La guerra del gas
L’Europa si trova ancora una volta a fare i conti con la propria irrisolta dipendenza dalla Russia per quanto riguarda il gas naturale. Per questo le ragioni della crisi fra Ucraina e Russia sono più economiche che politiche. Un economista analizza le possibili soluzioni per recuperare l’autonomia energetica.
La crisi fra Ucraina e Russia è apparentemente di natura politica, ma sotto sotto legata a ragioni energetico-economiche, visto l’enorme debito accumulato dall’Ucraina con Gazprom, la longa manus del governo russo nel campo del gas. Quale che sia la sua ulteriore evoluzione, essa ha per la terza volta in 12 anni richiamato l’attenzione dell’Europa sul problema della propria dipendenza dagli idrocarburi russi. Si è concordi nel ritenere che sia da escludere la possibilità di pericoli immediati per la sicurezza degli approvvigionamenti europei, anche nel caso di un ulteriore peggioramento dell’attuale situazione politica di contrapposizione tra Europa e Russia e di scontro aperto tra quest’ultima e Ucraina. Nel medio periodo, però, le prospettive si presentano parzialmente diverse e sicuramente differenti nel lungo.
Per comprendere la ragione di questa affermazione è necessario partire da alcuni dati. L’Unione Europea a 28 (UE 28) impiega in media petrolio e gas naturale rispettivamente per il 40% e 23% dei propri consumi complessivi di energia, compresi quelli destinati alla generazione elettrica (nel nostro paese insieme arrivano invece a coprire addirittura il 70% dei consumi finali: 39% petrolio e 31% gas). Infatti, anche se risorse di idrocarburi sono presenti nel sottosuolo dell’Europa, queste sono insufficienti a soddisfarne il fabbisogno, cosicchè l’UE dipende largamente dall’importazione di petrolio e gas di paesi stranieri.
Nel caso del petrolio, il grado di dipendenza supera l’80% (il 90% nel caso italiano): tuttavia, il trasporto via nave senza particolari pre- e post-manipolazioni del greggio consente la possibilità di ampia diversificazione degli approvvigionamenti, un facile stoccaggio e il ricorso al mercato spot. Non è questo il caso del gas naturale. Il trasporto con le navi metaniere richiede che la risorsa sia ridotta allo stato liquido nella stazione di partenza e la sua rigassificazione a destinazione. Gli impianti necessari sono molto costosi e ancora limitati numericamente, anche se il mercato del gas naturale liquefatto (GNL) è in grande e progressiva espansione.
L’UE dipende perciò necessariamente e in grande misura dal gas trasportato via tubo dai paesi di importazione, cosa che ovviamente assegna una particolare importanza al ruolo ricoperto dalle infrastrutture di trasporto e di transito. I gasdotti, che sono infrastrutture molto costose, specie se corrono sui fondali marini, attraversano nazioni e paesi terzi prima di arrivare a destinazione e sono molto ramificati per servire più paesi. Naturalmente una rete diffusa e interconnessa consente sia di accrescere la sicurezza delle forniture per tutti e di garantire prezzi uniformi e ridotti all’interno di un contesto geografico come l’UE sia di ridurre il rischio del potere di blocco di paesi di transito, nel caso di problemi interni di natura politica o di contenziosi con paesi limitrofi, soprattutto se fornitori. Nonostante ciò, se uno guarda al reticolo dei gasdotti esistenti si rende conto che alcuni paesi dell’Unione sono più esposti ai rischi che la crisi russo-ucraina comporta, dal momento che metà dei circa 160 miliardi di metri cubi (mmc) di gas che la Russia spedisce annualmente in Europa – e che rappresenta praticamente un terzo del suo fabbisogno – passa dall’Ucraina. Questa situazione ha perciò destato allarme nell’Unione Europea non tanto, come detto, per i pericoli immediati, ma per i problemi che in prospettiva potrebbero derivare dall’elevata dipendenza dalla Russia e dalla situazione che vede coinvolto un importantissimo paese di transito.
Quali sono le soluzioni che possono essere perseguite per attenuare, e in prospettiva risolvere, questo problema? Ve ne sono diverse, e probabilmente molte, se non tutte, andrebbero perseguite. Una prima soluzione è data dal ripianamento del debito ucraino verso la Russia da parte dell’UE, che così si assicurerebbe le proprie forniture.
Una seconda opzione sarebbe il ricorso a maggiori forniture tramite altri tubi e da parte di altri paesi, ma i gasdotti esistenti (come il Nord Stream o Yamal) non possono sostituirsi completamente alle vie che attraversano l’Ucraina né il gas che viene dal Nord o dal Sud Europa può aumentare, per varie ragioni, in misura sufficiente.
Una terza opzione, al contempo molto costosa e dai tempi non brevi di realizzazione, consiste nella costruzione di nuove infrastrutture di trasporto che potrebbero allentare la morsa russa e/o il potere di blocco dell’Ucraina. In effetti, nuove infrastrutture sono attualmente pianificate o in via di realizzazione (South Stream, Trans Adriatic pipeline), ma le incertezze indotte dalle previsioni sui consumi futuri o le pressioni politiche statunitensi ed europee dovute ai più recenti eventi politici possono indurre a stop-and-go di questi processi. Un’ulteriore possibilità sarebbe quella di espandere l’importazione di GNL attraverso un approvvigionamento di shale gas dagli USA, ma attualmente esistono molte difficoltà legate a problemi di carattere politico-economico e comunque non sembra che esso possa rappresentare un contributo quantitativamente risolutivo. Fra l’altro, nonostante l’Europa stessa possieda riserve proprie di shale gas, per varie ragioni anche questa opzione non sembra poter contribuire significativamente al soddisfacimento della domanda interna. Tutte le alternative appena discusse, però, se perseguite possono contribuire a rendere l’Europa meno dipendente dalla Russia, paese che fra l’altro ha comunque necessità di esportare le proprie risorse energetiche in quanto da ciò dipende in larga parte l’andamento di un’economia che attualmente langue. Questo fatto spiega da un lato perché la Russia si guarderebbe dal tagliare del tutto le forniture all’Europa e dall’altro l’accelerazione che i fatti ucraini hanno impresso all’accordo di forniture alla Cina, concluso a maggio 2014 dopo essere stato in discussione per una decina d’anni.
L’Europa nel lungo periodo ha davanti a sé un percorso chiaro: da un lato perseguire con determinazione le misure illustrate nella nuova European energy security strategy – che tra l’altro prevede una maggiore interconnesione delle infrastrutture di trasporto di gas all’interno dell’Unione e un’accentuazione delle possibilità di invertire i flussi, che ora possono andare da ovest a est e da nord a sud e viceversa – e dall’altro sviluppare una maggiore interconnessione a valle delle reti elettriche (queste misure permetteranno al gas di fluire in maniera più efficiente ed economica verso i paesi in stato di maggiore bisogno). Più in generale, tuttavia, l’UE ha la sua principale opzione nel perseguire le proprie politiche di decarbonizzazione, di aumento dell’efficienza energetica e di diffusione delle fonti rinnovabili già declinate nel pacchetto 20-20 e nei nuovi target attualmente in discussione su rinnovabili ed emissioni di CO2 al 2030.
Il tutto nel contesto indicato dalla roadmap europea che prevede una riduzione delle emissioni dell’80% rispetto ai livelli del 1990 entro il 2050. Per un continente relativamente povero di risorse energetiche di fonte fossile questa appare la strada maestra che i governanti europei devono perseguire con decisione se la crisi in Ucraina e in Crimea avrà insegnato loro qualcosa.
Shale gas
Shale gas, o gas da argille, è un tipo di gas metano derivato da argille ed è prodotto in giacimenti non convenzionali, situati tra i 2000 e i 4000 metri di profondità. Si rende quindi necessaria sia una normale perforazione verticale per raggiungere lo strato di rocce sia una perforazione orizzontale seguita da una fratturazione idraulica al fine di aumentarne la permeabilità necessaria. L’estrazione dello shale gas è tornata in auge negli ultimi anni anche in Europa, tuttavia l’entusiasmo iniziale ha presto lasciato il posto ai timori derivanti dalla tecnica della fratturazione idraulica e dai rischi ambientali derivanti dall’estrazione, che libera nell’atmosfera una rilevante quantità di anidride carbonica, il gas maggiormente responsabile dell’effetto serra. Il gas da argille ha attirato notevole interesse economico negli ultimi 2 decenni soprattutto negli Stati Uniti, dove l’aumento esponenziale della produzione ha aumentato il grado di indipendenza energetica.