Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Nonostante la crisi tedesca, la situazione economica mondiale negli anni precedenti al 1929 è meno drammatica di quanto si è portati a credere e fra il 1922 e il 1925 si innesca una generale ripresa guidata dal nuovo Paese guida, gli Stati Uniti. I forti cali nella produzione, accompagnati da un costo del denaro a livelli molto bassi, una fuga di capitali esteri e un’attività di speculazione borsistica completamente staccata dall’economia reale, mostrano tuttavia, con il crollo di Wall Street del 24 ottobre 1929, che la grande depressione dell’economia mondiale è drammaticamente iniziata.
La calma prima della tempesta
La situazione economica internazionale all’indomani della fine del primo conflitto mondiale appare seria, ma non drammatica. Il problema più grosso in tutti i Paesi non è la miseria, bensì la riconversione dell’industria bellica; in una prima fase, inevitabilmente, si verifica un aumento della disoccupazione, ma presto l’industria riprende a tirare, poiché non soltanto negli anni di guerra si sono accumulati capitali disponibili per gli investimenti produttivi, ma soprattutto sono presenti richieste insoddisfatte di beni di consumo da parte di larghe fasce sociali; in queste condizioni si determina un aumento generalizzato dei prezzi, che in alcune regioni d’Europa provoca anche moti popolari, a cui i governi rispondono, da una parte, cercando di controllare i prezzi con l’adozione di calmieri; dall’altra, con forti restrizioni creditizie che provocano una brusca caduta della domanda e una crisi economica complessiva, sia pure di breve durata, nel biennio 1920-1921.
Per favorire la ripresa nei singoli Paesi sono adottate tariffe protezionistiche ancora più elevate di quelle esistenti e ciò, da parte dei Paesi vincitori, viene particolarmente diretto contro la ripresa in atto nell’industria tedesca. Come conseguenza, la Germania, che per poter pagare l’enorme ammontare delle riparazioni di guerra, imposte dai trattati di pace, deve necessariamente esportare, viene messa, di fatto, nelle condizioni di non poter far fronte agli impegni; in effetti, nel 1923 il governo tedesco sospende i pagamenti, il che provoca immediatamente l’occupazione militare franco-belga della Ruhr. Privata del suo cuore economico, la Germania è sottoposta alla fortissima pressione interna degli interessi lesi dall’occupazione straniera; posti tra l’incudine e il martello, il governo e la banca centrale tedesca rompono ogni limite alla stampa di banconote in regime, altresì, di corso forzoso (per cui non esiste alcun rapporto prestabilito tra le riserve auree della banca centrale e la quantità di circolante) e il marco subisce in pochi mesi una svalutazione impressionante, che mette in discussione la stessa possibilità di sopravvivenza di milioni di persone a reddito fisso.
La situazione economica mondiale è tuttavia meno drammatica di quella che la crisi tedesca lasci immaginare. Gli Stati Uniti sono divenuti Paese creditore nei confronti di tutti gli Stati europei; ma mentre sul piano politico generale assumono un atteggiamento isolazionista, e si disinteressano delle vicende politiche del Vecchio Continente, sul piano economico la struttura produttiva americana trova sul mercato europeo una formidabile area di espansione, tanto più favorita dai crediti finanziari che gli USA vantano verso l’Europa. Gli stessi finanzieri americani trovano più che conveniente investire nella ripresa industriale europea, in particolare in settori non concorrenziali con le esportazioni statunitensi, come l’industria elettrica, quella chimica e quella del carbone e dell’acciaio. Il forte grado di integrazione tra l’economia americana e quella europea convince il governo statunitense dell’opportunità di un intervento sulla vicenda drammatica e priva di sbocchi delle riparazioni tedesche e dell’occupazione della Ruhr. Viene così posto in essere, nel 1924, un piano d’intervento finanziario americano, detto piano Dawes, dal nome del banchiere che lo ha ideato, con il quale viene concesso alla Germania un prestito di 200 milioni di dollari, con tre obiettivi molto rilevanti. Le si consente una riforma monetaria, in virtù della quale viene adottata una nuova moneta, che mette fine alla marea inflazionistica; la banca centrale tedesca può tornare al regime aureo (cioè alla possibilità di mantenere un rapporto fisso tra moneta circolante e riserve preziose); lo Stato tedesco è messo nelle condizioni di riprendere i pagamenti delle riparazioni di guerra, creando un clima distensivo nei rapporti internazionali.
Gli anni tra il 1925 e il 1929 sono perciò di generale ripresa dell’economia mondiale. Il Paese guida è ormai divenuto il colosso americano, che ha in atto al suo interno un intenso processo di trasformazione economica. Sotto la spinta di importanti innovazioni tecnologiche, vengono adottati nuovi modelli di produzione industriale, basati sulla produzione in serie e sulle catene di montaggio che razionalizzano al massimo i ritmi di lavoro in fabbrica. In particolare nel settore dell’industria dell’automobile – ma anche in quello dell’industria di prodotti elettrici come la radio, i congelatori ecc. – grandi imprese americane, come la Ford, riescono a ottenere incrementi così forti di produttività da consentire, nel contempo, una diminuzione delle ore di lavoro settimanali e un aumento delle retribuzioni, creando nuovi forti stimoli per la domanda di beni di consumo di prestigio, che per la prima volta sono messi a disposizione di milioni di consumatori.
Tra il 1922 e il 1929 la produzione industriale negli USA aumenta del 45 percento; nel solo settore delle automobili ne vengono prodotte in serie circa 26 milioni. Né diversamente vanno le cose in Europa. Nel Paese dotato di maggiori potenzialità, la Germania, la ripresa economica tra il 1925 e il 1929 assume un andamento tumultuoso: introduzione della lavorazione in serie, fordismo, tendenza alla forte concentrazione industriale in alcuni settori guida dell’industria tedesca come quella del carbone, dell’industria siderurgica, di quella elettrica e chimica. Il reddito nazionale cresce di circa il 6 percento in un arco temporale assai breve, mentre grandi riforme sociali offrono per la prima volta alla classe operaia tedesca gli assegni contro la disoccupazione.
L’andamento complessivamente positivo del mercato mondiale si riscontra anche nei Paesi più distanti dalle economie occidentali. Il Giappone, cui il trattato di Versailles ha riconosciuto, in qualità di Paese alleato delle potenze dell’Intesa, il controllo del vastissimo territorio cinese dello Shantung, mette alla prova la sua giovane industria nazionale – nata a fine secolo per volontà del potere imperiale Meji come vera e propria industria di Stato, ma trasferita ai privati non appena essa si è dimostrata in grado di reggere la concorrenza internazionale – agendo alla pari con le grandi potenze coloniali occidentali e guadagnando posizioni economiche rilevanti sul mercato statunitense oltre che su quello australiano e, naturalmente, dell’Estremo Oriente. Tanto è divenuto forte il controllo giapponese sull’area del Pacifico, da suscitare le preoccupazioni statunitensi, e gli Stati Uniti nel 1922 impongono con un trattato il rispetto della sovranità nazionale cinese, lo status quo nelle isole del Pacifico e un accordo sugli armamenti. L’espansionismo economico giapponese, che si fonda su un apparato industriale caratterizzato da bassi salari e basso tenore di vita della popolazione, si dimostra particolarmente dinamico e spregiudicato sia nelle innovazioni tecnologiche che nella presenza sui mercati stranieri, favorita da una politica di bassi prezzi, e tutto questo alimenta l’ostilità degli imprenditori occidentali.
L’espansione industriale e l’avvio di una società fondata su larghi consumi di beni, come le automobili, anche di rilevante valore, in primo luogo negli Stati Uniti, non esprimono, tuttavia compiutamente le tendenze di fondo dell’economia e della finanza internazionali. Nel dopoguerra, dopo una lunga fase di crescita delle riserve auree mondiali e conseguentemente del livello generale dei prezzi, in primo luogo delle materie prime agricole, si è determinato un processo del tutto inverso, per cui ancora un volta a partire dagli Stati Uniti, ma con importanti riflessi in tutti i mercati mondiali, si avvia una fase di diminuzione generale dei prezzi delle materie prime, in primo luogo del grano, poi dello zucchero, del caffè, del piombo, dello zinco ecc. Per quanto riguarda gli USA i prezzi diminuiscono del 30 percento tra il 1924 e il 1929, mentre nel 1932 la diminuzione tocca quasi il 75 percento rispetto a nove anni prima. Il processo di formazione di eccedenze agricole che non trovano mercato, nonostante il ribasso generale dei prezzi, prima o poi giunge a toccare anche altri settori produttivi, in particolare quelli industriali. Infatti la limitazione delle capacità di consumo che la crisi agricola comporta per i soggetti che traggono dalla terra i propri redditi, si trasforma in minore capacità di consumo anche nei settori industriali.
La grande depressione alle porte
Si giunge, nel corso del 1929, a una forte aliquota di scorte produttive invendute, mentre il sistema tenta di reagire con forme sempre più ampie di rateazioni e di sconti sull’acquisto di nuovi beni, per invogliare il consumatore a comprare comunque; ciononostante non si ha alcun effetto sull’attività produttiva: nel settore delle automobili, negli Stati Uniti si verifica un calo di produzione, tra marzo e novembre, da 622 mila unità prodotte a 92.500. Il costo del denaro subisce subito una forte diminuzione, il Federal Bureau (equivalente statunitense delle banche centrali europee) giunge a fissarlo al 5 percento, una notevole aliquota di capitali si indirizza in investimenti verso l’estero, in particolare verso l’Europa, mentre altrettanto forte è la spinta a investire denaro a breve termine nelle azioni di borsa, alla ricerca affannosa di più alti rendimenti in denaro. Le operazioni di borsa assumono presto un andamento del tutto staccato dall’economia reale, mentre i prestiti a breve termine, alla base dell’investimento azionario tra il 1923 e il 1929, passano da un miliardo di dollari a 13 miliardi. Solo a questo punto il governo americano avverte la pericolosità dell’andamento economico e aumenta il tasso di sconto al 6 percento nel tentativo, per la verità assai timido, di diminuire la liquidità sul mercato; come conseguenza si verifica un brusco ritiro di capitali dall’estero, creando notevoli ripercussioni su tutti i mercati borsistici mondiali, ormai palesemente subalterni alle operazioni della borsa statunitense di Wall Street, Paese guida dell’economia mondiale tanto che da solo detiene il 45 percento della produzione industriale.
Il 24 ottobre 1929 (“giovedì nero”) il panico si impadronisce improvvisamente degli operatori di borsa; a New York in un solo giorno sono offerte sul mercato 13 milioni di azioni, a fronte di una domanda nulla; la stessa situazione si verifica nei giorni successivi. Il crollo del mercato azionario è naturalmente non la causa, ma il segnale della grande depressione mondiale, tuttavia esso ne accelera in maniera drammatica lo svolgimento, determinando sviluppi imprevedibili in tutto il mondo capitalistico. Il crollo della borsa mette infatti sul lastrico migliaia di aziende, che sono costrette a chiudere, la stessa pubblica amministrazione non è in grado di garantire il pagamento degli stipendi ai propri dipendenti, il numero dei disoccupati, sempre negli Stati Uniti, cresce da 1,5 milioni a 13 milioni, fino a interessare il 30 percento della popolazione attiva; il reddito nazionale statunitense si contrae del 38 percento. La crisi naturalmente si trasferisce su tutti i mercati mondiali, poiché vengono meno 7.400 milioni di dollari di investimenti americani all’estero, si riduce bruscamente l’importazione di beni di ogni tipo, con una diminuzione degli scambi sul mercato mondiale dell’ordine del 25 percento nel solo 1929. Nel corso del 1931, mentre il commercio estero diminuisce di circa due terzi, alcune tra le più importanti istituzioni finanziarie europee come la Banca d’Inghilterra e la Creditalstaat di Vienna sospendono i pagamenti, mentre i singoli governi, nel tentativo di porre al riparo il proprio Paese dalla grande crisi, sospendono la convertibilità della moneta in oro. La crisi appare la dichiarazione di fallimento di un intero sistema economico mondiale, da cui sembrano porsi in salvo solo Paesi, come l’Unione Sovietica, che hanno creato un’economia socialista, sganciata del tutto dall’economia di mercato dei Paesi occidentali.