizzato per indicare un gruppo di paesi dall’economia in espansione e dall’assetto istituzionale stabile, due condizioni considerate essenziali a garantire una duratura crescita economica. Sono i cosiddetti ‘mercati emergenti’: Brasile, Russia, India e Cina, ai quali si è aggiunto il Sudafrica. Questi paesi contano oltre il 40% della popolazione mondiale e il loro protagonismo sui mercati è in forte crescita. Secondo l’inventore dell'acronimo BRICS, Jim O’Neill, i BRICS fanno da apripista ad altri 11 stati, denominati i ‘Next Eleven’ (N-11), che presentano prospettive di crescita analoghe nel prossimo futuro. Al di là delle differenze in termini politici, economici e culturali, che fanno di questi paesi un gruppo eterogeneo al proprio interno e al contempo distinto rispetto ai paesi dell’area OECD, ci si attende che nei prossimi anni tali paesi adottino modelli di consumo sempre più simili a quelli occidentali, con conseguenze profonde per lo sfruttamento delle risorse naturali. Tuttavia, tale processo di convergenza potrebbe non essere unidirezionale: si prevede infatti che nel 2030 oltre il 60% della ‘classe media globale’ sarà composto da asiatici, i cui gusti, preferenze e stili di vita influenzeranno sempre più i consumi globali.
Anche il cambiamento climatico va annoverato tra i vincoli all’aumento della produttività agricola.
Secondo le stime del gruppo intergovernativo di esperti sul cambiamento climatico (IPCC), da qui al 2100 il riscaldamento globale porterà a un innalzamento medio della temperatura tra 1,4 e 5 gradi. Per quanto alcuni studi più recenti mitighino l’allarme, questo significherebbe che in molte aree del pianeta l’agricoltura sarà più vulnerabile agli stress idrici, più esposta alla frequenza degli eventi calamitosi (siccità e inondazioni in particolare) e all’azione dei parassiti e degli altri agenti patogeni. La causa è l’aumento della concentrazione di anidride carbonica nell’atmosfera che sta già manifestando i suoi effetti incidendo sulla frequenza e l’intensità degli eventi meteorologici estremi e che, nel lungo periodo, potrebbe favorire l’espansione del fenomeno della desertificazione, proprio nelle aree meno sviluppate del globo. Oggi la desertificazione interessa già cento paesi, con circa 2 miliardi di individui che vivono in regioni aride e semiaride nel Sud del mondo.
Nel 2007-08, molti paesi esportatori di cereali hanno vietato o limitato le esportazioni. L’Ucraina ha imposto quantitativi massimi che poi si sono trasformati in divieti assoluti. In Argentina è aumentata la tassazione per gli scambi in uscita, come in Russia e in Cina, dove ha raggiunto livelli tali da configurarsi come un vero divieto. Anche i maggiori produttori di riso, come India, Indonesia e Vietnam, nello stesso periodo hanno chiuso i flussi verso i mercati globali. Nel 2010 è stato avviato un nuovo ciclo di misure del tutto scoordinate a livello internazionale. Nell’estate di quell’anno, a seguito dei grandi incendi che hanno colpito la Russia danneggiando i raccolti, Mosca ha vietato le esportazioni di grano, dando impulso all’aumento dei prezzi. L’esempio russo è stato seguito dall’Ucraina, mentre in parallelo molti governi hanno iniziato a sussidiare le importazioni o a ridurne la tassazione. È bastato l’annuncio della chiusura delle frontiere in uscita da parte della Federazione Russa perché molti importatori cominciassero a contrattare volumi maggiori rispetto al passato, temendo successivi rialzi. Secondo la FAO i prezzi mondiali del frumento sono saliti tra il 60 e l’80% tra luglio e settembre 2010 a seguito del divieto di esportazione deciso da Mosca.
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Approfondimento
In Medio Oriente le precipitazioni scarse e irregolari, la limitata portata dei corsi d’acqua, l’esigenza di soddisfare il fabbisogno idrico e alimentare di popolazioni in aumento, rendono l’acqua una risorsa strategica per il controllo dei territori e delle popolazioni. Nei tre grandi bacini idrici regionali, Giordano, Tigri ed Eufrate e Nilo, la posizione geografica e i fattori di supremazia militare o economica influenzano i rapporti di forza tra paesi, creando una serie di aree ‘idroconflittuali’ in cui l’acqua diventa uno strumento di pressione politica, un catalizzatore d’interessi e un elemento di amplificazione delle tensioni politiche regionali.
Nel caso del bacino del Giordano, la contesa tra arabi e israeliani sulle acque del Giordano e dei suoi affluenti è parte integrante del conflitto più ampio per la terra e per la sua valorizzazione a fini agricoli e insediativi. L’inaugurazione nel 1964 del National Water Carrier, l’acquedotto che porta le acque del Giordano al di fuori del bacino, verso l’arido Negev, segnò l’inizio da parte di Israele di una strategia di controllo sulle fonti idriche destinata a influenzare le fasi successive del conflitto arabo-israeliano. La Guerra dei sei giorni nel 1967 fu preceduta da una serie di bombardamenti condotti da Israele contro i progetti di sfruttamento degli affluenti del Giordano avviati dalla Siria e
dalla Giordania, considerati da Israele un attentato ai propri interessi strategici. La conquista del Golan, da cui nascono gli affluenti del corso superiore del Giordano, e della Cisgiordania, dove sono localizzate le ricche falde acquifere di montagna (Mountain Aquifer), rafforzò il ruolo egemonico di Israele all’interno del bacino. L’occupazione israeliana introduceva forti vincoli ai consumi idrici palestinesi – quali il divieto di scavo di nuovi pozzi senza una preventiva autorizzazione da parte dell’autorità militare – e si accompagnava allo sfruttamento delle risorse idriche dei Territori da parte di Israele, sia per alimentare le colonie, sia per integrare il bilancio idrico del paese. La cattiva manutenzione delle reti e la deliberata interruzione del servizio idrico come misura di ritorsione contro la resistenza palestinese contribuirono, inoltre, al deterioramento delle condizioni di vita all’interno dei Territori Occupati.
Nuove prospettive di composizione della contesa sull’acqua sembrarono aprirsi con gli Accordi di Oslo del 1993 che sancirono l’importanza di una ripartizione equa delle risorse idriche tra israeliani e palestinesi. Nel 1995, con gli Accordi di Oslo II, Israele riconobbe il diritto dei palestinesi allo sfruttamento delle falde acquifere della Cisgiordania, ma rinviò il piano di spartizione alla fase finale dei negoziati, poiché la quota di acqua da attribuire al nascente stato palestinese era legata alla fissazione dei confini e al riconoscimento del diritto al ritorno della diaspora palestinese, questioni spinose che hanno segnato il fallimento delle trattative.
L’interruzione del processo di pace e lo scoppio della seconda intifada, del 2000, hanno reso l’acqua ancora una volta uno strumento di pressione e una posta in gioco all’interno del conflitto più ampio che contrappone i due popoli. La realizzazione da parte di Israele nel 2002 della barriera di separazione, eretta dal paese per isolare i Territori Occupati e fronteggiare il terrorismo, ha avuto nello stesso tempo un obiettivo strategico di controllo sulla terra e sull’acqua. Il tracciato del muro non segue la green line – la linea di confine fissata in seguito all’armistizio del 1967 – ma si spinge all’interno della Cisgiordania, inglobando sia una quota di colonie israeliane, sia una serie di pozzi in precedenza utilizzati dalla popolazione palestinese. L’aggravarsi della penuria idrica ha indebolito l’economia palestinese, basata essenzialmente sull’agricoltura, e ha reso sempre più remota l’ipotesi della creazione di due stati indipendenti e più lontane le prospettive di pace.
Altro bacino a elevato tasso di conflittualità legato al controllo delle fonti idriche è quello del Tigri e dell’Eufrate, che coinvolge Turchia, Siria e Iraq. Il rapporto di forze tra i paesi co-rivieraschi è stato alterato dal varo nel 1977 da parte della Turchia del Progetto del Sud-Est anatolico (GAP), che prevede la costruzione di 22 dighe e 19 centrali idroelettriche sul Tigri e sull’Eufrate. Tale progetto di sviluppo integrato, che interessa la parte del paese a maggioranza curda, ha come obiettivo l’ampliamento delle aree irrigate, la creazione di zone industriali e il potenziamento delle infrastrutture in una zona tra le più arretrate e instabili del paese. Sul piano geopolitico, il GAP costituisce un forte strumento di pressione sui paesi a valle e rappresenta uno dei punti di forza della strategia egemonica turca nella regione. L’aumento delle superfici irrigue ha rafforzato il ruolo della Turchia come grande potenza agricola, aumentando il volume di esportazioni verso l’Europa e soprattutto verso le economie arabe che hanno registrato un crescente deficit agroalimentare. Il controllo sulle acque del Tigri e dell’Eufrate, grazie al sistema di dighe e di centrali idroelettriche, è destinato, inoltre, ad aumentare il potenziale idroelettrico del paese e candida la Turchia a diventare un esportatore di acqua sia verso i paesi del Medio Oriente afflitti da penuria idrica, sia verso le ricche monarchie del Golfo.
Nel bacino del Nilo le relazioni tra i paesi co-rivieraschi sembrano contraddire l’assunto che vede i paesi a monte in posizione di vantaggio su quelli a valle. Il Nilo sfocia in Egitto dopo aver attraversato altri nove paesi, cui si è aggiunto nel 2011 il Sud Sudan. Storicamente, l’Egitto ha esercitato un controllo quasi esclusivo su questo corso d’acqua, facendo leva su diritti storici considerati non negoziabili e precludendo agli altri paesi la realizzazione di progetti in grado di limitarne i prelievi. Unico accordo di ripartizione quello siglato con il Sudan all’epoca del dominio britannico, nel 1929, e rinegoziato nel 1959, che esclude tutti gli altri attori a monte del fiume. La contesa sulle acque del Nilo è rimasta per anni sopita a causa dell’arretratezza di molti paesi co-rivieraschi e della loro instabilità politica, ma negli ultimi decenni alcuni fattori hanno aumentato la pressione umana sulle fonti idriche, alterando gli equilibri all’interno del bacino. La crescita demografica che interessa l’Etiopia e il Sudan, l’esigenza di alcuni paesi della fascia equatoriale di aumentare la produzione di energia idroelettrica per migliorare le condizioni di vita delle popolazioni e avviare processi di sviluppo, il deterioramento del quadro climatico che espone l’area a sempre più frequenti periodi di siccità e aumenta l’insicurezza alimentare, sono tutti fattori che accrescono il potenziale di destabilizzazione legato al controllo delle acque del Nilo. Il progetto della Nuova Valle in Egitto e la realizzazione da parte dell’Etiopia della Millennium Dam sul Nilo Azzurro sono indicative del mancato decollo di una strategia di cooperazione all’interno del bacino. I grandi progetti idrici nazionali alimentano un gioco a somma zero, in cui tutta l’acqua prelevata da un paese viene sottratta agli altri, con il risultato di aumentare la pressione sulle risorse e la tensione tra i paesi dell’area.
di Eugenia Ferragina
Approfondimento
Una delle manifestazioni delle tensioni e dell’incertezza che attraversano l’attuale scenario dell’approvvigionamento alimentare globale è il cosiddetto land grabbing, denominato anche ‘global land grab’, o accaparramento delle terre. Con questa espressione si definisce l’incremento delle grandi acquisizioni di terra su scala planetaria che ha guadagnato la ribalta dei media nel 2008, quando la multinazionale sudcoreana Daewoo Logistics annunciò di aver raggiunto un’intesa con il governo del Madagascar per l’utilizzo esclusivo di 1,3 milioni di ettari (la metà della superficie coltivabile del paese) per produrre mais e palma da olio, per 99 anni, a costo zero. L’accordo non è andato a buon fine, ma la notizia, arrivata nel bel mezzo della crisi dei prezzi alimentari del 2008, ha gettato nuova luce sull’incremento della domanda di terra coltivabile su scala planetaria. A colpire non erano solo le grandi superfici oggetto degli accordi, ma anche il fatto che il fenomeno fosse appoggiato e, in qualche caso, direttamente finanziato da governi e stati. In particolare, da quelli sempre più dipendenti dalle importazioni per far fronte al fabbisogno di cibo, generalmente dotati di scarse estensioni di terra coltivabile ma di grande liquidità. I paesi del Golfo o la Corea del Sud sono due esempi. In realtà gli stati sono solo alcuni dei concorrenti nella ‘corsa alla terra’. Alla competizione partecipano fondi sovrani, ma anche imprese agricole di taglia globale, investitori privati, società finanziarie europee, asiatiche e americane, fondi pensione, che comprano o affittano a lungo termine grandi superfici in America Latina, nel Sud-Est asiatico, nelle ex repubbliche sovietiche e, soprattutto, nell’Africa subsahariana.
L’accelerazione delle transazioni in terra pone diverse questioni di sostenibilità sociale e ambientale. C’è una tendenza a considerare improduttive, vuote o abbandonate superfici che in realtà danno sostentamento a migliaia di agricoltori e pastori nomadi: comunità che utilizzano campi e pascoli per diritto consuetudinario, senza documenti di proprietà, anche se li hanno coltivati per generazioni. In paesi dalla governance debole, dove la terra costa meno, si segnala un profondo deficit di consultazione delle comunità locali, ma anche l’assenza di valutazioni di impatto sociale e ambientale, con un’insufficiente considerazione degli equilibri ecosistemici e di una gestione sostenibile di terra, acqua e biodiversità. Le acquisizioni per produzione agricola avvengono in regioni simbolo dell’emergenza alimentare, circostanza aggravata dalla forte propensione a sostituire le colture alimentari con quelle energetiche. Le grandi acquisizioni da parte degli stati e dei fondi sovrani, infine, hanno implicazioni geopolitiche e, in prospettiva, di sicurezza.
Fin dal suo affermarsi nell’agenda dello sviluppo e della cooperazione internazionale, il land grabbing è stato interpretato secondo due narrative, spesso in conflitto. Le organizzazioni non governative affrontano il fenomeno dalla prospettiva dei diritti umani e della sostenibilità sociale. Sulla base delle informazioni che le stesse ONG raccolgono nei paesi destinatari degli investimenti, le acquisizioni di terra su larga scala sono viste sempre e comunque come una minaccia per la vita e i mezzi di sussistenza dei poveri delle aree rurali del mondo. Altri, come la Banca mondiale, pur ponendo l’accento sui rischi di tali transazioni, soprattutto nelle aree instabili del pianeta, vedono in essi un’opportunità di crescita economica e di sviluppo, legata al flusso di capitali privati esteri nei paesi poveri. Grazie a uno sforzo analitico più articolato dell’applicazione pura e semplice di uno schema neocoloniale da un lato, o di una chiamata agli investimenti responsabili dall’altro, più di recente si va affermando lo studio delle ‘pressioni commerciali sulla terra’ (commercial pressures on land). Questo è l’approccio utilizzato dalla International Land Coalition, che raggruppa organizzazioni internazionali e della società civile. Una prospettiva che consente di porre sotto i riflettori anche il ruolo di settori come l’industria estrattiva, del turismo, della produzione di energie rinnovabili e della finanza, ove gli investimenti non sono indirizzati alla produzione agricola bensì alla rendita. Nell’ambito di questi studi è nato Land Matrix, piattaforma open access per il monitoraggio delle acquisizioni fondiarie. Si tratta di una banca dati dinamica e in continua evoluzione che incrocia diverse fonti (media, ricerche specifiche, archivi catastali) per raccogliere dati e classificare i grandi contratti fondiari su scala globale, in modo da poter distinguere tra transazioni annunciate, con trattative in corso o effettivamente finalizzate.
di Felice Adinolfi e Angelo Di Mambro