La grande scienza. Equilibri intermittenti e stasi: nuove idee sull'origine della vita
Equilibri intermittenti e stasi: nuove idee sull'origine della vita
Nel 1959, centenario della pubblicazione di On the origin of species di Charles Darwin, i biologi evoluzionistici dalle opposte sponde dell'Atlantico si congratularono per essere giunti a una teoria dell'evoluzione virtualmente completa. Tale visione retrospettiva celebrava a ragione la definitiva fusione delle scienze genetiche con la teoria darwiniana dell'evoluzione per selezione naturale: esse infatti, fin dalla loro comparsa nella prima decade del XX sec., avevano evidenziato diverse incompatibilità con tale teoria. Ad alcuni biologi (per es., il botanico olandese Hugo de Vries) le mutazioni sembravano suggerire che nella storia evolutiva i cambiamenti ereditabili potessero insorgere senza la selezione naturale. Tuttavia, altri genetisti avevano osservato come le mutazioni tendessero a essere letali e relativamente di grande effetto, in grado di sfidare anche la visione darwiniana della selezione naturale che agisce su uno spettro uniformemente continuo, geneticamente fondato, di variabilità fenotipica.
Tali problemi furono di fatto eliminati quando, a partire dagli anni Venti del Novecento, genetisti quali Ronald A. Fisher e John B.S. Haldane in Inghilterra, e Sewall Wright negli Stati Uniti, svilupparono un modello matematico per lo studio della genetica di popolazione che risolveva molti degli apparenti conflitti che contrapponevano il nuovo campo della genetica alla vecchia visione darwiniana dell'evoluzione per selezione naturale. Iniziò così una nuova fase, a partire dalla metà degli anni Trenta - in cui la recente fusione della genetica con la selezione naturale darwiniana fu applicata alla moderna biologia di popolazione e ai dati paleontologici come è attestato in particolare, ma non esclusivamente, dall'opera di Theodosius Dobzhansky (1937), Ernst Mayr (1942) e George G. Simpson (1944) - che culminò nella 'Sintesi Moderna' (o Teoria evolutiva della Nuova Sintesi), apertamente celebrata nel 1959. Finalmente, discipline fino ad allora separate come la genetica, la sistematica e la paleontologia erano state fuse in un'unica struttura coerente, da cui sembrava restare assente solo l'ecologia.
Eppure, per la biologia evoluzionistica il 1959 ha rappresentato uno spartiacque. La rivoluzione molecolare era più che avviata; si erano approfondite, divenendo così più complesse, le descrizioni riguardanti le strutture e le funzioni delle molecole dell'ereditarietà, DNA e RNA. Tali scoperte erano destinate ad avere importanti implicazioni per le teorie evolutive. Nel contempo, i paleontologi, ormai consapevoli dell'importanza della variabilità come materia prima dell'evoluzione, sia all'interno di una sola popolazione sia tra più popolazioni, iniziarono a considerare le vaste raccolte di fossili di invertebrati marini con un rinnovato interesse per lo studio dell'evoluzione. Presto, ciò che appariva come l'ormai unificato mondo della biologia evoluzionistica, sarebbe stato nuovamente spaccato a metà lungo i due terreni ora familiari della genetica e della paleontologia.
In parte forse come reazione alla nascente genetica molecolare, i genetisti cominciarono ad assumere un atteggiamento più severo nei riguardi del concetto di adattamento e di selezione naturale. Il biologo George C. Williams evidenziò la difficoltà di un'analisi rigorosa dell'adattamento e attaccò duramente la nozione di 'selezione di gruppo', ritenendo che la selezione agisse soltanto per il bene dell'individuo, mai per il 'bene della specie' (1966). Il genetista inglese William D. Hamilton affrontò il problema dell'altruismo nei sistemi biologici di tipo sociale, chiedendosi in che modo potesse essere spiegato il comportamento cooperativo riscontrabile tra gli animali sociali allorché la selezione favorisce soltanto l'individuo e non il gruppo (1964).
La risposta avanzata da Hamilton fu che la cooperazione tra gli individui era direttamente proporzionale al numero dei geni che essi condividevano. I contributi di Williams e Hamilton aprirono la strada a una visione della teoria evoluzionistica più esplicitamente centrata sui geni, in cui la selezione naturale era vista come il risultato della competizione, non tanto come 'lotta per l'esistenza' (secondo quanto aveva originariamente sostenuto Darwin), bensì come lotta per lasciare alle generazioni successive un numero quanto più possibile elevato di copie di sé stessi - idea resa perfettamente dall'immagine del 'gene egoista', usata da Richard Dawkins e ripresa dal fondatore della sociobiologia Edward O. Wilson (1975).
Allo stesso tempo, nel campo della paleontologia il pensiero evoluzionistico stava andando completamente in un'altra direzione. In molti e indipendenti studi degli anni Sessanta, i paleontologi scoprirono che le specie, contrariamente alle attese inizialmente annunciate da Darwin, non sono sottoposte a quel tipo di lenta e costante trasformazione graduale che tradizionalmente viene immaginata pensando alla selezione naturale. La maggior parte delle specie resta notevolmente stabile, fenomeno che Niles Eldredge e Stephen J. Gould (1972) chiamarono, appunto, 'stasi'. Questa riscoperta di un pattern di non cambiamento nell'evoluzione, in realtà già noto ai paleontologi contemporanei di Darwin, doveva portare a una teorizzazione del processo evolutivo molto diversa da quella del 'gene egoista'.
'Stasi' - come si è detto - è il termine con il quale nel 1972 Eldredge e Gould indicarono la grande stabilità morfologica mostrata da molte specie rinvenute nella documentazione fossile. Sebbene nella stragrande maggioranza dei casi il DNA e l'RNA non possano essere estratti dai fossili in forma utilizzabile, e (con alcune eccezioni degne di nota) l'anatomia dei tessuti molli si conservi raramente, nondimeno i dettagli anatomici dei tessuti rigidi (quali i rivestimenti esoscheletrici degli invertebrati, le ossa e i denti dei vertebrati, i tessuti legnosi delle piante) si conservano facilmente. Inoltre, nonostante molti famosi taxa di vertebrati (dinosauri, ominidi) siano raramente rappresentati da poco più che parti sparpagliate di singoli individui, i resti di molluschi, echinodermi e artropodi sono spesso preservati in molte centinaia di individui appartenenti a differenti periodi o luoghi.
La morfologia, ovviamente, evolve allo stesso modo dei comportamenti, della fisiologia e dell'anatomia delle parti molli che non si preservano perfettamente nella documentazione fossile. Negli anni Sessanta, quando presero avvio gli studi diretti al campionamento di intere popolazioni (provenienti sia da una varietà di zone scelte in habitat differenti, sia da punti selezionati sull'intero arco geologico noto per ogni singola specie), i paleontologi scoprirono presto che le popolazioni localizzate (nello spazio e nel tempo) dimostravano livelli di variabilità al loro interno comparabili con quelli normalmente osservati dai biologi che studiano i biota recenti.
Inoltre, anche le popolazioni della stessa specie che fossero approssimativamente contemporanee mostravano un certo grado di variabilità tra di loro - e questo, ancora una volta, soddisfa le attese basate sui pattern di variabilità geografica comunemente riscontrati nelle specie moderne. Ciò che non ci si attendeva era che tali pattern di variabilità all'interno della stessa popolazione e tra popolazioni diverse fossero ristretti entro limiti temporali relativamente rigidi. La previsione tradizionale è sempre stata che, con il mutare degli ambienti (evento che tipicamente accade in intervalli di tempo geologici), la selezione naturale modifichi la morfologia delle specie in modo adattativo, trasformando sistematicamente la variabilità sempre presente nelle popolazioni - e nell'ambito delle molte popolazioni di una specie - per 'inseguire' i cambiamenti ambientali. Un assunto ulteriore, naturalmente, è l'insorgenza di nuove mutazioni, per alcune delle quali ci si potrebbe aspettare che ripristinino effettivamente quella variabilità genetica che potrebbe 'esaurirsi' a causa di una selezione naturale continua in una qualsivoglia direzione particolare.
I paleontologi, invece, iniziarono a documentare frequentemente casi in cui l'ammontare della variabilità tra le popolazioni di una data specie, in un determinato periodo, era raramente superato se confrontato con quello registrato in qualunque altro punto del tempo preso su tutto l'intero arco temporale di evoluzione di quella stessa specie. Si verificava una variazione, ma di rado veniva trasformata in modo continuativo e direzionale per lunghi intervalli di tempo. Per la maggior parte, gli individui all'interno di una specie, alla fine dell'intervallo di esistenza della specie, hanno lo stesso aspetto che avevano al suo insorgere. E ciò può accadere per un tempo molto lungo. Stime di sopravvivenza delle specie condotte negli anni Settanta si sono dimostrate piuttosto coerenti con questo ragionamento: per gli invertebrati marini è usuale che le specie durino per almeno 5 milioni di anni, spesso 10 o anche più, senza mostrare apprezzabili cambiamenti morfologici. I vertebrati terrestri, ma anche le piante e gli invertebrati, tipicamente mostrano tassi di speciazione ed estinzione più elevati, cosicché l'età tipica delle specie tra i vertebrati terrestri si avvicina ai 2-3 milioni di anni. La stasi è tuttavia comune tanto nelle specie terrestri quanto in quelle marine.
Nonostante un'iniziale opposizione, in generale la comunità dei paleontologi da allora è giunta a considerare la stasi come il consueto - forse principale e predominante - pattern di mancata variazione morfologica nella storia delle specie. Per i biologi evoluzionisti privi di familiarità con la documentazione fossile è stato difficile accettare questa conclusione - sebbene in anni recenti il fenomeno della stasi sia stato accolto, quanto meno, come un'osservazione inattesa degna di analisi e comprensione nei termini del processo evolutivo.
Per spiegare cosa causi la stasi sono state avanzate diverse ipotesi, quali la mancanza di una necessaria variabilità genetica, i vincoli dovuti allo sviluppo, la selezione fortemente stabilizzante. Più promettenti sembrano le proposte riguardanti una partizione della variabilità genetica all'interno della specie. I genetisti hanno compreso da tempo che le spiegazioni a livello di mutazione e di selezione locale non possono funzionare per la stasi sul lungo periodo; inoltre, in base agli studi sperimentali e a quelli condotti sul campo nel XX sec., è ormai chiaro che prima o poi vengono superati i 'colli di bottiglia' nella variabilità genetica e nella selezione per raggiungere livelli stabili.
Si considerino le difficoltà nella diffusione delle novità evolutive sull'intera estensione territoriale di una specie. Sebbene alcune specie abbiano una distribuzione altamente localizzata, per molte è vero il contrario, come si verifica per le specie che si incontrano più comunemente nella documentazione fossile. Molte specie di uccelli hanno un'area di diffusione enorme; la cinciallegra (Parus major), per esempio, è distribuita dalla Gran Bretagna al Giappone. Riscontrabile in habitat differenti, essa è esposta a un ampio ventaglio di scelte alimentari, di temperature diverse, disponibilità di acqua, predatori e vettori di malattie. Ogni popolazione locale è adattata alla particolare configurazione dei parametri ambientali della propria area; perciò è altamente improbabile che la selezione naturale modifichi la specie nella sua interezza in una particolare direzione.
La fonte più probabile di forza selettiva potenzialmente ubiquitaria che ipoteticamente potrebbe agire su un'intera specie è forse il cambiamento ambientale. Si consideri però il destino della maggior parte delle specie durante le grandi oscillazioni nei valori della temperatura e delle precipitazioni e nella crescita dei ghiacciai montani e continentali, avvenute ciclicamente nel corso del Pleistocene, a partire da 1,65 milioni di anni fa: essa è sopravvissuta intatta e con scarso o nessun cambiamento morfologico. Invece di dimostrare un pronunciato cambiamento morfologico per mezzo della selezione naturale legata al cambiamento ambientale, i paleontologi in Europa e in America Settentrionale hanno ripetutamente dimostrato che sono le stesse specie, sia marine sia terrestri, che in realtà 'inseguono' le modificazioni ambientali. Mano a mano che il fronte ghiacciato si estendeva verso sud, i biomi come la tundra, la taiga, le foreste temperate e quelle più meridionali e la prateria, si spostarono tutti più a sud, verso l'equatore. Le specie che li componevano, un po' alla volta e con differenti velocità, sopravvissero migrando anche loro verso sud (anche quelle piante che si riproducono mediante propagoli). L'entomologo G. Russell Coope (1979), per esempio, riporta che, durante uno dei periodi caldi interglaciali, nell'area su cui ora si trova Trafalgar Square a Londra, insieme ai leoni africani e agli ippopotami viveva anche una specie di coleottero che, attualmente, è presente nell'Italia meridionale.
Risulta perciò chiaro che alcuni membri di una specie sopravviveranno fintantoché potranno trovare e occupare habitat 'riconoscibili' (cioè habitat ai quali i loro adattamenti li rendono adeguati) e che lo faranno restando praticamente invariati. L'alternativa - qualora la specie, durante gli episodi in cui avvengono i cambiamenti climatici, non fosse in grado di trovare habitat adeguati - sembra essere l'estinzione piuttosto che il cambiamento evolutivo in situ. Alla luce della partizione della variabilità genetica all'interno della specie e del fenomeno dell''inseguimento dell'habitat', la stasi dunque non soltanto viene spiegata, ma emerge come il pattern più probabile nella storia della vita.
Il consueto pattern di stasi è il componente empirico centrale della teoria degli equilibri intermittenti o punteggiati (Eldredge e Gould 1972). Poiché la maggior parte delle specie incontrate nella documentazione fossile resta morfologicamente stabile nel corso della sua storia, il pattern del cambiamento morfologico, quando è riscontrabile nella documentazione fossile, appare piuttosto all'improvviso - come un intervallo geologicamente breve di cambiamento relativamente rapido, in genere stimato in poche migliaia di anni, prima che anche la specie discendente sviluppi un pattern di stasi morfologica. Spesso le specie ancestrali e quelle discendenti mostrano una certa sovrapposizione temporale.
Simpson (1944) ha argomentato come la documentazione fossile riveli pattern evolutivi non visibili ai biologi che lavorano sul campo, né ai genetisti sperimentali. Tradizionalmente accantonata perché troppo ricca di interruzioni per rivelare il corso effettivo dell'evoluzione, a Simpson e ai suoi epigoni, al contrario, la documentazione fossile sembra rivelare pattern, quali la stasi e il cambiamento relativamente rapido dalla specie ancestrale a quella discendente, che richiedono spiegazioni in termini di meccanismi evolutivi noti. Dato che la selezione naturale sembrava non essere l'agente reale né della stasi né dei cambiamenti improvvisi, Eldredge e Gould (1972) considerarono la speciazione allopatrica, un altro aspetto ben consolidato della teoria dei processi evolutivi, responsabile delle esplosioni improvvise dei cambiamenti morfologici. Formulata in particolare da Dobzhansky (1937) e Mayr (1942), la teoria della speciazione allopatrica (o 'geografica'), resta l'ipotesi dominante sull'origine di nuove specie. In breve, essa sostiene che l'insorgenza di nuove specie avviene per divisione di una specie ancestrale, causata principalmente dall'instaurarsi di un isolamento geografico spesso, se non invariabilmente, determinato da cambiamenti climatici o da altri fattori fisici ambientali. Se si verificano molti cambiamenti (siano essi adattativi, mediati dalla selezione, o semplicemente causati da deriva genetica) tali che i membri delle popolazioni isolate non possano più accoppiarsi con successo con quelli delle popolazioni situate oltre la barriera geografica (qualora ritornassero in contatto), allora la speciazione è avvenuta.
Un modello proposto (Eldredge e Gould 1977) per spiegare come la speciazione porti a esplosioni rapide e concentrate di cambiamenti ha evidenziato che, all'interno dell'estensione territoriale della maggior parte delle specie, l'habitat ottimale per gli adattamenti tende a concentrarsi maggiormente in prossimità del centro rispetto agli estremi. Se le popolazioni dovessero entrare in isolamento nell'habitat subottimale della periferia del territorio, o nelle sue vicinanze, e se la necessaria variabilità genetica fosse presente nelle popolazioni marginali, in teoria la selezione naturale potrebbe agire velocemente per modificare gli adattamenti, di fatto 'ridefinendo' gli habitat marginali come il nuovo optimum per la specie neonata.
Il mondo paleontologico ha tendenzialmente accettato i principî basilari della teoria degli equilibri intermittenti. Inoltre, molti autorevoli biologi sono convinti che la stasi sia un fenomeno reale e che la speciazione possa portare a rapidi cambiamenti evolutivi. Tuttora, però, insorgono controversie tra i genetisti, i quali spesso documentano rapidi cambiamenti evolutivi all'interno delle popolazioni, e i paleontologi che guardano a sistemi più vasti (come appunto le specie intere), e in particolare ai destini evolutivi delle specie e perfino ai pattern di più lungo termine tra specie imparentate all'interno di cladi o ceppi genealogici monofiletici. Una di tali questioni riguarda la 'selezione di specie'.
Secondo Eldredge e Gould (1972), sebbene all'interno delle specie sia evidenziabile uno scarso cambiamento evolutivo di tipo direzionale, nondimeno tra le specie ancestrali e quelle discendenti di una linea filetica in evoluzione esistono molti esempi di cambiamento evolutivo apparentemente direzionale. Un esempio molto noto è l'aumento della dimensione del cervello avvenuto negli ominidi nel corso degli ultimi 4 milioni di anni, in cui l'incremento documentato all'interno delle specie è stato di lieve entità, ma il guadagno netto è stato di quasi 1000 ml (per es., da 450 ml delle prime specie, come Australopithecus africanus, fino alla media di 1350 ml di Homo sapiens moderno e ai valori ancora più elevati di Homo neanderthalensis estinto più recentemente).
La nozione di 'selezione di specie' ha diverse varianti incentrate sul concetto che alcune specie semplicemente sopravvivano o che vincano la competizione con le specie primitive in cui le caratteristiche in evoluzione siano meno sviluppate. Elisabeth S. Vrba (1980), evidenziando che gli esempi più citati del pattern degli andamenti interspecifici comprendono le caratteristiche morfologiche degli individui (perciò sollevando la questione che la locuzione 'selezione di specie' sia in molti casi inappropriata), propose l''ipotesi dell'effetto' come un modo alternativo in virtù del quale possono essere generati gli andamenti tra le specie all'interno di una linea filetica in evoluzione. Secondo tale ipotesi, all'interno di linee filetiche diverse (anche se strettamente imparentate) la speciazione e l'estinzione - quindi l'accumulo di un cambiamento adattativo all'interno della linea filetica - possono mostrare differenti velocità. Tali velocità differenziali insorgono soltanto dai caratteri dell'organismo - 'effetto' collaterale dei suoi adattamenti. Per esempio, gli organismi che appartengono a specie con nicchie ristrette sono specializzati in uno o più aspetti del loro ambiente; queste specie sono più soggette a estinzione e, secondo i dati, a esplosioni di rapida evoluzione rispetto alle specie a nicchia ecologica ampia, che hanno la tendenza a vivere nelle più varie condizioni ambientali e mostrano tassi inferiori di speciazione (perciò di cambiamenti morfologici) e di estinzione.
A prescindere da quale sia la causa esatta (sulla quale è ancora in corso un acceso dibattito) non ci sono dubbi che i pattern di evoluzione interspecifica e quelli di sopravvivenza differenziale, che spesso nel corso del tempo mostrano una pronunciata direzionalità, siano piuttosto comuni nella storia della vita. I biologi evoluzionistici hanno frequentemente confuso l'espressione 'selezione di specie' con quella, in apparenza simile, ma in realtà molto diversa, di 'selezione di gruppo', che mette a confronto la fitness individuale con quella di gruppo (di popolazione). Al momento è forse meglio attribuire a tali pattern la denominazione di 'cernita di specie' (species sorting) piuttosto che quella più controversa (e che potrebbe generare confusione) di 'selezione di specie'.
La 'cernita di specie' che pone l'enfasi sui processi che avvengono tra le specie oltre che su quelli intraspecifici, aprì la strada a un ulteriore lavoro sui sistemi biologici su larga scala - demi, specie e taxa monofiletici (generi, famiglie, ecc.) nel campo tradizionalmente di competenza della biologia evoluzionistica - ma anche dei sistemi ecologici, quali ecosistemi locali e regionali e, infine, dell'intera biosfera. Realizzata negli anni Ottanta del Novecento (Eldredge e Salthe 1984; Salthe 1985; Eldredge 1985, 1986), questa esplorazione puramente teoretica della struttura gerarchica e dell'ontologia fondamentale dei sistemi biologici su larga scala ha fornito l'impianto concettuale su cui si fonda la concezione della storia evolutiva della vita, una concezione che, per la prima volta, integra i sistemi ecologici all'interno della biologia evoluzionistica in modo comprensivo e sistematico.
Alla radice del lavoro sulla teoria gerarchica c'è l'osservazione che gli organismi sono impegnati unicamente in due tipi di attività. Da un lato essi trasferiscono materia ed energia; gli organismi ottengono energia (da processi chemioautotrofi, fotosintetici o eterotrofi) e nutrienti, e processano la materia e l'energia al fine di far sviluppare, crescere e mantenere il soma. Negli animali superiori l'ingestione, la respirazione, l'escrezione, l'eliminazione, la circolazione, sono attività necessarie al mantenimento della vita. Questi sono stati definiti 'aspetti economici' degli organismi. Dall'altro lato, gli organismi si riproducono e anche quelli che, per varie ragioni, non lo fanno, sono i prodotti della riproduzione che rappresenta l'aspetto 'genealogico' della vita degli organismi. Occorre notare che questa suddivisione dei processi vitali non è simmetrica: mentre le funzioni economiche sono essenziali all'esistenza di ogni organismo, la riproduzione non lo è.
Da entrambe le classi di attività discendono alcune conseguenze. Iniziando dalla riproduzione, si osserva che, per gli organismi a riproduzione sessuale (in particolare per quelli in cui i sessi sono separati, come nella maggior parte degli animali), essa implica l'accoppiamento tra maschi e femmine e avviene nell'ambito di una popolazione locale effettivamente capace di riprodursi (convenzionalmente chiamata 'deme' nella teoria evoluzionistica). Tale relazione è tuttavia reciproca, in quanto, da una parte l'esistenza di un deme è essenziale perché avvenga l'accoppiamento, dall'altra il deme dipende dalla perpetuazione del processo riproduttivo.
A un livello immediatamente superiore, i demi sono parti di specie - definita, in questo caso, come un aggregato di tutti maschi e femmine che condividono ciò che Hugh E.H. Paterson (1985) ha chiamato gli adattamenti di 'riconoscimento per la riproduzione' (species mate recognition) - dai quali dipende il successo della riproduzione. I demi sono popolazioni localizzate, spesso quasi indipendenti all'interno di una specie; essi possono esistere per qualche tempo, fondersi con altri, estinguersi o dividersi aumentando di numero. La specie può persistere anche se ridotta a un solo deme, in questo caso è però alta la probabilità che essa possa presto estinguersi, perciò il perdurare dell'esistenza di una specie dipende fortemente dal destino dei singoli demi che la compongono. La reintegrazione dei demi avviene (specialmente dal punto di vista genetico) mediante il contatto con altri demi; perciò l'esistenza di una specie con più di un deme costituisce una condizione importante per il destino dei singoli demi che la compongono.
A un livello ancora superiore, le specie 'speciano', ossia sono soggette a una forma di riproduzione di sé stesse in cui due o più specie possono originarsi dal processo di suddivisione (speciazione, sia allopatrica sia in altra forma) di una specie parentale, oppure occasionalmente (in particolare nelle piante, ma anche in alcuni animali) dalla fusione con un'altra specie (ibridazione). Il processo di speciazione crea catene costituite da specie ancestrali e specie discendenti che formano le linee filetiche (o cladi). Queste (in dipendenza soprattutto ma non esclusivamente dalla dimensione, ossia dal numero di specie) sono i 'taxa superiori' della gerarchia di Linneo - generi, famiglie, e così via, fino ai phyla e ai regni.
Dal momento che il destino di tutte le specie è l'estinzione, per mantenere in vita i taxa monofiletici è essenziale che la speciazione avvenga in modo continuo. In questa sede si sottolinea come la relazione tra le specie e i taxa superiori non sia reciproca, per la semplice ragione che, nella gerarchia genealogica, le specie sono le entità di livello più elevato in grado di attuare processi simili alla riproduzione: i generi non producono altri generi e così via. Perciò, mentre è assolutamente sensato affermare che la speciazione continuativa è necessaria per mantenere in vita i taxa monofiletici, l'esistenza di taxa monofiletici, di cui le specie sono parte, non ha alcun valore al fine dell'esistenza continuativa delle singole specie.
Gli organismi fanno parte dei demi; i demi fanno parte delle specie, le specie fanno parte dei taxa superiori. Il fatto che queste entità si riproducano (o si moltiplichino) continuativamente fa sì che si creino e si mantengano le entità del livello immediatamente superiore; mentre l'esistenza di ciascun livello (ancora una volta con l'eccezione dei taxa superiori) è similmente, e retroattivamente, essenziale per l'esistenza e il funzionamento delle parti che lo compongono.
A questo punto è degno di nota il fatto che le specie (viste nel contesto della cernita di specie) hanno un'origine (speciazione), una storia (spesso per vari milioni di anni o più) e muoiono (si estinguono); su questo esiste un'interessante letteratura (ancora una volta fiorita negli anni Ottanta del Novecento) che si interroga sulla possibilità che le specie possano essere interpretate come singoli organismi, come 'individui' invece che come classi. Basterà affermare che la maggior parte dei biologi ha concluso che, prescindendo dalla terminologia e dalle distinzioni tecniche di natura filosofica tra 'individui' e 'classi', la teoria gerarchica si basa sull'osservazione che le specie sono entità storiche delimitate in senso spaziotemporale. Tale visione contrasta con buona parte del pensiero evoluzionistico precedente, che tendeva invece a considerare le specie come entità destinate, in ogni determinato momento, attraverso un'evoluzione costante e continua, a evolversi oltre il proprio ciclo vitale. L'identificazione della stasi, anche se concettualmente non si è rivelata essenziale per sviluppare la nozione di specie come entità delimitata in senso spaziotemporale, tuttavia ha contribuito a concepirla come un'entità storica discreta.
I biologi evoluzionistici hanno dedicato quasi tutta la loro attenzione alla gerarchia genealogica, in particolare ai geni della linea germinale che entrano in gioco nel processo di riproduzione degli organismi e, storicamente, è stata scarsa l'attenzione rivolta ai sistemi ecologici in un contesto evolutivo. Tuttavia, l'esame delle attività economiche degli organismi e delle loro conseguenze rivela immediatamente come esista anche una gerarchia di entità ecologiche parallela.
Nel perseguire le attività necessarie al mantenersi in vita, gli organismi, come conseguenza diretta, automaticamente fanno parte di un secondo sistema strutturato gerarchicamente - la gerarchia 'ecologica' (cui talvolta si fa riferimento usando l'aggettivo 'economica'). Qui sono le dinamiche interattive che avvengono di volta in volta, e che riguardano il trasferimento di materia ed energia tra entità, a determinare e supportare l'esistenza di sistemi su scala più ampia - piuttosto che i processi riproduttivi (o semplicemente moltiplicativi) che definiscono e rendono coerenti le entità interrelate della gerarchia genealogica discussa in precedenza.
Le popolazioni locali di organismi cospecifici (appartenenti alla stessa specie) competono e cooperano in vario modo per le risorse disponibili nell'ambiente che occupano. Tali popolazioni sono diverse dai demi che si riproducono localmente, per la semplice ragione che questi ultimi comprendono soltanto organismi in grado di riprodursi attivamente. Inoltre, in molte specie di mammiferi i maschi tipicamente si dissociano dagli aggregati di femmine e piccoli, in alcuni casi per la maggior parte dell'anno. John Damuth (1985) ha chiamato 'avatar' tali popolazioni di cospecifici ecologicamente localizzate.
Mentre i processi che controllano la struttura degli avatar, in particolare il numero tipico di organismi che li compongono, non sono ancora completamente compresi, si assume generalmente che gli avatar si trovino o siano vicini alla 'capacità portante' dell'ambiente in cui abitano. Ciò è particolarmente evidente nelle specie animali che sono costrette a dipendere dalle piante e/o dagli altri animali che essi utilizzano come fonti di energia e di nutrienti. Il flusso di materia tra gli avatar locali di specie diverse (cioè microbi, funghi, piante e animali) è ciò che definisce e rende coerenti gli ecosistemi locali. Ogni avatar è parte di un ecosistema locale e le sue caratteristiche funzioni economiche all'interno di esso sono definite con l'espressione 'nicchia ecologica'.
Le interazioni tra gli avatar mantengono in vita gli ecosistemi locali, ma (come nel caso dei livelli all'interno della gerarchia genealogica), esiste una reciprocità causale, in quanto il mantenimento continuativo di ogni avatar dipende dall'esistenza prolungata dell'integrità dell'ecosistema locale: se per qualche ragione un avatar dovesse scomparire, anche l'esistenza continuativa degli altri economicamente connessi sarebbe messa in pericolo.
Gli ecosistemi locali formano una rete interconnessa con gli ecosistemi di scala più ampia e, da ultimo, con quelli regionali. Con l'eccezione forse dei sistemi vulcanici delle profondità oceaniche e delle pozze termali a bassa diversità, tutti basati su processi chemioautotrofi, sia gli ecosistemi acquatici sia quelli terrestri basati sulla fotosintesi, dimostrano una connessione fondata sullo scambio di materia ed energia con i sistemi adiacenti. Per esempio, in Africa il gufo pescatore di Pel cattura il pesce nei torrenti e nei piccoli specchi d'acqua dolce, ma ha i siti di stazionamento e di riproduzione nelle adiacenti foreste situate lungo i corsi d'acqua, dove dal punto di vista economico esso interagisce con gli elementi biotici terrestri; nessun ecosistema locale è un sistema chiuso di trasferimento di materia ed energia.
I sistemi economici regionali, poi, sono lateralmente interconnessi a mosaico a formare l'intera biosfera, il biota interattivo più l'ambiente fisico (atmosfera, idrosfera e litosfera) che alcuni biologi hanno chiamato 'Gaia'. Gli organismi, grazie alle loro attività riproduttive ed economiche, mettono così in moto la costruzione di un insieme multidimensionale e interrelato di sistemi economici e genealogici. Gli organismi sono le sole entità che, simultaneamente, appartengono sia alla gerarchia ecologica sia a quella genealogica.
La teoria gerarchica ha chiarito una serie di questioni ontologiche di importanza fondamentale per la teoria evoluzionistica. Tra queste, la reale natura delle specie: da quanto affermato in precedenza risulta chiaro come le specie siano collettività di esseri viventi che condividono una certa informazione genetica - definite come le più vaste aggregazioni di organismi in grado di riprodursi con successo. È anche chiaro come le specie non siano parti di sistemi economici, ma piuttosto di un apparato di specie originatesi dal processo evolutivo. Così in nessun modo si può sostenere che le specie abbiano 'nicchie ecologiche', né, come semplice corollario, che i taxa superiori (i gruppi di specie imparentate tra di loro) occupino una 'distribuzione di picchi del paesaggio adattativo' - per citare una metafora consueta della teoria evoluzionistica degli anni Cinquanta del XX secolo.
Lo schema della gerarchia dualistica dei sistemi biologici su larga scala e il fatto importante che soltanto gli organismi si trovino in ciascuno schema, illustra meglio la vera natura della selezione naturale, pietra angolare della teoria darwiniana e ancora punto fondamentale e critico della teoria evoluzionistica attuale.
La concezione darwiniana della selezione naturale (Darwin 1859) è espressa compiutamente da questa semplice affermazione: quanto meglio un organismo agirà nella propria vita economica tanto maggiori saranno gli effetti positivi su quella riproduttiva. Gli organismi producono continuamente discendenti e, in realtà, in quantità maggiore di quelli che possono sopravvivere e riprodursi nel contesto deme/avatar della vita di ognuno di essi. In larga misura il numero dei discendenti che produrranno - e quindi il grado in cui l'informazione genetica dei genitori sopravviverà nella generazione successiva - dipende dall'esito della partita economica per la sopravvivenza giocata sul campo degli ecosistemi locali. Oltre al caso, l'unico fattore determinante per il successo riproduttivo deriva dalle abilità relative mostrate dagli organismi durante la riproduzione; ciò significa che altri fattori oltre a quello economico potrebbero pregiudicare il successo riproduttivo, un fenomeno che Darwin (1871) astutamente ha identificato e denominato 'selezione sessuale'.
Oltre a chiarire queste e altre problematiche ontologiche, a prima vista la teoria gerarchica potrebbe sembrare molto lontana dalla comprensione del processo sottostante la genesi della storia evolutiva della vita sulla Terra. Tuttavia, come si mostrerà nel paragrafo seguente, niente potrebbe essere più lontano dalla verità.
Da alcuni decenni ai paleontologi è divenuto sempre più evidente che, nei termini di un cambiamento evolutivo morfologico identificabile e duraturo, non avviene nulla di sostanziale a meno di eventi ambientali, in modo particolare eventi che riguardano l'aspetto fisico dell'ambiente, capaci di disturbare i sistemi viventi già presenti sulla Terra. Per le specie la stasi è la norma e la grande maggioranza di esse all'interno degli ecosistemi regionali tende a rimanere stabile, spesso per milioni di anni. Per esempio, Carlton E. Brett e Gordon C. Baird (1995), analizzando nel settore centro-orientale dell'America Settentrionale, una successione di otto specie di fauna marina, risalenti al Paleozoico medio e comprese in un arco di tempo di circa 70 milioni di anni, hanno dimostrato in maniera inequivocabile che quasi tutte le specie erano in stasi; almeno il 70% (spesso anche di più) di quelle esistenti all'inizio di ciascun intervallo di fauna persisteva fino alla fine; soltanto il 20% ca. delle specie di un dato intervallo era in grado di sopravvivere fino al successivo. Evidentemente la fine di ciascun intervallo biotico è marcata dall'estinzione della maggioranza delle specie componenti la fauna di quell'intervallo, mentre le specie nuove che si trovano all'inizio del futuro biota o si sono evolute ex novo oppure, in certi casi, sono specie che hanno invaso la regione attraverso il processo di 'inseguimento dell'habitat' discusso precedentemente.
Lo schema dualistico gerarchia ecologica/gerarchia genealogica fornisce la cornice teorica per l'interpretazione di tali eventi evolutivi intergenealogici e coordinati (denominati 'stasi coordinata' da Brett e Baird; allo steso fenomeno si fa anche riferimento con l'espressione 'impulso di avvicendamento', Vrba 1985). Come discusso in precedenza, tra il dominio ecologico e quello genealogico c'è un'interazione reciproca: con la produzione di altri organismi gli avatar degli ecosistemi locali si riforniscono a ogni generazione, e dal modo in cui essi condurranno tale azione dipenderà il buon esito del processo riproduttivo.
Si consideri ora cosa succede quando gli ecosistemi locali vengono gravemente degradati - a causa del fuoco, delle tempeste, di fenomeni vulcanici oppure (come accade sempre più frequentemente) per disastri provocati dall'uomo (per es., fuoriuscite di petrolio, guerre, ecc.). In tali casi, una volta che la causa della degradazione ambientale abbia cessato di produrre i suoi effetti negativi, l'area coinvolta inizierà a essere immediatamente ripopolata di vita, per il fenomeno che va sotto la designazione di 'successione ecologica'. A tale proposito Robert G. Johnson (1972) presenta un esempio particolarmente chiaro nel suo studio sulla progressione di un cordone sabbioso sterile in una sezione del piano della Tomales Bay nella California settentrionale per un periodo di alcuni anni. Il cordone sabbioso uccideva effettivamente tutto il benthos marino che viveva sulla superficie o all'interno del sedimento incontrato sul suo percorso. Appena il cordone sabbioso passava oltre, però, il fondo marino veniva di nuovo esposto e immediatamente colonizzato da alcune delle specie presenti prima della sua comparsa. Nel tempo, una comunità marina 'normale' e matura fu di nuovo stabilita attraverso il processo di successione ecologica con gli stessi componenti che si trovavano sul posto prima del passaggio del cordone sabbioso.
Chiaramente la vita dei demi/avatar adiacenti non è danneggiata dai disastri localizzati e il reclutamento proviene dalle larve prodotte nelle vicinanze. In tali colonizzazioni vengono utilizzati gli adattamenti di ogni specie già presenti (proprio come nel fenomeno generale su larga scala dell'inseguimento dell'habitat) e perciò negli eventi localizzati di degradazione e ripresa ecologica ci si dovrebbero attendere pochi o nessun cambiamento adattativo e morfologico di tipo evolutivo (e in effetti mai ne sono stati riscontrati).
Si prenda ora in considerazione l'esempio estremo di tali situazioni: i cinque eventi di estinzione di massa che per estensione sono stati realmente globali. Sia che la loro causa risieda nell'impatto causato da eventi extraterrestri (cioè tra la Terra e uno o più asteroidi o comete, come nel caso della famosa estinzione avvenuta nel Cretaceo superiore, alla fine del Mesozoico, circa 65 milioni di anni fa), o che rifletta profondi cambiamenti climatici, tali eventi, relativamente rari, rappresentano le svolte decisive nella storia della vita sulla Terra. È stato stimato come nel più imponente di questi eventi finora verificatosi (alla fine del Permiano, circa 245 milioni di anni fa), almeno il 70% - forse fino al 95-96% - di tutte le specie presenti sulla Terra si sia estinto in un intervallo di tempo relativamente breve. Eppure la diversità della vita è oggi paragonabile a quella esistente prima di questa estinzione; ciò implica che in seguito l'evoluzione sia stata massiccia e che la vita sia stata ricostruita di fatto a partire dal 30 % o anche meno della variabilità genetica presente prima dell'evento di estinzione.
I paleontologi hanno da tempo identificato questi eventi di estinzione di massa e hanno inoltre documentato come, con l'aumentare delle sue proporzioni, si allunghi l'intervallo che precede il ristabilirsi di una parvenza di normalità ecologica. Dopo i principali eventi di tipo globale, tale periodo può essere di 5-7 milioni di anni, forse anche più lungo.
Nelle estinzioni di massa non è soltanto la specie come taxon a estinguersi; su tutta la Terra, negli ambienti terrestri e marini, si estinguono molte specie, cosicché il fenomeno coinvolge interi gruppi, cioè interi taxa, quali famiglie e persino ordini. Durante la ripresa evolutiva, al loro posto si sviluppano taxa superiori nuovi. I due principali gruppi di coralli paleozoici scomparvero durante l'estinzione di massa avvenuta tra il Permiano e il Triassico (ossia alla fine del Paleozoico), 245 milioni di anni fa; essi furono sostituiti dalle moderne sclerattinie che, a quanto pare, si sono evolute dalle anemoni di mare prive di scheletro esterno duro e sono note per essere i loro parenti più prossimi attualmente viventi. Sebbene i mammiferi si siano evoluti all'incirca nello stesso periodo dei dinosauri, sono stati questi ultimi a svilupparsi in tutte le dimensioni corporee e i livelli trofici, mentre i mammiferi sono rimasti relativemente indifferenziati dal punto di vista ecologico e morfologico per tutto il restante periodo Mesozoico. Fu soltanto durante l'estinzione che comportò la scomparsa dei dinosauri, 65 milioni di anni fa, che i mammiferi, dopo un caratteristico intervallo di tempo, si differenziarono in un ricco insieme di dimensioni corporee e ruoli ecologici.
Sul piano delle estinzioni di massa di tipo globale, la relazione tra dissesto ecologico, estinzione e successiva evoluzione è relativamente semplice. Sembra logico supporre quindi che ci debba essere un livello corrispondente a una 'soglia' critica, a metà strada tra la perturbazione locale (senza estinzioni, successioni ecologiche, né alcuna evoluzione riscontrabile) e le gravi perturbazioni globali (con estinzione di taxa di livello superiore, e la massiccia evoluzione di nuovi taxa superiori). I livelli soglia esistono e si riscontrano lungo l'intera storia della vita pluricellulare, com'è attestato dalla documentazione fossile degli ultimi 535 milioni di anni. Essi costituiscono i pattern di 'impulso di avvicendamento/stasi coordinata' cui si è fatto riferimento all'inizio del capitolo. Tutte le suddivisioni del tempo geologico documentate negli ultimi 200 anni, da quelle più grossolane (per es., Paleozoico, Mesozoico, Cenozoico) fino a quelle regionali più minute, sono di fatto delimitate da eventi biotici di estinzione/ripresa. Come ci si potrebbe attendere, l'evento soglia mediano - momento in cui le specie (ma non i taxa superiori) si estinguono per poi permettere una successiva esplosione nelle speciazioni- tende ad avere una dimensione regionale; come per esempio gli eventi nei mari delle zone orientali e centrali dell'America Settentrionale durante il Paleozoico medio o l'avvicendamento verificatosi nell'Africa orientale e meridionale circa 2,5 milioni di anni fa (Vrba 1985), evento che forse più di altri è degno di nota, data la sua influenza sull'evoluzione dei primi ominidi.
È importante sottolineare come gli eventi evolutivi - siano essi le esplosioni di eventi di speciazione seguite da crisi ecologiche regionali o gli eventi su scala maggiore causati dalle estinzioni di massa - abbiano una natura profondamente intergenealogica. Non sono soltanto le specie di trilobiti o di ominidi a inseguire l'habitat, o a essere soggette all'estinzione o alla speciazione come se si trovassero in una sorta di vuoto ecologico. Piuttosto negli interi biota sono i molti elementi non affini che tuttavia presentano gli stessi pattern di inseguimento dell'habitat, di estinzione (se l'inseguimento dell'habitat non riesce a mantenerne l'esistenza) e di speciazione (spesso accompagnata da cambiamenti significativi a livello morfologico), a mostrare di dipendere da un insieme di storie evolutive armonizzate in un comune contesto ecologico.
Si è scelta la metafora del 'secchio oscillante' per caratterizzare questi pattern multiscalari di stasi ed evoluzione in un contesto ecologico (Eldredge 1999). In un secchio che viene trasportato l'acqua 'sciaborda' da un lato all'altro; più il livello dell'acqua di un lato si innalza, più lo sciabordio porterà in alto l'acqua quando essa tornerà sull'altro lato. Lo stesso accade con l'evoluzione. Si immaginino le gerarchie ecologiche e genealogiche le une accanto alle altre; esse, in un diagramma, rappresentano i lati del secchio; gli organismi che si trovano in ciascuna gerarchia e le loro interazioni formano il fondo del secchio. Senza perturbazioni i sistemi sono stabili, privi di sciabordio; lievi perturbazioni di carattere locale scatenano le successioni, alimentate dai reclutamenti provenienti dai demi periferici; in questo caso non avviene alcuna evoluzione morfologica.
Perturbazioni più intense come i cambiamenti climatici associati alle glaciazioni pleistoceniche sconvolgono i sistemi ecologici e dislocano le specie, molte delle quali sopravvivono in quanto continuano a trovare e occupare habitat familiari. Gli adattamenti già presenti risultano sufficienti e ancora una volta non è possibile identificare i risultati di un'evoluzione morfologica.
Quando la perturbazione ecologica è sufficientemente rapida e grave si estinguono intere specie: infatti, le perturbazioni sul lato dell'ecosistema regionale 'sciabordano' abbastanza in alto nei sistemi genealogici da causare l'estinzione di intere specie. La speciazione successiva implica che nell'assetto ecologico appena modificato la vita vada incontro a cambiamenti morfologici. Nello sciabordio di ritorno gli ecosistemi di nuova ricostruzione sono notevolmente diversi da quelli che avevano occupato la regione in precedenza.
Ciò è accaduto per le perturbazioni più intense che si siano verificate: globalmente esteso, lo 'sciabordio' tracima nel settore genealogico portando i taxa superiori (famiglie, ordini, e forse anche intere classi) all'estinzione. Dopo un intervallo, l'entità dei fenomeni di speciazione e dei cambiamenti morfologici è così elevata che si arriva alla costituzione di interi taxa superiori nuovi, e il risultante 'sciabordio di ritorno' si manifesta in ecosistemi radicalmente differenti.
Gli equilibri intermittenti, dunque, non si verificano in un vuoto ecologico. Sebbene tradizionalmente questa ipotesi sia stata sviluppata per spiegare i pattern di stasi intraspecifica e quelli riguardanti i cambiamenti evolutivi interspecifici, la documentazione fossile mostra inequivocabilmente come tutti questi eventi si verifichino in un contesto ecologico e, specificatamente, come esistano interazioni reciproche regionali e locali di estinzione e successiva speciazione, causate da perturbazioni provenienti dal dominio degli eventi fisici. Così i pattern paleontologici sembrano aver stabilito quella connessione fondamentale tra ecologia ed evoluzione che mancava nelle prime versioni della teoria evolutiva.
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