La laguna e il mare
La naturale vocazione di Venezia, e prima ancora della "Venetia", per il mare, richiama alla mente remote memorie di relazioni che avrebbero collegato la frangia lagunare altoadriatica con lontane plaghe orientali sin dalla protostoria.
Il recesso più interno e settentrionale dell'Adriatico, vagamente noto ai Greci, ne aveva ispirato diverse leggende, dietro le quali possiamo cogliere l'eco di peculiari esperienze geografiche, commerciali e storiche legate a questo settore del bacino del Mediterraneo e ad un profondo retroterra europeo, che trovava qui il suo sbocco naturale. In queste leggende dovremo riconoscere la memoria, sia pure sbiadita dal tempo, di antiche migrazioni e soprattutto di quel vasto movimento di genti, di merci e di idee, che per più indizi si può oggi identificare con la "diaspora micenea" (1).
Le passeremo in rassegna secondo un'approssimativa cronologia mitologica, mettendone in evidenza alcune costanti, che permettono di cogliere il riflesso di concrete relazioni, motivate soprattutto da interessi commerciali in rapporto ai mercati di approvvigionamento dei metalli e dell'ambra.
Nella fantasia dei Greci dell'epoca classica il paesaggio attorno alle foci del mitico Eridano era legato anzitutto alla leggenda di Fetonte, il figlio del Sole, precipitatovi dal fulmine di Zeus per scongiurare una conflagrazione universale. Fetonte, guidando malamente il carro affidatogli dal padre, l'aveva condotto troppo vicino alla terra, rischiando di incendiarla. Presso la foce dell'Eridano un lago di acqua calda conservava il ricordo del punto dove era avvenuto l'impatto. I boschi tutt'intorno non erano altro che le sorelle di Fetonte, le lacrimose Eliadi, che Zeus aveva trasformato in pioppi; le loro lacrime, tramutate in ambra, stillavano come resina dalla corteccia dei pioppi. Anche l'amico di Fetonte, il re Cicno, dolente testimone della tragedia, era stato mutato in cigno per il suo funereo lamentevole canto (2).
Il mitico Eridano può essere identificato con il Po. Al fiume "Padus" si riferisce espressamente Igino, che ne sottolinea l'identità con l'Eridano (3). Re dei Liguri è detto concordemente Cicno; anzi, Pausania precisa che si tratta dei Liguri della pianura padana, che vivevano a monte dei Galli (4). I Greci ritenevano che ligure fosse la popolazione indigena della pianura padana. Le instabili isole Elettridi andrebbero riconosciute nei banchi sabbiosi che si formano alle foci del Po e che variano a seconda del prevalere dell'azione di deposito del fiume o dell'azione di smantellamento operata dalle correnti marine (5).
L'ambra che vi si trovava non è pura leggenda, come volevano Polibio e Plinio, che l'attribuivano alla fervida fantasia dei poeti greci (6). Gli indigeni che vivevano attorno alle foci del Po la commerciavano effettivamente, sia in epoca preistorica che in età storica, con i navigatori greci, che ne ignoravano la vera e remota provenienza (7). Ne abbiamo ora la riprova concreta nella scoperta archeologica di una notevole quantità di ambre lavorate secondo la tipologia del Miceneo III C (1150-1050 a.C.), rinvenute negli scavi di Frattesina di Fratta Polesine (Rovigo) (8), presso quel ramo fossile del Po che sboccava allora ad Adria (9). Ritroveremo poi fiorente il commercio dell'ambra nella cultura atestina e in età classica a Spina, Adria e San Basilio (10). La circolazione dell'ambra nella Cisalpina perdura in età romana ed è ricordata da Plinio e documentata dai ricchi ritrovamenti effettuati ad Aquileia, Concordia, Oderzo, Altino, Adria e Voghenza (11). I Greci acquistavano l'ambra dagli indigeni alla foce del Po e supponevano perciò che essa fosse di provenienza locale (12). Solo raramente ne hanno intravvista la più lontana origine dalle coste baltiche, adombrandola nella leggenda degli Iperborei, un popolo che avrebbe abitato un'altra foce dell'Eridano, che - staccandosi dalle Alpi con un ramo rivolto a nord - sarebbe sboccato nell'Oceano Settentrionale (13).
Sempre secondo la leggenda fetontea, Zeus, per evitare una conflagrazione generale, avrebbe mandato un'alluvione, che doveva estinguere l'incendio provocato da Fetonte, ma che si trasformò nel diluvio universale. Soltanto Deucalione e Pirra si sarebbero salvati, col rifugiarsi sulla cima dell'Etna (14). Le lagune dell'arco alto-adriatico apparvero alla fantasia dei Greci come l'ultimo residuo del mondo alluvionato, conservatosi nel punto più interessato dal fenomeno, ossia attorno alle foci di quell'Eridano che aveva assistito alla caduta di Fetonte e che aveva prodotto l'alluvione (15).
Il trattatello Delle Meraviglie localizza alle foci dell'Eridano un altro mito, quello dell'ateniese Dedalo (16), che vi si sarebbe rifugiato sfuggendo ai compagni di Minosse (17). Sulle due isole Elettridi, che sbarravano la foce dell'Eridano, Dedalo avrebbe eretto due statue "dedaliche", una di stagno ed una di bronzo, rappresentanti se stesso e il figlio Icaro. Probabilmente, in questa leggenda, ad elementi originari di tradizione micenea si sovrappongono motivi più recenti, che mettono in connessione una direttrice commerciale continentale di approvvigionamento del rame e dello stagno con le manifestazioni dell'arte "dedalica" greca, sviluppatasi soltanto nel VII secolo a.C., ossia nel pieno fervore della colonizzazione storica (18).
La più remota via continentale dei metalli, che dalle rive dell'Oceano - attraverso Tartesso (19) - interessava la penisola iberica, la Francia e l'Italia settentrionale fino alla foce del Po, fu conosciuta dal mondo greco arcaico come la strada di Eracle (20). La leggenda vi localizzava, infatti, la decima delle fatiche di Eracle. Questi, di ritorno da Eritea con la mandria di buoi sottratta a Gerione, avrebbe attraversato l'Europa da Tartesso alle Alpi, per scendere nel Veneto, dov'è attestato il culto di Gerione. Avrebbe poi raggiunto la Sicilia, dove ritroviamo lo stesso culto. Si alludeva così a quella via del rame e dello stagno, che da Tartesso giungeva al Rodano e all'Eridano fin dall'età del Bronzo e che è ricordata nella denominazione delle Alpi Graie, ossia di Eracle.
Anche il mito di Gerione, dunque, interessava il Veneto. Ad Abano, a giudicare dalla testimonianza di Svetonio (21), era venerato come dio benefico in relazione con le virtù medicamentose delle acque termali. Il culto aveva anche carattere oracolare. Tutti e due gli aspetti, del guaritore e del consigliere, sono positivi, come succedeva ad Agira, una cittadina dell'interno della Sicilia, dove parimenti Gerione veniva venerato (22).
Si tratta probabilmente di una divinità pregreca, poi confluita nella leggenda di Eracle, che tra le sue portentose fatiche compie anche quella di lottare contro un Gerione, che è presentato invece negativamente, come un mostro alato e a tre teste, al quale viene sottratta la mandria.
In una fase più tarda a Gerione sembra assimilarsi e sostituirsi un dio Apono, del quale Abano perpetua ancor oggi il nome.
Anche la leggenda di Gerione è spia di remoti contatti confusamente riecheggiati e adattati dai Greci, dal momento che conosciamo una tradizione che fa di Gerione un sovrano indigeno dell'Epiro, regione che ha altri punti di contatto con il sostrato veneto. Nel Veneto il culto di Gerione potrebbe essere messo in rapporto con la diaspora mediterranea dei Pelasgi e con la migrazione di elementi "illirici" verso il Veneto e verso la Sicilia (23).
Nel mito degli Argonauti è adombrata la vasta permeabilità del continente europeo ai traffici, attraverso due grandi vie carovaniere, l'una dal Baltico all'Adriatico, l'altra dal Mar Nero al Mediterraneo occidentale e all'Oceano (Tartesso) (24). La tradizione greca amava raffigurarsi queste arterie commerciali come vie d'acqua, e certo lo furono in gran parte; ma non nel senso voluto dalla fantasia greca, che considerava un solo fiume i corsi contrapposti del Danubio, del Po, del Rodano e del Reno. La verità è che i valichi alpini avevano raggiunto già una notevole permeabilità (25).
Queste più remote leggende greche erano destinate in parte a sovrapporsi ed a confondersi con la diaspora delle genti pelasgiche, che appare meglio individuabile storicamente (26). Infatti Dedalo sarebbe fuggito dalle isole Elettridi per rifugiarsi nell'isola Icaria all'arrivo dei Pelasgi (27). Anche la saga degli Argonauti presenta legami con la tradizione pelasgica (28): un legno della nave Argo aveva linguaggio profetico, perché era stato tagliato dalla quercia profetica che si venerava a Dodona (29), donde aveva preso le mosse la diaspora pelasgica. Questa venne poi considerata parzialmente coeva alla spedizione degli Argonauti e difatti questi ultimi, risospinti da una tempesta sulla costa, poterono essere scambiati dal re Cizico per pirati pelasgici (30).
La diaspora pelasgica era datata da Ecateo di Mileto a due o tre generazioni prima della guerra di Troia, ossia nel XIII secolo a.C. (31). I Pelasgi, scacciati dai Greci dalla loro terra, la Pelasgiotide, attraversarono la Molossia e raggiunsero l'Adriatico, donde irradiarono nel Mediterraneo (32). Quelli sbarcati alla foce del ramo padano detto Spinete proseguirono da Ravenna oltre l'Appennino fino a Cortona, che sarebbe servita di base per la conquista dell'Etruria. Precisa la leggenda che tutti quelli che non erano idonei a proseguire la spedizione furono lasciati a custodire le navi e fondarono una città alla foce del fiume, Spina (33). La palizzata che circondava la città ha trovato conferma archeologica negli scavi dell'abitato di Spina e nella sua prima fase doveva già esistere quando scriveva Ellanico (34).
La leggenda narrata da Dionisio dovette precisarsi nel periodo di maggiore fortuna dei commerci greci nell'Adriatico settentrionale, quando Spina svolgeva una funzione di cerniera tra la cultura greca ed il mondo centro-europeo ed etrusco-padano in primo luogo. In un simile contesto economico e culturale non riesce agevole distinguere fino a che punto i Greci avessero realmente chiara la natura dei loro più remoti contatti con la regione padana e non indulgessero piuttosto a fittizie ricerche di comuni origini, utili a fine propagandistico(35).
Dionisio d'Alicarnasso, riprendendo la leggenda, vi aggiunge numerosi particolari, che rientrano sia nel suo schema ricostruttivo, sia nella tendenza della storiografia d'età augustea rivolta a valorizzare l'elemento pelasgico (36). Comunque, la tradizione di una colonizzazione "pelasgica" alla foce del fiume Spinete sembra postulare almeno il vago ricordo di un concreto evento storico, che l'abbia ispirata.
Una testimonianza parallela sembra che si possa riconoscere in Pompeo Trogo (37), vicino alla problematica di Dionisio d'Alicarnasso (38). Nell'epitome che ne ha redatto Giustino, Spina è detta in territorio umbro e la sua fondazione è attribuita ai Tessali. In maniera analoga Strabone l'associa alla vicina Ravenna, tessala e poi umbra (39). Dalla Tessaglia provenivano appunto i Pelasgi e pertanto ci ritroviamo davanti alla stessa tradizione tramandataci da Ellanico e da Dionisio. Il legame con la Tessaglia potrebbe essere stato rivalutato nella seconda metà del V secolo a.C. dall'elemento attico in relazione con il ravvivarsi in quegli anni della vecchia alleanza fra Ateniesi e Tessali, i quali forse rinnovarono nel 438 il trattato tessalo-ateniese. La presunta fondazione di Spina da parte di Pelasgi della Tessaglia poteva facilitare l'accoglimento del tesoro spinetico a Delfi, come era avvenuto per l'etrusca Caere ossia 1'Agylla parimenti fondata dai Pelasgi della Tessaglia, i quali avrebbero fondato anche il vicino santuario di Iliithya a Pyrgi (40).
Alla tradizione sulle origini "pelasgiche" di Spina, se ne affianca un'altra, che attribuisce all'eroe Diomede la fondazione della città (41). La presenza di Diomede è ben attestata lungo le coste dell'Adriatico (42); in questo contesto dovremo perciò collocare anche la testimonianza relativa a Spina (43). In questo caso avremmo un filone di tradizione distinto da quello pelasgico di cronologia pre-troiana, in quanto Diomede rientra nel ciclo dei nòstoi successivi alla caduta di Troia, a meno che non si tratti del più antico Diomede re di Tracia (44), legato al culto dei cavalli (45).
Anche per questo culto, parallelamente a quanto è avvenuto per quello di Gerione, dobbiamo ammettere un fenomeno di sincretismo tra i due personaggi mitici e quindi tra le due cronologie. L'eroe Diomede del nòstos troiano appare collegato, d'altra parte, con molti altri eroi dello stesso ciclo, come i due troiani Enea ed Antenore (46), e sembrerebbe pertanto da riferire al secondo periodo di migrazioni.
Con questa più ampia e massiccia migrazione di popoli in ambito mediterraneo in una fase più tarda della protostoria "post-troiana" potrebbe collegarsi la denominazione della "fossa Philistina" nell'ambiente lagunare alto-adriatico (47). Se il suo nome risultasse veramente in rapporto con i Filistei, non potremmo dimenticare che essi parteciparono con gli Achei e gli altri "popoli del mare" all'attacco sferrato contro l'Egitto nel 1127 a.C. (48). I Filistei sono stati riconosciuti come Illiri e s'inserirebbero quindi perfettamente nella protostoria della regione veneta (49).
Dall'età mitica affiora del resto il ricordo di opere artificiali di canalizzazione, intraprese per facilitare la navigazione interna oppure a semplice scopo di bonifica. In questa sfera mitica rientra infatti il canale navigabile tracciato alle spalle del Gargano da Diomede (50), il mitico esploratore dell'Adriatico, che si era spinto fino al porto alle foci del Timavo (51). Cogliamo in queste narrazioni l'eco delle esplorazioni, dei commerci e forse di una forma di precolonizzazione di età micenea fino alle foci del mitico Eridano, dove ci si andava a rifornire dell'ambra, ma dove non è escluso che questa venisse lavorata localmente da maestranze di cultura micenea (52).
In definitiva, le varie leggende non sembrano presentare un contrasto insanabile, in quanto riportano alla stessa fase protostorica, all'epoca della diaspora micenea, la fondazione di Ravenna, Spina, Adria, Padova e altri emporii frequentati dalle marinerie greche in età precoloniale. Non è da escludere, pertanto, che quei Greci che vennero a contatto con le città alto-adriatiche di epoca classica abbiano potuto rintracciarvi dei culti del sostrato, che - sia pur vagamente - sembravano richiamarsi al mondo greco e che potevano subire il sincretismo con il culto dell'eroe argivo Diomede per effetto di quegli scambi commerciali, ma anche culturali, che vennero ad instaurarsi con la Grecia, soprattutto tramite i mercanti corciresi, dagli ultimi decenni del VI secolo a.C. (53).
Il vecchio e saggio eroe troiano Antenore si sarebbe salvato dall'eccidio finale di Troia, secondo la narrazione della Piccola Iliade andata perduta. Vi si sarebbero ispirati sia il pittore Polignoto, sia il poeta tragico Sofocle, che faceva fuggire il vecchio eroe seguito dai figli e dagli Eneti della Paflagonia fino nel Veneto. Qui ne troviamo la riprova nella presenza del suo culto alla foce del Timavo, a Padova e sui colli Euganei, dove viene ad affiancarsi a quello dell'eroe greco Diomede anch'egli reduce da Troia, così come sul Tirreno si affiancano le vicende del ritorno di altri due eroi l'uno troiano e l'alto greco, Enea ed Ulisse (54).
All'eroe viene attribuita la fondazione di una nuova Troia in territorio euganeo, un "pagus Troianus" che sembra distinto da Padova, che invece più tardi verrà considerata come la città fondata da Antenore. La presenza della cultura paleoveneta è particolarmente significativa a Padova, e nella necropoli del Piovego sono state rinvenute quelle sepolture di cavalli che si collegano col culto di Diomede (55). Una straordinaria fortuna il mito d'Antenore conobbe nel clima preumanistico della Padova del tardo Dugento (56).
Soltanto l'archeologia potrà dirci quanto delle mitiche origini delle città dell'arco veneto può dalle vaghe aure del mito entrare nella concretezza delle nostre conoscenze protostoriche. I primi passi in questa direzione sono stati già mossi.
Concrete testimonianze archeologiche riferibili alla cosiddetta diaspora "pelasgica" sono state rinvenute nel retroterra e nella laguna veneta, sull'Adige a Montagnana e sul Po di Adria a Frattesina di Fratta Polesine. Qui è emersa una facies culturale attribuibile ad un momento attardato dell'età micenea (Miceneo III C, circa i 1150-1050 a. C.) (57), quello che si conclude appunto con lo sconvolgimento del Mediterraneo ad opera dei "popoli del mare", tra i quali figuravano quei Filistei, che potrebbero essere messi in relazione con la "fossa Philistina" documentata ad Adria. È probabile, pertanto, che ad un'Adria protostorica vadano riferiti questi ritrovamenti archeologici, o almeno ad un emporio del suo retroterra, collocato alla confluenza di due grandi arterie fluviali, ora fossili, corrispondenti al Po e all'Adige.
Più a nord, alla foce di un antico ramo settentrionale del Brenta, che forse ricadeva pure nella frangia lagunare in cui si confondevano le acque padane e venete, alcuni vasetti micenei furono rinvenuti a Mazzorbo e si conservano ora nel Museo di Torcello (58). Sono l'indizio di una penetrazione micenea fin nell'angolo più settentrionale dell'Adriatico.
Della precoce vocazione marinara dei Veneti stanziati attorno alla frangia lagunare alto-adriatica, naturalmente adatta a favorire i traffici per via d'acqua, offre a parer nostro un prezioso indizio il riferimento che gli antichi facevano ad un colore "veneto". Era il colore delle vele venete, che potevano così mimetizzarsi confondendosi col mare e col cielo, come certo faceva comodo a marinai, che erano soliti esercitare la pirateria.
Delle più antiche relazioni marinare di Padova e dei suoi commerci abbiamo un'interessante testimonianza in un cratere di ceramica dauna del VII secolo a.C. (59).
Assai più ampia è la documentazione degli scambi intercorsi a partire dall'inizio del VI secolo, soprattutto attraverso Adria, sorta alla foce di un importante ramo padano, che le consentì di fungere da cerniera tra l'Adriatico e l'interno della pianura padana per tutto il VI secolo e per parte del successivo (60).
Nella seconda metà del VI secolo gli scali sulla costa veneta aumentano. Ben documentato dai recenti scavi risulta quello di San Basilio, sorto alla foce di un minore ramo padano. La presenza contemporanea di ceramica corinzia, ionica e soprattutto attica dimostra la vastità dei traffici commerciali che vi giungevano e che vi si saldavano alla via interna proveniente dal settentrione, come suggerisce la compresenza dell'ambra (61).
Uno scalo minore fiorì nella stessa epoca anche a Taglio di Po, ossia alla foce del Po di Adria, dove è stata rinvenuta ceramica attica. Nella vicina Contarina è stato rinvenuto un bronzetto etrusco di Eracle, sempre del VI secolo, che attesta le relazioni tra l'Etruria e la fascia alto-adriatica. Lungo la rotta fluviale in direzione di Mantova si localizzano due tappe intermedie: a Gavello, dove è stato rinvenuto un bronzetto etrusco di cavaliere degli inizi del V secolo, e a Borsea, dove è stato rinvenuto un corredo di bronzi etruschi (62).
Negli ultimi decenni del VI secolo un importante emporio viene fondato su un'altra foce padana, che si avvia a sostituire nella sua funzione di cerniera commerciale quella del Po di Adria. Si tratta di Spina, impiantata sul Po di età classica, che viene a realizzare un collegamento più rapido tra la costa adriatica e l'Etruria propria tramite Felsina (Bologna) e Marzabotto. A Spina giungeranno da Atene i prodotti ceramici più prestigiosi della tecnica a figure rosse tra il secondo quarto del V e l'inizio del IV secolo a.C., sia per la richiesta del mercato locale che per essere avviati verso l'interno della pianura padana; ma sono documentate relazioni più vaste, anche se meno consistenti, sia per mare con Corfù, Corinto e la Ionia, sia all'interno con il Veneto e con l'Etruria propria (63).
Più a nord una funzione analoga, anche se più limitata, viene a rivestire il porto di Altino, come comodo sbocco di un vasto retroterra veneto, che la tradizione vuole ricco di cavalli e di messi (64).
La tradizione antica attribuisce agli Etruschi una particolare capacità nel settore dell'ingegneria idraulica. All'inizio del V secolo d.C. Rutilio Namaziano descrive sulla costa etrusca il canale d'accesso ai "Vada Volaterrana" in un brano particolareggiato, che ci illumina anche sulla segnaletica usata nei canali navigabili che attraversano le secche e le lagune, non molto dissimile da quella rimasta viva nella Laguna Veneta (65).
Anche per l'Etruria Padana abbiamo esplicito ricordo di canalizzazioni etrusche in Plinio il Vecchio, a proposito della "fossa Flavia", nella laguna di Adria (66). Sempre in territorio di Adria risalgono ad epoca preromana sia la "fossa Philistina", forse semplice sistemazione di un antico ramo padano senescente (67), sia le varie "fossiones" ricordate da Strabone, da Vitruvio e da Plinio, ossia quelle "tagliate" trasversali del tombolo costiero che chiude la laguna veneta, necessarie per mantenerla viva e per assicurare il collegamento navale delle varie città parafluviali e lagunari con il mare aperto (68). Strabone si sofferma a precisare che erano raggiungibili attraverso canali diverse città venete, come Opitergium, Concordia, Adria e Vicenza; alcune con una semplice tagliata tra il mare e la laguna. Più minuzioso risulta Vitruvio, quando spiega che le lagune vanno mantenute vive tramite l'escavazione di tagliate litoranee, portando a modello proprio la Laguna Veneta.
Conosciamo uno di questi collegamenti idroviari tra una città lagunare e il mare aperto grazie alle ricerche di Nereo Alfieri sullo sbocco portuale di Spina (69). La fotografia aerea e i conseguenti saggi di scavo archeologico hanno rivelato un canale navigabile largo almeno 15 metri e lungo circa 2 chilometri.
Una testimonianza significativa sulla permeabilità alla navigazione della zona lagunare veneta ci è fornita da Livio nell'ambito della narrazione della spedizione dello spartano Cleonimo, che nel 302 cerca di crearsi un regno nell'Italia meridionale (70). Costretto dai Romani ad abbandonare "Thuriae", la città salentina che aveva occupato (71), e a portarsi a nord di Brindisi, ultimo porto sicuro, egli viene a trovarsi tra due pericoli e, tra l'uniforme costa italiana e i barbari della opposta costa illirica, non gli resta che navigare mantenendosi prudentemente in mezzo all'Adriatico; situazione che gli consente, non ostacolato dalla corrente costiera discendente, di spingersi molto a nord, fino a toccare il litorale della Laguna Veneta. Livio descrive in questa occasione i luoghi quale testimone diretto. Va sottolineata una precisazione fornita nella descrizione dell'assalto alla flotta di Cleonimo; si apprende che il porto lagunare distava dalla città di Padova 14 miglia, che corrispondono all'incirca alla distanza attuale tra Padova e la sponda interna della laguna. In particolare, Livio precisa che il fiume imboccato era il "Meduacus", che ci fa pensare al "Meduacus Maior", che sboccava in Laguna nel sito denominato significativamente "ad Portum" dagli itinerari romani, che lo ricordano a 15 miglia da Padova (72). Abbiamo, quindi, sostanziale coincidenza tra Livio e le più tarde fonti itinerarie; lo scarto di appena un miglio su 15, se reale e non legato a due criteri di computo differenti, potrebbe far pensare ad un arretramento della soglia lagunare in seguito alle bonifiche operate dai Romani ai margini dell'area centuriata. Il sito del porto padovano di età romana conosciuto da Livio può identificarsi probabilmente con Porto Menai (73).
Va osservato in proposito che Strabone pone Padova a ben 250 stadi (ossia circa 31 miglia romane) dalla foce del "Meduacus" (74), che in questo caso si sarebbe trovata ad una distanza doppia dalla città rispetto a quella indicata da Livio per la "statio navium". La contraddizione è solo apparente: sappiamo infatti dallo stesso Livio che il porto era situato all'interno, sulle tranquille acque lagunari, ossia allo sbocco del Brenta in Laguna, mentre Strabone si riferisce alla foce, ossia allo sbocco in mare aperto alla fine di quel corso lagunare che andava probabilmente da Porto Menai a Malamocco, dove possiamo arrivare con i 250 stadi indicati da Strabone(75).
Da notare anche l'accenno di Livio alle tipiche imbarcazioni lagunari usate dai Padovani, a scafo piatto per superare le secche (76). L'episodio narrato da Livio era ancora vivo nella tradizione padovana e si continuava a commemorare la vittoria con una rappresentazione di battaglia navale sul fiume in mezzo alla città, mentre i rostri delle navi prese a Cleonimo, che perse i 4/5 della flotta, si conservavano fino a poco prima nel tempio di Giunone, a simboleggiare la potenza navale di una città, che oggi saremmo portati a considerare poco marinara (77).
Il naturale ruolo di cerniera tra il Mediterraneo e l'Europa centrale della Cisalpina fu potenziato per effetto della conquista romana: prima per l'interesse strategico, poi anche per il rilevante potenziale economico della regione, diventata vitale per il rifornimento di Roma, fino a venire inclusa nel territorio metropolitano d'Italia. I precedenti etruschi, l'intensa poleografia e la capillare colonizzazione romana ne avevano fatto un'area vivace per cultura ed economia, oltre che la chiave per l'espansione di Roma nel Nord.
Dopo la fondazione della colonia di Rimini, i Romani cominciarono a commerciare con la pianura padana, servendosi soprattutto del Po per la penetrazione nella regione che fu presto così profonda da permettere di occupare le confluenze dell'Adda e della Trebbia e di fondarvi nel 218 le due piazzeforti avanzate di "Cremona" e di "Placentia" per controllare le varie tribù galliche. Le due colonie continuarono a essere rifornite tramite il Po nel corso della seconda guerra punica. In seguito, però, le tappe della conquista e della romanizzazione della Cisalpina furono scandite dalla costruzione di tre grandi strade: l'Emilia, la Postumia e la Popilia-Annia; ma non per questo venne meno il ruolo tradizionale della navigazione padana, che continuò a convogliare i trasporti pesanti e fu parzialmente integrata nel sistema postale istituito in età augustea (78).
Accanto al Po anche i fiumi dell'arco veneto erano allora navigabili (79), a cominciare dal Tartaro, che collegava Adria con il sistema dei canali endolagunari e con il mare aperto. Ad Adria è documentato un "collegium nautarum", che il Waltzing ha riferito ai traffici fluviali sul Tartaro, mentre l'Alfieri l'ha visto meglio motivato dai più consistenti traffici endolagunari lungo i canali imperiali tra Ravenna ed Altino (80). Particolare importanza aveva la navigazione sull'Adige, perché questo fiume si addentrava profondamente nelle Alpi verso i valichi della Rezia. I Romani non lo considerarono però come un fiume indipendente, ma come un tributario del Po, con il quale si confondeva nella Laguna Veneta (81). L'Adige difficilmente sarà stato navigabile oltre la confluenza dell'Isarco (82): nel settore superiore si potevano fluitare i legnami; nella parte inferiore circolavano i marmi veronesi; con il flusso di ritorno, le anfore della "Baetica", che giungono ad Aquileia, si spingono almeno sino a Verona (83).
Anche altri fiumi veneti non hanno autonomia nella visione romana, perché nella Laguna vengono a mescolare le loro acque con quelle padane e a consentire il passaggio delle imbarcazioni dall'uno nell'altro (84).
Il Brenta, con il relativo porto di Brondolo alla foce, sembra ricollegarsi ad un'antica tradizione di scambi tra le due sponde dell'Adriatico (85). Le diramazioni del Brenta permettevano di raggiungere Padova, che continuava a essere un grosso emporio anche in età romana, quando riforniva soprattutto Roma. Il suo sbocco principale era detto "ad Portum", il porto per eccellenza, e corrisponde forse a Porto Menai. Questa navigazione proseguiva fino a Vicenza, come ricorda esplicitamente Strabone. Dalla Valsugana lungo il Brenta si fluitava il legname, secondo una consuetudine mantenutasi viva fino al secolo scorso (86).
Numerosi erano i collegamenti fluvio-lagunari nel Veneto Orientale in funzione di "Altinum" e di "Tarvisium" sul Sile; mentre lungo il Piave veniva fluitato verso Altino il legname proveniente dal Cadore. "Opitergium" era collegata dalla "Liquentia" con il porto omonimo e Concordia mediante il Lemene con lo sbocco portuale di Càorle, l'antico "portus Reatinus". Il "Tiliaventus", che separava il territorio veneto di Concordia dalla colonia di Aquileia, permetteva di addentrarsi in Carnia (87). Alla foce del Natisone vedremo svilupparsi prepotentemente il porto di Aquileia, vero predecessore di Venezia. In relazione con la navigazione dell'Isonzo ("Sontius") va posta forse l'imbarcazione romana di Monfalcone (88). Sull'estremo vertice orientale della laguna veneta era situato infine il porto del Timavo, punto di riferimento della navigazione alto-adriatica per le possibilità di acquata e per l'antichissimo culto delle sue fonti (89).
L'apparato fluviale padano-veneto non costituiva però da solo una rete di navigazione interna abbastanza organica ed efficiente, a causa dell'andamento pressoché parallelo dei vari rami. Per essere funzionale essa richiedeva collegamenti trasversali tra i corsi fluviali e, nelle lagune, "fossae" profonde e ben segnalate.
Abbiamo visto che una serie di opere artificiali era stata intrapresa già in età protostorica; i Romani, a loro volta, continuarono e potenziarono in un'ottica più vasta questa tradizione. In territorio veneto continuò ad avere importanza la "fossa Philistina" (90).
Interventi più significativi furono dovuti ad Augusto, che elaborò un programma di potenziamento della rete viaria, alla quale nelle zone di pianura affiancò una serie di canali navigabili. Nell'area lagunare veneta è ricordata dai documenti medievali una "fossa Augustula" presso Chioggia (91).
Lo sviluppo di Ravenna come sede della flotta rese urgente il suo collegamento al Po con quell'altra più famosa "fossa Augusta" (92), che le dava un adeguato retroterra, la pianura padana. Si riattava così l'antico ramo meridionale padano, detto Padusa da Plinio (93). All'imperatore Claudio, cui si devono i grandiosi ampliamenti del porto di Aquileia e la viabilità della zona alpina orientale, si deve il prolungamento del canale navigabile verso settentrione in rapporto con Altino (94).
Nel corso del I secolo la linea di navigazione interna fu realizzata con continuità tra Ravenna ed Altino. Plinio, che visse mentre l'opera veniva compiuta, la stima lunga 120 miglia (95).
La linea di navigazione paralitoranea, protratta fino ad Aquileia, conservò la sua funzione anche più tardi, specialmente con il trasferimento della capitale a Milano in seguito alla riforma di Diocleziano, quando Aquileia venne a trovarsi sulla via preferenziale per "Sirmium" e per Bisanzio e divenne probabilmente sede del "praefectus classis Venetae" e quindi base di una parte della flotta romana (96).
Anche l'altro polo crebbe d'importanza con lo stabilirsi della corte a Ravenna nel 404. Si capisce perciò l'importanza dei collegamenti tra le due basi, specialmente in periodo di mare clausum.
Soprattutto Aquileia fu in grado di ospitare un ricco traffico mercantile e per qualche tempo anche la flotta militare, funzionando così da prestigiosa cerniera tra le vie carovaniere del centro Europa e le rotte che vi convergevano da tutto il Mediterraneo (97), come Adria e Spina in epoca greca, come Venezia nei secoli di mezzo e Trieste in età moderna.
Situata nel recesso più settentrionale dell'Adriatico, quasi alla foce del Natisone, ma ancora abbastanza all'interno per non dover subire gli inconvenienti delle maree e dell'acqua alta (98), Aquileia risultava collegata sia al mare che alla frangia lagunare, che dava accesso alle varie arterie fluviali della "Venetia" e più in generale della Cisalpina (99). Ad essa si indirizzavano inoltre le grandi strade della pianura padana e da essa diramavano le strade per i bassi valichi delle Alpi Orientali verso i territori danubiani della Rezia, del Norico, della Pannonia e verso la Dalmazia (100).
Aquileia irradiava per questi tramiti verso l'Europa Centrale le vettovaglie provenienti dal bacino del Mediterraneo e i raffinati prodotti dell'Oriente indispensabili rispettivamente per gli eserciti impegnati sulle frontiere settentrionali e per le esigenze della corte, quando questa risiedeva ad Aquileia o a Milano (101).
La sua floridezza fu affidata tecnicamente al porto-canale ricavato lungo il corso del fiume Natisone che la fiancheggiava. Il porto era molto attivo, a giudicare dalla ammirata descrizione di Strabone: "Aquileia fu fondata dai Romani e destinata a servire da baluardo contro le popolazioni barbare dell'interno. Le navi mercantili per giungervi debbono soltanto risalire il corso del Natisone per 60 stadi al massimo. I Romani vi hanno aperto un mercato per gli Illiri che abitano sulle rive del Danubio; questi vengono ad acquistarvi i prodotti di origine trasmarina [τὰ ἐϰ θαλάττηϚ>, specialmente il vino, riempiendo delle botti di legno, che caricano su pesanti carri, ma anche l'olio, e danno in cambio schiavi, bestiame e pelli" (102). Strabone aggiunge alcune indicazioni sulle miniere d'oro e di ferro del Norico, che trovavano evidentemente anch'esse uno sbocco sul Mediterraneo ad Aquileia (103).
Va notato che Strabone precisa la distanza di Aquileia dal mare in 60 stadi (ossia 7,5 miglia) (104), mentre secondo Plinio ne disterebbe esattamente il doppio (ossia 15 miglia) (105). La distanza fornita da Strabone potrebbe essere stata ricavata dalla lunghezza della strada - attestata più tardi - che attraversava la laguna da Aquileia a Grado. Il dato pliniano potrebbe essere spiegato in riferimento alla navigazione da Aquileia fino al mare aperto (106).
Interessante risulta anche la descrizione di Erodiano, a proposito dell'assedio di Aquileia del 238. Aquileia vi risulta una ricca città agricola, industriale, ma soprattutto commerciale. Purtroppo, degli ampi traffici tra l'Adriatico e le province del Norico e della Pannonia, l'unica merce esplicitamente indicata è il vino (107). Aquileia vi appare ancora come la grande metropoli portuale dell'Adriatico, il punto finale delle navigazioni provenienti da sud ed il punto di partenza per i paesi danubiani. Questo permette altresì di capire perché diverse comunità di Orientali vi si fossero installate (108).
Il principale corrispettivo di Aquileia era costituito dal porto di Alessandria alle soglie dell'Oriente. I collegamenti abituali tra questi due poli del commercio di età romana imperiale furono diretti ed affidati ad uno speciale naviglio di grossa stazza. Scarseggiano nelle fonti precise notizie al riguardo.
Un documento ufficiale, 1'Edictum de pretiis di Diocleziano, prevede una linea di navigazione diretta da Alessandria ad Aquileia, per la quale stabilisce un nolo di 24 denari per ogni modio castrense (109). Questa fonte, preziosa quanto laconica, pone diversi interrogativi; innanzi tutto due: quali fossero le merci usuali su questa linea di navigazione e quale la rotta seguita.
Al primo quesito potremmo rispondere che doveva trattarsi di "aridi", come suggerisce l'unità di misura impiegata - il doppio modio. Derrate misurate alla grossa, con il modio castrense, erano con tutta probabilità soltanto i cereali e sappiamo del resto che l'Egitto era allora il granaio dell'Impero. La necessità di rifornire Milano, la nuova capitale occidentale, e gli eserciti delle province transalpine spiega la presenza di questa rotta nell'editto.
Per il secondo quesito abbiamo un indizio nel prezzo, che possiamo mettere a confronto con quello del nolo dall'Oriente ad Aquileia, fornito dallo stesso contesto dell'editto (110). Per la stessa merce si pagavano 22 denari di nolo dall'Oriente, invece dei 24 richiesti partendo da Alessandria, ossia 1/12 in meno. Se ammettiamo che per Oriente si debba intendere essenzialmente il suo porto più insigne, che era allora Antiochia sull'Oronte, assai più lontana, possiamo avanzare differenti spiegazioni: in primo luogo un protezionismo per Alessandria, considerata vitale per l'annona; oppure il maggior rischio della traversata non a vista tra la sponda africana e Creta; se poi, per evitare questo rischio, si preferiva allungare il percorso in modo da non perdere mai di vista la costa, la navigazione veniva a saldarsi con quella dell'Oriente e risultava pertanto più lunga e più costosa.
Tutte queste spiegazioni riflettono vari aspetti della realtà in relazione soprattutto alla diversità dei tipi di imbarcazioni adoperate in questi collegamenti.
Cominciamo con il considerare le navi frumentarie, lunghe una cinquantina di metri e capaci di trasportare un carico di 200/250 tonnellate di grano e un migliaio di passeggeri (111). Queste navi andavano da Aquileia ad Alessandria diritte come frecce: esse potevano compiere la navigazione in una sola tappa di dieci giorni; ma al ritorno, quando trasportavano il grano, venivano a navigare controvento. I tempi di navigazione erano così almeno raddoppiati rispetto all'andata, che di solito era favorita dalla bora e dagli etesii.
D'altra parte, le piccole imbarcazioni erano vincolate ad una navigazione di cabotaggio; dovevano tenere sempre la terra a vista e di conseguenza compivano il giro della costa egiziana e siriaca per poi immettersi nella rotta orientale. Imbarcazioni medie potevano evitarlo e tentare il traghetto diretto per Creta. Alla fine del II secolo il giurista Cervidio Scevola ci ha lasciato il ricordo di una nave che portava grano e olio dalla Cirenaica ad Aquileia (112).
Un trentennio dopo l'editto di Diocleziano i cereali dovettero cessare di essere avviati ad Aquileia: la fondazione della nuova capitale, Costantinopoli, ne rese necessario il rifornimento annonario, che fu affidato essenzialmente all'Egitto(113).
Da questo momento Alessandria non avrà potuto mandare ad Aquileia che i prodotti di lusso dell'Oriente e dell'Africa, sui quali disponiamo di diverse indicazioni in fonti disparate. Talora abbiamo indicazioni vaghe, come nel caso di quel negoziante di merci orientali che non poteva certo sbrigare i suoi affari ad Aquileia in due giorni soltanto, come voleva far credere Rufino (114). Talora rintracciamo indizi per merci specifiche, in particolare:
‒ 1) le perle che Alessandria a sua volta riceveva dall'Arabia e dall'India. L'epigrafia ricorda un negotiator margaritar(um), che da Roma si era trasferito sulla piazza più idonea ai suoi traffici, ad Aquileia (115), dove del resto sono state trovate collane di perle (116);
‒ 2) i profumi, provenienti dall'Arabia e dall'India o ricavati dalla mirra africana (117);
‒ 3) le pietre preziose per incidere le gemme, che erano lavorate in abbondanza ad Aquileia; molta materia prima veniva concentrata ad Alessandria dall'India e dalla Persia (118);
‒ 4) il papiro, che si produceva soltanto nella valle del Nilo (119). Se ne esportavano grossi contingenti ad Aquileia per le esigenze della burocrazia imperiale e poi ecclesiastica, oltre che per rifornire un vasto retroterra;
‒ 5) i porfidi e i graniti, che si trovano adoperati in strutture di pregio ad Aquileia e nella Cisalpina in generale.
Dovremo aggiungere, benché non specificamente indiziati: seta dalla Cina, cotone dall'India, spezie dall'India e dalla Indonesia (pepe, zenzero, cinnamomo).
Altri indizi si ricavano dalle stesse mode e dal gusto, che rivelano ad Aquileia un accentuato influsso culturale egiziano, legato anche all'afflusso di molti orientali (tra cui proprio egiziani), trasferitisi ad Aquileia per il richiamo offerto dalle sue attività commerciali (120).
Se i culti egiziani, non soltanto di Iside, ma anche di Serapide, sono cosa troppo comune in età imperiale, occorre anche considerare che da Aquileia essi irradiarono verso le province settentrionali (121). Pure si osservi che da qui si diffuse nelle province settentrionali il Cristianesimo, anche se non ne abbiamo documenti precoci e tanto meno dell'età apostolica; ma è pur vero che la tardiva leggenda di san Marco riflette gli antichi collegamenti con Ravenna attraverso la laguna e quelli marittimi con Cirene ed Alessandria (122). Ne possiamo cogliere una traccia nella diffusione del culto di san Mena nell'alto Adriatico (123).
Ci domanderemo a questo punto cosa riportassero in cambio queste navi ad Alessandria. Non lo sappiamo, perché le fonti non ce lo dicono. Testimonianze come quella di Strabone sul porto di Aquileia non ci riguardano, perché le sole merci che egli ricorda (schiavi, bestiame e pelli) non potevano interessare l'Egitto e l'Oriente, fornitori di schiavi raffinati e di pelli pregiate, come la pergamena. Nella stessa epoca delle fonti di Strabone le anfore italiche giunsero fino ad Alessandria, ad "Athribis" e a Gerusalemme, indizio di un traffico secondario (124). Così l'editto di Diocleziano ricorda come merci usuali la lana di Altino e le mele Matiane, ma si tratta di generi di interesse limitato (125).
Rimane molto spazio per le ipotesi: penserei ai metalli del Norico (126) e ai legnami. Soltanto il legname mantenne un commercio attivo anche dopo la fine dell'impero romano, perché le regioni meridionali del Mediterraneo difettavano di legname. Le marinerie - d'altra parte - ne richiedevano di pregiato, specialmente per la costruzione di imbarcazioni di grossa stazza, come quelle dei convogli granari e poi, in epoca tarda, della flotta di Alessandria. Anche l'architettura pubblica richiedeva legname pregiato.
Dovremo ricordare che al flusso commerciale si aggregavano masse di passeggeri, senza che il loro trasporto costituisse nel mondo antico lo scopo delle linee di navigazione, come è del resto rimasto in uso fino al secolo scorso.
Se passiamo ora a considerare le rotte preferenziali, notiamo come anche per questo aspetto più tecnico del problema i dati conservatici dalle fonti non siano numerosi e riguardino piuttosto viaggi occasionali od eccezionali, come per alcune avventurose traversate descritte negli Atti degli Apostoli ed in altri testi agiografici e letterari (127).
Un solo portolano greco conserva questo tragitto, il periplo che va sotto il nome di Scilace (128). Non è molto utile, in quanto descrive la rotta di cabotaggio, che richiedeva un tempo di percorrenza lunghissimo. Dettato da esperienza pratica, non si sofferma sull'importuosa costa italiana dell'Adriatico, mentre precisa i porti della costa dalmata e liburnica, ricca di colonie greche (129).
Costeggiata la Grecia fino al promontorio di Malèa, si affrontava la traversata del Mediterraneo appoggiandosi al ponte di isole costituito da Cerigo e Cerigotto fino a Falasarna, sul lato occidentale di Creta. La traversata richiedeva una giornata di navigazione. Si affrontava poi la navigazione in direzione sud, senza terra a vista, fino a Ras at-Tin; essa richiedeva una giornata e una nottata intere di navigazione.
C'era anche un'altra possibilità, ricordata dallo "Stadiasmo" del Mediterraneo: si poteva costeggiare Creta fino a "Phoenix" e poi attraversare appoggiandosi a Gozzo (300 stadi); oppure si poteva costeggiare fino a Hierapytna e di là - se l'imbarcazione era abbastanza robusta - si poteva affrontare la più lunga traversata diretta fino al porto d'Alessandria, evitando il cabotaggio delle coste africane, con due o tre giorni di navigazione (130).
Il traghetto che sfruttava l'appoggio dell'isola di Gozzo era ancora adoperato nel medioevo (131). L'ultimo tratto della navigazione era costituito dalla rotta di cabotaggio tra la Cirenaica ed Alessandria (132).
Tutto questo valeva per i grandi convogli, che avevano una meta precisa da raggiungere in tempi brevi, soprattutto nel caso di trasporto di cereali per il rifornimento della corte imperiale e degli eserciti che operavano nelle province settentrionali. Invece un mercante in cerca di profitti poteva avere interesse ad effettuare parecchi scali lungo la rotta che si prefiggeva.
Sull'Adriatico la rotta principale era quella orientale, lungo la quale si svilupparono un certo numero di scali tecnici, che divennero anche grossi mercati e splendide città, quando, trovandosi allo sbocco di profonde vallate, polarizzarono le attività economiche di un vasto retroterra.
Nella seconda metà del IV secolo si sviluppa un centro portuale alla foce del Natisone, Grado, che prende il nome dalla sua collocazione (133). Un po' alla volta il nuovo centro verrà ad ereditare la funzione di Aquileia, per il concorrere di diversi fattori storici ed ambientali.
In quest'epoca i traffici diretti erano diminuiti e anche la rotta africana aveva soprattutto interesse locale. I grandi convogli puntavano soprattutto su Costantinopoli. Aquileia, tuttavia, fu spesso sede della corte e richiamò, perciò, almeno i mercanti di merci orientali e preziose. Certo i nuovi traffici comportarono una riduzione della stazza del naviglio e determinarono quindi un tipo di navigazione nella quale il cabotaggio aveva più spazio; questo ci spiega la documentazione tardiva di molti scali minori, che servivano la massa dei viaggiatori e dei pellegrini, che proprio nel quarto secolo si moltiplicano in direzione di mete pagane, ebraiche e cristiane (134).
Le traversate con navi o addirittura con convogli di navi di grossa stazza riprendono in età più tarda, quando l'Esarcato viene a gravitare nell'orbita di Costantinopoli.
All'inizio del VII secolo troviamo notizia di un convoglio di tredici navi partito da Alessandria e diretto probabilmente verso Ravenna o Grado. Secondo la narrazione contenuta nella vita di san Giovanni l'Elemosiniere, quel convoglio all'epoca del santo patriarca (ca. 612/622) sarebbe stato sorpreso da una tempesta e costretto a disfarsi del carico gettandolo in mare (135). Non è escluso che questa spedizione di vettovaglie vada messa in rapporto con la carestia che aveva colpito Ravenna nel 604 (136). La portata di queste navi era di 34 centenaria (ossia ca. 23 tonnellate); ma lo stesso testo ricorda un grande bastimento granario da 20.000 moggi, pari a 136 tonnellate (137).
Navi di questa stazza richiedevano legname pregiato, che può essere stato previsto come carico di ritorno da Aquileia e dai porti dell'Istria e della Dalmazia. Dai territori retrostanti si riversavano su Ragusa legnami pregiati per la carpenteria: faggio, rovere e pino, adatti per le varie parti della nave, rispettivamente la chiglia, l'armatura e il fasciame. Ma dai cantieri di questi porti adriatici si varavano anche molte navi che solcavano il Mediterraneo, a cominciare dalle più antiche e più piccole liburne, che da questa costa avevano tratto origine e denominazione (138).
Per rievocare con un'immagine icastica i profondi problemi sociali che queste lunghe navigazioni implicavano, l'elemento umano che vi operava e infine i ceti senza altre risorse e senza speranze che ne componevano gli equipaggi, basterà riportare la descrizione di una ciurma in partenza dal porto di Alessandria:
il nostro armatore era oberato da un mare di debiti. I marinai erano dodici, tredici col comandante. Più della metà, capitano compreso, erano Giudei [...>. Gli altri erano contadini, che non toccavano il remo dall'anno prima. L'unica cosa comune a tutti era l'avere qualche difetto fisico. Perciò, quando non si era in pericolo, essi si prendevano in giro a vicenda, chiamandosi non per nome, ma per soprannome d'infortunio: storpio, ernioso, monco, strabico. Ognuno aveva un soprannome del genere (139).
Abbiamo qui un quadro efficace di quello che dovevano essere gli equipaggi mercantili che affrontavano il Mediterraneo e che portavano anche all'estremità settentrionale del mare Adriatico grano, spezie e uomini e con questi il pensiero e la cultura, specialmente quella greca, ma anche esperienze, superstizioni e culti, tra i quali il giudaismo e il cristianesimo.
Nella tarda antichità, quando cominciano a decadere le vie di comunicazione terrestre, il collegamento endolagunare con Ravenna persiste alla pari di quello marittimo con l'Oriente: disponiamo per il VI secolo delle testimonianze di Procopio e del poeta veneto Venanzio Fortunato (140).
In mutate condizioni storiche ed economiche, il complesso di canali navigabili paralitoranei continuò ad essere utilizzato per collegare Ravenna con Venezia, il nuovo polo di attrazione commerciale, che sostituì Aquileia nel ruolo di tramite tra il continente e il Mediterraneo (141).
Il Padenna o Cavadorzo, il Cavadizzo e il Silvolongo sono ricordati nella documentazione medievale e vengono descritti da Riccobaldo (142), come poi nel Rinascimento da Pontico Virunio (143). Abbiamo così la riprova della duratura efficacia dell'assetto dato al territorio dai Romani.
Soprattutto nel corso del VI secolo maturano trasformazioni assai profonde lungo l'arco paralitoraneo dell'alto Adriatico. Due ordini diversi di fattori apportano sconvolgimenti profondi alla situazione preesistente: da una parte la discesa dei Longobardi in Italia con conseguenze di ordine politico e strategico, dall'altra i profondi cambiamenti climatici, che si manifestarono soprattutto con l'aumento della piovosità e che ebbero come effetto ripetute alluvioni e mutamenti di corso dei fiumi nell'ambito della pianura padana e del Veneto, a partire dal famoso "deluvium" del 589 descritto da Paolo Diacono (144). Si alterò in parte il quadro idrografico precedente e si dischiusero nuove vie fluviali.
Parallelo allo sviluppo di Grado fu quello di Classe in relazione a Ravenna, il centro dell'organizzazione della resistenza bizantina all'espansione longobarda e poi la capitale dell'Esarcato. Tutto l'arco costiero alto-adriatico con la sottesa fascia lagunare rimane provincia dell'impero di Costantinopoli, dalla Pentapoli marchigiana alla penisola istriana, che acquista ora un particolare prestigio per la nuova funzione di porta di Bisanzio in cui viene a trovarsi.
Dal VI all'VIII secolo perdura questa particolare situazione della frangia lagunare alto-adriatica, che funge da antemurale dell'Impero d'Oriente in opposizione ad un retroterra diventato longobardo.
La Venetia maritima trae vantaggio da questa situazione alla pari di Otranto e dei porti bizantini del Tirreno. Alienando dal mare i Longobardi, la "maritima" bizantina acquista il monopolio esclusivo dei traffici ed in particolare delle importazioni dall'Oriente di merci pregiate che esercitavano una forte attrattiva anche sui barbari. Mantenendosi in mano ai Bizantini, la "Venetica" rimaneva collegata a tutti i traffici del Mediterraneo e poteva fungere perciò da privilegiata cerniera tra l'Oriente e un retroterra che si collegava alle più vaste richieste del continente europeo.
Questo privilegiato contesto marittimo rese possibile lo sviluppo dell'astro nascente della fortuna marinara di Venezia.
1. Giovanni Pugliese Carratelli, Per la storia delle relazioni micenee con l'Italia, "Parola del Passato", 13, 1958, pp. 205-220 = Id., Scritti sul mondo antico, Napoli 1976, pp. 243-261. Cf. Emilio Peruzzi, Mycenaean Culture in Latium, in AA.VV., Assimilation et résistance à la culture Gréco-Romaine dans le monde ancien. Travaux VIe Congr. Int. Et. Class. (Madrid 1974), Buçuresti-Paris 1976, pp. 175 ss. (pp. 175-180); Id., Mycenaeans in Early Latium, Roma 1980.
2. Hesiodus, fr. 150 (a cura di Reinhold Merkelbach-Martin L. West, p. 21); Pherecydes, (F.Gr.Hist., 3, F, 74); Aeschylus et Alii, in Plinius, Naturalis Historia, XXXVII, 31-32 (Giovanni Capovilla, Le ῾ΗλεάδεϚ di Eschilo. Problemi sull'Eridano, sugli Hyperborei, su Kyknos e Phaethon, "Rendiconti dell'Istituto Lombardo di Scienze e Lettere", 88, 1955, pp. 415-82; James Diggle, Euripides, Phaethon, Cambridge 1970, p. 20); Pseudo-Aristoteles, 836 a-b (De mirabilibus auscultationibus, 81); Timaeus, in Polybius, II, 16; Ovidius, Metamorphosis, II, 367 ss.; Vergilius, Aeneis, X, 189; Strabo, V, I, 9; Plinius, Naturalis Historia, III, 151 s.; XXXVII, 31 s.; Pausanias, I, 30, 3; Hyginus, Fabulae (a cura di August Meineke, pp. 299 s.). Sul problema delle isole Elettridi in relazione con i mercati adriatici dell'ambra, v. Alberto Grilli, L'Eridano e le isole Elettridi, "Padusa", 8, 1972, pp. 63-69; Id., Eridano, Elettridi e via dell'ambra, in AA.VV., Studi e ricerche sulla problematicità dell'ambra, I, Roma 1975, pp. 279-295; Lorenzo Braccesi, Ancora su problemi adriatici: conferme archeologiche, "Athenaeum", 52, 1974, pp. 217-240; Id., Grecità adriatica, Bologna 19772, pp. 30-55; Id., La leggenda di Antenore da Troia a Padova, Padova 1984, pp. 19-21.
3. Hyginus, Fabulae, 154 (a cura di Valentin Rose, p. I Io); d'altronde l'identità dell'Eridano con il Padus risaliva almeno ad Eschilo (fr. 104 M.) ed era scontata secondo Polibio (Il, 16, 6); cf. Frank W. Walbank, A Historical Commentary on Polybius, I, Oxford 1957, p. 179; Domenico Musti, Polibio e la storiografia romana arcaica, "Entretiens sur l'antiquité Classique, Fondation Hardt", 20, Polybe, 1974, pp. 131 s. (pp. 105-143); v. anche Plinius, XXXVII, 31.
4. Ovidius, II, 370; Vergilius, X, 189; Pausanias, I, 30, 3; Hyginus, Fabulae, 154 (a cura di V. Rose, p. 110).
5. L. Braccesi, Grecità adriatica, p. 35.
6. Plinius, III, 152; XXXVII, 31.
7. AA.VV., Studi e ricerche sulla problematica dell'ambra, I, Atti della cooperazione interdisciplinare italo-polacca, Roma (C.N.R.) 1975; AA.VV., Ambra oro del Nord, Venezia 1978; AA.VV., Proposte per lo studio della provenienza e della lavorazione dell'ambra, "Aquileia Nostra", 49, 1978, coll. 188-202.
8. Nuccia Negroni Catacchio, La problematica dell'ambra nella protostoria italiana: le ambre intagliate di Fratta Polesine e le rotte mercantili nell'alto Adriatico, "Padusa", 8, 1972, 1-2, pp. 3-20; Ead., La problematica dell'ambra nella protostoria italiana: ancora sulle ambre di Frattesina di Fratta Polesine, "Padusa", 9, 1973, 2-4, pp. 70-82; Ead., Lo studio della problematica dell'ambra nella protostoria italiana: nuovi risultati, in Atti XV Riunione scientifica dell'Istituto Italiano di Preistoria e Protostoria, Verona - Trento 1972, Firenze 1973, pp. 47-52; Maria Luisa Nava, Appunti per un controllo con dati archeologici della tradizione mitografica altoadriatica, "Padusa", 8, 1972, 1-2, pp. 21-31; Ead., Osservazioni sui problemi sollevati dallo stanziamento di Frattesina di Fratta Polesine, "Padusa", 9, 1973, 2-4, pp. 83-94; Anna Maria Bietti Sestieri, "Rivista di Scienze Preistoriche", 30, 1975, pp. 378-379; Ead., Elementi per lo studio dell'abitato protostorico di Frattesina di Fratta Polesine, "Padusa", 11, 1975, pp. 1-14; Ead., L'abitato protostorico di Frattesina di Fratta Polesine (Rovigo), "Aquileia Nostra", 47, 1976, coll. 257-260; Ead., "Rivista di Scienze Preistoriche", 32, 1977, pp. 330-331.
9. Antonio Veggiani, Il ramo del Po di Adria nella tarda età del Bronzo, "Padusa", 8, 1972, 3-4, pp. 123-134.
10. Nuccia Negroni Catacchio, Indagine sulla diffusione dei manufatti in ambra in Italia durante l'età del Ferro, in AA.VV., Studi e ricerche sulla problematica dell'ambra, I, Roma 1975, p. 102 (pp. 101-109).
11. Plinius, XXXVII, 44. Cf. Maria Carina Calvi, Le ambre romane di Aquileia, "Aquileia Nostra", 48, 1977, coll. 96-98; Ead., L'ambra in epoca romana, in AA.VV., Ambra oro del Nord, Venezia 1978, pp. 98 ss. (pp. 97-103); AA.VV., Voghenza, una necropoli di età romana nel territorio ferrarese, Ferrara 1984.
12. Anche Plinio giustifica la fioritura di miti localizzati nella Cisalpina con il fatto che i porti adriatici costituivano lo sbocco dell'ambra sul mercato mediterraneo e nota il massiccio uso dell'ambra per monili nell'area padana: Plinius, XXXVII, 44.
13. Hesiodus, fr. 150 (a cura di R. Merkelbach-M.L. West, p. 21); Herodotus, IV, 32 (cf. III, 115); Apollonius Rhodius, IV, 661 ss.; etc.
14. Hyginus, Fabulae, 153.
15. Pseudo-Aristoteles, De mirabilibus, 81, descrive un lago allungato, dall'aspetto di una laguna paralitoranea, che richiama i Septem Maria, ossia le Atrianorum paludes.
16. Pseudo-Aristoteles, De mirabilibus, 81. Lorenzo Braccesi, Statue di Dedalo e Icaro nell'area del delta padano, "Studi Romagnoli", 19, 1968, pp. 43-48; Id., Grecità adriatica, pp. 38-42.
17. La tradizione risale soprattutto ad Antioco siracusano, cf. Diodorus Siculus, XII, 71, 2. Jean Bérard, La Colonisation grecque de l'Italie méridionale et de la Sicile dans l'antiquité, l'histoire et le légende, Paris 1957, pp. 417-426.
18. Per l'inquadramento dell'arte dedalica, v. Romilly J.H. Jenkins, Daedalica, A Study of Dorian Plastic Art in the Seventh Century B.C., Cambridge 1936; v. anche Giovanni Becatti, La leggenda di Dedalo, "Mitteilungen des Deutschen Archäologischen Instituts. Römische Abteilung", 60-61, 1953-54, pp. 22-36.
19. Adolf Schulten, Tartessos. Ein Beitrag zur ältesten Geschichte des Westens, Madrid 1945 (Hamburg 19502); José Maria Blazquez, Tartessos y los origenes de la colonización fenicia en Occidente, Salamanca 19752.
20. Aeschylus, fr. 326 (a cura di Hans Mette, p. 199); Herodotus, V, 9-10; Pseudo-Aristoteles, De mirabilibus, 85; Diodorus, IV, 8-53. Fernand Benoît, La légende d'Héraclès et la colonisation grecque dans le delta du Rhône, "Lettres d'Humanité", 8, 1949, p. 104; Charles Picard, Les voies terrestres du commerce hallstattien, "Latomus", 19, 1960, pp. 409-428; Roger Dion, La voie héracléenne et l'itinéraire transalpin d'Hannibal, in AA.VV., Hommages Albert Grenier, I, Bruxelles 1962, pp. 537-543; Fernand Benoît, Recherches sur l'hellenisation du midi de la Gaule, Aix-en-Provence 1965, pp. 92 ss., 164-168; Rutta Rosenstingl - Emilia Solá, El décimo trabajo de Hércules: Un paleoperiplo por tierras hispánicas, in AA.VV., Els orígens del món ibèric, Simposi int., Barcelona-Empúries 1977 = "Ampurias", 38-40, 1976-78, pp. 543-548; Lorenzo Braccesi, Per una frequentazione ellenica dell'arco alpino occidentale (nota a Strabo IV, 1, 3, 178), in AA.VV., Scritti storico-epigrafici in memoria di Marcello Zambelli, Roma 1978, pp. 61-68.
21. Suetonius Tranquillus, Vita Tiberii, 14, 3; Claudianus, Carmina minora, 25, 26 ss.; Emanuele Ciaceri, L'antico culto di Gerione nel territorio di Padova e in Sicilia, "Archivio Storico per la Sicilia Orientale", 16-17, 1919-20, pp. 70 ss. (pp. 70-83); J. Bérard, La Colonisation grecque, pp. 392 ss.; L. Braccesi, Grecità adriatica, pp. 118-121. In generale: Francesco Sbordone, Il cielo italico di Eracle, "Athenaeum", n. ser., 19, 1941, pp. 72-96, 149-180.
22. Diodorus, IV, 24; Emanuele Ciaceri, Culti e miti nella storia dell'antica Sicilia, Catania 1911, pp. 277-289; Id., L'antico culto di Gerione, pp. 77 ss.; L. Braccesi, Grecità adriatica, pp. 19 ss.; Olimpio Musso, Hekataios von Milet und der Mythos von Geryonos, "Rheinisches Museum für Philologie", 114, 1971, pp. 83-85.
23. Ettore Lepore, Ricerche sull'antico Epiro, Napoli 1962, p. 39; O. Musso, Hekataios, pp. 83 ss.; L. Braccesi, Grecità adriatica, p. 21.
24. Apollonius Rhodius, IV, 504-626. Emile Delage, La Géographie dans les Argonautiques d'Apollonios de Rhodes, Bordeaux 1930, pp. 195 ss.; J. Bérard, La Colonisation grecque, pp. 387-389; Giovanni Capovilla, Colchica-Adriatica parerga: da Eumelo di Corinto ad Apollonio Rodio, "Rendiconti dell'Istituto Lombardo di Scienze e Lettere", 91, 1957, pp. 739-802; Ornella Zanco, Gli Argonauti e la protostoria, München 1968; Enrico Livrea, Apolloni Rhodii Argonauticon liber quartus, Firenze 1973, pp. 180 ss.; L. Braccesi, Grecità adriatica, pp. 42-44, 114-116.
25. Julius Pokorny, Eridanos und Rhodanus, in AA.VV., Mélanges Emile Boisacq, II, Bruxelles 1938, pp. 193-197; L. Braccesi, Per una frequentazione ellenica.
26. Luigi Pareti, Pelasgica, "Rivista di Filologia e d'Istruzione Classica", 46, 1918, pp. 183 ss. (pp. 153-206); Albert J. Van Windekens, Etudes Pélasgiques, Louvain 1960; Fritz Lochner-Huttenbach, Die Pelasger, Wien 1960; Bianca Maria Biancardi, I "Pelasgi": nome, etnografia, cronologia, "Studi Classici e Orientali", 10, 1961, pp. 228 ss. (pp. 224-234); Hans Diller, The Thalassocracies, Albany (N.Y.) 1971, pp. 58-60, 134-147; Dominique Briquel, Les Pélasges en Italie. Recherches sur l'histoire de la légende, Roma 1984, pp. 3-30.
27. Pseudo-Aristoteles, De mirabilibus, 81. Luigi Pareti, La tradizione antica su Spina, "Studi Romani", 5, 1957, 2 = Id., Studi minori di storia antica, II, Roma 1961; Olimpio Musso, "Rheinisches Museum für Philologie", 119, 1976, p. 369; L. Braccesi, Grecità adriatica, pp. 41 ss.
28. Lycophron, 1364.
29. Herodotus, II, 52; Strabo, VII, 7, 10. V. ora Nicholas G. L. Hammond, Epirus, Oxford 1967, pp. 167 ss.; Emil Condurachi, Dodone et ses rapports avec le monde balkanique, in AA.VV., Adriatica praehistorica et antiqua, Miscellanea Gregori Novak dicata, Zagreb 1970, pp. 325-333; Sotirios I. Dakaris, Archaeological Guide to Dodona, Ioannina 1971.
30. Apollonius Rhodius, I, 949 ss.
31. Hellanicus (F.Gr.Hist., 4, F, 4). L. Pareti, Pelasgica, p. 183.
32. Otto Hoffmann - Albert Debrunner, Geschichte der griechischen Sprache, I, Berlin 1953, pp. 9 ss.
33. Hellanicus (F.Gr.Hist., 4, F, 4).
34. Giovanni Uggeri - Stella Patitucci, Topografia e urbanistica di Spina, "Studi Etruschi", 42, 1974, pp. 82-86.
35. Per il carattere adulatorio degli epiteti di grecità, cf. Léon Homo, L'Italie primitive et les débuts de l'imperialisme romain, Paris 1938, p. 240.
36. Dionysius Halycarnassensis, I, 8. Domenico Musti, Tendenze nella storiografia romana e greca su Roma arcaica, Roma 1970, pp. 13 ss.; Emilio Gabba, Dionigi e la "Storia di Roma arcaica", in Actes du IXe Congrés Ass. G. Budé, Paris 1975, pp. 218 ss. (pp. 218-229).
37. Iustinus, XX, 1, 11..
38. Cf. Giovanni Forni, Valore storico e fonti di Pompeo Trogo, Urbino 1958; Luigi Santi Amantini, Fonti e valore storico di Pompeo Trogo (Iustinus, XXXV e XXXVI), Genova 1972.
39. Strabo, V, 1, 7. Silvio Ferri, Il problema di Ravenna preromana, "Corsi di cultura sull'arte ravennate e bizantina", 2, 1957, pp. 89-113 = Id., Opuscola, Firenze 1962 (Studi classici e orientali, 11), pp. 470 ss.; Mario Zuffa, I celti nell'Italia adriatica, Chieti 1971, p. 149; Id., I Galli sull'Adriatico, in AA.VV., I Galli in Italia, Roma 1978, pp. 138-162; Giovanni Colonna, La Romagna fra Etruschi, Umbri e Pelasgi, in AA.VV., La Romagna tra VI e IV sec. a.C. nel quadro della protostoria dell'Italia centrale (Atti del Convegno, Bologna 1982), Bologna 1985, p. 58 e p. 64 n. 54 (pp. 45-65); D. Briquel, Les Pélasges.
40. Hellanicus (F.Gr.Hist., 4, F, 4); Dionysius Halycarnassensis, I, 18, 34. Strabo, V, 2, 5; Servius, In Vergilii Aeneida commentarii, X, 179; cf. Plinius, III, 50; J. Bérard, La Colonisation grecque, pp. 326 ss.; Silvio Ferri, Spina I, Spina II, Spina III, in Suppl. "Studi Etruschi", 25, 1959, pp. 59 ss.; G. Pugliese Carratelli, Per la storia delle relazioni micenee con l'Italia, pp. 205-220; Id., Prime fasi della colonizzazione greca in Italia, in Greci e Italici in Magna Grecia. Atti del I Convegno di Studi sulla Magna Grecia (Taranto 1961), Napoli 1962, pp. 183 ss. (pp. 136-149); Id., Achei nell'Etruria e nel Lazio?, "La Parola del Passato", 17, 1962, pp. 5-25 = Id., Scritti sul mondo antico, pp. 262 ss.; Léon Lacroix, Monnaies et colonisation dans l'occident grec, Bruxelles 1965, p. 80; L. Braccesi, Grecità adriatica, pp. 25-27.
41. Plinius, III, 120.
42. Culto di Diomede al Timavo: Strabo, V, 1, 8 (C 214); ad Adria (Etym. Magnum, s.v. Atria); ad Ancona: Pseudo-Scylax, 16; Nereo Alfieri, Topografia storica di Ancona antica, "Deputazione di Storia Patria per le Marche. Atti e Memorie", ser. V, 2, 1938, pp. 162 (pp. 151-235); L. Braccesi, Grecità adriatica, p. 15.
43. Strabo, V, 1, 8-9. R.L. Beaumont, Greek Influence in the Adriatic Sea before the Fourth Century B.C., "Journal of Hellenic Studies", 56, 1936, pp. 194 ss. (pp. 159-204); J. Bérard, La Colonisation grecque, pp. 368 ss.; Ornella Terrosi Zanco, Diomede "greco" e Diomede italico, "Atti dell'Accademia nazionale dei Lincei. Rendiconti. Classe di scienze morali, storiche e filologiche", ser. VIII, 20, 1965, pp. 270 ss. (pp. 270-272); Jean Gagé, Les traditions "diomédiques" dans l'Italie ancienne, de l'Apulie à l'Etrurie méridionale et quelques-unes des origines de la légende de Mézence, "Mélanges de 1'Ecole française de Rome. Antiquité", 84, 1972, pp. 735-788; Ugo Fantasia, Le leggende di fondazione di Brindisi e alcuni aspetti della presenza greca nell'Adriatico, "Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa", ser. III, 2, 1972, pp. 115 ss. (pp. 115-139); L. Braccesi, Grecità adriatica, pp. 14-17.
44. Strabo, V, 215.
45. Al tracio re dei Bistoni sembra rimandare piuttosto il legame coi cavalli del Diomede messapico e veneto; con il suo culto dobbiamo probabilmente spiegare la raffigurazione di un uomo che soccombe a due cavalli affrontati su un'antefissa fittile arcaica del Museo di Brindisi: Benita Sciarra, Brindisi, Museo archeologico provinciale, Bologna 1976, nr. 278, p. 40.
46. J. Bérard, La Colonisation grecque, pp. 366 ss.; Francesco Della Corte, La mappa dell'Eneide, Firenze 1972, pp. 70 ss.; Rita Scuderi, Il tradimento di Antenore. Evoluzione di un mito attraverso la propaganda politica, Milano 1976, pp. 28 ss. (pp. 28-49); Lorenzo Braccesi, La leggenda di Antenore da Troia a Padova, Padova, 1984.
47. Plinius, III, 121. Roberto Cessi, Filistina, "Ateneo Veneto", 21, 1898, 2, pp. 129-153, con carta; Franz Altheim, Geschichte der lateinischen Sprache von den Anfängen bis zum Beginn der Literatur, Frankfurt a. M. 1951, pp. 54 ss.; Jean Bérard, Philistins et Préhéllènes, "Revue Archéologique", 1951, 1, pp. 129 ss. (pp. 129-142); Gian Albo Ferro, Considerazioni sulle origini di Adria, "Atti e Memorie dell'Accademia Patavina di Scienze, Lettere ed Arti", 85, 1972-73, pp. 257 ss. (pp. 247-259); L. Braccesi, Grecità adriatica, p. 27.
48. G. Pugliese Carratelli, Per la storia delle relazioni micenee; Andrew R. Burn, Minoas Philistines and Greeks, London 1968, pp. 141 ss.
49. Giuliano Bonfante, Who were the Philistines?, "American Journal of Archaeology", 50, 1946, pp. 251 ss. (pp. 251-262).
50. Strabo, VI, 3, 9 (C 284). Emanuele Ciaceri, Storia della Magna Grecia, I, Milano 19722, pp. 385 ss. Giulio Giannelli, Culti e miti della Magna Grecia, Firenze 19632, pp. 52 ss.; J. Bérard, La Colonisation grecque, p. 370; Giovanni Uggeri, La viabilità romana del Salento, Mesagne 1983, p. 78.
51. Strabo, V, 1, 8 (C 214). L. Braccesi, Grecità adriatica, p. 15.
52. Sulla leggenda delle Electrides e dell'Eridano, cf. qui sopra alle nn. 2, 13. Sulla via dell'ambra, v. Nuccia Negroni Catacchio, La problematica dell'ambra nella protostoria italiana, le vie dell'ambra e i passi alpini, "Bulletin d'Etudes Préhistoriques Alpines", 4, 1972, pp. 71-80; Ead., Lo studio della problematica dell'ambra; Claudio Arias, Nuove ricerche sull'ambra della protostoria italiana, in Atti XV Riunione scientifica dell'Istituto Italiano di Preistoria e Protostoria, Verona- Trento 1972, Firenze 1973, pp. 53 ss.; Rolf C. A. Rottlander, Der Bernstein und seine Bedeutung in der Ur- und früngeschichte, Diss. Köln 1973; AA.VV., Studi e ricerche sulla problematica dell'ambra, I; Nuccia Negroni Catacchio, Le vie dell'ambra, i passi alpini orientali e l'alto Adriatico, in AA.VV., Aquileia e l'arco alpino orientale (A.A., 9), Udine 1976, pp. 21-48 e bibliografia pp. 49-57 (pp. 21-59); Joan M. Todd - Marijean Heichel-Curt W. Beck-Angela Macchiarulo, Bronze and Iron from Age Amber Artifacts in Croatia and Bosnia-Hercegovina, "Journal of Field Archaeology", 3, 1976, pp. 313-327; AA.VV., Ambra oro del nord., Jerzy Kolendo, A la recherche de l'ambre baltique, Warszawa 1981.
53. Hesychius, A 1201 (a cura di Kurt Latte, p. 44); Lara Loreti, La ceramica attica e i commerci greco-padani del secolo V a.C., "Emilia Preromana", 2, 1949-50, p. 23 (pp. 13-49); G. Uggeri - S. Patitucci, Topografia e urbanistica, p. 94; L. Braccesi, Grecità adriatica, pp. 102 s., 148.
54. L. Braccesi, La leggenda di Antenore da Troia a Padova, loc. cit., con numerosi richiami anche alle altre leggende dell'arco veneto.
55. Livius, I, 1, 3. Anna Maria Chieco Bianchi, La documentazione archeologica, in AA.VV., Padova antica, da comunità paleoveneta a città romano-cristiana, Padova 1981, pp. 48 ss., 314 fig. 2 (pp. 48-73); L. Braccesi, La leggenda di Antenore, pp. 22 s.
56. V. ora L. Braccesi, La leggenda ai Antenore, pp. 140 s.
57. Cf. qui sopra alla n. 8.
58. Richard M. Dawkins, Mycenean Vases at Torcello, "Journal of Hellenic Studies", 24, 1904, pp. 125-128; Irene Favaretto, Ceramica greca, italiota ed etrusca del Museo Provinciale di Torcello, Roma 1982, pp. 22, 25-26 (con indagine sulla provenienza locale da uno scavo del 1881 a Mazzorbo).
59. Padova, via S. Sofia: AA.VV., Padova antica, p. 55, fig. 15.
60. Giulia Fogolari - Bianca Maria Scarfì, Adria antica, Venezia 1970, pp. 53 ss.; Giovanni Colonna, I Greci di Adria, "Rivista Storica dell'Antichità", 4, 1974, pp. 1-21, Margherita Guarducci, Adria e gli Egineti, in AA.VV., Scritti storico-epigrafici in memoria di A. Zambelli, Roma 1978, pp. 175-180; Giuliana Riccioni, Capisaldi e capolavori della produzione ceramica greca nell'Alto Adriatico, in AA.VV., Aquileia e l'Oriente mediterraneo (A.A., 12), Udine 1977, pp. 39-65; Maurizia De Min, Adria antica, in AA.VV., Il Veneto nell'antichità preistorica e protostorica, II, Verona 1984, pp. 829-830.
61. Maurizia De Min, Recenti rinvenimenti paleoveneti, greci ed etruschi a San Basilio di Ariano Polesine, in AA.VV., Preistoria e Protostoria nel bacino del Basso Po, Ferrara 1984 (Supplemento agli Atti dell'Accademia delle Scienze di Ferrara, 61), pp. 227-242; Ead., L'abitato arcaico di S. Basilio di Ariano Polesine, in AA.VV., L'antico Polesine, Rovigo 1986, pp. 171-184; Paola Zanovello, L'Herakles di Contarina, "Aquileia Nostra", 58, 1987, coll. 153-188.
62. G. Fogolari - B. M. Scarfì, Adria antica, p. 68 n. 33; G. F. Bellintani - Renato Scarani, Bronzi protostorici del Polesine, "Padusa", 7, 1971, p. 71 (pp. 71-108).
63. G. Uggeri - S. Patitucci, Topografia e urbanistica, pp. 69-97; Nereo Alfieri, Spina, museo archeologico, Bologna 1979.
64. Bianca Maria Scarfì - Michele Tombolani, Altino preromana e romana, Venezia 1985.
65. Rutilius Naumatianus, I, 453-62. Luisa Banti, in R.E., VII A, c. 2050 s.; Giulio Schmiedt, Contributo della fotointerpretazione alla ricostruzione della situazione geografico-topografica dei porti antichi in Italia, Firenze 1964, p. 65, fig. 31; Giovanni Uggeri, La terminologia portuale romana e la documentazione dell'"Itinerarium Antonino, "Studi Italiani di Filologia Classica", 40, 1968, pp. 253 s. (pp. 225-254).
66. Plinius, III, 120.
67. Plinius, III, 121. Heinrich Nissen, Italische Landeskunde, I, Berlin 1883, p. 206; Il, Berlin 1902, p. 215; Mario Ciabatti, Ricerche sull'evoluzione del Delta Padano, "Giornale di Geologia", ser. II, 34, 1966, tav. II (pp. 381-406); L. Braccesi, Grecità adriatica, p. 130; A. Veggiani, Il ramo del Po di Adria nella tarda età del Bronzo, pp. 3 ss.; Giovan Battista Pellegrini, Osservazioni sulla toponomastica del Delta Padano, in AA.VV., La civiltà comacchiese e pomposiana dalle origini preistoriche al tardo Medioevo, Atti del Convegno di Comacchio 1984, Bologna 1986, p. 51 (pp. 49-89) = Id., Ricerche di Toponomastica veneta, Padova 1987, pp. 159 ss.
68. Strabo, V, 1, 8 (C 214); Vitruvius, I, 4, 11; Plinius, III, 121.
69. Nereo Alfieri, Spina e le nuove scoperte, problemi archeologici e urbanistici, in Atti Spina, Supplemento "Studi Etruschi", 25, 1959, pp. 31-38; AA.VV., Spina, guida al museo archeologico in Ferrara, Firenze 1960, p. 36, tav. XIII.
70. Livius, X, 2, 1-15. Giovanni Musolino, La via acquea da Ravenna ad Altino, "Ateneo Veneto", 256, 1962, 2, p. 26; L. Braccesi, Grecità adriatica, pp. 78 ss.
71. "Thuriae" potrebbe corrispondere al "portus Tarentinus" di Plinius, III, 101; Diodorus, XX, 105, 1-3; Livius, X, 2, 1-2. Ettore Pais, Ricerche storiche e geografiche sull'Italia antica, Torino 1908, p. 128; Michele Gervasio, Thurii e Thuriae, Bari 1932; Giovanni Colella, Toponomastica pugliese, Trani 1941, pp. 217-222; G. Uggeri, La viabilità romana nel Salento, p. 316; V. A. Sirago, Per l'identificazione di Thuriae, "Ricerche e Studi", 13, 1980-87, pp. 95-104.
72. Tabula Peutingeriana, segm. IV, 5; Konrad Miller, Itineraria Romana, Stuttgart 1916, col. 310; Luciano Bosio, I problemi portuali della frangia lagunare veneta nell'antichità, in AA.VV., Venetia. Studi miscellanei di Archeologia delle Venezie, I, Padova 1967, pp. 13-96; Id., I porti antichi dell'arco lagunare veneto, in Atti del Convegno Internazionale di Studi sulle antichità di Classe (Ravenna 1967), Faenza 1968, pp. 15-22; Id., Itinerari e strade della Venezia romana, Padova 1970, pp. 43, 49.
73. L. Bosio, Itinerari, p. 49; Marcello Salvatori, Precisazioni intorno alla via Popillia nel tratto da Adria a Porto Menai, "Bollettino del Museo Civico di Padova", 60, 1971, I, pp. 21-25.
74. Strabo, V, I, 7 (C 213).
75. Nereo Alfieri, Strabone e il delta del Po, "Padusa", 12, 1981, pp. 3-11. Malamocco rappresenta la sopravvivenza toponomastica di Maior Meduacus attraverso la forma medievale Madamaucus.
76. Nereo Alfieri, Tipi navali nel delta antico del Po, in Atti del convegno Internazionale di Studi sulle antichità di Classe (Ravenna 1967), Faenza 1968, pp. 187-207, riedito in "Musei Ferraresi", 3, 1973, pp. 145-161; Giovanni Uggeri, La romanizzazione dell'antico delta padano, Ferrara 1975, pp. 181-184; Marco Bonino, Archeologia e tradizione navale tra la Romagna e il Po, Ravenna 1978.
77. Livius, X, 2, 6. L. Bosio, I problemi portuali; Id., I porti antichi, pp. 15-22; Silvio Panciera, Porti e commerci nell'alto Adriatico, in AA.VV., Aquileia e l'Alto Adriatico (A.A., 2), Udine 1972, p. 80 (pp. 79-112).
78. Strabo, V, 1, 11 (C 217).
79. Plinius, III, 118; Procopius, Bellum Gothicum, I, 1, 18; Venantius Fortunatus, Vita s. Martini, IV, 677-678.
80. Jean Paul Waltzing, Etude historique sur les corporations professionelles chez les Romains, II, Louvain 1985-1900, p. 30; Nereo Alfieri, Le vie di comunicazione dell'Italia settentrionale, in AA.VV., Arte e civiltà romana nell'Italia settentrionale dalla Repubblica alla Tetrarchia, Catalogo, I, Bologna 1964, p. 69 (pp. 57-70); Jean Rougé, Recherches sur l'organisation du commerce maritime en Méditerranée sous l'empire romain, Paris 1966, p. 215; L. Bosio, I problemi portuali, pp. 68 s., 84; Laura Boffo, Per la storia dell'antica navigazione fluviale padana, "Atti dell'Accademia dei Lincei. Rendiconti. Classe di scienze Morali, Storiche e Filologiche", 32, 1977, p. 625 (pp. 623-632).
81. Servius, In Vergilii Aeneida commentarii, IX, 676; Plinius, III, 121; Vibius Sequester, s.v.
82. Stella Patitucci Uggeri, Vie d'acqua dal Trentino all'Alto Adriatico agli inizi del Trecento, in Atti del Congresso 'La regione Trentino - Alto Adige nel Medioevo', Rovereto 1984, in corso di stampa.
83. Ezio Buchi, Banchi di anfore romane a Verona, in AA.VV., Il territorio Veronese di età romana, Verona 1977, pp. 531-637.
84. Plinius, III, 121.
85. Giovanni Battista Castiglioni, Questioni aperte circa l'antico corso del Brenta nei pressi di Padova, "Atti e Memorie dell'Accademia patavina di Scienze, Lettere ed Arti. Parte III, Memorie della Classe di scienze morali, lettere ed arti", 94, 1981-82, pp. 159-170.
86. Carlo Anti, Altino e il commercio del legname con il Cadore, in Atti del Congresso sul Retroterra Veneziano, Venezia 1955, Venezia 1956, pp. 19-25. Cf. Emil Vetter, Die "familia Silvani" in Trebula Mutuesca und die "sectores materiarum" in Aquileia, in AA.VV., Studi Aquileiesi offerti a G. Brusin, Aquileia 1953, pp. 93-119.
87. Guido Rosada, I fiumi e i porti nella "Venetia" orientale: osservazioni intorno ad un famoso passo pliniano. I. Portus Liquentiae: i dati e i problemi, "Aquileia Nostra", 50, 1979, coll. 174-255. Il porto di Caorle è documentato dall'anno 840 (Andrea Gloria, Codice Diplomatico Padovano, Venezia 1877, I, nr. 10). Trino Bottani, Saggio di storia della città di Caorle, Venezia 1811; C.I.L., V, 1956-62; "Notizie degli Scavi di Antichità", 1885, pp. 492 ss.; H. Nissen, Italische Landeskunde, I, p. 195; II, p. 224; L. Bosio, I problemi portuali della frangia lagunare, pp. 87 s.
88. Luisa Bertacchi, L'imbarcazione romana di Monfalcone, in AA.VV., Studi Monfalconesi e Duinati (A.A., 10), Udine 1976, pp. 39-45.
89. Vergilius, I, 248 s. (9 fonti); Strabo, V, 1, 8 (C 214-215) (7 fonti e porto); Tabula Peutingeriana, segm. IV, 5 (Fonte Timavi, vignetta, K. Miller, Itineraria Romana, coll. 312, 390 s.). Pietro Kandler, Discorso sul Timavo, Trieste 1864; James Henry, Virg. Aen. I 246, "Hermathena", 1, 1874, pp. 468-550; Gabriella Pross Gabrielli, Il tempietto ipogeo del dio Mitra al Timavo, "Archeografo Triestino", 35, 1975, pp. 5-34; Carlo Corbato, L'arco del Timavo negli scrittori classici, in AA.VV., Studi Monfalconesi e Duinati (A.A., 10), Udine 1976, pp. 13-21; Giuseppe Cuscito, Revisione delle epigrafi di età romana rinvenute intorno al rimavo, in AA.VV., Studi Monfalconesi e Duinati (A.A., 10), Udine 1976, pp. 47-62.
90. Anna Karg, Die Ortsnamen der antike Venetien und Istrien, "Wörter und Sachen", 22, 1941-42, p. 172 (pp. 100-128, 166-202); Giovan Battista Pellegrini, Osservazioni sulla toponomastica del Delta padano, in AA.VV., La civiltà comacchiese e pomposiana dalle origini preistoriche al tardo Medioevo, p. 51 (pp. 49-89).
91. Detta anche Rivo Avustolo, Taliadicia de Clugiensis, Tagiajzza: Vittorio Bellemo, Il territorio di Chioggia, Chioggia 1893, pp. 196 s.
92. Plinius III, 119; Tabula Peutingeriana, segm. V, 1; G. Uggeri, La romanizzazione, p. 49.
93. Plinius, III, 119.
94. Plinius, III, 121. A. Karg, Die Ortsnamen, p. 168. Cf. Cloz (Claudius) nel Cadore; Giovan Battista Pellegrini, Intervento, "Atti della Accademia roveretana degli Agiati", 228, 1978, 1, p. 88.
95. Plinius, III, 119.
96. Aristide Calderini, Per la storia dei trasporti fluviali da Ravenna ad Aquileia, "Aquileia Nostra", 10, 1939, coll. 35 s. (coll. 33-36); Lellia Ruggini, Economia e società nell'Italia annonaria, Milano 1961, pp. 244 s., 341-349; S. Panciera, Porti e commerci nell'Alto Adriatico, pp. 93 s.; Giovanni Uggeri, Vie di terra e vie d'acqua tra Aquileia e Ravenna in età romana, in AA.VV., Aquileia e Ravenna (A.A., 13), Udine 1978, pp. 75 s. (pp. 45-79).
97. Strabo, V, 1, 8 (C 214); Herodianus, VIII, 2, 3 (come nodo commerciale di vie terrestri, fluviali e marittime). Silvio Panciera, Vita economica di Aquileia in età romana, Aquileia 1957; L. Bosi0, Itinerari e strade; S. Panciera, Porti e commerci; Id., Strade e commerci tra Aquileia e le regioni alpine, in AA.VV., Aquileia e l'arco alpino orientale (A.A., 9), Udine 1976, pp. 153-172; Alberto Grilli, Il sistema viario romano, in AA.VV., Il territorio di Aquileia nell'antichità (A.A., 15), I, Udine 1979, pp. 223-258; Massimiliano Pavan, La "Venetia et Histria" fra Occidente e Oriente, "Clio", 17, 1981, pp. 452-468. Come sede della flotta, Notitia Dignitatum Occidentis, XLII, 4 (a cura di Otto Seeck, p. 215).
98. Questo accorgimento fu spesso presente nella scelta dei siti d'insediamento; si ricordino Pisa presso la foce dell'Arno e Spina presso la foce del Po.
99. L. Bosio, I porti antichi dell'arco lagunare veneto, pp. 15-22; Id., I problemi portuali della frangia lagunare veneta, pp. 77 ss.; G. Uggeri, Vie di terra e vie d'acqua tra Aquileia e Ravenna, pp. 45 ss.
100. L. Bosio, Itinerari e strade della Venetia romana; S. Panciera, Strade e commerci tra Aquileia e le regioni alpine, pp. 153-172; A. Grilli, Il sistema viario romano, pp. 223-258.
101. S. Panciera, Vita economica di Aquileia; Id., Porti e commerci nell'Alto Adriatico, pp. 93 ss.; Filippo Cassola, Aquileia e l'Oriente mediterraneo, in AA.VV., Aquileia e l'Oriente mediterraneo (A.A., 12), Udine 1977, pp. 67-98.
102. Strabo, V, 1, 8.
103. Strabo, V, 1, 8; cf. IV, 6, 9-10.
104. Strabo, V, 1, 8 (C 214). Per Aquileia come sbocco delle ferriere del Norico, cf. C.I.L., V, 810.
105. Plinius, III, 126.
106. Vigilio De Grassi, Le rovine subacquee di S. Gottardo a Grado, "Aquileia Nostra", 23, 1952, Coll. 27-36; Pietro e Vigilio De Grassi, Memoria sulle variazioni morfologiche dei litorali marini nella Laguna di Grado, Grado 1957; Paolo Morelli De Rossi, La zona archeologica di Porto Buso: prospezioni ed ipotesi, "Aquileia Nostra", 40, 1969, coll. 1-14; Antonio Stefanon, Nuove possibilità di studio sull'evoluzione della costa del Golfo di Venezia, in AA.VV., Mostra della Laguna Veneta, Venezia 1970, pp. 41-45, tav. 15, fig. 1.
107. Herodianus, VIII, 2, 3; 4, 4-5; 6, 3.
108. Lellia Ruggini, Ebrei ed orientali nell'Italia settentrionale fra il IV e il VI sec. d.C., "Studia et Documenta Historiae et Juris", 26, 1959, pp. 186-308; Ead., Economia e società nell'Italia annonaria; Paolo Lino Zovatto, Le antiche sinagoghe di Aquileia e di Ostia, "Memorie storiche Forogiuliesi", 44, 1960-61, pp. 53-59; Zevi Avneri, Lucerne giudaiche in Aquileia, "La Rassegna mensile di Israele", 10, 1962, pp. 446-448; Francesco Vattioni, I nomi giudaici delle epigrafi di Monastero di Aquileia, "Aquileia Nostra", 43, 1972, coll. 125-132; Renato Polacco, L'antica sinagoga ebraica di Aquileia, "Atti dell'Accademia di Scienze Lettere e Arti di Udine", ser. VIII, 1, 1973, pp. 5-29; Lellia Cracco Ruggini, Il vescovo Cromazio e gli Ebrei di Aquileia, in AA.VV., Aquileia e l'Oriente mediterraneo (A.A., 12), I, Udine 1977, pp. 358-381. In generale: Giovanni Brusin, Orientali in Aquileia romana, "Aquileia Nostra", 24-25, 1954, Coll. 55-70; F. Cassola, Aquileia e l'Oriente mediterraneo, pp. 67-98.
109. Edictum de pretiis, 37, 5; cf. qui sopra alla n. 96, e S. Panciera, Porti e commerci, pp. 93-95.
110. Edictum de pretiis, 37, 13. Oltre alla bibliografia citata supra (nn. 96 e 109), v. F. Cassola, Aquileia e l'Oriente mediterraneo, p. 91.
111. Lucianus, Navigium, 5; Lionel Casson, The Isis and Her Voyage, "Transactions and Proceedings of the American Philological Association", 81, 1950, pp. 43-56; Id., The Size of Ancient Merchant Ships, in AA.VV., Studi in onore di Aristide Calderini e Roberto Paribeni, I, Milano 1956, pp. 231-238.
112. Philo, Contra Flaccum, 5; Digestum, XVIII, 2, 61.
113. Chronicon Paschale (Corpus scriptorum historiae Byzantinae, VII, Bonn 1832), p. 531; Lellia Cracco Ruggini, Il paganesimo romano tra religione e politica (384-394 d.C.); per una reinterpretazione del "Carmen contra paganos", "Atti dell'Accademia Nazionale dei Lincei, Memorie. Classe di scienze Morali, Storiche, Filologiche", ser. VIII, 23, 1979, 1, pp. 131 ss., nota 476 (pp. 3-141); Ead., Vettio Agorio Pretestato a la fondazione sacra di Costantinopoli, in AA.VV., ΦιλίαϚ χάϱιν Eugenio Manni, Roma 1982, II, pp. 593-610.
114. Hieronymus, In Rufinum, III, 10; cf. F. Cassola, Aquileia e l'Oriente mediterraneo, p. 94.
115. I.L.S., 7603. Cf. Quintilianus, Declamationes, 359.
116. Maria Carina Calvi, Le Arti minori ad Aquileia, in AA.VV., Aquileia e l'Alto Adriatico (A.A., 1), Udine 1972, p. 92 (pp. 91-100).
117. C.I.L., V, I042, p. 1025; cf. S. Panciera, Vita economica di Aquileia, pp. 234.
118. Gemma Sena Chiesa, Gemme di età repubblicana al Museo di Aquileia, "Aquileia Nostra", 35, 1964, coll. 1-50; Ead., Gemme del Museo Nazionale di Aquileia, Aquileia 1966.
119. Hieronymi Epistulae, VII, 2, 2.
120. Maria Carina Calvi, Motivi alessandrini nella "Kleinkunst" di Aquileia, in AA.VV., Aquileia e l'Oriente mediterraneo (A.A., 12), Udine 1977, pp. 185-196.
121. Marie Christine Budischovsky, La diffusion des cultes égyptiens d'Aquilée à travers les pays alpins, in AA.VV., Aquileia e l'arco alpino orientale (A.A., 9), Udine 1976, pp. 207-227; Ead., Les cultes orientaux d'Aquilée, in AA.VV., Aquileia e l'Oriente Mediterraneo (A.A., 12), Udine 1977, pp. 99-124.
122. Giuseppe Cuscito, La diffusione del cristianesimo nelle regioni alpine orientali, in AA.VV., Aquileia e l'arco alpino orientale (A.A., 9), Udine 1976, pp. 299-346; Id., Linee di diffusione del cristianesimo antico nel territorio di Aquileia, in AA.VV., Il territorio di Aquileia nell'Antichità (A.A., 15), Udine 1979, pp. 603-623; Guglielmo Biasutti, Aquileia e la chiesa di Alessandria, in AA.VV., Aquileia e l'Oriente mediterraneo (A.A., 12), Udine 1977, pp. 215-230.
123. Paola Lopreato, Le ampolle di S. Menas e la diffusione del suo culto nell'Alto Adriatico, in AA.VV., Aquileia e l'Oriente Mediterraneo (A.A., 12), Udine 1977, pp. 411-428.
124. Fausto Zevi, Appunti sulle anfore romane, "Archeologia Classica", 18, 1966, pp. 212-219 (pp. 208-247); Paolo Baldacci, La storia commerciale e la forma delle anfore, "Atti del Centro di Studi e Documentazione sull'Italia Romana", 1, 1967-68, pp. 23-45 (pp. 8-50).
125. Per la lana Altinata, Edictum de pretiis, 21, 2; per i mala optima Mattiana, 6, 65 (a cura di Siegfried Lauffer).
126. Strabo, IV, 6, 9-10; V, 1, 8. Ljudmila Plesnicar-Gec, Aquileia ed Emona, in AA.VV., Aquileia e l'arco alpino orientale (A.A., 9), Udine 1976, pp. 119-140.
127. Acta apostolorum, 27. Jean Rougé, Le voyage de saint Paul en Occident, "Cahiers d'histoire", 12, 1967, pp. 237-247; il santo viaggia sulla rotta delle navi alessandrine.
128. Pseudo-Scylax, 19-33, v. ora Aurelio Peretti, Il periplo di Scilace, Pisa 1980.
129. Diodorus, XV, 13, 3.
130. Stadiasmus Maris Magni, 272 ss.
131. Secondo il Compasso da navegar; ma la distanza reale è soltanto km 260.
132. Pseudo-Scylax, 107-108; Stadiasmus Maris Magni, 1-52.
133. Henry R. Kahane, The Toponyme Gradus, "Names", 8, 1960, pp. 240-243; G. Uggeri, La terminologia portuale romana, p. 235; Jean Rougé, Ports et escales dans l'empire tardif, in AA.VV., La navigazione mediterranea nell'alto medioevo, I, Spoleto 1978, pp. 67-128.
134. K. Miller, Itineraria romana; Annalina e Mario Levi, Itineraria picta, Roma 1967; Luciano Bosio, La tabula Peutingeriana, Rimini 1983.
135. Leontius, Vita Iohannis, 10 e 28, (a cura di Heinrich Gelzer, Leipzig 1983, pp. 18 e 25); J. Rougé, Ports et escales, pp. 126-128.
136. Andreas Agnellus, Liber Pontificalis ecclesiae Ravennatis, 102 (a cura di Osvald Holder-Egger, in M.G.H., Scriptores rerum Langobardicarum et Italicarum saecula VI-IX, 1878, p. 344); cf. Paulus Diaconus, IV, 29, p. 129.
137. Fornisco questi dati approssimativi ammettendo per un frumento di media durezza un peso specifico di ca. 0,78 e per il modio normale una capacità di litri 8,775 (modio castrense = I 13,66).
138. Vegetius, Epitoma Rei Militaris, IV, 32-34.
139. Synesius Cyrenensis, Epistulae, IV, 160.
140. Procopius, Bellum Gothicum, V, 1, 22 (v. anche IV, 25-26); Venantius Fortunatus, Vita s. Martini, IV. V. ora, in generale, AA.VV., Da Aquileia a Venezia, una mediazione tra l'Europa e l'Oriente dal Il secolo a.C. al VI d.C., Milano I980.
141. V. ad es. Canale de Venecia, a. 1188: Vincenzo Federici-Giulio Buzzi, Regesto della Chiesa di Ravenna. Le carte dell'Archivio Estense, I, Roma 1911, p. 64, nr. 99.
142. Stella Patitucci Uggeri, La navigazione interna del delta padano nella 'Chronica parva ferrariensis', "Atti e Memorie della Deputazione Ferrarese di Storia Patria", ser. III, 30, 1984, pp. 65-97 (pp. 31-106).
143. Pontici Virunii Dialogus ad illu. principem Rambertum Malatestam, ex Rhegio Ligustico M. D. VIII, c. [biii> r; Id., De corruptis nominibus, Città Del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Vat. lat. 10914, c. 156v; Augusto Campana, Pontico Virunio a Ravenna, "Felix Ravenna", fasc. 33, 1929, pp. 88 s. (pp. 85-89).
144. Paulus Diaconus, Historia Langobardorum, III, 23. Cf. Enrico Nicolis, Sugli antichi corsi del fiume Adige, "Bollettino della Società Geologica Italiana", 1898, p. 50; L. Ruggini, Economia e società, pp. 481 s.; Alessandro Marcello - Alvise Comel, L'alluvione che seppellì Iulia Concordia, "Memorie di biogeografia Adriatica" (Istituto di Studi Adriatici), 5, 1957-63, pp. 142 s.; L. Bosio, I problemi portuali, p. 96; Daniele Bertolani Marchetti, Ricerche palinologiche in relazione agli eventi climatici in epoca storica, "Atti della Società Naturale e Matematica di Modena", 99, 1968, pp. 136-144; Antonio Veggiani, Prove e considerazioni su due periodi di dissesti idrogeologici nella pianura padana in epoca storica, in Atti del 3° Convegno Nazionale di studi sui problemi della Geologia Applicata, Firenze 1973, pp. 157-164.