Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Le profonde trasformazioni socio-politiche che si compiono in Europa tra XIII e XIV secolo, a seguito della maturazione della civiltà comunale e dell’irrobustimento delle monarchie feudali, condizionano ritmi e scopi della guerra. Si affermano le fanterie, utili a integrare le forze di cavalleria in conflitti che assumono dimensioni sempre più consistenti e una più chiara tendenza distruttiva. Contestualmente, il servizio mercenario si impone come la soluzione più pratica alla rapida formazione dei grandi apparati militari che le mutate esigenze politiche richiedono.
I rapidi mutamenti e le dinamiche che maturano in seno alla società europea dei secoli centrali del Medioevo tendono a negare i modelli gerarchici stabiliti proprio questi vanno consolidandosi. Così, mentre il combattimento a cavallo, esercitato da una ristretta élite di professionisti legata al sistema di vita aristocratico, si pone come modello esclusivo, nelle città, e soprattutto in quelle italiane, nascono stili guerreschi nuovi come riflesso di diverse e inedite composizioni sociali. È la grande novità militare del Duecento.
La tattica elaborata dagli eserciti comunali italiani si presenta infatti come il risultato della composizione di forze in cui vengono razionalmente inquadrate le diverse componenti del mondo urbano: squadre di cavalleria, espressione dell’aristocrazia e dei ceti mercantili che a essa si ispirano, e contingenti di fanteria reclutati tra le classi artigiane, organizzati sulla base degli organismi corporativi di mestiere (arti). L’intero mondo della città scende in campo e lo fa in modo collaborativo: armate di scudo e di lancia, le fanterie coprono la cavalleria, formando un blocco dietro il quale si infrange l’urto degli avversari. È quanto avviene nella battaglia di Legnano (1176), nel corso della quale i fanti lombardi, stretti attorno al Carroccio, contengono con una selva di lance la cavalleria sveva, permettendo ai propri cavalieri, già dispersi, di riorganizzarsi. Tale schema si ripete in tutte le battaglie combattute dai Comuni e va affinandosi nel corso del Duecento, allorché l’armamento dei fanti si perfeziona con l’introduzione di lance lunghe (lanzelonghe, picche), valide a frenare ancor più efficacemente la carica della cavalleria avversaria, e dei palvesi, grandi scudi che, piantati al suolo, formano una solida parete protettiva.
Si tratta di un’impostazione totalmente difensiva, in cui le fanterie cittadine simulano le tattiche proprie degli assedi alle quali, in quanto milizie non professioniste, sono avvezze, e la città, con le sue “mura” e i suoi difensori, si ricostruisce in campo: nella battaglia di Campaldino (1289), i fanti fiorentini, riparati dai palvesi, frenano la cavalleria aretina e dalla cortina formata dagli scudi, come dalle mura delle fortificazioni urbane, la battono col tiro delle balestre, preparando l’azione dei cavalieri.
Ne appare in tal modo ridimensionata, dopo almeno tre secoli di primato, la funzione tattica della cavalleria: risultato importante e denso di conseguenze, ma che non costituisce l’unico contributo offerto dalle milizie urbane agli sviluppi del costume militare negli ultimi secoli del Medioevo, dal momento che l’azione degli eserciti cittadini concorre anche, e fortemente, a innalzare il tasso di violenza della guerra. Nessun sentimento di condivisione di comuni ideali etico-cavallereschi, del resto, distingue quelle compagini: il cupo livore municipalistico, nutrito in decenni di rivalità, le oppone alle avverse armate comunali e il fiero orgoglio borghese le muove negli scontri con gli eserciti feudali. Nel periodo aureo delle lotte tra i Comuni italiani, così, nel corso del Duecento, e nella guerra che tra il 1300 e il 1328 contrappone la Francia alle bellicose comunità fiamminghe, i cadaveri si contano a migliaia: è l’inizio, dopo secoli di sincera ancorché ruvida fratellanza d’armi tra i membri del mondo feudale e cavalleresco, di una stagione bellica “omicida”, quella delle grandi lotte tra le monarchie europee.
Se servono a limitare la preminenza della cavalleria, le fanterie comunali non determinano però la sua fine: per motivi culturali, in quanto stile guerresco distintivo dei ceti dominanti, e per ragioni operative, dal momento che la sua carica costituisce pur sempre un’azione risolutiva in battaglia, la cavalleria conserva ancora valenza ed efficacia. La strada tuttavia è segnata e la presenza della fanteria sui campi di battaglia si mostra ora come una necessità. Occorre però uscire dal rigido schema difensivo proposto dalle milizie comunali.
La politica aggressiva delle grandi monarchie, infatti, che si profila nel corso del Duecento e che dà vita a grandi conflitti di assestamento territoriale, richiede eserciti numerosi ed efficienti, capaci di esprimere una forte carica offensiva. La soluzione a tale necessità non arriva però dall’elaborazione di nuove figure guerriere, bensì dall’ottimizzazione di un elemento antico, presente da sempre, benché in posizione marginale, negli eserciti medievali: l’arciere.
Le mutate esigenze della guerra rilanciano così una pratica innervata nelle pieghe stesse della società, conservatasi nei resti del costume barbarico, legata all’attività venatoria nella sua variante più comune e popolare. Arcieri e balestrieri (reintrodotta in Europa dai Normanni, anche la balestra è legata a costumi atavici) affollano non a caso le milizie cittadine e le ciurme delle galee italiane: l’arma da tiro è l’arma popolare per eccellenza; né è un caso che proprio in Inghilterra, dove il sostrato sassone ha conservato inalterati alcuni elementi tipici della cultura materiale germanica, la pratica del tiro con l’arco si affermi tra Due e Trecento in modo abbastanza massiccio da condizionare per secoli, forse per sempre, la tattica degli eserciti europei.
In terra inglese del resto l’uso dell’arma da tiro si specializza, con la diffusione dell’“arco lungo” (long bow), dotato di formidabile capacità di penetrazione e di lunga gittata, e durante la guerra dei Cent’anni, cesura tra la prassi bellica feudale e quella prerinascimentale, si generalizza, imponendosi in maniera definitiva a tutti gli eserciti europei. Ma non è tutto. Nelle battaglie di Crécy (1346), di Poitiers (1356) e Azincourt (1415), la vittoria inglese sulle armate francesi, formate in maggioranza da cavalieri, è determinata sì dall’impiego su larga scala di truppe di tiratori, ma in quanto operanti in perfetto sincronismo con la cavalleria. È il superamento della tattica difensiva propria delle fanterie comunali: sostenuti da cavalieri “smontati”, gli arcieri inglesi vengono lanciati in campo dinanzi al nemico per decimarlo, preparando l’azione dei cavalieri, che riprendono intanto le proprie cavalcature.
Si tratta di una vera e propria rivoluzione culturale, oltre che militare: negli spregiudicati eserciti inglesi, il cavaliere rinuncia, benché temporaneamente, al suo stesso ruolo!
Come scontro tra culture, d’altronde, oltre che tra nazioni, si delinea nel Trecento la lotta tra Francia e Inghilterra. L’orgoglio cavalleresco francese, difatti, pur vedendone l’utilità, nega la preminenza dei tiratori e fonda in tal modo la sua sconfitta: a Crécy gli 8000 cavalieri francesi si avvalgono del servizio di 6000 balestrieri genovesi, del tutto insufficienti a tener testa ai 14000 fanti schierati dagli inglesi. La lezione, tuttavia, seppur con ritardo, è recepita, e se a Poitiers i francesi affrontano ancora il nemico con la sola cavalleria, ad Azincourt oppongono agli inglesi 4000 fanti e 2000 cavalieri, per metà “smontati”.
Imprese belliche di largo respiro, aumento delle forze in campo, necessità di provvedersi di truppe specializzate: i tempi sono maturi per l’affermazione del mercenariato. Non che questo fosse ignoto ai secoli precedenti: mercenari erano stati, per far solo un esempio, gli arcieri arabi della guardia di Federico II; si presenta tuttavia ora l’opportunità di garantire un servizio prolungato da parte di cospicue e differenziate forze armate, esigenze alle quali non possono far fronte adeguatamente né le milizie feudali, né, per quanto efficienti, quelle rastrellate dagli ambiti territoriali e civici. La pratica dell’ingaggio mercenario d’altronde è già insita nel sistema tradizionale di reclutamento, dal momento che i vassalli, scaduta la ferma gratuita imposta dal patto feudale, calcolata di norma in 40 giorni, vanno rimborsati con un soldo giornaliero. Al contempo, molti Stati hanno già provveduto a mutare in denaro l’obbligo militare dovuto dai titolari di feudi (scutagium, in Inghilterra), ottenendo cospicue risorse finanziarie da investire nell’ingaggio di truppe prezzolate. A partire dal Duecento, in tal modo, il ricorso ai mercenari si fa frequente e nel secolo successivo, con l’intensificarsi del conflitto franco-inglese, diventa sistematico. D’altro canto, se la domanda è forte da parte degli Stati, l’offerta della società non è da meno e le professionalità, a vari livelli qualitativi, non mancano. Si va dai fuggiaschi e vagabondi, che affollano le contrade e le selve europee, ai corpi di tiratori scelti che le tradizioni locali da secoli addestrano (arcieri inglesi, balestrieri genovesi e guasconi); dai volontari che tentano l’emersione dal mondo della campagna, ai resti delle fanterie cittadine. Una brulicante umanità si incanala nel servizio armato. Il nerbo del mondo mercenario è però costituito da una tipologia di combattente altamente specializzata, sebbene assai composita dal punto di vista sociale. Sono quei guerrieri cresciuti a margine della cavalleria tradizionale, che un’origine troppo oscura o una scarsa fortuna hanno escluso dal sistema feudale e dall’onore cavalleresco. Discendenti dei cavalieri-servi dei secoli X e XI, le fonti li indicano in molti modi, ma soprattutto, col termine che poi distinguerà per secoli i membri della gloriosa cavalleria mercenaria europea, homines ad arma: uomini d’arme.
Se all’inizio i mercenari formano gruppi eterogenei di soldataglia, dediti al saccheggio oltre che all’ingaggio – sono tali i cavalieri, perlopiù tedeschi, detti “della colomba”, che nel 1334 terrorizzano le popolazioni dell’Italia centrale, o quelli riuniti nella “Grande compagnia” di Corrado di Landau –, col tempo essi si disciplinano. Nascono così organiche società di mercenari, gestite a mo’ delle compagnie mercantili stipulate per fini commerciali: le compagnie di ventura, con un capo, il capitano, che patteggia il contratto di assunzione con gli Stati ingaggianti, e i soldati che percepiscono il soldo o partecipano agli utili della “società”. È la razionalità commerciale che si impossessa del mestiere delle armi, altra grande novità del secolo XIV, fenomeno che ha modo di esprimersi in forme elaboratissime in Italia, dove l’esperienza delle grandi imprese bancarie perfeziona il sistema, aprendo la gloriosa stagione dei condottieri. Se infatti John Hawkwood, italianizzato in Giovanni Acuto, veterano della guerra dei Cent’anni e poi militante in Italia per un trentennio (1360-1390), può essere senz’altro riconosciuto come il più insigne capitano del Trecento, a partire dal secolo successivo i grandi nomi del mercenariato europeo saranno tutti italiani.