di Stefano M. Torelli
La guerra dell’estate 2014 che, per l’ennesima volta, ha visto confrontarsi l’esercito israeliano e Hamas nel teatro della Striscia di Gaza, non è stata semplicemente l’ennesimo tassello di un conflitto decennale che, ormai, sembra ripetersi a ritmi cadenzati ogni due anni. Sebbene, dopo la firma della tregua, possa sembrare che tutto sia rimasto come prima, che lo status quo sia stato ancora una volta mantenuto e che, fra qualche tempo, possa nuovamente riaprirsi la possibilità di una nuova escalation nell’area, qualcosa in realtà è cambiato.
Dal punto di vista strategico-militare, in effetti, la situazione non è radicalmente alterata. A essere cambiato è il ruolo di uno degli attori che, storicamente, ha avuto un peso decisivo nella risoluzione delle crisi israelo-palestinesi: l’Egitto. Quello del 2014 è stato, effettivamente, il primo capitolo della lunga saga di conflitti tra Hamas e Israele in cui l’Egitto ha svolto un ruolo diverso da quello cui aveva abituato le diplomazie regionali e internazionali. Prima durante la lunga era di Mubarak e, a seguito delle cosiddette Primavere arabe, durante la breve presidenza di Mohammed Mursi, Il Cairo si era sempre prodigato per trovare soluzioni che portassero in breve tempo a un cessate-il-fuoco e alla fine dei combattimenti. Nel far ciò, la politica egiziana era caratterizzata sostanzialmente da due fattori: una certa equidistanza rispetto alle parti coinvolte nella guerra, e il suo inserimento all’interno di un più ampio quadro di cooperazione con gli Stati Uniti.
L’Egitto del 2014 ha scardinato tale schema, mostrandosi, da un lato, decisamente parziale nella gestione della sua azione diplomatica; dall’altro, agendo in maniera autonoma rispetto a Washington. La motivazione di questo cambio di rotta è da rintracciare nell’‘uomo nuovo’ che siede nella poltrona più importante del paese: Abdel Fattah al-Sisi. Il fatto che, questa volta, l’Egitto non sarebbe potuto essere un vero arbitro imparziale nel conflitto tra Hamas e Israele, del resto, era già prevedibile viste le posizioni di al-Sisi nei confronti della Fratellanza musulmana, di cui Hamas rappresenta una sorta di branca palestinese. La stessa ascesa al potere di al-Sisi in Egitto è stata fondata sulla estromissione e, in seguito, sulla repressione della Fratellanza musulmana prima al potere con Mursi, fino alla sua designazione come organizzazione terroristica. Era dunque difficile pensare che Il Cairo potesse, da un lato, svolgere un ruolo da mediatore imparziale nella crisi e, dall’altro, essere accettato come tale da Hamas. A ciò si aggiunge la considerazione che al-Sisi, nell’affrontare la questione del conflitto tra Hamas e Israele, aveva dei propri obiettivi specifici da perseguire, che in alcuni casi esulavano dal solo contesto israelo-palestinese. Se si guarda allo scenario regionale con una prospettiva più ampia, infatti, è facile scorgere i segni di una polarizzazione che, progressivamente, ha interessato le posizioni soprattutto di Egitto e Arabia Saudita da un lato e, dall’altro, di Turchia e Qatar.
La guerra a Gaza dell’estate 2014 – con Ankara e Doha che si proponevano di mediare da una posizione decisamente più ‘filo-Hamas’ – ha costituito per l’Egitto un’occasione per marginalizzare il ruolo turco e qatarino in Medio Oriente, tramite l’isolamento di Hamas. Nel proporre i punti negoziali per un cessate-il-fuoco, al-Sisi – che ha continuato, a differenza del suo predecessore, a tenere chiuso il valico di Rafah che separa l’Egitto dalla Striscia di Gaza – ha di fatto dettato delle condizioni ad Hamas, senza interpellarlo, o almeno relegandolo a un ruolo marginale senza alcuna capacità di influire nel corso decisionale degli eventi. Era prevedibile che Hamas rifiutasse le condizioni e che, di conseguenza, il conflitto andasse avanti, con Israele che, di contro, accettava il piano proposto dall’Egitto. La mediazione statunitense non è riuscita a essere incisiva e, a questo punto, dopo settimane di scontri e una situazione di stallo, le parti sono arrivate ad accordarsi sui punti proposti dall’Egitto. In tale contesto, è importante sottolineare come Hamas non abbia preso parte ai negoziati, a favore di un ritrovato ruolo di Fatah e di Mahmoud Abbas. In questo modo, al-Sisi è riuscito a far perdere peso ad Hamas, marginalizzare la posizione di Turchia e Qatar a livello regionale, far ricadere la responsabilità del conflitto su Hamas stesso – ‘reo’ di non aver accettato i primi termini della tregua proposta dal Cairo – e, infine, riposizionare Abbas come legittimo rappresentante dell’Autorità nazionale palestinese, contribuendo in parte a far naufragare temporaneamente il progetto di riconciliazione nazionale palestinese. Tali obiettivi sono stati raggiunti senza il reale coinvolgimento degli Stati Uniti, il cui segretario di stato John Kerry non ha preso parte alla firma della tregua.
Secondo alcune interpretazioni, il vero e unico vincitore del conflitto, alla luce di quanto analizzato, sarebbe stato proprio al-Sisi. Sicuramente, è stata l’occasione per rafforzare la sua posizione, sia internamente nei confronti dell’opinione pubblica egiziana, che nella regione mediorientale. Sicuramente, è stata l’occasione per rafforzare la sua posizione internamente sia nei confronti dell’opinione pubblica egiziana, sia della classe politica nazionale, ergendosi quale dominus assoluto.
Allo stesso tempo, la vittoria diplomatica di al-Sisi ha rappresentato un forte segnale anche nei confronti dei paesi vicini della regione mediorientale: una situazione, questa, che ha permesso all’Egitto di recuperare quel ruolo di primo piano che storicamente gli compete nelle dinamiche del Levante arabo.