La guerra a Roma
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Una breve rassegna delle forme di guerra adottate da Roma nel corso dei secoli, così come delle regole astratte, scritte e non, formulate via via a proposito. Non si presumerà peraltro alcunché circa la loro effettiva applicazione, da verificarsi ovviamente caso per caso.
Di iura – piuttosto che di ius – belli parlano spesso le nostre fonti (Cicerone, Livio, Tacito tra le altre), che alludono dunque, per l’età delle origini, a un insieme sia pur omogeneo di norme piuttosto che a una branca ben definita del diritto. Tali principi sono parte del più vasto complesso dello ius gentium; un’espressione, questa, che prevede, per il termine gentes, un’accezione doppia. Adottata in seguito dal diritto internazionale, la parola indica dapprima non tanto i popoli e neppure le famiglie, quanto i clan su cui si struttura una realtà ancora preurbana. Ciò perché prima del tradizionale sistema di rapporti tra popoli e città, nella penisola, e forse soprattutto sul suo versante tirrenico, se ne instaura un altro. Esso – pur in forma non ufficiale e talvolta in contrasto con le nuove realtà che stanno nascendo – sopravvive addirittura alla genesi degli stati veri e propri, mostrandosi in grado di interagire con i loro rapporti e di superare spesso i limiti di questi ultimi, attraverso una rete trasversale di vincoli, personali e gentilizi, fitti e saldissimi, che continuano a lungo ad unire in modo non formale, oltre qualsiasi confine di stato, i membri di una medesima gens. Lo ius gentium – che conserva sostanzialmente, anche in piena età storica, i suoi caratteri aristocratici – nasce dunque come evoluzione di un rapporto tra clan e singoli individui.
Al tempo delle origini la guerra è condotta per bande, appunto da quelle gentes che strutturano lo stato primitivo e ne innervano gli eserciti: un ricordo di questa prassi traspare dalla tarda epopea dei Fabii, che al Cremera affrontano in uno scontro eroico e sfortunato le forze di Veio. Al costituirsi delle città corrisponde una riorganizzazione dell’esercito, che va ora strutturandosi sulla principale assemblea cittadina, i comitia curiata.
Alla sua base stanno i raggruppamenti di gentes, chiamati curie, che fungono anche da circoscrizioni di leva. Da ogni curia sono inizialmente arruolati, per tradizione, 100 fanti e 10 cavalieri. Essendo le curie 30, il più antico esercito romano risulta costituito, in teoria, da 3 mila fanti e 300 cavalieri. Non si può escludere che, almeno all’inizio, la leva sia stata divisa in tre contingenti di pari consistenza, che avrebbero riprodotto la suddivisione della popolazione in tre tribù. A capo dell’esercito era il re, coadiuvato per ciascuno dei tre contingenti da un tribuno.
Nella sua forma eroica il modo di combattere, inoltre, è soprattutto individuale ed è fondato sul valore del singolo. Secondo una concezione che sembra appartenere a molte culture, il guerriero primitivo è votato alla singolar tenzone, e agisce spinto dal furor (o dalla ferocia) che si impadronisce di lui: un atteggiamento caratteristico anche di un mondo italico che ancora non conosce le aggregazioni statuali o le ha appena viste nascere. Anche per il Romano delle origini, dunque, l’azione bellica si sublima nel momento del duello che oppone il guerriero all’antagonista, un eroe come lui; un duello affrontato in stato di invasamento divino, in preda ad una sorta di ebbrezza che estrania il combattente da se stesso. Dono degli dei, che occupano lo spirito del combattente, questa mistica follia diviene la misura stessa del favore celeste: solo così si spiega perché lo scontro tra due eserciti possa essere sostituito da un duello giudiziale, come quello tra Orazi e Curiazi, un duello nel quale gli dei indicano la parte cui riconoscono la ragione. La vittoria nello scontro tra comandanti consente di dedicare a Giove Feretrio gli spolia opima, un alloro che rimane a lungo più prestigioso dello stesso trionfo.
Per i Romani, tuttavia, il favore degli dèi non è senza condizioni: presupposto essenziale per ottenerlo è il rispetto delle regole. Ogni tipo di rapporto è sottoposto a fides, una nozione che Cicerone definisce iustitia in rebus creditis.
Illuminante è l’episodio, notissimo, di Mucio Scevola. Durante l’assedio di Roma a opera di Porsenna, Mucio penetra nel campo etrusco celando un’arma sotto la veste, ma pugnala per errore il tesoriere del re; catturato e condotto davanti al sovrano per essere interrogato, lascia bruciare la mano destra su un braciere per dimostrare – secondo Livio – la sua insensibilità ai tormenti. Ovviamente leggendario, l’episodio va riletto in chiave simbolica soprattutto per quanto concerne il gesto che ne costituisce il punto saliente. Elemento dalla valenza universale, la mano destra è, nella cultura romana, consacrata alla Fides, della quale rappresenta il santuario corporeo; e la fides, il termine con cui i Romani designano soprattutto il corretto comportamento, viene divinizzata, secondo la tradizione, fino dall’età di Numa, a sottolinearne l’intrinseca forza divina. A essa i Flamines maggiori sacrificano con la mano fasciata di panno bianco e il gesto di Mucio, che espone al fuoco dell’altare la mano nuda, cela probabilmente il ricordo della punizione rituale inflitta a un sacrilego o a uno spergiuro.
Dal singolo episodio è possibile risalire alla valutazione di un aspetto particolare dell’etica arcaica. Sulla fides il Romano delle origini costruisce tutta la sua concezione del rapporto, prima individuale e poi tra i popoli; e anche la guerra, che di questo rapporto rappresenta una fase, sia pure anomala, va soggetta alle stesse regole.
La fides è prerogativa in primo luogo del magistrato che guida gli eserciti della repubblica: partecipe di precisi caratteri sacrali, questi deve possedere in sommo grado un requisito dal quale promana il suo stesso imperium, la facoltà di condurre i concittadini contro il nemico. Alla luce di queste considerazioni il significato dell’episodio appare chiaro: con una forma primitiva di purificazione si brucia la mano destra di un capo che ha infranto la fides, dovuta anche al nemico. I Romani reputano, dunque, disonorevole condurre la guerra latronum modo: cum iusto enim et legitimo hoste l’etica impone di combattere faccia a faccia, senza ricorrere ad insidie, imboscate, tradimenti, attacchi notturni, inganni o espedienti di qualunque genere.
Originale e antichissimo è certamente il principio da cui trae origine questo sistema di valori: la fides si ancora infatti a riti arcaici quali il sacrificio dei Flamines maggiori e le cerimonie feziali. Del pari autentico (ed esso pure molto antico) è dunque anche il rapporto instaurato con il nemico. Anche se probabilmente origine, natura e funzioni primitive di questa astrazione non potranno mai essere definite con certezza, il valore di fides, oggetto di culto presso le più antiche popolazioni non solo latine, possiede una indubbia validità e una straordinaria fecondità potenziale. Per i Romani il rispetto ad essa dovuto condiziona ogni tipo di rapporto; e la gestualità della mano aperta prevede sia l’imposizione della destra ad esprimere la volontà di accogliere in fidem (anche tramite atto di deditio) il protetto, il vinto, l’inferiore, sia la stretta che, unendo le mani di interlocutori di pari livello, sottolinea la loro volontà di impegnare reciprocamente il rispettivo potere, facendo uso di una prerogativa autonoma e sovrana per entrambi. Esiste infatti ab origine, nella sfera privata, una realtà, che non può essere ignorata e si deve pertanto ipotizzare che, nell’età arcaica, alla base dei rapporti politici, fondati essi pure – come le relazioni personali tra individui della stessa classe sociale – sulla fides, stia la nozione di amicitia.
All’interno del sistema che possiamo in senso lato definire "romano" si coglie la traccia di un concetto antichissimo ed istintivo. Prima che esistano leggi e trattati, prima persino che la sacralità abbandoni il suo stadio primordiale, l’idea di fides si afferma come fondamento essenziale di una certa società italica. Nel momento stesso in cui due uomini si porgono la destra in segno di intesa nasce il primo sodalizio civile: koinonia tra individui, dapprima, non tra stati, e istintivamente aristocratica, perché aperta ai migliori. Fides, il corretto e leale comportamento, costituisce dunque la base stessa del codice etico che regola il rapporto tra aristocratici e da quest’ambito passa, in seguito, ad informare di sé il più antico diritto internazionale.
Da simili considerazioni sembra di poter concludere che le relazioni tra stati mutuano da quelle interpersonali ogni loro carattere: i presupposti, gli strumenti, persino i limiti. Questi ultimi, in particolare, sono gli stessi per entrambi i piani e sono determinati dalla natura aristocratica della società romana. Il rapporto, amichevole od ostile che sia, è regolato dalla fides. “Non c’è tra noi e i Falisci quel vincolo che nasce dai patti umani, ma quello che la natura ha ingenerato in entrambi è presente e rimarrà” (Livio V, 27.6): così Camillo ammonisce il maestro di Falerii, rinviandolo nella città assediata prigioniero di quegli stessi fanciulli di nobile stirpe che egli intendeva consegnare ai Romani.
Proprio il senso di questa communitas societatis humanae costituisce la base per il primitivo rapporto tra stati: si possono distinguere, in sostanza, due livelli della fides: una fides generale che, senza bisogno di alcuna formalizzazione, governa i rapporti tra gli uomini, ed una più ristretta, limitata ai termini di un trattato.
Anche nell’accezione più generale, nel rapporto primario e immediato, la fides ha tuttavia limiti e modi di applicazione precisi; e non tutti gli uomini sono uguali al suo cospetto. Non tutti, infatti, possiedono pieno ed intero quel dominium che li rende arbitri di essa ed è forse proprio questa la situazione cui allude Camillo. Pur senza avere con i membri dell’aristocrazia romana alcun vincolo diretto, i notabili falisci appartengono però alla medesima categoria sociale (o, forse, sociologica…) ed hanno dunque diritto, al di là di rapporti politici inesistenti (e persino, come in questo caso, ostili) tra i relativi stati, al rispetto di un codice etico comune, che degli stati stessi è addirittura più antico.
Frutto da principio, nel primitivo codice gentilizio, di consuetudini non scritte, queste clausole trovano una loro codificazione definita quando, in presenza di sempre nuovi interlocutori rispetto a cui non esiste o si fa difficile il vincolo parentale tra le gentes, si impone lo strumento scritto del foedus. Accade, cioè, che l’antichissimo codice originario, nel quale istintivo è il rispetto della fides, ceda il posto al primo embrione di diritto internazionale vero e proprio.
L’insieme delle regole viene allora raggruppato in un settore normativo preciso, lo ius fetiale, gestito dai Fetiales, un collegio che partecipa della natura sacerdotale e di quella magistratuale a un tempo.
Questi vegliano, innanzitutto, sulla dichiarazione di guerra, su un bellum che, almeno in origine, nel mondo romano non può essere nisi iustum. Usato, certo, a indicare il conflitto intrapreso rispettando scrupolosamente ogni cautela procedurale, il termine sottintende però anche l’esigenza di una giusta causa; necessità sottolineata tanto da Cicerone quanto, su fonti molto antiche, da Varrone. Questi menziona come ineludibile preliminare alla dichiarazione di guerra la prassi della rerum repetitio: una prassi che, pur non richiamandosi soltanto alla restituzione materiale dei beni predati, ma alludendo almeno in un secondo momento ad una più generica richiesta di soddisfazione, denuncia però nella stessa terminologia impiegata il carattere e forse i più autentici referenti del rituale (i popoli appenninici e la loro prassi di far prede?). Comunque sia, solo una volta espletata la complessa procedura preliminare – che consiste nel presentare al potenziale nemico le rimostranze di Roma, lasciandogli poi trentatré giorni per concedere la soddisfazione richiesta – si può procedere, con l’assenso del senato e del popolo, alla dichiarazione di guerra; cui si dà inizio scagliando un’“asta con la punta di ferro oppure di corniolo rosso aguzzata nel fuoco” (Livio I, 32.12) nel territorio nemico.
L’accenno ciceroniano alla fides richiama, infine, una serie di limitazioni nella gestione stessa della prassi bellica, molte delle quali discendono direttamente dalla più antica consuetudine gentilizia. Come lo stesso Cicerone (Off.1.41) ricorda, due sono i modi – “o con la forza o con l’inganno” – in cui si può commettere iniuria; sicché, nel segno del circolo in sé concluso dell’antico costume, si comincia la guerra aut pro fide aut pro salute, e si deve poi conservare intatta la fides non solo nell’iniziare, ma anche nel condurre e nel terminare la guerra.
Nel segno di questa ininterrotta continuità, debbono essere iusta, nel condurle, sia le battaglie che decidono l’esito del bellum, concepite come certamina, vale a dire come gare dalle regole ben definite; sia ogni altra azione militare. Esistono certo, in guerra, atti che, pur dolorosi per chi li subisce, non recano biasimo a chi li infligge, ma il rispetto della fides va garantito, contro e al di sopra di tutto. I Romani reputano disonorevole condurre la guerra latronum modo. Un’etica che risale molto indietro nel tempo impone loro di combattere faccia a faccia, senza ricorrere a insidie o espedienti di qualunque genere, al punto che il loro lessico politico e militare, il quale pure si forma proprio dal greco nel corso del III secolo a.C., ignora la traduzione del termine stratégema, "stratagemma", reso con una serie di vocaboli o di parafrasi dall’accezione parziale, e tutti di significato negativo (fraus, dolus, calliditas, artes, etc.).
Anche nel momento, infine, in cui si accetta in fidem il nemico vinto (deditio), ricomponendo lo status originario, riscatti e pene sono in origine riferiti alla medesima nozione; di norma solo scambiati nel corso delle ostilità, i prigionieri vengono riscattati in caso di sconfitta, mentre se ne esige la liberazione in caso di vittoria. Significativa è poi la sorte dei disertori, dei quali Roma, se vittoriosa, chiede sempre la consegna, punendoli in origine con il simbolico taglio della destra, la mano della fides.
Come lascia intendere il termine stesso, rispettare gli iura belli significa dunque, e fin dall’inizio, conformarsi ai principi del bellum iustum; osservare cioè l’insieme delle norme concernenti tanto la dichiarazione di guerra, quanto la successiva condotta da tenere nei rapporti tra belligeranti.
Anche a Roma, divenuta polis, si afferma frattanto il modello militare ellenico e, dunque, l’ordinamento in falange, che prevede lo scontro collettivo tra formazioni chiuse, armate principalmente di scudo e di lancia. Dubbia rimane la data: benché anche di recente si sia proposto di ambientare la prima comparsa di questa struttura all’età delle XII Tavole (metà V secolo a.C.), è probabile che, in Roma come altrove, a introdurla sia stata la monarchia etrusca.
La cosiddetta riforma serviana (attribuita cioè al re Servio Tullio) vincola la nuova struttura militare al principio secondo cui sono gli abbienti, in proporzione al loro patrimonio terriero, a dover difendere lo stato e la collega all’ordinamento centuriato, sociale ed elettorale ad un tempo. Secondo tale classificazione la cittadinanza si articola in ordine decrescente in rapporto al censo, in cinque diverse classi, a loro volta divise in centurie (80 la prima, 20 la seconda, la terza e la quarta, 30 la quinta; più 18 per i cavalieri): da tali ripartizioni si traggono, attraverso la leva (legio, da legere, appunto "scegliere"), gli eserciti della res publica. Esse costituiscono anche entità di voto, sicché prima classe e cavalieri, pur assai meno numerosi del resto della popolazione, dispongono della maggioranza assoluta in seno ai comizi centuriati, le assemblee elettorali. Per contrappasso, però, le differenze di censo si riflettono sulle percentuali di arruolati e sull’armamento. Se, da un lato, è previsto che ogni centuria fornisca una quota fissa di soldati, e quindi tocca alle prime classi offrire il contributo di gran lunga maggiore per la formazione dell’esercito, dall’altro procurarsi l’equipaggiamento completo – elmo e scudo, schinieri, corazza, spada e lancia – o addirittura il cavallo da guerra compete ancora soltanto a loro; mentre le altre classi sono armate in modo via via più leggero al calare del censo. Normalmente esonerati, pur formando una quota cospicua della popolazione, restano infine i capite censi, quanti cioè non possiedono ricchezze fondiarie.
Rispetto agli eserciti greci, che accentuano il carattere chiuso della loro formazione, dando vita alla falange di tipo macedone divenuta, con Filippo II e Alessandro, base e sostegno della manovra avvolgente, la legione, pur derivata in prima istanza dalla formazione oplitica, si evolve però in senso sostanzialmente opposto.
La variante fondamentale è costituita dalla cosiddetta unità manipolare, che si afferma al tempo delle guerre sannitiche. Costretti a snellire una massiccia formazione chiusa per affrontare la guerra in montagna, i Romani ristrutturano la legione e, oltre ad uniformare l’armamento individuale, adottano la variante per manipoli. Fondata sulla spinta dei primi scaglioni che la compongono, hastati e principes, i quali riescono ad alternarsi in prima linea grazie alla disposizione a scacchiera delle unità minori in cui sono divisi – i manipoli, appunto –, che si muovono attraverso gli intervalli tra le linee, la legione esercita un’azione di attacco che poggia di nuovo in buona misura sulla virtù combattiva dei singoli: dopo aver scagliato i pila, i giavellotti da lancio che hanno sostituito l’asta da urto dei falangiti, i legionari affrontano non più il cozzo tra due formazioni chiuse, ma una serie di duelli corpo a corpo con la spada, che ne costituisce ora il principale strumento offensivo. L’uso di quest’arma, che richiede spazio per poter essere correttamente impiegata, preclude infatti di norma l’adozione di formazioni serrate. Soli a conservare la lancia da urto sono i veterani della terza linea, i triarii, la cui resistenza in ranghi serrati ha il compito estremo di permettere eventualmente agli altri scaglioni di riprendersi e di riorganizzarsi.
Con questo nuovo organismo, Roma affronta le guerre sannitiche, lunghe e difficili, e la lotta contro i Galli; lo scontro con Taranto e Pirro; infine il primo e soprattutto il secondo, terribile, conflitto punico, con l’invasione annibalica dell’Italia. Maestro nell’arte degli stratagemmi, che i Romani ignorano, Annibale è un autentico genio della tattica, capace di adattare ai combattenti individuali dell’Occidente mediterraneo, che formano il suo esercito, la manovra di tipo macedone: il Cartaginese crea infatti un centro che, arretrando, fletta senza spezzarsi, e prepara così per le armate nemiche un avvolgimento poi sistematicamente completato dalle cavallerie. L’uomo che sembra davvero riunire in sé entrambe le nature del combattente greco, la volpe ed il leone: l’uomo che sembra incarnare in sé l’idea stessa del soldato assoluto impegna la repubblica nella più spaventosa e difficile delle guerre, vinta infine, ma al prezzo di danni e perdite altissime e di un trauma duraturo che prepara la vera età dell’imperialismo.
Da un conflitto costato all’Italia almeno 200 mila tra morti e dispersi Roma emerge fortemente traumatizzata e cerca, dapprima, la sicurezza nel proprio riarmo e nel disarmo altrui, affidandosi alla nozione di deterrente, che importa dal mondo greco, ma farà poi propria in modo quasi esclusivo (Si vis pacem, para bellum).
Restituendole sicurezza e accrescendone la protervia, le successive guerre, sempre vittoriose, avviano la fase del più autentico imperialismo romano. Si discute ancora se, in questo momento, Roma abbia modificato il meccanismo per la mobilitazione e la dichiarazione di guerra. Certo, già durante lo scontro annibalico essa comincia a liberarsi dalle pastoie dei precedenti scrupoli etici. Un primo passo psicologicamente importante è rappresentato dall’introduzione del culto di Mens (217 a.C.). Dall’accoglimento di questa forza divinizzata – che si configura come l’antidoto da associare a fides per resistere alle artes, alla perfidia di Annibale – fino alla nova sapientia (Livio XLII, 47.9), alla nuova, spesso totale spregiudicatezza di comportamento adottata dai politici romani, il passo è breve; e comincia ora un’età in cui a Roma si sperimenta per un paio di secoli ogni più brutale forma di lotta e di terrorismo politico. Presso una parte almeno della sua classe dirigente, tuttavia, resta vivo e fastidioso il vincolo morale con l’antico costume.
Se al tempo dell’ultima guerra contro la Macedonia alcuni anziani membri del senato, "memori degli antichi costumi", biasimano sia pur inutilmente la condotta tenuta dal legato Marcio Filippo nei confronti di Perseo, vi è ancora, nell’età di Cesare, chi propone di punire l’attacco da lui portato contro Usipeti e Tencteri in violazione dello ius gentium consegnando ai barbari il proconsole che ha violato la fides. Certamente, poi, i principi originari continuano ad influenzare l’atteggiamento di Roma verso i suoi interlocutori. Formalmente pronta a moderare le punizioni e persino a trattenere fino all’ultimo la sua mano, l’Urbe si mostra però implacabile contro i latrones e soprattutto contro i rebelles (rebellis è, etimologicamente parlando, colui che, dopo aver deposto le armi, le impugna di nuovo a tradimento): si ricordi in proposito, ancora in piena età imperiale, il monito rivolto agli ebrei da Erode Agrippa II, che restituisce echi precisi di questa mentalità romana (Giuseppe Flavio, Bellum Iudaicum 2.16.355-356).
Inizialmente non invitta – battuta anzi spesso sul campo dagli Equi e dai Volsci come dai Galli, dai Sanniti come da Pirro o da Annibale – la res publica ha trionfato a lungo sui nemici solo grazie alla sua superiore struttura politica, una via di mezzo tra la polis e lo stato nazionale, capace di coagulare sotto le sue insegne le energie dell’intera Italia tirrenica. L’esercito nato dall’evoluzione della seconda guerra punica ha però in sé le potenzialità per divenire invincibile: trasformata dal confronto con Annibale, la legione scipionica ha imparato che alla spinta delle falangi si può opporre una resistenza elastica, arretrando fino a che non sia possibile avvolgere i quadrati ellenistici sui fianchi o insinuare i propri agilissimi manipoli tra le file di nemici disavvezzi al combattimento individuale, e dunque esposti alla dispersione e al massacro.
Sempre a Scipione l’Africano si deve poi fors’anche l’istituzione della coorte, un reparto intermedio più numeroso e solido del manipolo, adottato dapprima solo in Spagna con l’intento di schierare un’unità più forte, capace da un lato di muoversi con maggiore autonomia operativa, dall’altro di opporre una resistenza meglio organizzata – quasi in forma di piccola falange – alla pericolosa energia individuale dei guerrieri iberici, un reparto diffusosi poi in modo generalizzato su tutti i fronti operativi, in particolare su quelli europei.
Comincia ora il periodo migliore della legione, che, nel Levante greco, schianta più volte – a Cinoscefale, a Magnesia, a Pidna – le armate della Macedonia e della Siria Seleucide, ad Occidente conquista sia pur con fatica gran parte della Spagna, dell’Africa settentrionale, della Gallia. La trasformazione dell’esercito, reso definitivamente professionista da Caio Mario (105 a.C.), non muta gli equilibri di una formazione alla quale Silla offre prima – a Cheronea (86 a.C.) – il prezioso strumento della riserva tattica, capace di tamponare sul campo qualunque emergenza; poi – ad Orcomeno (86 a.C.) – la risorsa, altrettanto preziosa, di un genio militare funzionale in acie, utilizzabile cioè nelle sue applicazioni durante la battaglia stessa.
Perfezionate da Cesare (a Bibracte, alla Sabis/Sambre, a Farsalo) e rese istintive grazie all’autonomia di movimento raggiunta dai singoli scaglioni legionari nella disposizione in triplex acies, su triplice linea, le soluzioni sillane mettono la legione in grado di evitare in ogni circostanza l’accerchiamento: quelle offerte a Cesare dai Celti nel corso della guerra gallica resteranno così, in fondo, le ultime vere battaglie campali combattute dalle armate di Roma fin verso la fine del II secolo d.C. (tali non potendo considerarsi, ad esempio, né la disfatta romana a Teutoburgo, lunga e ben riuscita serie di imboscate in successione; né lo scontro di Idistaviso accettato dagli stessi Germani solo perché costretti).
Un’ulteriore, importante innovazione cesariana è quella relativa alla gerarchia, che vede l’accresciuta importanza dei centurioni a scapito dei legati. La decisione di affidarsi sempre più a uomini emersi dai ranghi, creando una vera e propria catena di comando, non è dettata solo da considerazioni di convenienza politica, ma implica già, sia pur forse solo in embrione, l’inevitabile riconoscimento di un dato importante: un esercito di professionisti deve anche esser guidato da professionisti. La via per l’impero è tracciata: Cesare imposta già talune strutture dello strumento bellico successivo: nei suoi centurioni sono prefigurati, in embrione, i viri militares, i soldati di carriera dell’età imperiale matura.
La sola vera eccezione sembra essere rappresentata dalla battaglia combattuta e disastrosamente perduta dalle legioni di Crasso a Carre, in alta Mesopotamia, il 9 giugno del 53 a.C. Se l’esercito romano “dovette subire, senza quasi possibilità di reazione, la micidiale pioggia di frecce che i formidabili archi partici rovesciavano [...] senza interruzione” (Emilio Gabba), la sua "tragica impotenza" può, nondimeno, malgrado tutto essere spiegata. All’interno dell’armata partica poco o nulla contano le fanterie, che pure esistono.
Delle cavallerie quella pesante – i lancieri corazzati, o kataphraktoi – raccoglie nei suoi ranghi l’alta nobiltà feudale; mentre quella leggera – gli arcieri montati o hippotoxotai – inquadra in numero molto maggiore i famigli o vassalli della piccola nobiltà, che seguono in guerra i loro signori, equipaggiati con il cavallo e con il micidiale arco composto delle steppe. Impotente ad agganciare gli arcieri, che svolgono il ruolo decisivo nell’azione, se non a patto di sacrificare poi contro i più pesanti catafratti la cavalleria gallica, l’esercito romano soffre inoltre per l’armamento insufficiente delle sue fanterie: inutile contro gli hippotoxotai che, provvisti di capacità stand-off, saettano restando ben oltre la sua portata, il giavellotto leggero adottato contro le genti del centro Europa è del tutto inefficace contro le pesanti corazzature dei catafratti. Quanto alla lorica hamata, la cotta di maglia metallica che equipaggia i legionari, è incapace di fermare le frecce partiche. Al termine della prima giornata le legioni, pur decimate, sarebbero ancora in grado di combattere, ma, in preda alla frustrazione e completamente disanimate, si sbandano, scegliendo la soluzione suicida di una fuga in disordine di fronte alle più veloci cavallerie avversarie e vengono quasi completamente distrutte. Solo 10 mila uomini raggiungono la Siria, e altrettanti cadono prigionieri; gli altri, compresi il triumviro e suo figlio, rimangono sul campo.
Primo scontro tra strutture del tutto asimmetriche, l’evento assegna la vittoria a quella delle due che sa imporre all’altra la sua maniera di combattere. Ben presto, tuttavia, Roma trova adeguate contromisure. Concepito da Cesare, il progetto di una guerra di rivincita è ripreso da Antonio. Ad esso lo richiama l’invasione arsacide di Siria, della Cilicia e della Palestina, che, ispirata da un rinnegato romano, il figlio del Pompeiano Labieno, costa la vita al legato Decidio Saxa e viene poi respinta dall’altro legato, P. Ventidio Basso. Il principe partico Pacoro, figlio del re Orode, che la guida, ha puntato soprattutto sui catafratti; ma questi vengono vinti due volte, alle pendici del Tauro e alle Porte dell’Amano (39 a.C.). L’anno seguente i Parti sono di nuovo e più gravemente sconfitti, ancora da Ventidio a Gindaro, nella Cyrrhestica, e Pacoro stesso cade in battaglia.
Contro il nemico orientale Ventidio Basso trova una prima, efficace contromisura: l’impiego dei frombolieri, i cui proiettili non solo risultano mortali persino per i cavalieri corazzati, ma hanno una portata maggiore rispetto agli archi degli hippotoxotai. Del loro schermo si giova in seguito anche l’armata di Antonio, che, pur costretta dal tradimento dell’alleato armeno a ritirarsi dalla Mesopotamia, sa però servirsi efficacemente sia di quest’arma, sia della formazione a testudo, riuscendo, pur con gravi perdite (oltre 30 mila uomini: Plutarco, Ant. 50,1; 51,1), a rientrare in Siria; si è sul finire dell’anno 36 a.C. o ai primi del 35 a.C.
L’introduzione della cosiddetta lorica segmentata, l’armatura a segmenti divenuta poi simbolo del fante romano, capace di fermare le frecce, e del pilum pesante, terribilmente efficace contro la cavalleria corazzata, la presenza davanti alle legioni di veli di arcieri e frombolieri e di barriere formate dalle macchine da guerra, nella particolare versione da campagna, le cosiddette carroballistae, nonché l’incremento numerico e il miglioramento delle cavallerie rendono impossibile o almeno estremamente pericoloso, per i Parti, affrontare in battaglia campale l’esercito romano – che quindi, a partire dagli inizi del II secolo, si spinge più volte a fondo in territorio partico, espugnandone ripetutamente le capitali. Nei due maggiori conflitti dell’età antonina gli eserciti arsacidi devono ripiegare – di fronte a Traiano – o sono disastrosamente sconfitti – da Lucio Vero e Avidio Cassio; ma a fermare le legioni intervengono, pagando prezzi altissimi, prima gli ebrei di Cirenaica, Cipro ed Egitto, poi le comunità della diaspora babilonese, la cui ansia di indipendenza da Roma è probabilmente sfruttata dal potere arsacide, disposto a sacrificarle non senza cinismo per la propria salvezza.
Quello distrutto dalla pestis antonina, scoppiata nel corso della guerra partica di Lucio Vero e diffusasi per tutto l’impero, è probabilmente il migliore degli eserciti di Roma; ed è forse l’ultimo operante davvero nel segno di una tradizione millenaria. Pur capace, nelle sue componenti occidentali, di risollevare l’impero dalla grave crisi del III secolo e di assicurargli ancora a lungo una sostanziale superiorità sul campo, sia contro i barbari centroeuropei, sia contro i Persiani, la struttura militare romana viene gradualmente perdendo la sua efficienza.
Idealmente coesa da sempre attorno al principio serviano del munus da rendersi allo stato (che, solo, autorizza a governare), un principio tuttora custodito gelosamente dai suoi vertici almeno (i viri militares, poi i Soldatenkaiser) forse fin dopo la metà del IV secolo, essa comincia lentamente a sfibrarsi nel momento in cui l’endiadi tra il soldato e il cittadino si spezza, col definitivo sostituirsi del suddito obbediente al civis responsabile. Malgrado accettino poi di seguire Giuliano in Oriente (e siano sostanzialmente sempre vittoriose sul campo), le truppe renane hanno in precedenza resistito alla richiesta di Costanzo II di seguirlo nell’imminente campagna persiana: ed è forse proprio questo il primo sintomo di un collasso destinato a diventare irreversibile.
Soldati imperiali che rifiutano di appoggiare altri soldati imperiali, “ces Gallo-Romains” debbono sentirsi ormai “plus Gaulois que Romains” (Yann Le Bohec): con la scomparsa del civis anche il carattere sovrannazionale dell’impero cede il posto ad una nuova coscienza kat’ethne, diciamo genericamente condizionata dall’egoismo per nazioni, e le esigenze strategiche sono avvertite sempre più ad un livello marcatamente locale, sicché ormai non uno solo, ma almeno tre, e non più veramente collegati tra loro – Gallie, Illirico, Oriente – sono i modelli di difesa. Per tornare a quanto già più volte sottolineato, ancora durante l’impero strutture e modelli civici restano “l’elemento caratteristico della cultura classica”; la loro scomparsa lascia inesorabilmente il posto all’“emergenza di un differente tipo di cultura e di vita.” (Emilio Gabba).