Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
A partire dagli anni Settanta del XIX secolo, l’economia internazionale subisce un generale rallentamento dei tassi di crescita economica. La causa è una crisi del settore agricolo che investe tutta l’Europa continentale, in buona parte determinata dalle politiche di libero mercato adottate nel decennio precedente. La generale risposta protezionista, con l’eccezione di Regno Unito e Olanda, sarà alla base della ripresa degli anni Novanta.
L’età del libero scambio e la Grande Depressione
Il ventennio che va dal 1850 al 1870 è testimone della piena affermazione dell’egemonia del Regno Unito sul sistema degli scambi internazionali fondati sulla libertà dei commerci: il Free Trade è il principio economico e ideologico che ispira l’azione dell’Impero britannico su scala globale.
Nel 1860 il trattato commerciale anglo-francese ha sancito la definitiva affermazione del libero scambio a livello internazionale, che trova nuovi ostacoli e dovrà subire un ridimensionamento solo a partire dal 1879, con l’adozione da parte della Germania unificata di una nuova legge doganale orientata da principi esplicitamente protezionistici (in parte preceduta in tale scelta da Austria, Russia e Spagna già dal 1877). Il nuovo orientamento protezionistico delle politiche commerciali dell’Europa continentale raggiungerà il suo apice nel 1892 con l’adozione da parte della Francia di un nuovo regime restrittivo delle proprie tariffe doganali, la cosiddetta “tariffa Méline”, nonché dal rinnovo nello stesso anno di ben 27 trattati bilaterali tra Paesi europei con i quali si rivedono in chiave protezionistica i precedenti accordi. La fase del trionfo del libero mercato coincide, tra il 1868 ed il 1872, con i prodromi di quella che verrà chiamata la Grande Depressione.
Con questa espressione è stato indicato, a posteriori, il periodo, convenzionalmente collocabile tra il 1872 e il 1894, che si caratterizza per un netto rallentamento della crescita economica e in particolare degli scambi commerciali internazionali, oltre che da un generalizzato calo dei prezzi delle merci e, soprattutto, dei prodotti agricoli.
È però dal 1868 che s’inizia a percepire una inversione di tendenza: infatti da questo anno si assiste a una generale diminuzione del PIL pro capite medio dei Paesi europei, con un passaggio dall’1,6 percento di crescita media nel ventennio precedente, a una media dello 0,6 percento nel ventennio seguente. Per quanto riguarda il commercio internazionale segnali di rallentamento si erano già manifestati nel decennio precedente, in modo più marcato nel Regno Unito ma solo con una lieve variazione del volume complessivo degli scambi se si considera l’Europa nel suo insieme, dove sarà caratterizzato da una diminuzione di appena uno 0,2 percento della media annua. Dal 1873 il rallentamento della crescita del volume degli scambi sarà però un elemento indiscutibile con il passaggio a una media annua europea di incremento del commercio internazionale pari al 2,3 percento (media che resterà tale fino al 1892-1893), rispetto al 5,7 percento del decennio precedente, anche se alcuni Paesi dell’Europa continentale vedranno diminuire il livello relativo delle proprie esportazioni in maniera ben più marcata.
La risposta protezionista e l’apparente eccezione inglese
Questo rallentamento porta con sé una prima crisi di consenso rispetto alle teorie e politiche liberiste la cui crescente affermazione aveva caratterizzato i decenni precedenti. A partire dalla seconda metà degli anni Settanta, la quasi totalità dei Paesi europei risponde alla depressione (per alcuni storici sarebbe forse più corretto dire al rallentamento della crescita) optando per politiche economiche di tipo protezionistico: scelta quasi ineludibile dopo che la Germania, dal 1879, acquisisce tale orientamento per difendere la propria industria e per sostenere il regime dei prezzi, cosa che fa adottando un’ampia legislazione doganale che rivede complessivamente le leggi esistenti in materia; l’adozione del nuovo regime tariffario tedesco rappresenta il vero punto di svolta rispetto al liberismo dominante nei decenni precedenti.
L’Impero austro-ungarico, la Russia e la Spagna assumono già nel 1877 revisioni in senso protezionistico delle proprie politiche commerciali: l’Italia lo farà parzialmente nel 1878, e con una nuova legge doganale nel 1887; più significativo è il fatto che anche il Belgio, una “Inghilterra in formato ridotto” per l’adesione convinta data fino ad allora al liberoscambismo, nello stesso periodo, approva una legislazione protezionista. Sono, però, soprattutto le dimensioni e il ruolo dell’economia tedesca a fare la differenza nell’orientamento degli assetti economici del continente in senso protezionista, nonché a fornirne la più acuta argomentazione sul piano teorico con gli studi di Friedrich List (1841).
Il Regno Unito sceglie invece di mantenersi coerente con la politica di sostegno del Free Trade, strada su cui in Europa la seguirà la sola Olanda, anche se non bisogna dimenticare che questa politica riguarda esclusivamente il commercio estero britannico, mentre le cose non stanno proprio così per quanto riguarda l’impero. Di fatto, non solo esistono regimi di tariffe privilegiate per il commercio interno all’impero stesso, tra le aree d’insediamento europeo e tra queste e la madrepatria, ma nel caso dell’India si ha un pervasivo sistema di protezioni indirette volto a garantire il surplus della sua bilancia dei pagamenti nel commercio con soggetti esterni. Tale surplus, generato in India e trasferito annualmente in deposito alla Banca d’Inghilterra, avrà un ruolo fondamentale nella politica finanziaria britannica e nel governo della sterlina. La coerenza della politica commerciale britannica è anche dovuta al fatto che, complessivamente, il Regno Unito risente meno dell’Europa continentale del rallentamento degli scambi: nei due decenni successivi al 1870, il suo tasso di crescita del PIL pro capite annuo diminuisce in media del 30 percento, a fronte della diminuzione di oltre l’80 del saggio di crescita medio annuo degli altri paesi europei.
Protezionismo e crescita negli ultimi decenni del secolo
In contraddizione con la teoria economica liberoscambista, all’epoca dominante, sono proprio i Paesi che adottano le più incisive misure protezionistiche ad assistere per primi a una ripresa della velocità di crescita del tasso di incremento del volume degli scambi e a una ancora più incisiva crescita del prodotto interno lordo a partire dagli anni tra il 1890 ed il 1892, in coincidenza con l’entrata a regime dei nuovi assetti tariffari. Se il commercio britannico aveva risentito meno di quello continentale del rallentamento della crescita, negli anni 1890-1913, gli anni del protezionismo trionfante, la crescita del prodotto interno lordo del Regno Unito continua a rallentare, seppur in maniera graduale, nonostante il persistente regime di libero scambio.
Nella fase di transizione dal predominio delle politiche liberoscambiste alla progressiva affermazione dei nuovi orientamenti protezionistici europei (1877/79-1890/1892), ovvero gli anni che coinvolgono direttamente la Grande Depressione, il tasso relativo al volume degli scambi si riduce al 2,9 percento annuo e quello relativo al PIL all’1,2 percento, anche se il tasso relativo alla crescita della produzione industriale torna a crescere con il 2,2 percento e quello riguardante la produzione agricola raddoppia tornando allo 0,9 percento annuo della fase precedente. Negli anni caratterizzati dall’entrata a regime delle politiche protezionistiche adottate e ampliate nel decennio precedente (1890-1913) si assiste a una forte ripresa della crescita del volume degli scambi, con una media annua europea del 3,5 percento, e a un raddoppio del tasso di crescita medio del PIL che passa al 2,4 percento; l’incremento della produzione industriale e quello della produzione agricola in Europa, negli stessi anni, raggiungono i più alti tassi di crescita media del secolo, rispettivamente con il 3,2 percento e l’1,8 annuali (Bairoch, 1976). Dall’analisi dei dati disponibili sembrerebbe possibile dedurre che l’affermazione del protezionismo, e non il Free Trade, sia alla base dell’uscita dell’economia europea dalla Grande Depressione e della forte ripresa della crescita economica che caratterizza il periodo che si conclude alla vigilia della prima guerra mondiale. In realtà, il Regno Unito, a differenza della gran parte dell’Europa continentale, ha però continuato a seguire quella che dagli anni Quaranta è la propria tradizionale preferenza per un regime liberoscambista, fatti salvi, come già ricordato, gli assetti interni al sistema imperiale britannico, più spesso vicini ai modelli protezionistici europei che ai dettati della teoria economica dominante nella madrepatria. Indubbiamente questa scelta fa sì che la depressione economica sia mediamente meno avvertita in Inghilterra di quanto non lo sia sul continente, ma è altrettanto certo che la ripresa, a partire dal 1892-1893, appare molto più incisiva e rapida nei Paesi che hanno adottato con più convinzione le politiche protezionistiche.
Le cause della Grande Depressione: la diminuzione dei redditi agricoli
Le principali ipotesi interpretative relative alle cause della Grande Depressione ruotano attorno a due punti di vista, che potremmo vedere come complementari piuttosto che contrapposti. Il primo individua la principale causa del rallentamento dell’economia in un eccesso di sviluppo delle capacità di produzione industriale, a fronte di un continente che resta in buona parte agricolo e che non è in grado di assorbire e consumare i prodotti dell’industria con la velocità e intensità che il nuovo sistema industriale richiederebbe. Il secondo punto di vista si concentra sull’evidenza delle cifre che ci indicano come il calo del tasso di crescita del PIL, negli anni che vanno dal 1879 al 1890-1892, sia in buona parte riconducibile al declino del saggio di crescita della produzione agricola a partire già dal 1870 e fino al 1892.
Questa incisiva diminuzione della produttività agricola è stata in larga parte spiegata, oltre che con il costante incremento demografico, con il successo nell’adozione delle nuove legislazioni liberoscambiste che dopo il Regno Unito, nel 1846, portarono anche l’Europa continentale, tra il 1866 e il 1872, a eliminare completamente i dazi sulle importazioni di cereali. Dalla seconda metà degli anni Sessanta, sono soprattutto gli Stati Uniti, appena usciti dalla guerra civile, a beneficiare dei nuovi regimi tariffari europei, agevolati anche dalla caduta dei costi di trasporto, grazie alla diffusione della ferrovia e della navigazione a vapore. Nel 1880 il valore delle importazioni dagli Stati Uniti supera quello delle esportazioni dal vecchio continente del 90 percento. Per portare un esempio di questo processo, tra il 1851 e il 1860, in Francia le importazioni di grano sono pari allo 0,3 percento della produzione interna, negli anni tra il 1888 e il 1892, però, questa percentuale raggiunge il 19 percento. Ma il fenomeno, pur con una diversa incidenza a seconda dei singoli paesi, coinvolge tutto il continente.
Poiché la produzione di cereali rappresenta di per sé circa il 40 percento della produzione agricola complessiva in Europa e oltre il 60 della popolazione europea resta legato all’economia agricola, l’aumento esponenziale delle importazioni di grano ha, in breve tempo, conseguenze decisive sugli equilibri economici generali. La prima di queste conseguenze è data ovviamente dalla sensibile riduzione dei tassi di crescita della produzione agricola rispetto ai decenni precedenti, ma l’altra decisiva conseguenza è la diminuzione generalizzata dei prezzi agricoli europei, e non solo dei cereali. Come effetto di questo fenomeno il reddito medio pro capite dei contadini e il loro effettivo tenore di vita peggiorano sensibilmente, influenzando direttamente, in negativo, la domanda interna di prodotti industriali, tanto più in considerazione del fatto che, come abbiamo ricordato, il settore agricolo coinvolge direttamente la maggioranza della popolazione europea.
Il caso britannico
Il caso britannico sembra smentire questa interpretazione. Infatti la nazione che per prima adotta una legislazione liberoscambista con l’abolizione definitiva nel 1846 dei dazi sulle importazioni di cereali, le Anti Corn Laws, registra conseguenze generalmente positive nel proprio sistema economico, con tassi d’incremento dei redditi costanti e con scarse conseguenze negative sullo stesso sistema agricolo, le cui perdite vengono più che compensate dagli incrementi registrati negli altri settori.
Ma occorre tener presente che nel 1846, l’Inghilterra vede solo il 22 percento della sua forza lavoro impiegata nel settore agricolo, un terzo di quella presente negli altri Paesi europei nel 1866, mentre il 37 percento della manodopera è impiegato in attività manifatturiere, contro il 20 percento circa della media continentale attorno al 1862. Inoltre, gli Stati Uniti, negli anni Quaranta, non sono ancora in grado di produrre le quantità di grano con cui inonderanno i mercati europei venti anni dopo, né possono farlo ai prezzi consentiti dal forte calo dei costi di trasporto che si rende possibile solo a partire dagli anni Sessanta. Va poi ricordato che solo la guerra di secessione, 1860-1865, decide in senso protezionista la politica commerciale degli Stati Uniti: una concreta causa del conflitto è proprio la preferenza e la difesa del libero scambio da parte degli Stati del Sud, in prevalenza agricoli, a cui vanno le simpatie dell’Impero britannico (Kindleberger, 1996). Infine, non è possibile ignorare il fatto che alla metà del XIX secolo, il Regno Unito nel sistema internazionale ha una posizione egemonica che lo vede a un tempo essere la “fabbrica” del mondo, grazie al processo d’industrializzazione e al vantaggio assoluto in termini tecnologici e organizzativi che questo consente rispetto ai suoi possibili antagonisti, e la “banca” del mondo, grazie alla centralità della sterlina nel sistema degli scambi internazionali (Arrighi, 1994). Tale posizione centrale, anche dal punto di vista militare, garantisce la possibilità di negoziare da una posizione di forza o, quando fosse necessario, di imporre le proprie preferenze e priorità in campo commerciale e finanziario, come dimostrato, per esempio, dalle guerre dell’oppio con l’Impero cinese del 1838-1842 e del 1858-1860.