La legge di Draconte sull'omicidio
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Draconte, primo legislatore ateniese, dà alla sua città delle leggi sull’omicidio destinate a sopravvivere molto a lungo; esse sono a noi note anche grazie a uno dei documenti epigrafici di maggiore importanza per gli studiosi del diritto greco. Per primo, Draconte vieta la vendetta, e stabilisce che l’omicida sia giudicato da appositi tribunali e punito in modo differente a seconda che la sua azione sia volontaria o involontaria; egli, inoltre, disciplina i casi specifici in cui l’uccisione di un uomo sia da considerare legittima e, pertanto, non punibile.
Il VII secolo a.C. è, per molte città greche, un secolo di fortissime tensioni sociali tra l’aristocrazia, detentrice del potere politico e dell’amministrazione della giustizia, e il popolo; tensioni delle quali si trova un’importante eco in alcuni significativi versi del poeta Esiodo, che, ne Le opere e i giorni, lamenta la profonda corruzione dei giudici (chiamati per questo andres dorophagoi, “uomini mangiatori di doni”) e la loro arbitrarietà nella risoluzione delle controversie. La risoluzione di tali conflitti è in gran parte opera dei legislatori (nomothetai): a loro si deve la redazione di leggi scritte che stabiliscono regole generali e predeterminate accessibili a tutti e uguali per tutti.
Questo movimento di codificazione si origina nelle colonie della Magna Grecia e della Sicilia – qui, infatti, è evidentemente più forte l’esigenza di dare leggi certe a popolazioni formate da individui di provenienza diversa, e quindi con tradizioni diverse –, e ben presto si estende alla madrepatria. Anche Atene ha il suo legislatore: si tratta di Draconte (o Dracone), che, secondo quanto riferisce Aristotele nella Costituzione degli Ateniesi, realizza la sua opera nell’anno dell’arcontato di Aristecmo, ossia nel 621/620 a.C.
Le leggi draconiane – proverbialmente severe, tanto che esse si dicevano scritte non con l’inchiostro, ma con il sangue – regolano probabilmente molti aspetti della vita sociale e civile di Atene; quale sia nello specifico la loro portata, tuttavia, non è possibile dire, dal momento che esse vengono cancellate qualche anno più tardi dalle nuove disposizioni dettate da Solone. Non tutta la produzione draconiana, tuttavia, naufraga: Solone, infatti, mantiene le leggi del suo predecessore in materia di omicidio (phonos); e queste leggi, sostanzialmente immutate rispetto alla loro versione originaria, sono ancora in vigore nel IV secolo a.C., elogiate dagli oratori del tempo come le migliori e le più venerabili di tutte le leggi.
Forma e contenuto delle disposizioni di Draconte sull’omicidio sono noti tanto attraverso le citazioni contenute in molte opere letterarie, soprattutto logografiche e filosofiche, quanto, soprattutto, grazie all’iscrizione leggibile su una stele di marmo rinvenuta ad Atene nel 1843 nel corso degli scavi della Chiesa Metropolitana e oggi conservata al Museo Epigrafico. L’iscrizione risale al 409 a.C., anno in cui – come si legge nelle linee iniziali della stele stessa – il popolo di Atene dà incarico ad appositi funzionari, gli anagrapheis, di riscrivere la legge, o forse soltanto una parte di essa, probabilmente perché il testo originario è in cattivo stato di conservazione.
Prima della disciplina draconiana, la persecuzione dell’omicidio è lasciata all’iniziativa dei parenti della vittima, ai quali è riconosciuto il diritto e il dovere di fare vendetta. Per scampare alla vendetta, l’omicida può recarsi in esilio spontaneo – un esilio che è in realtà una aeiphygia, ossia una fuga perpetua – oppure può offrire ai parenti dell’ucciso un riscatto (poiné), che essi sono liberi di accettare (in questo modo rinunciando definitivamente alla vendetta) oppure rifiutare (proseguendo, dunque, nel loro ruolo di vendicatori). La nuova regolamentazione dell’omicidio stabilita da Draconte non scardina del tutto questo sistema, consolidato da una pratica secolare; piuttosto, le leggi draconiane regolamentano la vendetta, stabilendo con precisione in quali circostanze l’individuo può farsi giustizia da sé – non più nel ruolo di vendicatore, però, bensì piuttosto nelle vesti di agente socialmente autorizzato dalla città – e in quali, invece, egli debba rivolgersi alle istituzioni cittadine.
Il primo aspetto di novità nella repressione dell’omicidio introdotta da Draconte è la necessità che, a seguito dell’uccisione di un uomo, i parenti della vittima intentino un’azione privata per omicidio (dike phonou), rivolgendosi ai magistrati cittadini, gli arconti, i quali avrebbero provveduto a inoltrare la causa a un tribunale specifico. Per la determinazione del tribunale competente a giudicare il caso è necessario valutare se l’omicidio sia stato compiuto con, oppure senza, volontarietà; ed è, quest’ultima, un’altra novità fondamentale della legge di Draconte, dal momento che in precedenza viene punito il fatto in sé, a prescindere da qualsiasi valutazione dell’elemento soggettivo, dell’atteggiamento mentale dell’agente.
Le cause di omicidio volontario (in greco phonos ek pronoias, ossia propriamente “omicidio con premeditazione”: il che induce peraltro a credere che il concetto di “volontarietà” sia limitato alla sola premeditazione, e pertanto sia al tempo molto più ristretto di quanto non lo sia oggi) sono discusse nell’Areopago, il più antico e venerabile tribunale ateniese, competente a giudicare anche i casi di tentato omicidio, avvelenamento e incendio. La pena prevista nel caso in cui l’imputato sia dichiarato colpevole è la morte, a cui si aggiunge la confisca dei beni; l’esecuzione capitale è in origine affidata agli stessi parenti della vittima, e solo in seguito si stabilisce che essa sia posta in essere da appositi magistrati, gli Undici. È verosimile, tuttavia, che alla pena di morte si ricorra raramente: è infatti abitudine concedere all’imputato, il quale teme che l’esito del processo possa essere a lui sfavorevole, la possibilità di recarsi spontaneamente in esilio; un esilio perpetuo, dal quale egli non può far ritorno in patria, dal momento che esso non è una pena, ma un rimedio di fatto per sfuggire alla condanna.
Qualora, invece, non vi siano elementi a prova della volontarietà e della premeditazione dell’omicidio, l’imputato è processato per omicidio involontario (phonos me ek pronoias, phonos akousios); a giudicarlo sono 51 giudici, gli Efeti, seduti nel tribunale del Palladio, i quali, riscontrata la colpevolezza, lo condannano all’esilio. È peraltro possibile che dall’esilio egli possa essere richiamato, nel caso in cui i parenti del gruppo familiare dell’ucciso, all’unanimità, gli concedano il perdono (aidesis). Ma quali sono i parenti autorizzati alla concessione di questo perdono?
Importanti informazioni al riguardo sono contenute nell’iscrizione della stele, sulla quale è conservata proprio la parte della legge di Draconte relativa all’omicidio involontario, chiamato, al principio dell’iscrizione, phonos me ek pronoias (alla lettera “omicidio non premeditato”). Il testo individua alcune differenti categorie di parenti autorizzati a concedere il perdono: la prima è rappresentata dai parenti fino al secondo grado (padre, figli, fratello); la seconda da quelli fino al sesto grado (ossia fino ai cugini e ai figli dei cugini); la terza, infine, da dieci membri della fratria, associazione familiare allargata che comprende tutti coloro che vantano discendenza da un capostipite comune. Questi ultimi – stando almeno alla lettera del testo – interverebbero nel caso in cui l’omicida commetta un phonos akousios: espressione che, come si desume dalla Seconda tetralogia di Antifonte, individua l’omicidio che oggi definiamo colposo, e che dunque andrebbe distinto dal phonos me ek pronoias ricordato all’inizio della stele. Se così fosse, come parte della dottrina ritiene, bisognerebbe concludere che Draconte distingua due diversi gradi di involontarietà: la colpa e la non premeditazione (omicidio non premeditato è, per esempio, l’omicidio commesso d’impeto: che dal nostro punto di vista è non già involontario, ma piuttosto volontario). I due omicidi sarebbero accomunati da un’identica pena, l’esilio, ma si differenzierebbero in relazione alle possibilità di concessione del perdono, più ampie nel meno grave omicidio akousios (il perdono può essere concesso dai membri della fratria), e più ristrette nel caso del più grave phonos me ek pronoias (il perdono può essere concesso solo dai parenti entro il sesto grado).
Nelle leggi di Draconte trova posto anche la disciplina di un’ulteriore tipologia di omicidio, comunemente definito phonos dikaios, ossia “omicidio legittimo”; Draconte stabilisce, cioè, che chi uccide in determinate circostanze non debba essere punito come omicida. I principali casi di phonos dikaios, ricordati nell’orazione di Demostene Contro Aristocrate, riguardano l’uccisione involontaria di un avversario nel corso dei giochi; l’uccisione, ancora involontaria, di un commilitone; l’uccisione di un brigante sorpreso per strada, in caso di assalto; infine l’uccisione dell’amante (moichos) sorpreso in flagrante con una delle donne appartenenti alla famiglia, ossia la moglie, la madre, la figlia, la sorella o la concubina tenuta per avere figli liberi.
Colui che ammetta di aver ucciso, ma asserisca di averlo fatto legittimamente, è condotto davanti ai giudici del Delfinio; per una parte della dottrina il processo che si svolge davanti a questo tribunale è puramente formale, perché esso, intentato nel caso in cui entrambe le parti abbiano ammesso la legittimità dell’omicidio, non può concludersi che con un’assoluzione dell’omicida. Ben più attendibile, tuttavia, sembra essere la tesi di chi ritiene che quello davanti al Delfinio sia un processo vero e proprio, nel corso del quale l’assoluzione dell’omicida da parte dei giudici conseguiva all’accertamento della sussistenza delle circostanze esimenti previste dalla legge; in caso contrario, questi sarebbe stato condannato, come ogni omicida, a morte o all’esilio, a seconda che il suo atto sia giudicato volontario o involontario.