Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Con le Vite del Vasari il Seicento eredita un compiuto modello storiografico e insieme un preciso bersaglio polemico. La fortuna europea dell’opera favorisce la nascita di altrettante letterature artistiche nazionali, ma anche lo sviluppo in Italia di una storiografia regionale apertamente polemica nei confronti dell’impianto tosco-romano delle Vite, secondo idee guida che saranno valide fino alle soglie del neoclassico. Dal collezionismo e dall’erudizione antiquaria emerge nel frattempo una nuova figura di esperto d’arte: il “dilettante”.
La storiografia artistica in Italia: il confronto con Vasari
La letteratura artistica nel Seicento si sviluppa a partire da un confronto serrato, ma inevitabile con le Vite di Giorgio Vasari. Tramontati gli ideali estetici, la scala di valori figurativi propri del manierismo, all’opera si guarda ancora come a un insuperato modello storiografico. Rimarranno così tratti distintivi della letteratura a venire sia l’impianto generale delle Vite, con la scelta di ordinare i materiali per singole biografie artistiche, sia la metodologia d’indagine: il confronto incrociato delle fonti, la visione diretta delle opere, la frequentazione degli artisti, la fitta rete epistolare con eruditi o testimoni oculari ecc. Ricorrente nella letteratura seicentesca e ugualmente mutuata dalle teorie vasariane è la giustificazione evolutiva dell’arte (l’idea di un progresso e di una decadenza), così come, talvolta, l’esigenza di identificazione con un artista “principe” che incarni gli ideali dello storico-biografo (per Vasari era stato Michelangelo, per Passeri sarà Domenichino, per Bellori Nicolas Poussin).
Fra le prime imprese editoriali realizzate a Roma nel corso del Seicento le Vite di Giovanni Baglione (1642) e, di seguito a queste, l’opera di Giovan Battista Passeri (pubblicata però soltanto un secolo dopo) si propongono di continuare l’impresa vasariana, aggiornandola alla luce dei nuovi fatti artistici, ma rinunciando a ogni più ampia prospettiva storica. L’ormai indiscussa centralità di Roma come capitale europea delle arti figurative si riflette nella scelta di Baglione di circoscrivere la trattazione ai soli artisti operanti nella città dal pontificato di Gregorio XIII a quello di Urbano VIII.
In aperta polemica con l’impianto tosco-romano di Vasari si mobilita invece la ricerca erudita in quelle città dell’Italia settentrionale che a loro volta potevano vantare una gloriosa e autonoma tradizione figurativa.
I pittori bolognesi hanno così nel canonico Malvasia (Felsina Pittrice, 1678) il loro storico autorevole, assai polemico nei confronti dello stesso Raffaello e della “maniera statuina” di matrice romana. I veneziani, oltre a Carlo Ridolfi, trovarono soprattutto in Marco Boschini (Carta del navegar pitoresco, 1660) il difensore del primato del colore, vanto precipuo della pittura lagunare, sul disegno.
La polemica antivasariana di Malvasia è a tutto campo. Non si trattava infatti di recuperare soltanto alla memoria le vicende di artisti che nell’impianto delle Vite avevano trovato poco o nessun spazio, quanto piuttosto di ricostruire, alle spalle dei più recenti successi della scuola bolognese (a partire dalla “riforma” dei Carracci), la linea ininterrotta di una nobile e antichissima tradizione artistica cittadina da opporre al preteso ruolo storico dei toscani Cimabue e Giotto come padri della pittura italiana. L’attenzione specifica per i “primitivi”, pur così fortemente connotata di orgoglio municipale, non si spinge invece in Boschini oltre Giovanni Bellini, celebrato quale vero iniziatore della pittura veneziana.
È soprattutto nel Cinquecento infatti che Boschini vede dispiegarsi pienamente, a partire da Giorgione, Tiziano, Jacopo Bassano, Veronese e Tintoretto, quella vocazione al colore “che tiene in sé la macchia e insieme il tratto” di cui egli intende ripercorrere la storia fino ai suoi giorni. Storia, dunque, eminentemente “pittorica” che fa della critica boschiniana una delle più avanzate del secolo, sia per la costante attenzione riservata, nell’analisi delle opere, ai dati visivi rispetto ai “contenuti”, sia per la capacità di resa verbale di quegli stessi dati affidata a una lingua colorita ed evocativa (Boschini scrive in dialetto veneziano).
La riscoperta delle tradizioni locali, e il parallelo inventario del patrimonio artistico cittadino affidato alle prime guide a stampa (Malvasia, Boschini, Ridolfi), pone le basi per quella capillare opera di conoscenza e di tutela, tratto distintivo della realtà culturale italiana, su cui crescerà poi l’erudizione settecentesca fino a Luigi Lanzi e, insieme, intacca definitivamente la prospettiva storiografica vasariana, dando ormai per acquisiti la legittimità e il valore delle singole scuole artistiche regionali (toscana, romana, lombarda, bolognese).
Artisti, letterati, dilettanti
Baglione, Passeri, Ridolfi, Boschini sono pittori. Con essi si perpetua ancora l’idea tradizionale secondo la quale solo chi pratica materialmente l’arte (o è in grado di fornire una consulenza erudita al pittore: il letterato) può poi parlarne con competenza. La fioritura del collezionismo favorisce tuttavia un altro tipo di approccio alle opere figurative, fondato sull’esperienza visiva non meno che sulla pratica degli artisti e del mercato dell’arte. Nasce così la figura dell’amatore, del “dilettante”.
Ancora una volta è nel vivacissimo ambiente culturale romano d’inizio secolo che la figura del “dilettante” fa la sua prima comparsa con il medico e collezionista Giulio Mancini. Le sue Considerazioni sulla pittura, stese intorno al 1620 e rimaste manoscritte fino al nostro secolo, si compongono di una parte teorica e di una raccolta di biografie dedicate ad artisti antichi e moderni. Alla volontà di porre rimedio alle dimenticanze o inesattezze in cui era incorso Vasari, si accompagna in Mancini una rara capacità di giudizio critico nel riconoscere la legittimità dei singoli stili, delle scuole e dei diversi generi artistici (accanto alla pittura di storia, la natura morta, il paesaggio ecc.). Gli interessi dello storico spaziano dalle antiche pitture medievali ai più recenti fatti figurativi romani; anche la tradizionale concezione evolutiva dell’arte viene temperata da moderne considerazioni sulla storia, sul costume, sul gusto di ogni singola età.
Nel trattato, più che nella più tarda storiografia ufficiale, si trovano considerazioni autonome e di prima mano sulle tendenze artistiche contemporanee e sui dibattiti che a Roma avevano opposto all’inizio del secolo manieristi, naturalisti e classicisti. Mancini è il primo a dedicare una biografia ad Annibale Carracci, a Caravaggio, a Guido Reni ecc. Fedele all’intento fondamentale della sua opera, che è quello di educare all’arte il “dilettante”, l’amatore, il potenziale collezionista, l’autore non manca di fornire preziose notizie sul mercato artistico contemporaneo, avvertenze sul modo di riconoscere un’opera originale da una copia, o più in generale sui criteri da seguire nella formazione di una quadreria.
Dilettante, ma anche consulente artistico di Francesco I d’Este, duca di Modena, è il medico Francesco Scannelli. Notevole nel suo Microcosmo della pittura (1657) l’abbandono dell’impianto vasariano fondato sulle biografie e il tentativo di coordinare, intorno agli artisti maggiori, lo sviluppo delle singole scuole. Entro una cornice narrativa tipicamente barocca nel suo impianto metaforico (il “corpo” della pittura paragonato al corpo umano), Scannelli tenta così un abbozzo di critica formale oltre che contenutistica, sforzandosi di stabilire rapporti e differenze fra i singoli maestri.
Gli astri del suo Microcosmo sono, ovviamente Raffaello, Tiziano e Correggio, campioni indiscussi di una “perfezione nell’arte” e di una “naturalezza”, che, dopo “il far pratica” dei manieristi, egli vede ripristinate ai suoi tempi dai Carracci e dalla scuola bolognese.
Storiografia artistica e collezionismo in Italia: Filippo Baldinucci
La “galleria” di pitture, o il museum di antichità, volto nuovo del collezionismo barocco ormai lontano dalle accumulazioni onnicomprensive della Wunderkammer rinascimentale, sono dunque, per tutto il secolo, i referenti immediati di una storiografia artistica parallelamente impegnata nell’ardua impresa di una classificazione il più ampia possibile dei fatti figurativi antichi e moderni.
Nella quadreria barocca l’evoluzione degli stili e delle scuole può divenire in effetti un elemento immediatamente percepibile, tale da ispirare gli stessi criteri di selezione delle opere. Così si potrebbe affermare che gran parte della letteratura artistica seicentesca sia nata con l’intento di fornire il collezionismo contemporaneo di adeguati parametri di giudizio, e, viceversa, che grandi imprese storiografiche abbiano avuto nel collezionismo il loro impulso iniziale.
Dal felice connubio, avviato a Firenze verso il 1660, fra il collezionismo principesco di Leopoldo de’ Medici e l’erudizione storica del suo segretario e ordinatore delle raccolte, Filippo Baldinucci, nascono le Notizie de’ professori del disegno da Cimabue in qua di cui lo stesso Baldinucci è autore.
Agli ampi interessi figurativi del mecenate, intenzionato a raccogliere opere del maggior numero possibile di artisti antichi e moderni, italiani o europei, corrispondono l’eclettismo e l’informazione enciclopedica di Baldinucci. Questi, oltre a mostrarsi attentissimo ai fatti artistici contemporanei, attinge liberamente anche dalla precedente e coeva letteratura regionale e nazionale, rifiutandone tuttavia le chiusure campanilistiche (celebre è la polemica con il bolognese Malvasia).
Il risultato sarà un’opera monumentale, in parte edita dopo la morte dell’autore, in cui la collaudata struttura biografica vasariana viene ampliata su scala europea. L’idea dell’evoluzione dell’arte attraverso il continuo tramando stilistico da un maestro agli allievi, da una scuola all’altra, porta Baldinucci a ordinare lo sterminato materiale seguendo le ramificazioni del complesso albero genealogico dei Professori del disegno che, partendo da Cimabue, si sviluppa fino a comprendere tutti gli artisti italiani e stranieri noti all’autore. L’informazione, inevitabilmente erudita e compilatoria per i secoli più antichi, diviene poi specchio di un’apertura culturale e critica allorché Baldinucci, trattando degli artisti del suo secolo, riserva specifiche biografie a Rubens, a van Dyck, a Bernini (quest’ultima edita autonomamente nel 1682) e, unico fra gli storiografi italiani, a Rembrandt.
Fra le altre opere di Baldinucci si segnalano il Vocabolario toscano dell’arte del disegno, (1681) e il Cominciamento e progresso dell’arte dell’intagliare in rame (1686) per l’attenzione nuova portata al problema della terminologia artistica, al disegno e alla grafica di cui il fiorentino può dirsi il primo storico moderno.
Teorie artistiche in Italia e in Francia: il classicismo e il grand goûte
L’opera dei letterati, varcando i confini dell’erudizione e della storiografia, non manca di influire in modo determinante sugli sviluppi delle vicende artistiche contemporanee. Nel corso dei dibattiti fra manieristi, naturalisti e classicisti, che a Roma avevano aperto il secolo, è ai sostenitori dello stile di Annibale Carracci che va il merito di aver definito sul piano teorico il proprio credo artistico. Nel suo Trattato, steso entro il 1615 e giuntoci solo in parte, Giovanni Battista Agucchi ripropone, sull’onda della riforma carraccesca, il concetto rinascimentale della Bellezza come sublimazione della Natura. Un’idea di imitatio come electio che individua nell’arte classica e nel classicismo moderno di Raffaello i propri modelli.
Le posizioni di Agucchi verranno sviluppate ulteriormente da Giovanni Pietro Bellori, uno dei più importanti storici e teorici dell’arte del Seicento. Il suo discorso sull’Idea tenuto nel 1664 all’Accademia di San Luca (ed edito poi nel 1672 come introduzione alle Vite de’ pittori scultori ed architetti moderni) rappresenta la più matura definizione del classicismo seicentesco e insieme la sua piena legittimazione sul piano culturale.
Bellori restituisce infatti al topos classico della bellezza assoluta come scelta e selezione delle bellezze naturali, la sua più nobile genealogia letteraria antica e moderna (non solo citazioni da Platone, da Plinio, da Vitruvio, ma anche da Alberti, da Vasari, da Lomazzo fino a certi passi del Marino), e, al tempo stesso, col richiamo a Raffaello, a Guido Reni addita ai contemporanei l’ideale di un’arte colta e razionale, figlia ma anche maestra della natura, in aperta polemica coi passati abusi della Maniera, il tono basso e “popolare” del naturalismo caravaggesco, e soprattutto le attualissime licenze dell’arte barocca.
Le premesse teoriche della critica di Bellori si rispecchiano anche nel taglio selettivo delle sue Vite: non più una scelta larghissima di artisti, ma una serie di appena dodici biografie esemplari, fra le quali, in contrapposizione dialettica con i propri ideali classicisti, quelle di Rubens e di Caravaggio.
Le posizioni di Bellori, la sua critica essenzialmente contenutistica, fedele all’ideale umanistico dell’ut pictura poesis e dunque alle categorie dell’espressione, della grazia, dell’invenzione, maturano nell’ambiente degli antiquari eruditi (Cassiano Dal Pozzo) e in quello dell’Accademia di Francia, a stretto contatto con le idee del peintre-philosophe Nicolas Poussin; per questa via si collegano direttamente al classicismo europeo che proprio in Francia avrà importanti sviluppi.
Circostanze culturali – come il predominio del razionalismo cartesiano – e politiche dovevano, infatti, fare del classicismo in Francia la teoria ufficiale dell’Académie royale de peinture et de sculpture, fondata a Parigi nel 1648 e diretta per un ventennio da Le Brun. Poussin, oltre che modello per gli artisti, è l’eroe indiscusso dei teorici.
Lo studio dell’antico, il predominio del disegno sul colore, il totale controllo sulle passioni, la regola e la geometria sono così i tratti distintivi della dottrina del grand goût, del beau idéal divulgata da Fréart de Chambray, da Charles A. du Fresnoy e soprattutto da Félibien des Avaux importante anche come storico della pittura (Entretiens sur les vies et sur les ouvrages des plus excellents peintres anciens et modernes, 1666-1685).
I richiami al dessin, all’ expression, alla clarté, al decorum sono ricorrenti nelle prolusioni e negli scritti teorici di Le Brun, negli anni in cui il suo prestigio è indiscusso e la dottrina del grand goût, gusto ideale e perfetto, giunge a identificarsi tout court con l’arte ufficiale promossa dalla monarchia francese e dal potente ministro Colbert. Proprio il carattere rigido e vincolante della dittatura classicista di Le Brun spiega però l’insorgere all’interno dell’Accademia, e soprattutto nella seconda metà del secolo, di accesi dibattiti fra i seguaci di Poussin e i nuovi estimatori di Rubens. Al di là dei nomi di bandiera, la polemica intende opporre il codice razionale e la “regola” dei primi alla riscoperta del colore (come elemento irrazionale, intuitivo e “naturale”) dei secondi.
“Rubenista” è Roger De Piles, figura di geniale “dilettante” che nel corso dei suoi soggiorni italiani (1673 e 1682) aveva avuto modo di conoscere e apprezzare la pittura veneziana, che, nel Dialogue sur le coloris, giudicherà superiore allo stesso Raffaello. A De Piles si devono l’introduzione nel vocabolario artistico del concetto di “gusto” come facoltà soggettiva del giudizio, all’opposto dell’univoco grand goût allora corrente e, nell’Idée du peintre parfait, importanti considerazioni sul metodo della connaissance dei dipinti, dell’attribuzione (il modo di riconoscere un autore a partire dall’analisi dello stile, un’opera originale da una copia ecc.). Le sue osservazioni sul colore e sulla libertà di visione (De Piles è anche un convinto ammiratore di Rembrandt) avranno seguito soprattutto nella teoria artistica inglese del XVIII secolo.
Negli ultimi decenni del secolo anche la letteratura artistica partecipa in Francia alla querelle des anciens et des modernes (nata in ambito filosofico, scientifico e letterario) ad opera dei fratelli Perrault che teorizzano la superiorità dell’architettura moderna sull’antica e, distinguendo fra bellezza assoluta e bellezze relative, prospettano la relatività del gusto e la sua evoluzione con il mutare dei tempi e delle mode.
La storiografia artistica nel resto d’Europa
È solo nel corso del Seicento che l’Europa conosce attraverso traduzioni e compendi le Vite di Vasari. Nei Paesi Bassi già agli inizi del secolo viene stampata l’opera di Karel vanMander (Het Schilder-Boeck, 1604), la prima grande impresa storiografica del Nord: Vasari è una delle fonti principali (accanto a Plinio il Vecchio per l’arte antica), ma è anche il modello su cui autonomamente si esempla il terzo libro dedicato a una pioneristica storia della pittura fiamminga da van Eyck a Holbein alla fine del Cinquecento.
In Spagna modelli storiografici italiani e precetti teorici mutuati da una fiorente e già ben attestata letteratura moralistica di Controriforma convivono nelle opere di Vicente Carducho (1633) e di Francisco Pacheco (1649). Nei Dialoghi della pittura del Carducho, strutturati come una sorta di guida pittorica e resoconto di un viaggio condotto idealmente per le città dell’Italia, nelle Fiandre e in Francia, alla ricerca delle opere dei più grandi maestri, la stroncatura di Caravaggio, monstruo de ingenio y natural, acquista così i toni apocalittici di un paragone con l’Anticristo “che con falsi e portentosi miracoli trarrà alla perdizione un gran numero di persone curiose di vedere le sue opere, in apparenza tanto ammirevoli”.
In modo anche più dichiarato Pacheco, nella sua Arte della pittura, si preoccuperà di fornire dettagliate prescrizioni iconografiche in tema di pittura religiosa, fedele al principio controriformistico del pintar conforme a la escritura divina.
Oltre l’eruditissima e prolissa intelaiatura teorica entro la quale si trovano riproposti i temi canonici (invenzione, disegno colorito, decoro ecc.) della precedente letteratura artistica italiana (Vasari, Paolo Pino, Ludovico Dolce ecc.) l’Arte della Pittura riserva pagine importanti sugli artisti antichi e moderni, e in particolare su Velázquez. Proprio l’esperienza diretta e affettivamente partecipe della pittura di quest’ultimo, (Velázquez era genero di Pacheco), consentirà all’autore di riconoscere, derogando dai propri principi, la modernità della pittura di genere (i bodegones). Famose sono invece le riserve su El Greco e sulla sua tecnica compendiaria, a colpi di pennello (o borrón), per quanto Pacheco ne riconoscesse la diretta derivazione dallo stile dell’ultimo Tiziano (e avesse certamente presente l’evoluzione in quella direzione della stessa pittura di Velázquez).
Il carattere enciclopedico della storiografia europea del Seicento (quasi si trattasse di raccogliere per la prima volta in una vera e propria summa l’intero patrimonio conosciuto di notizie storiche, principi teorici, pratici, accademici antichi e moderni) è evidente nell’opera del pittore tedesco Joachim von Sandrart. La sua Academia tedesca (1675-79) dipende direttamente da van Mander e da Vasari ma tratta di artisti vissuti in aree geografiche anche lontanissime, dando per acquisita la legittimità e la varietà dei singoli stili.
Nel corso dei suoi frequenti viaggi, Sandrart entra a contatto con artisti e mecenati a Roma, Praga, Utrecht, Londra, acquisendo spesso notizie di prima mano. Vero “cittadino del mondo”, Sandrardt realizza nella sua Academia, in parallelo con gli Entretiens sur les vies et sur les ouvrages des plus excellents peintres anciens et modernes (1666-85) di Félibien des Avaux, e in leggero anticipo sulle Vite di Baldinucci, quel progetto di storia universale dell’arte che la diffusione su scala europea del barocco, la circolazione delle idee, delle opere, dei testi a stampa rende per la prima volta pienamente realizzabile.