La ‘primavera’ siriana è divenuta, più che mai, guerra civile nel 2012. La decisione del regime di Assad di sbarrare il passo a qualsiasi negoziato e intensificare la repressione violenta, unita all’azione armata da parte di alcune componenti dell’opposizione, ha aggravato il conflitto, sempre più caratterizzato da duri combattimenti, incremento delle perdite, esecuzioni sommarie, spostamenti di popolazione all’interno e all’esterno del paese,
Bashar Assad ha cercato di restare al potere, facendo leva su fattori interni e internazionali. Puntando – nonostante le defezioni nei più alti gangli dello stato, a partire da quella del primo ministro Riad Hijab, che ha coinvolto anche diplomatici, parlamentari, membri delle forze di sicurezza – sul sostegno delle minoranze religiose, timorose di un mutamento politico destinato a modificare equilibri confessionali e etnici consolidati. In primo luogo sulla minoranza alauita, che occupa i posti chiave nel regime e alla quale lo stesso Assad appartiene; e su quella cristiana, che teme per la sua libertà religiosa qualora si imponesse un regime sunnita a guida islamista; ma anche sulla diffidenza di minoranze etniche come i Curdi, la seconda comunità del paese dopo gli Arabi, verso l’opposizione legata a un nemico storico come la Turchia; oltre che sulla riconoscenza di alcuni gruppi palestinesi dei campi profughi, nei quali vivono mezzo milione di persone. Quelli pro-Hamas hanno, invece, appoggiato la locale Fratellanza musulmana.
Sul piano internazionale il regime si è a riparato dietro allo scudo di Russia e Cina, decise, per motivi diversi ma convergenti, a impedire che il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite varasse risoluzioni destinate a segnarne la fine. In tal modo Mosca ha cercato di tutelare i propri interessi nazionali, convinta che il cambio di regime potesse condurre alla fine della sua influenza nella regione, alla perdita della base di Tartus nel Mediterraneo e di un importante cliente per le commesse militari. Scenario da evitare, tanto più mentre lo spettro di una crisi sul nucleare iraniano può far deflagrare i già precari equilibri regionali. Quanto alla Cina, nemica delle rivolte e ‘cristallizzatrice’ dello status quo, non ha mai guardato con simpatia alle ‘primavere arabe’. Per Pechino è fondamentale opporsi alla politica degli Stati Uniti, competitor per l’egemonia nel 21° secolo. Russia e Cina hanno tenuto la posizione, certe dell’impossibilità di un intervento militare esterno – sotto egida Un o sotto forma di nuova ‘coalizione dei volenterosi’ guidata dagli Usa.
Nella regione Assad ha goduto dell’attivo sostegno dell’Iran. La Repubblica Islamica ha cercato di mantenere teso l’arco sciita che va da Teheran alla Beirut di Hezbollah, passando per Damasco. L’Iran ha fornito a Assad sostegno militare e di intelligence nel tentativo di impedire scenari destinati a favorire attori sunniti ostili come la Turchia, Arabia Saudita e Qatar.
La decisione di Washington di riconoscere – dopo avere imposto l’unità, e cercato di accrescere l’affidabilità dell’opposizione – come legittimo rappresentante del popolo siriano il ‘cartello di Doha’, ha reso politicamente più problematica la linea di resistenza del regime, sin lì incentrata anche sulla scarsa affidabilità e frammentarietà dell’opposizione.
Sul campo il conflitto ha subito una decisa accelerazione militare. Il regime ha perso il controllo, strategico, del confine siro-turco nel nord del paese, dal quale transitano armi e nuovi effettivi per i rivoltosi. All’intensificazione nelle aree urbane delle attività dell’Esercito di liberazione siriano, sostenuto dalla Turchia, ha corrisposto una massiccia reazione del regime, che ha puntato all’eliminazione degli insorti anche con l’uso di armi pesanti. Le battaglie che hanno visto coinvolto le maggiori città, da Damasco a Aleppo, da Homs a Der’a, hanno fatto lievitare il numero delle vittime, salite a oltre 40.000. Si è accentuata anche l’ irachizzazione’ del conflitto, simboleggiata dall’ingresso nel paese di reduci dall’Iraq e elementi provenienti da altri paesi islamici, dall’aumento degli attentati e degli attacchi suicidi. Gruppi jihadisti intenzionati a sconfiggere il ‘regime empio’ di Assad e definire l’egemonia nel campo islamista, anche a scapito della locale Fratellanza musulmana ritenuta troppo moderata, hanno costituito il fronte al-Nusra, militarmente efficiente nei combattimenti. Al Nusra è stato incluso dagli Stati Uniti nella black list delle organizzazioni terroristiche, in quanto ritenuto ideologicamente vicino a al-Qaida. Il processo di ‘irachizzazione’ è visibile anche nell’accentuarsi della dimensione settaria del conflitto, nella quale il marcatore identitario, di tipo etnico o religioso, diviene il principale fattore di raggruppamento e di ostilità nei confronti degli altri e diversi gruppi etnici e religiosi. Un processo che ha coinvolto larga parte delle comunità interessate.