La guerra in ῾Irāq
La guerra e le sue lezioni
La guerra in ῾Irāq fu voluta dal presidente degli Stati Uniti George W. Bush e dal gruppo di neoconservatori giunti con lui al potere nel 2001 per dare una risposta forte all’attacco dell’11 settembre e come mezzo per condurre la lotta al terrorismo islamico, affermare la democrazia e rafforzare il potere americano in tutto il Grande Medio Oriente. La motivazione fu, nel marzo del 2003, il presunto possesso da parte del regime ba‘tista di armi di distruzione di massa e in particolare di armi chimiche la cui presenza non era stata ancora accertata dagli ispettori della IAEA (International Atomic Energy Agency) e che non furono poi mai rinvenute. La guerra ha avuto il merito di eliminare la brutale dittatura di Saddam Hussein (Ṣaddām Ḥusayn), in precedenza a lungo considerato, fino all’invasione del Kuwait (1990), come un utile ostacolo all’espansione del fondamentalismo iraniano. Ma essa ha altresì determinato una frattura nella comunità internazionale, anche all’interno dell’Alleanza atlantica e dell’Unione Europea, a fronte della decisione degli Stati Uniti, prontamente appoggiata da alcuni suoi allora stretti alleati (in primo luogo Regno Unito, Spagna e Polonia), di procedere all’intervento militare pur in mancanza di un’autorizzazione esplicita del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. La guerra ha poi prodotto una serie di effetti non previsti e non desiderati dai suoi promotori.
Il primo in ordine di tempo è stato che le diffuse e non adeguatamente previste reazioni, soprattutto nell’ambito della componente sunnita, all’invasione e all’abbattimento da parte americana delle strutture dello Stato e in particolare di quelle preposte alla sicurezza, hanno consentito ai terroristi di al-Qā῾ida e ad altri gruppi a essa collegati di insediarsi per alcuni anni in diverse parti dell’Irāq.
Il secondo è stato l’aumento considerevole dell’influenza, in ῾Irāq e in tutta la regione, dell’Irān, che ha approfittato dell’affermazione sul campo di forze politiche confessionali sciite favorite dai suoi vertici politico-religiosi. Gli apparati dello Stato smantellati sono stati sostituiti da un lato dalle forze multinazionali guidate dagli americani e dall’altro da una pletora di milizie in parte derivanti dalla precedente opposizione soprattutto di matrice sciita a S. Hussein, da gruppi armati di vario tipo, tra i quali quelli della resistenza ba‘tista e nazionalista all’occupazione, e da gruppi terroristi di matrice salafita, più o meno legati ad altre forze sunnite da alleanze tattiche. Soltanto nel Kurdistan iracheno il controllo del territorio da parte dei due partiti curdi di Massoud Barzani (Kurdistan democratic party, KDP) e Jalal Talabani (Patriotic union of Kurdistan, PUK) e dei rispettivi peshmerga, appoggiati durante tutto il precedente decennio dalla comunità internazionale che ha contribuito a comporne le cruente rivalità, ha garantito condizioni di relativa e crescente sicurezza.
Il terzo effetto è stato che gli enormi problemi incontrati dagli americani hanno ridotto la credibilità della deterrenza costituita da un possibile uso della forza, sia pure come ultima istanza, nei confronti di minacce ritenute intollerabili alla pace e alla sicurezza internazionale quali, per es., l’acquisizione di capacità nucleari militari da parte dell’Irān.
Dalla guerra in ῾Irāq, come da quella in Afghānistān e da altri conflitti nell’area mediorientale, è emersa la conferma che per vincere le guerre asimmetriche non basta un’apparentemente schiacciante superiorità militare e una capacità tecnologica infinitamente maggiore rispetto all’avversario riguardo ai sistemi d’arma, alla mobilità, ai sistemi di comando e controllo, all’intelligence, alla logistica e ai sistemi di protezione. È diventato chiaro quanto sia difficile vincere la guerra quando il nemico può disporre di combattenti che sacrificano la propria vita in attentati sucidi o fanno un uso sistematico di scudi umani e di stragi di civili. O quando una carente comprensione della realtà locale dovuta a grandi distanze culturali conduce chi dovrebbe essere il più forte e il portatore di valori considerati positivi (la libertà, la sicurezza, la democrazia, la prosperità secondo il modello occidentale), a produrre senza volerlo alleanze tra gli avversari anziché dividerli a proprio vantaggio, e ad alienarsi il consenso delle popolazioni e dell’opinione pubblica mondiale. Questo soprattutto quando la promessa dell’affermazione di tali valori non si avvera, ma si produce anzi nella realtà la loro negazione. Le torture nel carcere di Abū Ghraib e gli atti di brutalità contro la popolazione civile, per quanto inferiori in termini numerici a quelli prodotti dalla violenza tra iracheni, hanno evidenziato questo aspetto e quanto la pubblicizzazione di simili eventi incida sull’andamento dei conflitti, soprattutto se asimmetrici e ciò soprattutto a partire dalla guerra del Vietnam e dall’avvento dell’uso del mezzo televisivo per raccontare tali eventi in tempo reale.
Un altro effetto è stato che le enormi spese per la guerra hanno ulteriormente aumentato l’indebitamento degli Stati Uniti verso il resto del mondo e sono state tra le concause della crisi finanziaria internazionale scatenatasi nella seconda metà del 2008, contribuendo anche per questo verso a un indebolimento globale degli Stati Uniti rispetto ad altri grandi attori sulla scena internazionale.
Malgrado gli altissimi costi in vite umane pagati dagli iracheni (centinaia di migliaia di vittime di una guerra combattuta su più fronti tra un gran numero di attori, milioni di profughi e sfollati e una distruzione economica del Paese che si è aggiunta ai disastri provocati dalle politiche fallimentari e criminali del precedente regime e dall’embargo), l’Irāq ha ora però gli strumenti istituzionali per la stabilizzazione e la ricostruzione. Ha anche riacquistato nel frattempo la pienezza della sua sovranità con la fine, al 31 dicembre 2008, dell’applicazione al Paese del capitolo VII della Carta delle Nazioni Unite, e quindi dei poteri in materia di sicurezza, che erano stati affidati alla Forza multinazionale legittimata, a partire dal maggio del 2003, da una serie di risoluzioni del Consiglio di sicurezza. A tale legittimazione e in particolare al ruolo attribuito alla coalizione multinazionale di stabilire condizioni di sicurezza nel Paese per consentirne la ricostruzione istituzionale, economica e sociale, aveva fatto seguito l’adesione alla coalizione stessa di altri alleati degli Stati Uniti quali l’Italia, il Giappone, la Repubblica di Corea, i Paesi Bassi, la Danimarca e alcuni Paesi dell’Europa centro-orientale. Sono invece rimasti fuori la Germania, diversi altri Paesi dell’Unione Europea e la Francia; quest’ultima, all’inizio della guerra, si era platealmente opposta agli Stati Uniti in Consiglio di sicurezza insieme a Russia e Cina, però, successivamente, con questi stessi Paesi, approvò quelle risoluzioni e riconobbe quindi le ragioni della pacificazione e della ricostruzione.
Gli errori compiuti subito dopo la guerra e nel primo periodo dell’occupazione furono dovuti in gran parte a una sostanziale ignoranza della realtà locale da parte dei decisori americani che a Washington e a Baġdād gestirono l’operazione, e alle gravi carenze di analisi e pianificazione che caratterizzarono questa prima fase. Le conseguenze che ne sono derivate hanno progressivamente condotto gli americani alla ricerca di una maggiore comprensione della realtà e a una evoluzione graduale di strategie e comportamenti, anche grazie a un maggiore ascolto delle valutazioni degli alleati oltre che a una crescente disponibilità a fare proprie le loro esperienze positive.
Malgrado le perplessità e gli interrogativi negli ambienti militari e diplomatici e nell’opposizione democratica, da parte del presidente e dei vertici a lui più vicini nell’amministrazione (il vicepresidente Dick Cheney, il segretario alla Difesa Donald Rumsfeld e il suo vice Paul Wolfowitz, il consigliere per la Sicurezza nazionale Condoleezza Rice), così come da parte del primo ministro britannico Tony Blair (ma non di tutti i membri del suo governo), vennero manifestate al momento dell’attacco soltanto certezze, corroborate poi dalla relativa facilità con cui erano state sconfitte le forze convenzionali di S. Hussein e dalla rapidità con cui nell’aprile del 2003 le truppe della coalizione erano giunte a Baġdād. Secondo tali certezze l’eliminazione del dittatore, del suo esercito e del suo apparato repressivo sarebbe stata seguita, pur senza sapere bene come e perché, da una spontanea adesione della popolazione ai valori e ai meriti della democrazia e dell’economia di mercato e quindi dallo sviluppo pacifico di istituzioni conformi a tali valori. «Come in Germania e in Giappone dopo la Seconda guerra mondiale» era tra le poche risposte date alla domanda su come si sarebbe giunti a tale risultato. Veniva inoltre accantonato il dubbio, poi avanzato con forza dal candidato e quindi nuovo presidente americano Barack Obama, che i terroristi andassero circoscritti e sconfitti in Afghānistān e non attirati in ῾Irāq con l’occupazione del suo territorio, disperdendo oltretutto, così facendo, forze americane che secondo questa valutazione sarebbe stato più utile impiegare nel teatro principale della lotta ad al-Qā῾ida: l’Afghānistān appunto.
Il 1° maggio 2003, a bordo di una portaerei nell’Oceano Indiano, il presidente Bush poteva dichiarare che la guerra era vinta. In realtà, come successivamente ammesso dallo stesso presidente, era solo l’inizio di un lungo conflitto nel quale le regole del gioco erano quelle del nemico (dei nemici) e non quelle ottimisticamente immaginate. Le forze ba‘tiste, sconfitte sui campi di battaglia della guerra convenzionale, dileguatesi o espulse da uno Stato sostanzialmente ‘sciolto’ e sostituito da una improvvisata amministrazione della coalizione, si riattivarono rapidamente nella clandestinità grazie a un apparato di stay behind centrato su una vasta e persistentemente minacciosa struttura di intelligence e di pervasiva polizia segreta. Lo scioglimento delle forze armate e di sicurezza e il totale esautoramento della pubblica amministrazione ba‘tista, con la perdita di posizione e redditi da parte di centinaia di migliaia di famiglie, alimentò i reclutamenti nella lotta armata. E la brevissima luna di miele tra la forza multinazionale e una buona parte della popolazione si concluse rapidamente quando la prima si dimostrò incapace di difendere l’ordine pubblico e le proprietà dalle violenze e dai saccheggi di una criminalità gonfiata dalle decine di migliaia di detenuti comuni amnistiati da S. Hussein poco prima della guerra e facilmente manipolabili dai servizi ba‘tisti ancora attivi nella clandestinità. Coloro che avevano maggiormente beneficiato della caduta di S. Hussein, e quindi i due maggiori partiti curdi e i movimenti sciiti dotati di strutture paramilitari, così come altri gruppi di varia natura di opposizione al regime, malgrado le forti reciproche diffidenze, erano riusciti a realizzare un coordinamento favorito dagli Stati Uniti e dal Regno Unito. Questo doveva costituire, come è effettivamente stato, l’embrione di un nuovo potere iracheno destinato progressivamente a dare vita alle nuove istituzioni del Paese attraverso un processo di graduale devoluzione dalla coalizione e poi in forza di una legittimazione elettorale.
Il quadro regionale
La complessità e le difficoltà del processo furono aggravate dai fattori regionali e dalle sostanziali ostilità o prese di distanza manifestatesi in diversi modi da parte dei Paesi vicini nei confronti dell’iniziativa americana e dei fatti successivi. Diversamente dalla guerra del Golfo dodici anni prima, allorché attorno agli Stati Uniti sotto la guida del presidente George Bush senior si costituì contro l’Irāq una coalizione che comprendeva numerosi Paesi arabi, questa volta tutti si espressero contro l’attacco o comunque rimasero fuori dalla coalizione appositamente costituita, compresi i tradizionali e più stretti alleati degli Stati Uniti, pur ospitando alcuni di essi (Kuwait ed Emirati Arabi Uniti) basi logistiche della Forza multinazionale.
Questa ostilità aveva una triplice motivazione. In primo luogo quella di non volere l’imposizione dall’esterno di un modello istituzionale e il rovesciamento con le armi di un potere costituito violando la sovranità di un Paese arabo, malgrado le diffuse ostilità verso S. Hussein. In secondo luogo, come da essi previsto all’inizio della guerra e come confermato ai loro occhi dal dipanarsi degli eventi in ῾Irāq, l’affermazione nel Paese di un sistema di potere centrato sulla maggioranza sciita della popolazione che, in alleanza con i curdi, avrebbe emarginato i sunniti. Dall’epoca califfale a quella ottomana, con le brevi interruzioni costituite da alcune fasi di dominio persiano, e poi da quelle britannica e dell’Irāq indipendente fino a S. Hussein, i sunniti avevano fornito il nerbo della classe dirigente. Tale perdita di egemonia avrebbe anche messo in pericolo la natura araba del Paese. In terzo luogo, in parte collegato ai motivi precedenti, vi era il timore dell’espansione iraniana, contro la quale un ῾Irāq arabo e sufficientemente forte aveva costituito un baluardo accettato e anche sostenuto, purché, come era accaduto con l’invasione del Kuwait, esso non avesse dispiegato intollerabili minacce agli equilibri interarabi. È stato quindi chiaro, a partire dal 2003 e fino ad almeno la seconda metà del 2008, che vi era scarso interesse da parte dei vicini arabi a favorire attivamente la stabilizzazione di un ῾Irāq dominato da sciiti e curdi quale conseguenza dell’intervento americano. E ciò a meno che non vi fosse una reale reintegrazione dei sunniti nei meccanismi di potere, vista peraltro da molti come assai improbabile qualora non imposta da una dura opposizione al nuovo corso.
Anche l’Irān, da parte sua, si è opposto, o quanto meno ha mostrato di opporsi, all’intervento americano. In effetti, da questo ha tratto il vantaggio di vedersi liberato, specularmente alla caduta del regime talibano in Afghānistān, dall’impaccio di S. Hussein, la cui forza era stata comunque già ridimensionata dalla guerra ῾Irāq-Irān negli anni Ottanta e poi dalla guerra del Golfo e dalle sue conseguenze. Ma in tal modo l’Irān si è trovato accerchiato da presenze americane a ovest, a sud e a est. Il suo comportamento caratterizzato inizialmente da un’opposizione verbale all’intervento, accompagnata però da una sostanziale collaborazione per favorire uno sviluppo politico-istituzionale e, nel 2005, elettorale, che potesse risultare utile ai propri interessi, è quindi mutato in una politica di doppio binario: sostegno politico al governo a dominanza sciita-curda guidato da partiti e movimenti, con i quali aveva sviluppato negli anni precedenti intensi legami in funzione anti-Saddam e al tempo stesso sostegno concreto a forze contrarie alla presenza americana con lo scopo di dissuadere gli Stati Uniti da attacchi al proprio territorio.
Il terzo grande attore regionale, la Turchia, ha visto fin dall’inizio le pericolose conseguenze dell’intervento americano per la stabilità di tutta l’area e per la propria sicurezza. Il suo obiettivo era il mantenimento dell’unità di un ῾Irāq possibilmente centralizzato per evitare la nascita di una entità curda indipendente o troppo autonoma. La sua conoscenza della regione e dell’Irāq l’ha portata a prevedere la destabilizzazione e i rischi di disgregazione che sarebbero seguiti alla guerra. Essa ha quindi rifiutato di aderire alla richiesta americana di parteciparvi giungendo a non autorizzare l’uso delle basi sul suo territorio. In seguito ha costantemente operato per favorire la ricostruzione dell’indipendenza e dell’unità del Paese, non esitando però a colpire con interventi in territorio curdo iracheno i guerriglieri del Partito dei lavoratori del Kurdistan (PKK) che vi trovavano rifugio. Ha progressivamente ammesso i meriti della natura federale del nuovo Stato e ha pragmaticamente riconosciuto, una volta avute tangibili garanzie, l’utilità di rapporti diretti con il governo regionale curdo nel quadro dei poteri a esso attribuiti dalla Costituzione irachena e d’intesa con il governo centrale.
Israele, infine, al di là di alcune teorie cospiratorie che gli hanno attribuito un ruolo rilevante nella vicenda, si è opportunamente tenuto fuori dalla guerra pur essendo visibilmente compiaciuto dell’eliminazione di un nemico come S. Hussein dal quale aveva dovuto subire durante la guerra del Golfo gli attacchi con missili Scud. Ma senza il suo concorso positivo non vi potranno essere le grandi intese di carattere regionale necessarie al completamento della stabilizzazione dell’Irāq e di tutta l’area circostante.
Lo Stato fallito
Tale contesto regionale, non sufficientemente valutato nella pianificazione di tutta l’operazione, ha fortemente inciso sugli sviluppi interni iracheni. È mancato nel complesso un impegno concreto dei Paesi vicini a sostenere la stabilizzazione del Paese malgrado le ripetute dichiarazioni rese nelle riunioni regionali e internazionali convocate a tale scopo. E le forze contrarie per diverse ragioni agli assetti politico-istituzionali e agli equilibri che si andavano costruendo, o interessate dall’esterno a orientarli a proprio vantaggio, hanno potuto operare grazie a comportamenti omissivi quando non a sostegni diretti al di là delle frontiere. Dopo l’assunzione di tutti i poteri di governo da parte dell’Autorità provvisoria della coalizione (Coalition provisional authority, CPA) guidata dagli Stati Uniti, che agiva con l’obiettivo di determinare una cesura completa tra il vecchio e il nuovo ῾Irāq, la faticosa costruzione di nuove istituzioni ha visto fin dall’inizio l’affermazione di una alleanza tra partiti sciiti e curdi per la nascita di un sistema federale. E ciò ha accentuato, assieme agli altri fattori sopraindicati, l’alienazione di gran parte dei sunniti almeno fino alla svolta intervenuta a partire dal 2007, aprendo spazi e opportunità alle attività terroristiche di al-Qā῾ida e di forze ba‘tiste, nonché alla lotta armata di gruppi nazionalisti e comunque anticoalizione. Da parte soprattutto di al-Qā῾ida l’azione è stata in larga misura diretta a colpire direttamente, a partire dal 2006, la popolazione sciita e a provocare la guerra civile.
Dall’agosto del 2003 la CPA venne affiancata da un governing council consultivo formato da leader e notabili iracheni che erano stati scelti sostanzialmente dalla stessa CPA tra gli esponenti delle forze di opposizione sia all’interno sia nella diaspora. Fin da quel momento è emersa la portata dell’alleanza tra i partiti curdi (il PUK di Talabani e il KDP di Barzani) e sciiti, in particolare il Supreme council for the islamic revolution in Iraq, SCIRI, di Mohammed al Hakim (Muḥammad Bāqir al-Ḥakīm), non lontano culturalmente dal khomeinismo iraniano, e il partito al-Da῾wa di Ibrahim al-Jaafari (Ibrāhīm al-Ašayqir al-Ǧa῾farī) e Nuri al-Maliki (Nūrī Kāmil al-Mālikī), una sorta di versione sciita dei Fratelli musulmani, con il concorso di un raggruppamento di forze laiche, dai monarchici ai comunisti, riuniti attorno a Iyad Allawi (Iyād ῾Allāwī), e di alcuni esponenti sunniti di limitata rappresentatività.
Nel luglio del 2004 la sovranità è stata nominalmente trasferita, con moltissime limitazioni, a un governo interinale formato con l’ausilio e la mediazione del rappresentante speciale del Segretario generale delle Nazioni Unite, l’anziano diplomatico ed ex ministro degli Esteri algerino Lakhdar Brahimi (al-Aḫḍār al-Ibrāhīmī). Principale compito del nuovo governo, guidato da Allawi, è stato condurre il Paese all’elezione di un’Assemblea costituente, fortemente voluta dal maggiore leader religioso sciita Ali al-Sistani (῾Ali Ḥosayni Sistāni) quale condizione per la legittimazione della nuova realtà irachena. Le elezioni hanno avuto luogo nel gennaio 2005, con il boicottaggio da parte dei partiti sunniti che ha determinato massicce astensioni, facendo registrare un successo dei partiti religiosi sciiti oltre che, nel Kurdistan e nelle aree limitrofe con popolazione mista, dei due maggiori partiti di quella regione uniti in un’alleanza elettorale. Ne è derivata quindi la formazione di un governo transitorio di coalizione guidato dall’esponente dell’al-Da῾wa, al-Jaafari. Il curdo Talabani è stato eletto presidente della Repubblica. L’integrazione di elementi sunniti nel comitato incaricato di redigere la Costituzione ha avuto poco effetto nell’orientare scelte che hanno inevitabilmente prodotto un testo centrato su un assetto federale gradito ai curdi e al maggiore partito sciita. Ugualmente boicottato dai partiti sunniti è stato il referendum confermativo svoltosi in ottobre. Alcuni di questi partiti hanno in seguito accettato di partecipare alle elezioni per il nuovo Parlamento nel dicembre 2005 in cambio dell’impegno a una successiva revisione della Costituzione. Le elezioni hanno rafforzato i partiti religiosi nei due campi a scapito delle forze laiche.
Fin dall’inizio la coalizione e le nuove istituzioni si sono trovate sottoposte agli attacchi, da una parte, dell’opposizione armata sunnita di al-Qā῾ida, di altri gruppi salafiti, dei ba‘tisti e di altre forze nazionaliste e tribali, e, dall’altra, degli estremisti sciiti sadristi fortemente ostili all’occupazione e al federalismo voluto dallo SCIRI. Attacchi con decine di vittime sono stati condotti da estremisti salafiti nell’autunno 2003 contro il Comando del contingente italiano a Nassiriya e contro il quartier generale delle Nazioni Unite a Baġdād. Le stesse forze, oltre ad attaccare la coalizione, i suoi alleati iracheni e tutte le forme di presenza internazionale nel Paese, hanno sviluppato una campagna stragista contro la popolazione sciita mentre i ba‘tisti hanno sistematicamente colpito coloro che collaboravano in qualsiasi modo con la coalizione e con le nuove istituzioni irachene. Parallelamente, le milizie sciite Badr corps facenti capo allo SCIRI e il Jaish al-Mahdi (Ǧayš al-Mahdī), fondato nel 2003 da Muqtada al-Sadr (Muqtadā al-Ṣadr), organizzavano azioni mirate contro esponenti sunniti e si combattevano tra loro. Alla violenza politico-religiosa (‘settaria’ nel linguaggio iracheno) si aggiugeva quella della criminalità comune, impegnata nei rapimenti a scopo di estorsione o di vendita degli ostaggi a gruppi dell’insorgenza, con una frequente collusione tra i due fenomeni. Nella primavera del 2004 la coalizione si è trovata a dover gestire parallelamente e con grandi difficoltà il controllo di Falluja e di gran parte dell’ovest del Paese, attaccati dagli estremisti sunniti, e la violenza dei sadristi del Jaish al-Mahdi nelle aree meridionali e a Baġdād.
L’attentato alla moschea sciita di Sāmarrā nel febbraio 2006 ha impresso un salto quantitativo e qualitativo alla violenza settaria determinando progressivamente, soprattutto a Baġdād, fenomeni di vera e propria pulizia etnica con una conseguente accentuazione dell’esodo di sfollati e rifugiati. Larghe fasce della classe media e dei ceti professionali, con una forte percentuale tra i cristiani, hanno lasciato il Paese. Ma malgrado le tragiche e sanguinose provocazioni che in pochi anni hanno causato decine di migliaia di morti, forse centinaia di migliaia, comprendendo anche le vittime collaterali delle azioni di guerra della coalizione (comunque in numero inferiore a quelle provocate da terroristi e milizie), la popolazione ha nel complesso resistito alla logica della guerra civile evitando fenomeni di contrapposizioni violente di massa che hanno caratterizzato altre situazioni di conflitto interno, dai Balcani all’Africa.
Con la guerra e con la situzione di conflittualità diffusa che ne è seguita, tutti gli indicatori economici sono crollati. Il PIL del 2003 è stato la metà di quello dell’anno precedente. L’inflazione è salita all’80% nel 2006, mentre si attestava a meno del 20% prima della guerra. La produzione di petrolio è crollata nel 2003 da 2,5 milioni a 500.000 barili al giorno per riprendere lentamente a partire dal 2004. Più della metà della popolazione attiva è disoccupata.
La prima svolta: il recupero delle tribù sunnite
Una prima svolta si è avuta nel corso del 2007, preparata dalle lezioni apprese dagli americani nella gestione della lotta al terrorismo e all’insorgenza, così come dalla ricerca di un nuovo consenso internazionale e di un superamento delle divisioni che erano sorte in relazione alla guerra. Di questo sviluppo è stato prima espressione l’International compact, mutuo impegno tra l’Irāq e i suoi partner su una serie di misure di riconciliazione nazionale e di riforma economica. Un ruolo crescente è stato attribuito alle Nazioni Unite e alla sua missione in ῾Irāq (UNAMI, United Nations Assistance Mission for Iraq). E ciò parallelamente a una faticosa costruzione delle nuove istituzioni e all’acquisizione di autorità da parte del primo ministro al-Maliki. Questi era emerso come candidato di compromesso nel lungo travaglio per la formazione di un governo dopo le elezioni della fine del 2005. Esponente del partito al-Da῾wa, islamico ma nazionalista, distante culturalmente dal khomeinismo iraniano, si è progressivamente liberato dell’ipoteca posta su di lui dai sadristi che lo avevano sostenuto nell’ambito dell’alleanza sciita, alla quale spettava tale posto, contro Adel Abdel Mahdi (῾Ādil ῾Abd al-Mahdī), candidato dello SCIRI, maggiore partito di quello schieramento. E sia pure con difficoltà e tensioni si è messo in moto un processo di conciliazione tra il rafforzamento delle sue prerogative e l’esigenza di una gestione collegiale del potere, espressa da un direttorio informale costituito dal presidente della Repubblica (curdo del PUK), dai due vicepresidenti (rispettivamente del Blocco sunnita e dello SCIRI sciita), dal primo ministro (sciita di al-Da῾wa) e dal presidente della Regione curda (KDP).
In questo contesto da parte americana, e in particolare da parte del nuovo comandante in ῾Irāq, il generale David Petraeus (genn. 2007-sett. 2008), e dell’ambasciatore Ryan Crocker, si è riusciti a capire e a fare leva su un fattore cruciale: il rigetto di al-Qā῾ida e del fanatismo gihadista a opera di una parte fondamentale del mondo sunnita, a partire dalla realtà tribale nella provincia di Anbar che del qaidismo era diventata la roccaforte. L’organizzazione militare di questo rigetto è stata sostenuta contestualmente a un temporaneo, misurato e mirato aumento delle forze americane (la cosiddetta surge) ottenendo così che una componente dell’insorgenza sunnita cambiasse di campo e combattesse contro al-Qā῾ida e gli altri gruppi estremisti assieme agli americani e successivamente, malgrado le iniziali forti diffidenze, alle progressivamente sempre più presenti forze governative, aderendo poi al processo politico.
Parallelamente, infatti, le forze armate e di polizia irachene acquisivano maggiori capacità, assumevano gradualmente la responsabilità formale della sicurezza nelle diverse province e beneficiavano di un maggiore impegno alla loro formazione da parte della coalizione. Quando, per es., nel novembre 2006 il contingente italiano nella provincia del Dhi Qar ha consegnato la competenza della sicurezza del territorio alle autorità irachene, vi erano forze armate e di polizia sufficientemente formate per assumere tale controllo. Lo stesso è progressivamente accaduto con modalità ed esiti diversi nelle altre province. Un’apposita struttura della forza multinazionale, il Multi-national security transition command (MNSTC-I), ha assunto un’importanza crescente nel sostenere l’addestramento e l’equipaggiamento delle forze armate e di sicurezza irachene. Accanto a essa si è anche sviluppata una missione di addestramento della NATO per la formazione della leadership militare, con una rilevante presenza italiana e britannica. L’addestramento della Polizia nazionale è stato affidato ai Carabinieri e finalizzato alla costituzione di una forza di polizia robusta, sul tipo della gendarmeria, con una dottrina basata sull’acquisizione del sostegno da parte della popolazione contro il terrorismo e la criminalità organizzata, metodo che già in altre situazioni di crisi ha mostrato grande efficacia durante le fasi di transizione dal conflitto alla stabilizzazione.
A partire dalla provincia di Anbar il sostegno dato alle forze tribali per combattere i gruppi terroristi, secondo una classica formula di controinsurrezione ben nota alle potenze ex coloniali, ha dato un contributo cruciale a risolvere il problema principale (al-Qā῾ida e i suoi alleati salafiti e ba‘tisti). Esso ne ha però creati altri, come quello della crescita di ulteriori gruppi armati al di fuori delle forze regolari faticosamente rimesse in piedi, con la prospettiva reale di una non facile integrazione. Si è andata anche formando una nuova realtà politica che ha senz’altro contribuito a riportare nel processo di riconciliazione nazionale forze fino ad allora rimaste fuori, ma ha al tempo stesso determinato fratture, soprattutto in campo sunnita, tra i partiti già presenti nelle istituzioni e le nuove compagini, con il rischio di provocare ulteriori violenze.
La seconda svolta: l’appropriazione irachena della sicurezza
La seconda importante svolta si è avuta a partire dal marzo 2008 con la coraggiosa e rischiosa, ma alla fine vincente, iniziativa di al-Maliki nei confronti delle milizie sciite nel sud: non tollerare forze armate al di fuori di quelle regolari. Prima a Bassora, quindi nella provincia di Maysan e in seguito a Baġdād e in altre province, il primo ministro ha ripreso con decisione il controllo del territorio utilizzando esercito e polizia dopo una preparazione politica con le realtà locali in cui ha scelto alleati e isolato chi riteneva fosse l’avversario da eliminare o ridimensionare. E lo ha fatto scavalcando qualche prudenza delle Forze multinazionali che di fronte al fatto compiuto sono dovute poi intervenire per fornire sostegni logistici, di intelligence e di copertura aerea. Delle unità impiegate dal Comando iracheno quelle rilevatesi tra le più efficaci in termini di uso proporzionale della forza, rapporti con la popolazione e risultati conseguiti sono stati i battaglioni della Polizia nazionale appena addestrati dai Carabinieri nel quadro della missione della NATO. Da queste operazioni al-Maliki è uscito notevolmente rafforzato sia all’interno sia nei suoi rapporti con gli americani. Avere mostrato di poter riportare la sicurezza in importanti aree del Paese gli ha dato popolarità, anche se una ripresa delle violenze potrebbe rapidamente vanificarla. L’eliminazione da Bassora di gruppi di vario tipo, che sottraevano al controllo governativo pozzi petroliferi e oleodotti, ha fatto risalire la produzione in una fase in cui gli alti prezzi del greggio hanno notevolmente aumentato gli introiti statali, consentendo l’avvio o quanto meno la previsione di importanti programmi di investimento (che però la successiva caduta dei prezzi ha ridimensionato), inaridendo inoltre le fonti di finanziamento di gruppi eversivi. A questi successi hanno anche contribuito le acquiescenze di attori iraniani che non hanno sostenuto a fondo, come avrebbero potuto, i gruppi contrastati dalle iniziative al-Maliki.
Con gli americani il primo ministro si è sentito autorizzato ad alzare notevolmente il prezzo nella trattativa nel frattempo avviata per la conclusione dell’accordo bilaterale sulla presenza e lo status delle truppe statunitensi nel Paese. Ciò in vista del venir meno, alla fine del 2008, dell’applicazione all’Irāq delle limitazioni di sovranità e delle autorizzazioni alla presenza di forze di occupazione ai sensi del capitolo VII della Carta delle Nazioni Unite, come concordato con il presidente Bush alla fine dell’anno precedente. Al-Maliki ha a volte sopravvalutato la propria forza relativa, ma a fronte della volontà americana di chiudere la questione prima dell’insediamento della nuova amministrazione dopo le elezioni presidenziali del novembre 2008, ha alla fine ottenuto un accordo sul ritiro delle forze che indica i tempi di tale ritiro (cosa inizialmente non voluta dall’amministrazione Bush) e concede per molti aspetti all’Irāq, in materia di statuto delle forze ed esenzioni dalla giurisdizione, più di quanto concesso agli altri Paesi nei quali sono presenti truppe americane. Secondo l’accordo il ritiro delle forze americane dalle città è fissato al 30 giugno 2009 e dall’intero Paese al 31 dicembre 2011. Successivamente, il 27 febbraio 2009, il presidente Obama ha annunciato che tutte le truppe ‘combattenti’ lasceranno l’Irāq entro il 31 agosto 2010, mentre rimarranno nel Paese da 35.000 a 50.000 unità per svolgere attività di addestramento (consiglieri militari, nuclei antiterrorismo in appoggio alle forze irachene e d’intesa con loro). Si vedrà se al ritiro si accompagneranno un aumento delle capacità irachene e un contesto politico interno e regionale adeguati a consolidare e a estendere sicurezza e stabilizzazione.
Le elezioni provinciali del 31 gennaio 2009, svoltesi, con l’assistenza delle Nazioni Unite e un limitato monitoraggio internazionale, senza le violenze delle tornate elettorali del 2005, hanno registrato l’accresciuta popolarità di al-Maliki centrata sui miglioramenti intervenuti sul piano della sicurezza, pur con tutte le sue fragilità, e sui successi conseguiti nel negoziato con gli americani. Accanto a un rafforzamento notevole delle liste a lui collegate nel sud del Paese e a Baġdād vi è stato un arretramento del Supreme islamic Iraqi council (SIIC, ex SCIRI) e, in campo sunnita, una sconfitta del Partito islamico, ancora la maggiore forza del Blocco sunnita in Parlamento, a vantaggio delle nuove forze tribali e di gruppi nazionalisti. Buona è stata l’affermazione di partiti e candidati laici mentre nel sud hanno tenuto bene i sadristi, con guadagni in alcune zone. Nella provincia di Mosul ha prevalso una lista araba, nazionalista e trasversale, con apporti di vari gruppi e un risultato che ha raggiunto il 50% dei votanti. Lì come in altre aree miste del nord sono stati ridimensionati i partiti curdi non fosse altro perché, diversamente dalle elezioni del 2005, gli arabo-sunniti questa volta sono andati a votare. Nel complesso vi è quindi stata una contrazione del consenso ai partiti religiosi e con maggiore caratterizzazione ‘settaria’, e un aumento di quello alle forze più nazionaliste e meno favorevoli a un’accentuazione del federalismo, a quelle laiche e a quelle tribali, con conseguenti segnali di convergenze trasversali al di là delle divisioni tra sciiti e sunniti. Pur se rimane qualche dubbio sul fatto che le affermazioni delle forze tribali siano di buon auspicio per lo sviluppo democratico, la modernità e il buon governo, questo spostamento di consensi può rappresentare un fatto positivo, sempre che le frustrazioni dei perdenti non producano scosse destabilizzanti, che possono essere strumentalizzate da Paesi vicini anche in vista delle elezioni per la seconda legislatura alla fine del 2009.
In un quadro che tutto sommato sembra andare verso la stabilizzazione, malgrado gli attentati che seppure con minore frequenza continuano a colpire, resta la questione dei rapporti tra arabi e curdi e dei contrasti tra le competenze dei poteri regionali rispetto a quelli del governo centrale, di regolamentazione della produzione di idrocarburi, di ruolo, dimensioni, controllo e finanziamento dei peshmerga nell’ambito delle forze di sicurezza del Paese. E restano soprattutto i contrasti riguardo alle ‘aree contese’ con popolazioni miste, spesso conseguenza di spostamenti forzati nel passato, a partire dal distretto di Kirkuk, area ricca di risorse petrolifere che la regione del Kurdistan iracheno rivendica e sulla cui sorte occorre dare corso a un complicato sistema di verifiche e ‘normalizzazione’ previsto dalla Costituzione; per facilitare la soluzione della questione si adoperano anche le Nazioni Unite, in particolare il capo dell’UNAMI Staffan De Mistura. I rischi della frammentazione di uno Stato che dopo la fine dell’Impero ottomano è stato messo in piedi dai britannici permangono, benché i curdi sembrino ormai ben consapevoli dei pericoli insiti nella ricerca di margini sempre maggiori di potere e di estensione territoriale della loro regione.
Quale bilancio?
Nei prossimi anni, forse tra qualche decennio, si potrà dare un giudizio complessivo degli effetti di lungo periodo della guerra in ῾Irāq. Si tratterà in particolare di vedere se malgrado il suo enorme costo umano per gli iracheni e politico per gli Stati Uniti e l’Occidente nel suo insieme, essa avrà alla fine contribuito a innescare un ciclo virtuoso in tutta l’area o se invece sarà stata uno dei fattori di ulteriori e più gravi conflitti nella regione e ben al di là di essa. Si vedrà se l’Irāq, dopo decenni di declino, di guerre e di progressiva distruzione delle sue risorse umane e materiali potrà riprendere il posto che gli spetta nel Medio Oriente quale terzo o quarto detentore di riserve di idrocarburi nel mondo, ricco di acqua più di quasi tutti i Paesi dell’area, con tradizioni di conoscenze e di qualità intellettuali e imprenditoriali che le sofferenze e le carenze formative delle ultime generazioni non hanno completamente eliminato e che vanno rialimentate anche con il contributo della diaspora.
Un futuro di pace, stabilità e sviluppo presuppone un’intesa tra tutti gli attori interni ed esterni riguardo a un assetto del Paese difficilmente realizzabile al di fuori di un quadro regionale condiviso di sicurezza collettiva e di cooperazione. Esso comporta l’accordo tra le componenti della società irachena e gli attori esterni alla realtà di un Paese nel quale vi è una maggioranza sciita diventata politicamente assertiva, con tutte le conseguenze che ciò comporta in termini di rappresentanza nell’esercizio del potere. Nello stesso tempo vanno accettate la natura etnicamente e religiosamente plurale del Paese e l’esigenza ineludibile di piena partecipazione della componente sunnita al potere effettivo e alla ripartizione delle risorse con obiettivi nazionali e non più settari, stemperando l’artificiosa dicotomia sciiti-sunniti in un ambito federale nel quale anche la componente curda trovi pienamente riconosciuti i propri diritti all’autonomia e a un peso adeguato nel governo centrale. Si vedrà se i recenti segni di una stanchezza crescente della popolazione nei confronti del fondamentalismo religioso in tutte le sue forme costituiscono effettivamente una inversione di tendenza che, invece, non sembra avvertirsi ancora in altri Paesi islamici.
Il futuro dovrebbe anche comportare, all’interno della regione, un riconoscimento delle esigenze di sicurezza e di ruolo di arabi (in particolare sauditi, egiziani e siriani), iraniani e turchi, le cui tensioni si sono scaricate appunto sull’Irāq, oltre che in Libano e in altre aree di crisi. È un’equazione che comprende, appunto, il Libano e anche l’Afghānistān e che è in larga parte centrata sulla gestione dei rapporti con l’Irān e quindi in primo luogo sulla questione nucleare e sulla denuclearizzazione militare di tutta la regione. Un’equazione che non può prescindere, inoltre, dalle questioni della sicurezza di Israele e della nascita dello Stato palestinese. Ma un’azione efficace e credibile per la denuclearizzazione richiede che anche le potenze nucleari adempiano a quanto loro richiesto dal Non proliferation treaty (NPT) in termini di riavvio di un processo di disarmo.
Si vedrà se questo percorso stretto e difficile, sul quale sembra volersi cimentare l’amministrazione Obama, porterà a un accordo complessivo sull’intera regione che comprenda anche la soluzione dei conflitti dall’Afghānistān alla costa mediterranea, ben sapendo che senza di esso eventuali intese parziali sarebbero difficilmente sostenibili e che l’alternativa sarebbe la prosecuzione di una situazione di instabilità endemica, fortemente lesiva della sicurezza globale dell’Occidente e in particolare dell’Europa. Ai miglioramenti intervenuti nel processo politico e di riconciliazione nazionale e nelle condizioni di sicurezza, seppure con le loro fragilità, e alla conseguente ripresa delle attività economiche, si sono progressivamente accompagnati rinnovati interessi europei verso l’Irāq, la sua stabilizzazione e le opportunità offerte dalle prospettive di una sua auspicata ricostruzione.
Dei maggiori Paesi europei, oltre al Regno Unito, fedele fiancheggiatore degli Stati Uniti durante tutta la vicenda, l’Italia ha mantenuto un ruolo non limitato agli aspetti militari prima e dopo la sua uscita dalla Forza multinazionale nel dicembre 2006. Oltre a essere il maggiore contributore alla missione della NATO per la formazione delle forze armate e di sicurezza irachene, con, tra l’altro, un compito particolare di addestramento della Polizia nazionale, nel gennaio del 2007 è stato il primo Paese a concludere con l’Irāq un organico trattato di amicizia, partenariato e cooperazione nel cui ambito ha anche disposto un credito di aiuto di 400 milioni di euro, dopo aver cancellato 2,4 miliardi di euro di debito nel quadro delle decisioni adottate dal Club di Parigi. Ha assunto la guida nella provincia del Dhi Qar, a Nassiriya, dell’unità civile di sostegno alla ricostruzione provinciale, dando così un seguito alla precedente presenza del contingente italiano in quell’area, e ha mantenuto, rafforzandola progressivamente, la sua tradizionale presenza nel campo archeologico e della valorizzazione del grande patrimonio storico e culturale del Paese. L’Italia ha continuato a essere il secondo importatore di greggio iracheno dopo gli Stati Uniti (3,9 miliardi di euro nel 2008) e l’Eni è tra le società petrolifere internazionali che più interagiscono con il governo per l’atteso salto di qualità nella produzione di petrolio e di gas che richiederà ingenti investimenti e presenze internazionali dirette al rinnovo delle obsolete strutture di estrazione, trasporto e trattamento e all’apertura di nuovi giacimenti. Sono state ripetutamente scambiate visite a livello ministeriale e nel luglio del 2008 al-Maliki è stato ricevuto a Roma.
Dal 2008, dopo l’elezione del presidente francese Nicolas Sarkozy e parallelamente ai miglioramenti nel processo politico e nella sicurezza, due visite del ministro degli Esteri Bernard Kouchner e nel febbraio 2009 dello stesso presidente della Repubblica hanno marcato una forte ripresa di interesse della Francia. Allo stesso modo, la Germania, il cui ministro degli Esteri ha visitato l’Irāq nel febbraio 2009, ha mostrato di voler rientrare tra i partner di primo piano dell’Irāq. Nel frattempo la Commissione europea ha rafforzato la sua presenza tramite un accordo di partenariato e cooperazione.
Anche giapponesi, russi, cinesi, australiani, coreani, spagnoli, polacchi e altri si riaffacciano per partecipare alla ricostruzione di un Paese dalle grandi potenzialità che faticosamente sembra uscire dal tunnel. Ma alla fine del primo decennio del secolo, alle incertezze sui progressi nel processo di stabilizzazione e su un quadro regionale pericolosamente in bilico dal quale quei progressi in gran parte dipendono, si aggiungono gli ostacoli posti dalla crisi finanziaria internazionale. Questi potranno provocare ritardi e rallentamenti.
Sta di fatto che gli Stati Uniti, seguendo un processo avviato dal momento in cui hanno iniziato a trarre le necessarie lezioni dai loro errori in ῾Irāq, si presentano attualmente come avvertiti sostenitori, con l’amministrazione Obama, di una sempre maggiore condivisione di responsabilità nella comunità internazionale per la partecipazione alla stabilizzazione del Paese. Naturalmente vi vorranno svolgere un ruolo di primissimo piano, come dimostrano tra l’altro le dimensioni dell’ambasciata statunitense costruita a Baġdād, la più grande del mondo. Ma è prevedibile che vorranno assumere tale ruolo sempre più in un contesto multilaterale e di ricerca di soluzioni regionali a problemi tra loro, con ogni evidenza, collegati. Sempre che gli attori regionali e la composizione delle rissosità irachene, parallelamente al ritiro delle forze americane, lo rendano possibile.
Bibliografia
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P. Bremer, My year in Iraq. The struggle to build a future of hope, New York 2006.
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G. Tenet, At the center of the storm. My years at the CIA, London 2007.
Iraq. Radiografia del conflitto quattro anni dopo, a cura di M. Emiliani, Bologna 2007.
Si vedano inoltre i rapporti sulla regione dell’International crisis group: http://www.crisisgroup.org/home/index.cfm?id=1096&l=1 (26 giugno 2009).