Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
L’idea di uno Stato che racchiuda gli Slavi del sud (“jugoslavi”) nasce nel XIX secolo, ma si concretizza nel 1918, dopo il collasso dell’Impero austro-ungarico e nell’ordine di Versailles. Nato come Regno dei Serbi, Croati e Sloveni, diventa formalmente Regno di Jugoslavia nel 1929 ma, incrinato da forti dissidi interni, è travolto e spartito dalle potenze dell’Asse nel 1941, per poi rinascere come Federazione di Repubbliche Socialiste nel 1945, con Tito. Lo Stato jugoslavo si disintegra con le secessioni e le conseguenti guerre degli anni Novanta del XX secolo, anche se la federazione di Serbia e Montenegro mantiene il nome di Jugoslavia fino al marzo 2003.
Il concretizzarsi di un’idea: la nascita dello Stato jugoslavo
Lo Stato jugoslavo nasce nel XX secolo ma l’idea jugoslava è figlia del concetto ottocentesco di nazione. Allora, propositi unitari coinvolgono intellettuali di un’area che ha vissuto forti divisioni, tra Impero Romano d’Oriente e d’Occidente, cristianesimo orientale e occidentale, Sacro Romano Impero e Impero bizantino, Impero degli Asburgo e Impero ottomano. Popolazioni slave colonizzano l’area balcanico-danubiana a partire dal V-VI secolo d.C., si convertono al cristianesimo e formano piccoli Stati e principati muovendosi tra Sacro Romano Impero, Roma e Impero bizantino, alla ricerca di protezione o di autonomia, fino a quando sono inclusi nella sfera di dominio adriatico-balcanico-danubiana contesa tra Repubblica di Venezia, Impero asburgico e Impero ottomano. Le tre potenze influenzano lo sviluppo storico e culturale delle popolazioni locali, incidendo sul già confuso mosaico di genti slave e non slave con leggi e ordinamenti diversi e, soprattutto, determinando assimilazioni, conversioni, spostamenti, fughe e insediamenti di popolazioni (sia autoctone che immigrate), legittimando fedeltà e ruoli sociali connessi ad appartenenze linguistiche e religiose, analoghe e opposte.
La fine della Repubblica di Venezia e la crisi ottomana, le guerre napoleoniche e la diffusione dell’idea di nazione, aprono orizzonti nuovi: dopo le rivolte del 1804-1813 e 1815 i Serbi ottengono l’autonomia dagli Ottomani, e l’indipendenza al Congresso di Berlino (1878) assieme al Montenegro e alla Romania.
Nella prima metà del XIX secolo sono formulate idee politiche e riforme linguistiche e grammaticali all’insegna di una comunanza tra le popolazioni slave del sud, in Serbia da Vuk Karadzic (1787-1864), lo scrittore considerato iniziatore della moderna letteratura serba e il creatore dell’unità linguistica serbocroata, e nella Croazia degli Asburgo da Ljudevit Gaj (1809-1872), che fonda il movimento politico dell’illirismo, a cui si lega idealmente, dal 1848, lo jugoslavismo.
Nella seconda metà del secolo il movimento jugoslavo coinvolge Serbi, Croati e Sloveni della monarchia asburgica e ha come esponenti principali il filologo Franjo Rački (1828-1894), e il vescovo di Djakovo Juraj Strossmayer (1815-1905). Per loro iniziativa nasce a Zagabria l’Accademia Jugoslava delle Scienze e delle Arti (1868). I socialdemocratici sloveni fondano il Partito Socialdemocratico Jugoslavo, ma altri partiti croati e sloveni, e la maggior parte dei politici in Serbia, guardano con indifferenza, sospetto od ostilità alle idee jugoslave, che tuttavia trovano nuovi sostenitori nelle generazioni più giovani ai primi del Novecento. Nel 1905 un “compromesso croato-serbo” in Croazia-Slavonia e in Dalmazia dà il via a una coalizione di più partiti. Le guerre balcaniche (1912-1913) mettono in risalto il ruolo della Serbia (e il suo mito quale “Piemonte” degli Slavi del sud) e avvicinano a questa il Montenegro (ma non la Bulgaria, avversaria dei primi due nel 1913). L’irredentismo serbo sulla Bosnia (occupata dagli Austriaci nel 1878 e annessa nel 1908) e l’attentato di Sarajevo contro l’erede al trono Francesco Ferdinando (1914) inducono l’Impero austro-ungarico ad aprire le ostilità contro la Serbia, mettendo in moto la prima guerra mondiale. La Serbia è invasa dalle truppe asburgiche e le rimanenti sue forze sono tratte in salvo a Corfù da navi italiane e della Triplice Intesa. Nei Paesi della Intesa transfughi serbi, croati e sloveni dell’Impero costituiscono il Comitato Jugoslavo che si accorda a Corfù con il governo serbo nel 1917 per la creazione di uno Stato comune sotto la dinastia serba dei Karadjordjević. Verso la fine della guerra, i deputati jugoslavi della monarchia asburgica fondano a Zagabria il Consiglio Nazionale dei Serbi, Croati e Sloveni, che vota l’unione con Serbia e Montenegro, mentre un’assemblea montenegrina stabilisce la deposizione di re Nicola e la fusione con la Serbia. Il 1° dicembre 1918 il reggente Alessandro Karadjordjević, alla presenza di membri del governo serbo e di delegati del Consiglio di Zagabria, proclama la nascita del Regno dei Serbi, Croati e Sloveni (SHS), noto già allora con il nome non ufficiale di Jugoslavia.
I rapporti con gli Stati esteri e la difficile situazione interna
Il Regno SHS nasce senza un accordo sulla forma di Stato, per la fretta dovuta al prossimo inizio della Conferenza di pace di Parigi (1919). Qui si sviluppa la contesa sul confine con l’Italia, che si batte per l’applicazione del patto di Londra (stipulato nel 1915 con Francia, Inghilterra e Russia), ma è avversata dal presidente degli Stati Uniti d’America Thomas Wilson (1856-1924), il quale chiede confini italo-jugoslavi più aderenti al principio di nazionalità. Jugoslavia e Italia si accordano il 12 novembre 1920 a Rapallo: l’Italia ottiene Trieste, l’Istria, il Goriziano e alcuni distretti occidentali della Carniola, Zara e le isole di Lagosta (Lastovo) e Pelagosa (Palagruza), mentre il resto della Dalmazia va alla Jugoslavia. Fiume, occupata da Gabriele D’Annunzio nel settembre 1919, è sgomberata e proclamata città libera, ma nel gennaio 1924 Roma e Belgrado si accordano per la sua annessione (quasi integrale) all’Italia.
Gli Sloveni e i Croati in Italia e gli Sloveni in Austria sono le uniche minoranze jugoslave all’estero. All’interno il quadro è quantomeno complesso: su 12 milioni di abitanti, circa quattro milioni e 600mila sono i Serbi (38,8 percento) e quasi tre milioni i Croati (23,77 percento), i quali parlano due lingue sovente considerate come una sola (serbo-croato), con alcune caratteristiche e alfabeto distinti, in cui però si esprimono anche i 730mila musulmani della Bosnia (6,05 percento); un milione sono gli Sloveni (8,53 percento), quasi 600mila i Macedoni slavi (4,87 percento), circa mezzo milione i Tedeschi (4,27 percento), gli Ungheresi (3,93 percento) e gli Albanesi (3,68 percento), 230mila i Rumeni (1,91 percento), 170mila i Turchi (1,40 percento), e 64mila gli ebrei (0,53 percento), oltre a diverse migliaia di Italiani, Cechi e Slovacchi, Ucraini, Polacchi, zingari. Quanto alla religione professata, oltre agli ebrei, 1 milione e 300mila sono i musulmani, 200mila sono protestanti e 400mila uniati, cinque milioni e 600mila i cristiani ortodossi e quattro milioni e 700mila i cattolici. Costituiscono un problema per l’integrazione del Paese anche le difformi tradizioni amministrative e giuridiche e la sperequazione nella ricchezza e nel tasso di alfabetizzazione (86 percento in Slovenia, 20 percento in Bosnia e 5 percento in Macedonia). Problematica è l’assimilazione nello Stato degli Albanesi del Kosovo e dei Macedoni slavi, considerati dalla Bulgaria come propri connazionali. Appoggiati dall’Italia, Macedoni, Albanesi e anche Montenegrini, fondano comitati rivoluzionari all’estero.
La risposta di Belgrado a questa problematica integrazione, e alle tensioni sociali causate dalle pesanti difficoltà economiche in cui versa il Paese, è un forte accentramento economico, politico e amministrativo. La costituzione del Regno è votata il 28 giugno 1921 (ricorrenza dell’attentato di Sarajevo e soprattutto della battaglia di Kosovo Polje contro gli Ottomani del 1389), a maggioranza semplice, con molti partiti (in particolare croati e sloveni) che boicottano i lavori dell’Assemblea. Principale forza di governo è il Partito Radicale del vecchio primo ministro serbo Nikola Pasic (1845-1926), cui si alterna il Partito Democratico, pure esso a base serba. Nel corso degli anni Venti si consolidano il Partito Popolare Sloveno, l’Organizzazione Musulmana Jugoslava e il Partito Contadino Croato, mentre si eclissano i partiti nazionalmente trasversali (Agrari, Socialdemocratici, Club Nazionale), con il Partito Comunista Jugoslavo (quarta forza nel Paese) messo fuori legge e costretto alla clandestinità.
L’opposizione più radicale al governo è espressa dal Partito Contadino Croato e dal suo leader Stjepan Radic (1871-1928), forte di un sostegno quasi totale dell’elettorato croato. Le condizioni dell’economia destano preoccupazioni, nonostante i segnali incoraggianti della riforma agraria, ma sono le crisi politiche a creare maggiore instabilità. Nel 1928, durante una seduta in parlamento, un deputato montenegrino ferisce a morte Radic e suo fratello. Nell’intento di evitare l’inasprimento della crisi, il 6 gennaio 1929 re Alessandro assume su di sé tutti i poteri e abolisce i partiti. Il re promuove nuove riforme in campo amministrativo e agricolo, e ufficializza il nome di Regno di Jugoslavia, cercando di promuovere un maggiore senso di unità nel Paese. La nuova Costituzione del 1931 consente la ripresa dell’attività parlamentare, che rimane però pesantemente condizionata dal re. La situazione peggiora con la crisi economica, il precipitare dei prezzi agricoli e la svalutazione della moneta, mentre si rafforzano i gruppi di dissidenti all’estero, in particolare gli ustascia croati, foraggiati e addestrati in Italia. Il 9 ottobre 1934 re Alessandro è ucciso a Marsiglia, assieme al ministro degli Esteri francese Jean-Louis Barthou (1862-1934), in un attentato organizzato proprio dagli ustascia. In seguito all’attentato, Mussolini decide di smantellare la rete ustascia e di arrestarne il leader Ante Pavelic (1889-1959), riavvicinandosi alla Jugoslavia, fino ad allora legata a doppio filo con la Francia e con i Paesi della Piccola Intesa (Cecoslovacchia e Romania) e dell’Alleanza balcanica (Turchia, Romania e Grecia).
Dal secondo conflitto mondiale alla guerra fredda: nuovi equilibri
Da allora, il principe reggente Paolo Karagjorgjevic (cugino di Alessandro) e i governi di Milan Stojadinovic (1888-1961) e di Dragiza Cvetkovic (1893-1969) si muovono verso una ridefinizione delle alleanze, cercando anche di risolvere i problemi con i Croati, cui è infine garantita una forte autonomia con l’accordo del 1939 (Sporazum). Con lo scoppio della guerra, sottoposta a pressioni da entrambi gli schieramenti ma con i Tedeschi già nei Balcani, la Jugoslavia aderisce al patto tripartito (25 marzo 1941). Manifestazioni contrarie all’alleanza con la Germania sono seguite da un colpo di Stato che rovescia il governo, destituisce il reggente in favore dell’ancora minorenne Pietro II Karagjorgjevic e rigetta il patto, provocando l’aggressione “punitiva” da parte tedesca e lo smembramento della Jugoslavia.
Le regioni slovene sono spartite tra Germania e Italia, che annette anche buona parte delle isole e della fascia costiera dalmata e montenegrina. Ungheria, Bulgaria e Albania italiana annettono le regioni prossime ai confini orientali e meridionali e il resto del Paese diventa protettorato tedesco o italiano. In Croazia e Bosnia le potenze dell’Asse Roma-Berlino danno vita allo Stato Indipendente Croato (NDH), con a capo il Poglavnik (duce) ustascia Pavelić, che intraprende una campagna di violenza generalizzata contro i Serbi, avviati all’unico campo di sterminio fuori dal territorio del terzo Reich, assieme a ebrei, zingari e oppositori politici. Dal 1941 si organizzano gruppi di resistenza all’invasione: i Cetnici – serbi filomonarchici guidati dal generale Draza Mihajlovic (1893-1946) – il Fronte Sloveno di Liberazione (Osvobodilna Fronta) e i partigiani comunisti guidati dal maresciallo Josip Broz, detto Tito (1892-1980).
Prigioniero di guerra austro-ungarico in Russia, poi attivista comunista in Jugoslavia e arrestato negli anni Venti, Tito è in seguito esule a Mosca, dove è posto alla guida del Partito Comunista Jugoslavo (1937). Inizialmente minoritari, alla lunga i partigiani conquistano maggior seguito, per la loro lotta a oltranza contro Tedeschi e Italiani, incuranti delle ritorsioni (anche contro i civili) e indisponibili ad accordi con gli occupanti (al contrario dei Cetnici), e perché sono l’unica forza comprendente tutte le componenti nazionali jugoslave. Le forze di Tito resistono ai tentativi di soffocamento tedeschi e conquistano anche il supporto degli Inglesi, inizialmente indirizzato ai Cetnici. Infine giunge anche l’aiuto dei Sovietici, che alla fine del 1944 entrano a Belgrado e insediano Tito a capo del Comitato di Liberazione Nazionale (riconosciuto ormai anche dalla monarchia serba), ma Churchill riesce a strappare a Stalin una divisione a metà della sfera di influenza sulla Jugoslavia. Le forze non comuniste sono presto marginalizzate, mentre le truppe partigiane liberano il resto del territorio e cominciano una resa di conti incisiva e spesso brutale con collaborazionisti e “nemici del popolo”, veri e presunti (ustascia, cetnici, esercito “regolare”, esponenti delle élite borghesi e altre nazionalità: in particolare Tedeschi, Ungheresi e Italiani).
La Venezia Giulia è nuovamente al centro di un contenzioso diplomatico, reso più drammatico dal regime di occupazione jugoslavo in Istria e dai quaranta giorni di permanenza delle truppe di Tito a Trieste, durante i quali si verificano arresti, deportazioni, eliminazioni indiscriminate e “infoibamenti” di avversari, vecchi e nuovi, reali e presunti, che alimenteranno la fuga in massa dai territori istriani. Il contenzioso è temporaneamente risolto con la creazione del Territorio Libero di Trieste (TLT), diviso in una zona B sotto amministrazione jugoslava (l’estremità nord-occidentale dell’Istria) e una zona controllata dagli Angloamericani (Trieste), poi ceduta all’Italia nel 1954 (Memorandum di Londra).
I forti dissidi tra Stalin e Tito, per le aspirazioni di autonomia nella politica interna, estera ed economica da parte jugoslava, portano all’espulsione del Partito Comunista Jugoslavo dal Cominform (1948). Tito mantiene il controllo del potere, seppure a prezzo di nuove drammatiche epurazioni, carcerazioni e violenze. La Jugoslavia comincia a ottenere cospicui aiuti economici dall’Occidente, ma conserva un’equidistanza dai due blocchi (che la condurrà nel 1961 alla definizione del Movimento dei Paesi Non Allineati).
Agli inizi degli anni Cinquanta sono interrotte le collettivizzazioni agricole e i piani quinquennali, in favore dell’autogestione operaia, anche se sono mantenuti un rigido controllo poliziesco e la propensione alla gerarchizzazione e alla centralizzazione nell’economia e nell’amministrazione, nonostante la struttura dello Stato sia formalmente federale (con le sei repubbliche socialiste di Slovenia, Croazia, Bosnia e Erzegovina, Montenegro, Macedonia e Serbia, al cui interno sono e le due province autonome di Kosovo e Vojvodina). Alla metà degli anni Sessanta la pianificazione centrale è abbandonata a favore di un ingresso controllato del libero mercato, che coincide con una concessione di maggiori libertà politiche e soprattutto di movimento. Nel 1967 un manifesto che esprime un’esigenza di autonomia linguistica della lingua croata dal serbo si innesta su un dibattito politico non facile tra riformisti e conservatori in tutta la Jugoslavia, in cui fanno capolino anche rivendicazioni moderatamente nazionalistiche e si inseriscono movimenti studenteschi. Il tutto si esaurisce in una nuova ventata repressiva che, nel 1971, colpisce soprattutto la Croazia, abbattendosi sia contro riformatori che nazionalisti. In compenso, la nuova Costituzione del 1974 accorda forti competenze in campo amministrativo ed economico alle repubbliche a vantaggio soprattutto di Croazia e Slovenia, ma anche alle province autonome, mentre concede lo status di nazionalità ai musulmani di Bosnia, facendo sorgere insoddisfazione tra i Serbi, sparsi tra i diversi pezzi di un Paese che si avvia verso un crescente decentramento.
La morte di Tito: crollo economico, crisi politica e disordini sociali
La morte di Tito nel 1980 espone il Paese a nuove difficoltà, alimentate dalla gravissima crisi economica interna, con alte vette di inflazione e debito pubblico. Le politiche federali di austerità trovano ostacoli nelle repubbliche, gelose delle proprie competenze acquisite (anche quando queste aumentano la sproporzione nella distribuzione della ricchezza), mentre una serie di scandali finanziari alimenta un senso di insoddisfazione generale. La provincia più povera, il Kosovo, è agitata da manifestazioni di Albanesi che rivendicano lo statuto di repubblica. Nel 1981 gli scontri con la polizia provocano undici morti tra i manifestanti, lo stato d’emergenza e la sostituzione della locale dirigenza albanese. Ragioni economiche spingono Albanesi e Serbi via dal Kosovo, ma non pochi attribuiscono l’abbandono dei Serbi al trattamento discriminatorio riservato loro dalle autorità locali. Nel 1986 un Memorandum (non ufficiale) dell’Accademia delle Scienze e delle Arti di Serbia individua nelle “ingiustizie imposte alla Serbia dalla coalizione croato-slovena” la causa principale della crisi della Jugoslavia. I maggiori spazi di discussione si traducono in un montante clima di tensioni e recriminazioni e diversi intellettuali si schierano su posizioni sempre più nazionalistiche (anche esponendosi a nuovi provvedimenti giudiziari).
Nel 1987 Slobodan Milosevic (1941-2006), nuovo presidente della Serbia, comincia a sfruttare il sentimento popolare, e cavalcando le proteste dei Serbi in Kosovo e attaccando i burocrati di partito (nella cosiddetta Antibirokratska revolucija), rafforza le proprie posizioni all’interno della Lega dei Comunisti in Serbia e Montenegro. Nel 1989 Milosevic partecipa a una serie di adunate a forte connotazione nazionale (che culminano il 28 giugno nel raduno di un milione di Serbi a Kosovo Polje) e strumentalizza le nuove manifestazioni albanesi per porre sotto il suo controllo la dirigenza locale e abolire le autonomie del Kosovo, e successivamente anche della Vojvodina.
All’interno della Lega dei Comunisti Jugoslavi gli Sloveni ingaggiano una contrapposizione frontale con Milosevic. Mentre il premier federale Ante Markovic (1924-2011) porta avanti la sua radicale riforma per tentare di risanare l’economia, la dirigenza slovena si batte fermamente per imporre la fine del ruolo del partito e il pluralismo, avanzando ipotesi di confederazione spalleggiate anche dai rappresentanti croati. Nel 1990 si tengono nelle sei repubbliche elezioni pluripartitiche (vanificando le possibili forme di ricomposizione politica a livello federale), che portano al potere partiti inseriti in una logica di particolarismo economico e nazionale. Milosevic, che difende l’idea di una Jugoslavia integra, mantiene intanto un fermo controllo sulla metà dei voti della presidenza collegiale (Serbia e Montenegro più le due province ancora formalmente autonome), impedendo qualsiasi riforma e rafforzando contemporaneamente la propria lobby di potere attraverso fondi pubblici e la stampa illegale di cartamoneta. I nuovi partiti non comunisti al potere in Slovenia e Croazia radicalizzano le proprie posizioni e abbracciano idee di secessione, ricorrendo a una fraseologia e a una simbologia esplicitamente nazionaliste, specialmente nel caso della Comunità Democratica Croata (HDZ) di Franjo Tudjman (1922-1999). I Serbi di Croazia (il 12 percento della popolazione) non accettano di perdere lo status di nazionalità “costituente” nella repubblica e censurano i nuovi simboli introdotti dal governo croato come un richiamo esplicito all’esperienza del filonazista Stato Croato Indipendente (NDH) ed effettuano blocchi stradali e ferroviari permanenti (agosto 1990). Nella primavera del 1991 sale la tensione nei territori croati della Slavonia e della Krajina e si registrano i primi scontri a fuoco tra popolazione serba e poliziotti croati. Nel dicembre del 1990 gli elettori della Slovenia e della Croazia vengono chiamati alle urne per un referendum sulla eventuale secessione e un’analoga consultazione si svolge nella regione croata della Krajina a maggioranza serba. Il 25 giugno 1991 i parlamenti di Slovenia e Croazia votano l’indipendenza dei due Stati, a cui segue l’intervento delle truppe dell’esercito federale in Slovenia per ristabilire le frontiere internazionali, e posizionarsi in alcuni punti strategici dell’interno. La difesa territoriale slovena però contrasta efficacemente l’esercito federale. Germania e Austria sostengono apertamente Slovenia e Croazia, mentre gli Stati Uniti condannano le secessioni. Interviene la Comunità Europea che ottiene una moratoria di tre mesi sull’indipendenza, mentre l’esercito si ritira gradualmente dalla Slovenia per assestarsi su posizioni-chiave in Croazia e Bosnia e porsi come garante delle popolazioni serbe. In Croazia iniziano le collaborazioni tra milizie irregolari serbe ed esercito federale, e dagli scontri sporadici si arriva a combattimenti su larga scala, particolarmente intensi nella regione della Slavonia, dove ad agosto comincia l’assedio di Vukovar. L’assedio congiunto di forze serbe ed esercito federale termina il 18 novembre 1991, con la città completamente distrutta. Il governo federale jugoslavo di Markovic si dimette il 22 novembre.
Dalla Krajina e dalla Slavonia fuggono migliaia di profughi. Le autorità comunitarie europee proclamano sanzioni contro la Jugoslavia e cominciano deboli e inefficaci tentativi di ricomposizione del conflitto. L’esercito federale bombarda continuativamente Zara, Sebenico e Dubrovnik, mentre i Serbi della Krajina proclamano l’indipendenza della Repubblica Serba di Krajina. A metà dicembre la Comunità Europea si accorda sul riconoscimento a Slovenia e Croazia (effettivo dal 15 gennaio 1992) ma, a causa dell’opposizione greca, sospende il riconoscimento della Macedonia, espressasi nel settembre 1991 con un referendum a favore dell’indipendenza. Un analogo referendum si svolge anche in Bosnia nel marzo 1992, con il favore dei musulmani (39,2 percento della popolazione bosniaca secondo le statistiche del 1991) e dei Croati (18,4 percento), ma con l’astensione dei Serbi (32,2 percento). Questi ultimi, in risposta alla dichiarazione di indipendenza della Bosnia-Erzegovina, proclamano la secessione della Repubblica Serba di Bosnia, e con l’appoggio iniziale dell’esercito federale danno il via a una feroce guerra contro musulmani Bosniaci e Croati. Con circa un terzo del territorio sotto controllo serbo, in Croazia arrivano le truppe dell’ONU per garantire il cessate il fuoco, non sempre rispettato. La Bosnia diventa il principale teatro di guerra, con formazioni regolari e irregolari che spesso si confondono, in un intrico di banditismo, mafia, traffici di armi e droga, eccidi di massa, internamenti, spostamenti forzati di popolazione, creazione di campi di concentramento. Sarajevo viene accerchiata e sottoposta a un lunghissimo assedio da regolari e irregolari serbi, che arrivano a controllare il 65 percento del territorio bosniaco. Nel maggio 1992 l’ONU ammette come nuovi membri la Slovenia, la Croazia e la Bosnia ed Erzegovina, e nel 1993 la Macedonia, con il nome di Repubblica ex Jugoslava di Macedonia (FYROM). La Federazione Jugoslava, rifondata a Belgrado nel 1992 con le sole Repubbliche di Serbia e Montenegro, conserva il suo seggio ma è colpita da pesanti sanzioni economiche.
Un conflitto sanguinoso si sviluppa a partire dal 1993 anche tra musulmani e croati bosniaci, inizialmente alleati, che colpisce in particolare la città di Mostar, al confine tra il territorio controllato dalle forze bosniache e la neoproclamata Repubblica Croata di Herceg-Bosna. L’intervento nel conflitto degli Stati Uniti, nel 1994, pone fine alle ostilità tra Croati e musulmani, che ottengono (nonostante l’embargo) aiuti e addestramento in vista di una ripresa del conflitto. Milosevic, che intanto ha disimpegnato l’esercito federale dal conflitto, viene identificato dalla comunità internazionale come l’interlocutore chiave per un accordo tra le parti, data l’inaffidabilità dei leader serbo-bosniaci. Nel 1995 i serbo-bosniaci conquistano le enclavi protette dall’ONU di Zepa e Srebrenica, dove vengono massacrati più di settemila civili musulmani senza che i caschi blu intervengano. Nell’estate del 1995 l’esercito croato riconquista militarmente la Krajina e la quasi totalità della popolazione serba fugge dalle proprie abitazioni. A Sarajevo una granata caduta sul mercato provoca l’ennesima strage e la NATO interviene con pesanti bombardamenti sulle postazioni serbe, favorendo la nuova coalizione tra musulmani e Croati che sfonda le linee serbe penetrando nella Bosnia centrale. Nel novembre 1995 gli USA spingono Milosevic, Tudjman e il presidente musulmano Alija Izetbegovic (1925-2003) a firmare l’accordo di Dayton (Ohio). Nei confronti dei massimi criminali di guerra, in primis i leader serbo-bosniaci, vengono emessi mandati di cattura internazionali da parte del Tribunale Speciale per i Crimini nella ex Jugoslavia (ICTY), che porta alla sbarra e condanna Serbi, Croati e musulmani.
Nel 1997 degenera la situazione in Kosovo. Alla politica di disobbedienza civile del leader Ibrahim Rugova (1944-2006) si sostituisce l’attività militare dell’organizzazione di guerriglia albanese UCK. La dura repressione da parte delle forze serbe, coadiuvate da gruppi paramilitari, e il fallimento dei negoziati tra il governo di Belgrado e gli albanesi kosovari, causato anche dall’ostentata impazienza degli Stati Uniti nei confronti di Milosevic, producono l’inizio dei bombardamenti NATO sulla Jugoslavia (marzo 1999). Le popolazioni albanesi scappano dal Kosovo, sospinte dalle truppe serbe, ma anche dai bombardamenti, che colpiscono obiettivi su tutto il territorio della Jugoslavia. L’esercito jugoslavo si arrende in giugno e le truppe della NATO entrano in Kosovo, che diventa una sorta di protettorato internazionale, nominalmente ancora sotto sovranità serba.
Una soluzione internazionale
In un equilibrio instabile e sotto il controllo delle forze internazionali di pace con mandato ONU, è anche la Bosnia-Erzegovina, suddivisa in una Repubblica Serba di Bosnia e in una Federazione croato-musulmana. Più stabile è la Croazia, che comincia allora un processo di avvicinamento all’Unione Europea, rallentato dai problemi di collaborazione con il Tribunale dell’Aja. La Slovenia è membro della NATO e dell’Unione Europea dal 2004, mentre appare lontana l’ipotesi di un’inclusione della Macedonia, ostacolata sul piano internazionale dall’ostilità greca e sul piano interno dalla presenza di un’inquieta minoranza albanese. La Jugoslavia inizia un percorso di pacificazione in seguito alla sconfitta elettorale di Milosevic nel 2000, arrestato nell’aprile successivo per essere processato dal Tribunale dell’Aja. Nel 2003 la denominazione ufficiale dello Stato diventa Federazione di Serbia e Montenegro e scompare definitivamente il nome Jugoslavia.